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OTTOBRE 2010
NEWSLETTER
Trifirò & Partners Avvocati
Editoriale
Ci inoltriamo nell’autunno accompagnati dal “Collegato Lavoro 2010” che ha
ultimato l’iter parlamentare ed è stato definitivamente approvato. Si attende
ora la promulgazione e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, affinché il testo
diventi legge dello Stato. Il controverso ricorso all’arbitrato (come si ricorda il testo
originariamente approvato era stato rinviato dal Presidente della Repubblica alle
Camere per nuovo esame) non sembra aver fugato tutti i dubbi che erano stati
sollevati e si vedrà, in sede di applicazione, se effettivamente il ricorso a tale
strumento si porrà come valida alternativa al ricorso giudiziario. È lecito mantenere il
dubbio, considerando che l’arbitrato conclude la controversia in unico grado, senza
possibilità di riesame nel merito, con costi non inferiori a quelli della giustizia
ordinaria (oltre all’avvocato bisogna pagare Presidente e Arbitro).
Nell’Attualità del Diritto del Lavoro il partner fondatore Giacinto Favalli offre
una prima interessante illustrazione del contenuto del Collegato. Il testo
sarà oggetto di approfondimenti anche in convegni e il nostro Studio è impegnato
presso numerose sedi (ve ne diamo notizia negli Eventi).
La nostra newsletter prosegue mantenendo l’usuale schema ed espone nella
“Sentenza del mese” un importante caso deciso dalla Corte di Cassazione
in tema di assemblea: il limite massimo delle dieci ore annuali retribuite, in
SOMMARIO orario di lavoro, non vale solo per il lavoratore ma anche per i soggetti sindacali
che indicono le assemblee. Seguono, nelle “Altre sentenze”, casi decisi da
✦ EDITORIALE Giudici di merito in tema di contestazione disciplinare, di dimissioni per
giusta causa, di lavoro autonomo e subordinato. La sezione sul “Rapporto di
✦ DIRITTO DEL LAVORO agenzia” chiude la prima parte.
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✦Vi è poi un’altra positiva novità, in materia di contratti a termine, sorretta dalla medesima ratio
di assicurare la certezza del diritto (e di evitare abusi nell’utilizzo degli strumenti processuali): il
comma 5 del citato art. 32 sostituisce la disciplina risarcitoria di diritto comune con una
speciale, incardinata sulla forfetizzazione del risarcimento, affidando la sua determinazione, tra
una somma minima ed una massima (rispettivamente pari a 2,5 e 12 mensilità), all’applicazione dei
criteri tratti dall’art. 8 l. 604/1966 (il numero di dipendenti occupati, l’anzianità di servizio del
lavoratore, il comportamento e le condizioni delle parti). Peraltro, il limite massimo del risarcimento
si riduce a sei mensilità nel caso in cui la contrattazione collettiva, a qualunque livello, preveda
l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine
nell’ambito di specifiche graduatorie.
Sotto altro punto di vista, il comma 5, pur prestandosi a diverse letture, recupera la scelta (già
intrapresa nel 2008 con l’introduzione dell’art. 4 bis D.Lgs. 368/2001) di sostituire la sanzione di
conversione del rapporto a termine in uno a tempo indeterminato, con una sanzione
esclusivamente economica. Una scelta legislativa condivisibile è quella di ribadire - rafforzando e
codificando ciò che aveva già detto la giurisprudenza - che il controllo giudiziale sul rispetto delle
“clausole generali” contenute nella disciplina legislativa in materia di lavoro debba limitarsi
esclusivamente al presupposto di legittimità, senza potersi estendere al sindacato di merito sulle
valutazioni tecniche, organizzative e produttive, le quali sono di esclusiva competenza del datore di
lavoro o del committente.
✦Passando ai punti più controversi del nuovo corpo normativo, partendo dall’arbitrato, non si
contesta in sé la scelta di implementare gli strumenti di Alternative Dispute Resolution, come
rimedio ai noti tempi della Giustizia italiana; si osserva però che, se l’arbitrato non è
“appetibile”, non aiuta in alcun modo a decongestionare le aule di giustizia e, se non è ben
strutturato e attorniato da idonee garanzie, finisce per sacrificare sull’altare della “celerità ad
ogni costo” interessi, anche di rango superiore, facenti capo ad entrambe le parti del rapporto
di lavoro.
Un primo elemento che crea indubbiamente confusione è la previsione di ben quattro diverse
modalità di accesso all’arbitrato: la prima (la cui procedura è dettagliatamente descritta nel
nuovo art. 412 c.p.c.) presso le Direzioni Provinciali del lavoro; la seconda dinanzi ad un Collegio
composto ad hoc, su istanza delle parti; la terza, presso le sedi e con le modalità eventualmente
individuate dalla contrattazione collettiva; la quarta ed ultima forma, presso le camere arbitrali
costituite dagli organi di certificazione. Forse sarebbe stato più opportuno replicare la scelta
compiuta all’inizio di quest’anno in ambito civile, attraverso l’introduzione ex lege 28/2010 di un
unico istituto (quello della mediazione) e la puntuale regolamentazione della sua procedura.
✦Altre perplessità - tralasciando l’argomento della clausola compromissoria, già trattato nel
richiamato articolo apparso nella newsletter T&P n. 35 - sorgono con riferimento alla domanda
se l’arbitrato costituisca effettivamente la giusta risposta alle esigenze di rapida definizione
delle controversie in materia di diritto del lavoro, tenuto conto della qualità delle parti coinvolte
e dell’esigenza, nell’ottica della certezza del diritto, di uniformità interpretativa, che il sistema
giudiziario nazionale tende ad assicurare.
Tali perplessità sono rafforzate dall’esperienza maturata in passato, che ha dimostrato come il
ricorso alle forme di arbitrato già esistenti abbia avuto scarsissimo successo. Infine, anche con
riguardo allo strumento della Certificazione, un rischio risiede nell’affidare una valutazione di
estrema rilevanza e delicatezza per entrambe le parti contrattuali - quella sulla qualificazione del
rapporto e sulle conseguenze da riconnettere all’eventuale recesso - ad organi che non
garantiscano uniformità interpretativa ed applicativa. Non va poi dimenticato che il ricorso alla
Certificazione non preclude, seppur nei limiti previsti dalla normativa in esame, il ricorso alla tutela
giudiziaria, rendendo dubbio il concreto impatto positivo dell’istituto in termini di deflazione del
contenzioso.
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Le Nostre Sentenze
LA SENTENZA DEL MESE
IL LIMITE MASSIMO DELLE DIECI ORE ANNUALI DI ASSEMBLEA (IN ORARIO DI LAVORO
E RETRIBUITE) VALE NON SOLO PER I LAVORATORI MA ANCHE PER I SOGGETTI
SINDACALI AI QUALI È RICONOSCIUTO IL DIRITTO DI INDIRE LE ASSEMBLEE
(Cassazione, 30 agosto 2010, n. 18838)
Tre sigle sindacali, all’interno di una azienda, avevano usufruito di un’ora ciascuna di assemblea
retribuita durante l’orario di lavoro; ciononostante, in epoca successiva, una delle tre sigle chiedeva di
indire un’altra assemblea. L’azienda respingeva la richiesta assumendo che erano esaurite le tre ore di
assemblea durante l’orario di lavoro spettanti alle organizzazioni sindacali.
Con il ricorso giudiziario il Sindacato ha lamentato la violazione dell’art. 20 dello Statuto dei Lavoratori e
dell’Accordo interconfederale 20 dicembre 1993, sostenendo che: i) le assemblee durante l’orario di
lavoro possono essere convocate da ciascun soggetto collettivo (RSA, RSU, associazioni firmatarie del
contratto collettivo) senza limiti predeterminati e in numero non predeterminabile sino a che nell’unità
produttiva vi siano lavoratori che nell’anno non hanno ancora consumato il monte ore individuale delle
dieci ore retribuite durante l’orario di lavoro; ii) l’art. 20 dello Statuto dei Lavoratori e l’art. 4 dell’Accordo
interconfederale sopra citato debbano essere interpretati nel senso che il diritto di indire assemblee,
riconosciuto alle organizzazioni sindacali per tre delle dieci ore di assemblea annuale, spetti non
all’insieme delle organizzazioni sindacali aderenti alle associazioni stipulanti il contratto collettivo
applicato all’unità produttiva, bensì a ciascuna di tali organizzazioni.
La Corte di Cassazione ha respinto tali tesi, precisando che l’art. 20 dello Statuto dei Lavoratori
distingue tra assemblee fuori dall’orario di lavoro (per le quali non vengono posti limiti temporali) ed
assemblee durante l’orario, con conservazione della retribuzione, per le quali viene posto il limite di dieci
ore annue. Il potere di indire le assemblee viene conferito dalla legge alle RSA costituite nell’unità
produttiva, che possono esercitarlo tanto congiuntamente che disgiuntamente. L’Accordo
interconfederale del 20 dicembre 1993 riconosce alle organizzazioni aderenti alle associazioni sindacali
stipulanti il contratto collettivo nazionale applicato nell’unità produttiva il “diritto ad indire, singolarmente
o congiuntamente, l’assemblea dei lavoratori durante l’orario di lavoro, per 3 delle 10 ore annue
retribuite, spettanti a ciascun lavoratore ex art. 20 L. n. 300 del 1970”. Pertanto, l’Accordo
interconfederale conferisce “alle organizzazioni aderenti alle associazioni stipulanti il ccnl applicato
nell’unità produttiva” un diritto di indire le assemblee che lo Statuto dei Lavoratori riconosceva solo alle
rappresentanze sindacali aziendali e fissa il limite orario di tale potere indicandolo in tre delle dieci ore
retribuite. Fatta tale premessa, con riguardo al primo dei temi posti dal Sindacato (cfr. sub. i), la Corte di
Cassazione, in linea con le proprie precedenti pronunce, ha ribadito come sia più consono alla natura
dell’istituto dell’assemblea ritenere che il computo delle dieci ore venga operato “non avendo come
punto di riferimento i singoli lavoratori bensì un elemento che rappresenta la dimensione collettiva”.
Pertanto, le ore di assemblea retribuita durante l’orario di lavoro sono predeterminate e
complessivamente pari a dieci.
Quanto al secondo tema - che, in concreto, avrebbe quale conseguenza il fatto che il numero di ore
spettanti alle organizzazioni sindacali sarebbe, ad esempio, nove se queste ultime sono tre, dodici se
sono quattro, quindici se sono cinque e così via - la Corte di Cassazione ha respinto la tesi del
Sindacato partendo dall’esame del testo dell’Accordo interconfederale che riconosce “il diritto di indire,
singolarmente o congiuntamente, l’assemblea dei lavoratori durante l’orario di lavoro, per 3 delle 10 ore
annue retribuite” alle “organizzazioni aderenti alle associazioni stipulanti il ccnl applicato all’unità
produttiva”. Secondo la Corte, il riferimento alle “organizzazioni”, senza alcuna ulteriore specificazione,
porta a ritenere che laddove le parti dell’Accordo interconfederale avessero voluto concordare sulla tesi
assunta dal Sindacato ricorrente, ossia avessero voluto riconoscere tre ore di assemblea per ogni
associazione stipulante, lo avrebbero precisato con espressioni del tipo tre ore “per ciascuna”
associazione.
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Secondo i principi affermati dalla sentenza in commento, il sistema normativo in materia di assemblea
durante l’orario di lavoro prevede che il limite massimo di dieci ore annuali di assemblea in orario di
lavoro e con percezione della normale retribuzione vale anche per i soggetti sindacali ai quali è
riconosciuto il diritto di indire le assemblee. Alle associazioni sindacali firmatarie dei contratti collettivi
nazionali applicati nell’unità produttiva è conferito il diritto di indire una parte delle assemblee che lo
Statuto dei Lavoratori riservava alle rappresentanze sindacali aziendali; tale attribuzione riguarda tre
delle dieci ore spettanti alle RSA. Tale diritto, riconosciuto con l’Accordo, spetta alle organizzazioni
firmatarie, che possono esercitarlo disgiuntamente o congiuntamente, ma all’interno di un monte ore
complessivo; le altre sette ore sono di competenza delle rappresentanze sindacali aziendali. In caso di
più richieste, implicanti il superamento del monte ore, il datore di lavoro deve attenersi all’ordine di
precedenza.
(Causa curata da Damiana Lesce)
ALTRE SENTENZE
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AUTONOMIA E SUBORDINAZIONE
(Tribunale di Milano, 19 ottobre 2010)
Nel caso in cui un lavoratore autonomo rivendichi la riqualificazione del rapporto di lavoro, la prova della
subordinazione deve essere rigorosa. Il giudice deve tenere in considerazione che il rapporto di lavoro è stato
formalizzato con un contratto d’opera intellettuale e successivamente si è svolto, per lungo tempo, senza
alcuna contestazione circa la natura autonoma dello stesso; tale circostanza assume rilevanza decisiva
soprattutto nel caso in cui il titolo di studio e la posizione professionale del lavoratore escludano la sussistenza
di un “metus” nei confronti del preteso datore di lavoro. Considerato il contenuto intellettuale della prestazione
lavorativa, la riqualificazione del rapporto richiede un esame attento degli “elementi accessori” della
subordinazione, poiché tale contenuto esclude che il lavoratore possa subire direttive nello svolgimento della
sua attività (nella fattispecie, il lavoratore era un medico e il giudice ha escluso che, considerati i connessi profili
deontologici, sia configurabile la soggezione al potere direttivo del primario nelle decisioni terapeutiche).
Anche qualora l’art. 2103 cod. civ. fosse applicabile per analogia al rapporto di lavoro parasubordinato, il
collaboratore pretesamente “demansionato” dovrebbe dimostrare di aver subito una modificazione qualitativa
del contenuto dell’attività svolta, nonché la sussistenza di un danno alla professionalità conseguente all’asserita
dequalificazione.
(Causa curata da Tommaso Targa)
Rapporto di agenzia
A cura di Luca Peron
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Civile, Commerciale,
Assicurativo
Attualità
MODELLO ORGANIZZATIVO DELLE SOCIETÀ AI SENSI DEL D.LGS. N.
23 1/20 01. LA PRIMA SENTENZA DI CONDANNA PER LA
VIOLAZIONE DELLE NORME SULLA TUTELA DELLA SALUTE E
DELLA SICUREZZA SUI LUOGHI DI LAVORO
A cura di Francesco Autelitano
Una sentenza di merito (Trib. Trani, 11 gennaio 2010) pone nuovamente in evidenza il tema
della predisposizione, da parte delle Società, di modelli organizzativi idonei a prevenire la
commissione di reati da parte di propri dipendenti ed amministratori.
Tema che ha assunto specifica rilevanza normativa con il D.Lgs. n. 231 del 2001, il quale ha
introdotto la responsabilità “penale” delle persone giuridiche, quale conseguenza del reato
commesso da propri dipendenti ed amministratori nell’interesse o a vantaggio della Società.
Inizialmente le fattispecie di reato che potevano far scattare la responsabilità della Società,
accanto a quella del singolo autore della condotta, erano legate essenzialmente ai reati contro la
Pubblica Amministrazione ed ai reati societari. Nel tempo il catalogo dei reati rilevanti in questa
materia si è allargato sino a ricomprendere, fra l’altro, l’omicidio colposo e le lesioni personali
colpose conseguenti alla violazione delle norme a tutela della salute e della sicurezza dei
lavoratori.
La sentenza di merito sopra citata pronuncia, a quanto consta, per la prima volta una
condanna della persona giuridica come conseguenza dei reati da ultimo menzionati, in
relazione ad una drammatica, nota vicenda di intossicazione di alcuni lavoratori, avvenuta
nel corso dell’attività lavorativa, che ne ha causato il decesso.
Il Giudice penale ha ritenuto che vi fosse una responsabilità dei preposti per l’omissione di
cautele e di informative in merito ai rischi legati alle mansioni in questione, giudicando sussistenti
i presupposti per la responsabilità penale degli imputati.
Su questa base è stata esaminata la responsabilità della Società, derivante dalla mancata
adozione di un modello organizzativo specificamente finalizzato alla prevenzione dei reati.
Sul punto la sentenza ha sottolineato che non sono idonei ad evitare la responsabilità penale
della Società altri documenti organizzativi interni finalizzati alla prevenzione degli infortuni, né, in
particolare, i documenti di cui agli artt. 28 e 29 del Testo Unico sulla Sicurezza.
A tal fine è invece necessario che sia specificamente predisposto il modello organizzativo
conforme ai parametri previsti dal D.Lgs. n. 231/2001, il quale, fra l’altro, si caratterizza per
essere necessariamente corredato dall’introduzione di un puntuale sistema di controllo
presidiato dall’apposito Organismo di Vigilanza.
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Assicurazioni
A cura di Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano
Il recesso per giusta causa previsto dall’art. 2119 c.c. si applica anche al contratto di
agenzia perché vi sia un’inadempienza imputabile all’agente la quale, per la sua
AGENTE DI
gravità, non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Non integra
ASSICURAZIONI -
detta inadempienza la sospensione dell’esecuzione della prestazione da parte
RECESSO PER GIUSTA
dell’agente che si trovi detenuto in carcere, non sussistendo, in tale ipotesi, il requisito
CAUSA
dell’imputabilità dell’inadempimento.
(Cassazione, 25 luglio 2008, n. 20497)
La prova liberatoria di cui all'art. 2054 c.c., nel caso di danni prodotti a persone o
cose dalla circolazione di un veicolo, non deve essere necessariamente data in modo
diretto, cioè dimostrando di avere tenuto un comportamento esente da colpa e
perfettamente conforme alle regole del codice della strada, ma può risultare anche
dall'accertamento che il comportamento della vittima sia stato il fattore causale
esclusivo dell'evento dannoso, comunque non evitabile da parte del conducente,
CIRCOLAZIONE
attese le concrete circostanze della circolazione e la conseguente impossibilità di
STRADALE - PROVA
attuare una qualche idonea manovra di emergenza. Pertanto il pedone, il quale
LIBERATORIA -
attraversi la strada di corsa sia pure sulle apposite strisce pedonali immettendosi nel
COMPORTAMENTO
flusso dei veicoli marcianti alla velocità imposta dalla legge, pone in essere un
COLPOSO DEL
comportamento colposo che può costituire causa esclusiva del suo investimento da
PEDONE
parte di un veicolo, ove il conducente, sul quale grava la presunzione di responsabilità
di cui alla prima parte dell'art. 2054 c.c., dimostri che l'improvvisa ed imprevedibile
comparsa del pedone sulla propria traiettoria di marcia ha reso inevitabile l'evento
dannoso, tenuto conto della breve distanza di avvistamento, insufficiente per operare
un'idonea manovra di emergenza.
(Cassazione,11 giugno 2010, n. 14064)
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Il Punto su...
A cura di Vittorio Provera
Con la recente legge n. 136/2010, entrata in vigore il 7 settembre, sono state introdotte nuove
disposizioni per la trasparenza negli appalti e/o forniture con finanziamenti pubblici e per
l’identificazione dei lavoratori che operano nell’ambito di questo tipo di contratti (anche privati).
Partendo da questo secondo profilo, all’art. 5 della citata legge, è previsto che il tesserino di
riconoscimento - di cui sono obbligatoriamente muniti i lavoratori che operano in attività svolte in
appalto e subappalto (già introdotto dall’art. 18 comma 1° lettera u del D.Lgs. n. 81/2008 - Testo
Unico Sicurezza sul lavoro - TUSL) - debba obbligatoriamente contenere, oltre alle generalità del
dipendente, foto e identificativi del datore di lavoro, anche la data di assunzione e, in caso di
subappalto, la relativa autorizzazione.
È inoltre stabilito che, nell’ipotesi di lavoratore autonomo, le tessere di riconoscimento previste dall’art. 21
del TUSL da utilizzare nei luoghi in cui svolgono attività in appalto o subappalto, oltre alle generalità del
lavoratore autonomo, dovranno contenere anche l’indicazione del committente.
Queste prescrizioni si pongono come veri e propri obblighi sia per il datore di lavoro (che deve fornire le
tessere ai dipendenti), che per gli stessi lavoratori (i quali sono tenuti ad esporle).
La nuova disciplina ha determinato talune incertezze interpretative, nonché perplessità sulla reale utilità di
queste ulteriori informative.
✦In primo luogo, si è posto il problema di comprendere se il campo di applicazione sia limitato agli
appalti nel settore edile, ma - considerato che vi è un richiamo al Testo Unico di Sicurezza sul lavoro
- l’opinione prevalente è che si applichi a tutte le attività in regime di appalto o subappalto, purché
svolte nel medesimo luogo e, ovviamente, anche negli appalti di carattere privato.
A carico del datore di lavoro e dei dirigenti che non provvedono a dotare il personale della tessera di
riconoscimento è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria da € 100,00 a € 500,00 per ciascun
lavoratore. I dipendenti che non espongono la tessera di riconoscimento sono soggetti a sanzioni
pecuniarie di importo da € 50,00 a € 300,00, sanzione prevista anche a carico del lavoratore autonomo
che non provvede a munirsi di tale elemento identificativo.
✦Come accennato, al fine di perseguire finalità di trasparenza e contrastare condotte illecite, la legge
n. 136/2010 ha previsto, per i pagamenti negli appalti, servizi, lavori e/o forniture con finanziamenti
pubblici, l’obbligo della tracciabilità dei flussi finanziari, usando conti correnti dedicati per
appoggiare i movimenti finanziari ed eseguire i pagamenti.
Tale obbligo coinvolge anche i subappaltatori, subcontraenti e qualsiasi interessato ai lavori. La previsione
dell’impegno di tracciare le risorse finanziarie deve essere inserito, a pena di nullità assoluta, nei contratti;
mentre il mancato rispetto della tracciabilità genera la risoluzione di diritto di qualsiasi tipo di contratto: sia
quello a monte (tra soggetto pubblico committente ed appaltatore), sia quello a valle (tra appaltatore e
subappaltatore o subcomittente).
✦Infine,
sono previste sanzioni pecuniarie di misura, variabili tra il 2% ed il 20% della transazione, in
caso di violazioni della norma.
✦Si tratta di disposizioni che vanno applicate sia a contratti già stipulati che a quelli da stipulare.
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Eventi
✦CONVEGNI AIDP Piemonte
Biella, 22 Novembre 2010, ore 16
“Costituzione e gestione del rapporto di lavoro” Relatore: Avv. Stefano Beretta
Link: www.aidp.it
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GiocoNews.it: 09/10/10
Casinò Campione: mance non sono retribuzione
✦ilGiornale: 01/10/10
La parola ai grandi giuslavoristi
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L’archivio delle Newsletter T&P è consultabile nella sezione Newsletter del sito www.trifiro.it
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