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È vero che spesso a livello statutario è prevista una forma di controllo endosocietario delle
delibere di esclusione, affidato ad un collegio di probiviri, per cui il procedimento di
esclusione è da considerarsi perfezionato soltanto a seguito della pronuncia del collegio dei
probiviri ([20]). Si tratta, però, soltanto di una possibilità ed è successiva ad una delibera
già presa.
Prima della riforma, la giurisprudenza riteneva non invocabile l'art. 7 dello st. lav., in
quanto tale norma si applica al rapporto di lavoro subordinato e il rapporto tra la
cooperativa e il socio non è riconducibile ad un rapporto di lavoro subordinato ([21]). Anzi,
non si richiedeva neppure la trasmissione in forma integrale del provvedimento di
esclusione ovvero l'adozione di particolari formalità, purché la comunicazione consentisse
al socio di comprendere le ragioni dell'esclusione e, quindi, di articolare le proprie
difese ([22]).
In sintesi, prima della riforma, l'atto di esclusione per mancanze era simile al licenziamento
disciplinare quanto a contenuto, ma non quanto a procedimento. Sia l'atto di esclusione
che l'atto di licenziamento, infatti, cristallizzano le ragioni del recesso nella motivazione
dell'atto unilaterale autoritativo, e, pertanto, la successiva fase contenziosa si articola
secondo il principio di eventualità, non potendo essere variati o aggiunti nuovi motivi di
recesso rispetto a quelli già evidenziati, ma soltanto fatti contrari (dupliche) alle repliche
dell'opponente ([23]). Il principio di eventualità, però, non reggeva e condizionava
la formazione dell'atto di esclusione, in quanto non era prevista la necessità di una previa
contestazione degli addebiti, come richiesto invece dall'art. 7 st. lav., per cui l'atto di
esclusione non era «a rima obbligata» rispetto ad un precedente atto di contestazione.