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Il libro

E
lsa ha trent’anni, adora la montagna e le gite in alta quota. Ma è a
causa di questa passione che ora si trova in un letto d’ospedale, dopo
una brutta caduta da una parete ghiacciata. È in coma da venti
settimane. Sente tutto, ma nessuna delle persone accanto a lei se ne accorge.
Un giorno, per errore, entra nella sua stanza un ragazzo sconosciuto.
Thibault non sa nulla della storia di Elsa, ma inizia a parlarle, conosce i suoi
amici, qualcosa nella ragazza addormentata che profuma di gelsomino e gli
sembra così dolce lo tiene legato magneticamente alla sua stanza. Giorno dopo
giorno torna a farle visita.
Ed Elsa? Sente tutto, ma non può rispondere. Non può chiedere a quel
ragazzo gentile di prometterle che tornerà anche il giorno dopo, non può
dirgli che sa riconoscere il suono della sua risata in corridoio e che ora quasi
sente il calore del suo bacio sulla guancia.
Thibault non sa che Elsa non si risveglierà più, perché a breve la
staccheranno dalle macchine che la tengono in vita. L’hanno deciso i medici,
la famiglia ha acconsentito. Tutti credono che sia impossibile che Elsa si
risvegli, eppure ogni volta che Thibault entra nella stanza il suo cuore…
L’autrice

Clélie Avit ha 29 anni, è nata e cresciuta in Alvernia,


insegna fisica e chimica al liceo.
Clélie Avit

SO CHE SEI QUI


Traduzione di Francesca Mazzurana
SO CHE SEI QUI
1
ELSA

Ho freddo. Ho fame. Ho paura.


Almeno credo.
Sono in coma da venti settimane e immagino di avere freddo,
fame e paura. Questo non ha alcun senso, poiché se c’è qualcuno che
dovrebbe sapere che cosa prova quella sono proprio io, eppure…
posso solo immaginarlo.
So che sono in coma perché li ho sentiti mentre ne parlavano. In
modo vago. Dev’essere stato sei settimane fa che ho “udito” per la
prima volta. Se ho contato bene.
Conto i giorni come posso. Ormai non mi regolo più sui passaggi
dei medici. Si fanno vedere di rado. Meglio regolarsi sui giri delle
infermiere, ma sono molto variabili. La cosa più semplice è contare i
passaggi della donna delle pulizie. Viene nella mia stanza tutte le
notti verso l’una. Lo so perché sento il jingle della radio appesa al
suo carrello. E finora è successo quarantadue volte.
Da sei settimane mi sono svegliata.
Da sei settimane nessuno se ne accorge.
E non mi metteranno nemmeno in uno scanner ventiquattro ore
su ventiquattro. Siccome il sensore che emette i bip accanto a me
non ha voluto segnalare che il mio cervello è di nuovo in grado di far
funzionare la sua parte uditiva, non sono costretti a infilarmi in un
cilindro da ottocentomila euro.
Mi giudicano completamente spacciata.
Anche i miei genitori iniziano a cedere. Mia madre viene meno
spesso. Mio padre deve avere smesso più o meno dopo dieci giorni.
Solo la mia sorellina passa regolarmente, tutti i mercoledì, qualche
volta insieme al fidanzato del momento.
Mia sorella sembra un’adolescente. Ha venticinque anni e cambia
ragazzo quasi tutte le settimane. Vorrei allungare una mano e
scompigliarle i capelli, ma visto che non posso farlo la ascolto
mentre mi parla.
Se c’è una cosa che i medici sanno dire, è: “Parlatele”. Ogni volta
che ne sento uno ripeterlo (certo, ormai è piuttosto difficile, dal
momento che vengono sempre meno), vorrei tanto fargli ingoiare il
camice verde. Tra l’altro non so nemmeno se è verde, ma lo
immagino così.
Mi immagino tante cose.
A dirla tutta, ho solo questo da fare. Perché, a forza di sentire mia
sorella raccontarmi le sue storie di cuore, mi annoio.
Non è una che ci ricama tanto sopra mia sorella, ma si ripete un
po’. L’inizio, lo svolgimento e la fine sono sempre gli stessi. L’unica
cosa che cambia è la faccia del ragazzo. Sono tutti studenti. Tutti
motociclisti. Hanno tutti un non so che di losco, ma lei non se ne
rende conto. Non gliel’ho mai detto. Dovrò farlo, se mai uscirò dal
coma. Potrebbe esserle utile.
Con lei, comunque, un vantaggio c’è. Quando mi descrive quello
che ho intorno. Si tratta solo di cinque minuti. I primi cinque minuti
dopo che è entrata nella mia stanza. Mi parla del colore delle pareti,
del tempo, della gonna che porta l’infermiera sotto il camice e di
com’è brontolone il barelliere che ha incrociato arrivando. Studia
Belle arti, la mia sorellina. E quando mi descrive tutto questo, ho la
sensazione di leggere una poesia in immagini. Ma dura solo cinque
minuti. Poi parte con un’ora di romanzo rosa.
Oggi sembra sia una giornata grigia e che questo renda i muri
lattiginosi della mia stanza più orrendi del solito. L’infermiera ha
una gonna beige, giusto per rallegrare il tutto. E il ragazzo di turno
si chiama Adrien. Ho staccato dopo Adrien. Ho riportato
l’attenzione al mio ambiente quando la porta si è chiusa.
Sono di nuovo sola.
Lo sono da venti settimane, e ne sono consapevole soltanto da
sei. Ma mi sembra un’eternità. Forse il tempo passerebbe più in
fretta se dormissi di più. Insomma, se la mia mente si scollegasse.
Ma non mi piace dormire.
Non so se ho qualche influenza sul mio corpo. Sembro più che
altro “accesa” o “spenta” come un apparecchio elettrico. La mia
mente fa quello che vuole. Mi sento in affitto nel mio stesso corpo. E
non mi piace dormire.
Non mi piace perché quando dormo più che un’inquilina divento
una spettatrice. Guardo tutte quelle immagini scorrere davanti a me
e non ho alcun modo per scacciarle rapidamente svegliandomi
magari agitata o in un bagno di sudore. Posso solo guardarle passare
e aspettare la fine.
Ogni notte è sempre la stessa storia. Ogni notte lo stesso sogno.
Ogni notte, rivivo l’evento che mi ha portata qui, in questo ospedale.
E la cosa peggiore è che in questa situazione mi ci sono messa da
sola. Io e basta. Io con la mia stupida “passione glaciale”, come la
chiamava mio padre. D’altro canto è per questo che ha smesso di
venire a trovarmi. Penserà che me la sono voluta. Non ha mai capito
perché io ami tanto la montagna. Mi diceva spesso che avrebbe
scommesso che un giorno ci avrei lasciato le penne. Con il mio
incidente avrà sicuramente l’impressione di avere vinto la
scommessa. Io, invece, non ho l’impressione di avere perso né di
avere vinto. Non ho alcuna impressione. Voglio solo uscire dal coma.
Voglio avere realmente freddo, fame e paura.
È pazzesco quello che siamo in grado di imparare sul nostro
corpo quando siamo in coma. Capiamo davvero quanto la paura sia
una reazione chimica. Perché ogni notte, mentre rivivo il mio
incubo, dovrei essere terrorizzata, e invece no, guardo. Mi guardo
alzarmi alle tre del mattino nella camerata del rifugio e svegliare i
miei compagni di cordata. Mi guardo fare colazione alla bell’e
meglio, indecisa come sempre se bere o no il tè per evitare di avere
la vescica piena sul ghiacciaio. Mi guardo infilarmi metodicamente
ogni strato del vestiario dai piedi alla testa. Mi guardo chiudere la
giacca a vento, infilare i guanti, sistemare la lampada frontale e
indossare i ramponi. Mi guardo ridere con i miei compagni, anche
loro mezzo addormentati ma pieni di gioia e di adrenalina. Mi
guardo sistemare l’imbracatura, lanciare la corda a Steve, fare il
nodo a otto.
Quel maledetto nodo a otto.
Quel nodo che ho fatto un infinito numero di volte.
Quella mattina, non ho chiesto a Steve di controllarlo perché
stava raccontando una barzelletta.
Però sembrava ben fatto.
Ma non posso avvisarmi. Così, mi guardo mentre avvolgo la
corda che avanza su una mano, stringo la piccozza nell’altra e inizio
la mia escursione. Mi vedo riprendere fiato, sorridere, tremare,
camminare, camminare e ancora camminare. Mi vedo procedere con
cautela. Mi vedo mentre dico a Steve di fare attenzione al ponte di
neve sul crepaccio. Mi guardo stringere i denti attraversando io
stessa il punto difficile e tirare un sospiro di sollievo una volta
dall’altra parte. Mi guardo scherzare su quanto sia stato facile.
E guardo le mie gambe sprofondare sotto di me.
Il seguito lo so a memoria. Il ponte di neve era un’immensa
lastra. Ero l’unica ancora lì sopra. La neve scivola sotto di me e mi
trascina con sé. Sento lo strattone della corda tesa che lega Steve e
me come due gemelli agli estremi di uno stesso cordone ombelicale.
Mi sento prima pervasa dal sollievo, poi dalla paura quando la corda
si allunga di qualche centimetro. Odo la voce di Steve aggrappato al
ghiaccio con ramponi e piccozza. Percepisco vagamente degli ordini,
ma la neve continua a passarmi sopra, a premere sul mio corpo.
Progressivamente, la tensione intorno alla mia vita si allenta, il nodo
si scioglie e parto.
Non vado lontano. Forse duecento metri. La neve mi ricopre da
ogni parte. Ho un male terribile alla gamba destra e i miei polsi
sembrano avere assunto una strana angolazione.
Ho l’impressione di addormentarmi per qualche secondo, poi mi
sveglio, in uno stato di allerta totale. Il cuore mi batte all’impazzata.
Sono in preda al panico. Cerco di calmarmi ma non è facile. Non
posso muovere alcuna parte del corpo. La pressione è troppo forte.
Respiro appena, anche se ho qualche centimetro quadrato di
spazio libero davanti a me. Apro un po’ la bocca e trovo con
difficoltà la forza di tossire. La saliva cola lungo la guancia destra.
Devo essere in orizzontale. Chiudo gli occhi e tento di immaginarmi
nel mio letto. È davvero impossibile.
Sento dei passi sopra di me. Sento la voce di Steve. Ho voglia di
gridare. Di dirgli che sono lì, proprio sotto i suoi piedi. Sento anche
altre voci. Senz’altro gli alpinisti che abbiamo sorpassato poco
prima. Vorrei soffiare nel mio fischietto, ma per farlo dovrei essere
in grado di muovere la testa, e questo è impossibile. Allora attendo,
gelata, pietrificata. A poco a poco i rumori si attenuano. Non so se
perché si allontanano o perché mi addormento, ma tutto diventa
buio.
E dopo l’unica cosa che ricordo è la voce del medico mentre dice
a mia madre che ci sono ancora dei moduli da compilare per il
cambio di stanza, “perché lei capisce, signora, oltre le quattordici
settimane l’équipe medica non può più fare molto”.
In seguito ho capito che potevo solo sentire. Ero in uno stato
d’animo incline al pianto, ma naturalmente le lacrime non sono
arrivate. Non ho provato nemmeno tristezza. Non ne provo mai.
Sono un bozzolo vuoto. No, abito in un bozzolo vuoto.
Una crisalide in affitto in un bozzolo, forse è più carino. Mi
piacerebbe davvero uscirne per poter dire che sono anche la
proprietaria.
2
THIBAULT

«Ti ho detto di lasciarmi in pace!»


«Non andrai da nessuna parte finché non l’avrai visto.»
«Lasciami! Ci ho già provato quindici volte, e non cambia niente.
È abominevole, schifoso, volgare e rozzo. Sembra un pessimo
cartone animato. Non mi interessa.»
«È tuo fratello, cazzo!»
«Era mio fratello prima di travolgere quelle due ragazzine.
Almeno non è riuscito a sottrarsi al suo destino. Sarebbe forse stato
meglio se fosse crepato come loro, ora si beccherà al massimo una
bella condanna.»
«Porca puttana, Thibault, ti stai ascoltando? Non puoi pensare
davvero quello che dici.»
Mi irrigidisco. È un mese che ripeto le stesse cose a tutti e mio
cugino crede ancora che io parli così solo per la preoccupazione.
Non sono più preoccupato. Lo sono stato all’inizio, quando ha
chiamato l’ospedale, quando mia madre si è accasciata sul
pavimento della cucina, quando correvamo sulla vecchia Peugeot 206
di mio cugino oltrepassando i limiti di velocità. Lo sono stato fino a
quando ho visto un poliziotto sulla porta della stanza di mio fratello.
Da quel momento, ho provato solo rabbia.
«Sì, penso ogni singola parola che ho detto.»
Ho pronunciato quest’ultima frase con un tono glaciale. A
quanto pare mio cugino non se lo aspettava. Si è fermato anche lui
nel corridoio. So che mia madre è già nella stanza 55.
Ci superano alcune infermiere, imperturbabili. Lancio uno
sguardo a mio cugino. È pietrificato per la vergogna.
«Smettila di arrovellarti e lasciami in pace. A mia madre racconta
quello che vuoi. Io vi aspetto all’uscita.»
Mi volto, spingo la porta alla mia destra che conduce alle scale e
la lascio sbattere alle mie spalle. Nessuno usa mai le scale negli
ospedali, così chiudo gli occhi, mi appoggio contro il muro e poi,
lentamente, mi lascio scivolare a terra.
Il freddo del pavimento in resina mi attraversa i jeans, ma non
m’importa. Dopo la corsa in macchina senza riscaldamento, ho già i
piedi congelati e le mie mani devono essere bluastre. Non oso
immaginare il colore che avranno quest’inverno se continuo a
dimenticarmi i guanti tutte le volte che esco. Siamo ancora in
autunno, ufficialmente almeno, ma nell’aria ci sono già le avvisaglie
dell’inverno. Sento la bile salirmi in gola, come capita sempre
quando metto piede in quest’ospedale. Vorrei vomitare mio fratello,
vomitare il suo incidente e l’alcol che ha smaltito il giorno dopo
avere investito le due ragazzine. Ma la gola si limita a stringersi in
spasmi senza buttare fuori nulla. Fantastico. Vomito aria.
L’odore dell’ospedale mi riempie le narici. Curioso. In genere è
meno intenso sulle scale. Apro gli occhi per vedere se per caso un
medico ha dimenticato qualcosa e impreco.
Ho cannato, mi trovo in una stanza. Devo avere scambiato un
qualche cartello sulla porta per il simbolo dell’uscita di sicurezza.
Devo andarmene prima che la persona nel letto si svegli.
Da dove mi trovo vedo soltanto la parte inferiore delle gambe.
Cioè, vedo il lenzuolo rosa che la copre. In effetti si sente l’odore
chimico tipico dell’ospedale, ma qualcos’altro attira la mia
attenzione. C’è anche un odore diverso, che non ha nulla a che
spartire con i medicinali e la costante sterilizzazione dell’ambiente.
Chiudo gli occhi per concentrarmi.
Gelsomino. Sa di gelsomino. Non si tratta di un odore comune.
Ma ne sono sicuro, è lo stesso profumo del tè che beve mia madre
ogni mattina.
È strano, il rumore della porta non ha svegliato la persona. Forse
dorme ancora. Non riesco a capire se si tratta di un uomo o di una
donna, ma dal profumo propendo per la seconda ipotesi. Non
conosco nessun ragazzo che userebbe il gelsomino.
Avanzo piano, nascondendomi come un ragazzino dietro la
parete del bagnetto con il box doccia. L’odore di gelsomino diventa
più intenso, mi sporgo con la testa.
Una donna. Niente di sorprendente, in fin dei conti, ma non so
perché volevo una conferma. Dorme. Perfetto. Potrò uscire senza
scatenare incidenti.
Tornando indietro scorgo il mio riflesso nel piccolo specchio
appeso al muro. Ho lo sguardo sconvolto e i capelli arruffati. Mia
madre dice sempre che sarei più elegante se mi prendessi la briga di
sistemarli. Le rispondo sempre che non ne ho il tempo. Al che lei
ribatte che alle donne piacerei di più se domassi la mia zazzera
scura. In quei momenti, evito di spiegarle che ho di meglio da fare
che provarci con le ragazze, e comunque in genere si ferma lì.
Da quando ho rotto con Cindy, un anno fa, mi sono buttato nel
lavoro. Bisogna dire che sei anni di vita insieme influiscono
pesantemente sul proprio io. Per me è stata una botta pazzesca
quando se n’è andata e, da allora, sto cercando di riprendermi.
Quindi, i capelli sono l’ultima delle mie preoccupazioni.
Non sono nemmeno ben rasato. In realtà non mi faccio la barba
da due giorni. Non è poi così brutta, ma mia madre direbbe anche in
questo caso che posso fare di meglio. A sentirmi parlare così
potrebbe sembrare che io abiti con lei. Invece no, ho il mio
appartamento, il mio piccolo bilocale al terzo piano senza ascensore.
Carino e soprattutto abbordabile. Mia madre si preoccupa tanto
perché da un mese mi accampo spesso nel suo soggiorno. Da
quando mio padre l’ha lasciata anche lei ha traslocato e non ha più
una stanza per gli ospiti. In ogni caso il divano l’ho comprato io. Ho
intuito che mi sarebbe tornato utile un giorno. È stato due mesi
prima che Cindy se ne andasse.
Mi strofino energicamente le guance, in genere mi riscalda le
dita. Prendo il colletto della camicia sotto il maglione e lo tiro su per
cercare di dargli una parvenza di forma. Non riesco a credere di
essere rimasto vestito così al lavoro tutto il giorno senza che
nessuno mi dicesse nulla. Devono avere capito che, essendo
mercoledì, era giorno di visita. Devono avere visto il mio sguardo e
hanno taciuto. Per educazione. Per indifferenza. O perché non
aspettano altro che io venga buttato fuori per prendere il mio posto.
Sicuramente, dopo che ho insultato Cindy in corridoio urlando
che andava a letto con il suo capo ho ricevuto qualche richiamo, ma
dopo lei ha cambiato succursale e io sono uno dei loro migliori
elementi, quindi non vogliono perdermi.
Nello specchio, i miei occhi grigi mi guardano. Si direbbero
insignificanti paragonati ai capelli neri. Mi passo la mano sulla testa
come per tentare di accontentare mia madre ma smetto subito dopo.
A che serve? Non cerco nessuno.
Uno scroscio attira la mia attenzione verso la finestra. Cazzo. Ha
cominciato a piovere. E non ho voglia di andare a congelarmi fuori
aspettando mia madre e mio cugino. Mi guardo intorno. In fin dei
conti in questa stanza fa piuttosto caldo. La persona continua a
dormire e, vista la pulizia perfetta dei mobili, non sembra ricevere
visite molto spesso. Ho riflettuto per un attimo sull’opportunità
della cosa.
Se la persona si sveglia, posso sempre bofonchiare qualcosa del
tipo che sono appena entrato per sbaglio. Se viene qualcuno a
trovarla, posso buttare lì che sono un vecchio amico ed eclissarmi.
Forse sarebbe meglio se prima cercassi di sapere come si chiama.
La cartella appesa in fondo al letto riporta: “Elsa Bilier, ventinove
anni, trauma cranico, trauma grave ai polsi e al ginocchio destro.
Contusioni multiple, frattura del perone in remissione”. La lista
continua così fino a mostrare una delle parole più orribili mai
sentite sulla faccia della terra.
“Coma.”
In effetti, non rischiavo di svegliarla. Abbasso il portacartelle e
guardo la donna. Ventinove anni. In quella posizione, con le flebo e i
fili da tutte le parti, assomiglia più a una mamma di quarant’anni
intrappolata in una ragnatela. Ma avvicinandomi un po’ le do le sue
ventinove primavere. Un viso delicato, grazioso, capelli castani,
qualche efelide sparsa qua e là, un neo vicino all’orecchio destro.
Solo la magrezza delle braccia sopra le lenzuola e le guance incavate
potrebbero farmi pensare altrimenti.
Guardo di nuovo la cartella e mi si blocca il respiro.
“Data dell’incidente: 10 luglio.”
È in questo stato da quasi cinque mesi. Dovrei posare il
portacartelle ma la curiosità mi divora.
“Causa dell’incidente: valanga durante un’escursione
alpinistica.”
È pieno di pazzi. Non sono mai riuscito a capire perché le
persone si avventurino sui ghiacciai, posti gelidi pieni di buchi e di
crepacci in cui rischi di morire ogni volta che muovi un passo. Sarà
pentita eccome, adesso. Cioè, è un modo di dire. Di sicuro non
realizza quello che le succede. È il concetto fondamentale del coma.
Sei altrove e non si sa dove.
All’improvviso provo l’orribile desiderio di scambiare la
situazione di mio fratello con quella di questa ragazza. Lei si è
cacciata lì da sola. Non ha fatto del male a nessuno, almeno credo.
Mio fratello aveva bevuto troppo e si è comunque messo alla guida.
Ha ucciso due ragazzine di quattordici anni. Dovrebbe essere lui in
coma. Non lei.
Do un ultimo sguardo alla cartella prima di posarla.
“Elsa. Ventinove anni (nata il 27 novembre).”
Cazzo, oggi è il suo compleanno.
Senza sapere perché, prendo la matita con la gomma attaccata al
portacartelle e cancello “ventinove”. Resta un segnaccio, pazienza.
«Bellezza, oggi hai trent’anni» mormoro scrivendo il nuovo
numero prima di riagganciare il portacartelle.
La guardo di nuovo. Qualcosa mi disturba e, un attimo dopo,
capisco di che si tratta. A forza di essere collegata a tutti quegli affari
si è imbruttita. Se staccassi tutto, assomiglierebbe più o meno a un
fiore di gelsomino, con il profumo che persiste nella stanza. C’è una
polemica in questo periodo sullo “staccare la spina”, “non staccare
la spina”. Fino a ora, non avevo un’opinione. Qui vorrei staccare
tutto per riportarla al suo stato naturale.
«Dài, visto che sei carina, hai diritto a un bacio per il tuo
compleanno.»
Mi sorprendo io stesso delle mie parole, ma sto già spostando i
tubi che mi separano dal suo volto. Da così vicino, il gelsomino è
chiaramente riconoscibile. Poso le labbra sulla sua guancia calda e
questo mi provoca una specie di scarica elettrica.
È un anno che non bacio una donna al di fuori del saluto alle
colleghe. Non c’è nulla di sensuale né sessuale in quello che ho
fatto, ma accidenti, ho appena rubato un bacio sulla guancia a una
donna. L’idea mi fa sorridere e mi allontano.
«Sei fortunata, fuori piove. Ti farò un po’ di compagnia, fiore di
gelsomino.»
Avvicino la sedia e mi sistemo. Mi bastano due minuti per
addormentarmi.
3
ELSA

Vorrei tanto sentire qualche cosa, ma niente. Proprio niente. Non


sento assolutamente nulla.
Invece, stando al mio udito, dieci minuti fa dev’essere entrato
qualcuno nella stanza. Un uomo. Direi sulla trentina. Un non
fumatore a giudicare dalla voce. Ma è tutto quello che posso dire di
lui.
E posso solo credergli sulla parola quando sostiene di avermi
baciata.
Che cosa mi aspettavo? Di essere Biancaneve? Il Principe azzurro
arriva, mi bacia, e oplà! “Buongiorno, Elsa, io sono Tizio, bla bla bla,
ti ho svegliata, vieni che ci sposiamo.”
Se ci avessi creduto, avrei provato una delusione tremenda
perché non è successo nulla di simile. La realtà è molto meno
interessante. La sintetizzerei così: “Sono un tipo che ha sbagliato
stanza (almeno lo immagino, altrimenti non capisco perché è
capitato qui dentro) e che ha intenzione di fermarsi fino a che
l’acquazzone (che ho iniziato a sentire da qualche istante) non sarà
passato”. E che respira già profondamente.
Sono curiosa. La curiosità non è niente di chimico, riesco ancora
a provarla. Quindi, sono curiosa di sapere chi è seduto sulla sedia
accanto a me. Non ho modo di trovare la risposta, per cui mi
accontento di immaginare. Ma presto mi arrendo. Finora, al di fuori
di medici, infermiere e della donna delle pulizie, in questa stanza
entravano solo persone che conosco. Al limite dovevo immaginare il
modo in cui erano vestite, niente di più. Ora invece mi stufo subito,
non ho alcun indizio al di fuori della sua voce.
La trovo piuttosto gradevole, fra l’altro. È davvero diversa. È la
prima voce nuova da sei settimane e credo che, anche se fosse stata
rauca o ordinaria, mi sarebbe piaciuta. I ragazzi di mia sorella non
parlano mai, l’unica cosa che percepisco è al massimo un loro
scambio di saliva con lei, quando non aspettano in corridoio. Ma
questa nuova voce ha davvero un timbro particolare, qualcosa che
unisce al tempo stesso leggerezza e passione.
Questo mi ha permesso di stabilire la data di oggi con più
facilità.
Sono davvero quasi cinque mesi che mi trovo qui e,
evidentemente, deve essere il mio compleanno.
L’unica cosa che mi stupisce è che mia sorella non mi abbia fatto
gli auguri. Forse pensava fosse inutile. O forse se n’è semplicemente
dimenticata. Vorrei prendermela con lei, ma non posso. Eppure i
trent’anni andrebbero festeggiati, no?
Un movimento sulla sedia accanto a me. Sento un tessuto che
scivola e riconosco il rumore di qualcuno che si toglie il maglione.
Lo sento trattenere il respiro nel momento in cui fa passare il collo
al di sopra della testa, le brevi interruzioni nell’espirare per tirare
fuori le braccia dalle maniche e liberare il busto. Sento che il
maglione viene appoggiato da qualche parte, poi il respiro torna
regolare.
Sono tesa. Almeno, mi piace immaginare di esserlo. Tutte le parti
di me che sono attive, vale a dire soltanto il mio udito, sono
aggrappate a questa novità come a un salvagente. Così ascolto,
ascolto, ascolto. E, poco alla volta, disegno nella mia mente.
Il suo respiro è tranquillo. Si deve essere riaddormentato. Il
ticchettio dell’acqua sulla finestra è lieve e posso distinguere il
rumore prodotto dall’attrito della sua maglietta contro la plastica
della sedia. Non deve essere particolarmente corpulento, altrimenti
non respirerebbe così. Cerco di paragonarlo a persone che conosco,
ma si ascoltano raramente gli altri respirare. A volte lo facevo, con i
miei ex, quando mi svegliavo prima di loro. Alcuni dicevano che era
ridicolo e, in generale, non duravano a lungo. Mi ricordo di un tizio
che respirava in tre tempi, lì per lì sarei voluta scoppiare a ridere ma
mi ero trattenuta per non svegliarlo. Nemmeno con lui era andata
avanti per molto.
A ogni modo, le mie storie sentimentali sono piuttosto caotiche.
Molto meno numerose e regolari di quelle di mia sorella. A
memoria, devono essere state una decina. Alcune brevi, altre molto
più lunghe. In questo momento sono single. Meglio così, perché non
so come avrebbe reagito il tipo di fronte al mio stato di coma. Mi
avrebbe mollata subito? Mi avrebbe aspettata? Si sarebbe portato
avanti senza dirmi niente? Avrebbe ascoltato i medici e sarebbe
venuto a parlare con me per dirmi che era finita? Non gli sarebbe
costato molta fatica, visto che lo avrebbe fatto convinto che io non
sentissi nulla. E avrebbe avuto ragione durante le mie prime
quattordici settimane di coma.
Quindi, single e sollevata di esserlo. È già abbastanza difficile
sentire mia madre piangere ogni volta che viene, non ho voglia di
ripetere l’esperienza con qualcun altro.
Mentre tutti questi ricordi mi attraversano la mente, rimango
concentrata sul mio visitatore temerario. Il suo respiro è diventato
più profondo. Si è addormentato sul serio.
Mantengo tutta la mia attenzione su di lui. Non voglio che il
tempo passi. È l’unica distrazione, l’unica novità, quasi l’unica cosa
che mi ricorda che, in qualche modo, sono viva e vegeta.
Perché non si può certo dire che la regolarità di mia sorella, delle
infermiere e dei pianti di mia madre mi renda felice. Quella è come
un sasso lanciato nell’acqua. Questo scombussola tutto. Mi darebbe
i brividi se solo potessi muovermi.
Vorrei che il tempo si fermasse, ma il tempo non si ferma. Non
ho che questa breve siesta che si concede nella mia stanza. Quando
se ne sarà andato, tornerà tutto come prima. Avrò avuto soltanto un
regalo per il mio compleanno. Mi piacerebbe poter sorridere a
questo pensiero.
All’improvviso la maniglia della porta cigola. Sento delle voci e
tutto il mio essere si illumina dall’interno. Riconosco Steve, Alex e
Rebecca. Sembra stiano bene e parlano allegramente. Di colpo
vorrei poter dire loro di tacere per non svegliare il mio visitatore. Ma
al solito, non posso fare niente e, in fin dei conti, sono curiosa di
vedere come lo sconosciuto spiegherà la sua presenza.
I rumori dei passi e il volume delle voci mi indicano che i miei
tre amici si avvicinano, poi che si fermano di colpo.
«Toh, c’è qualcuno!» esclama Rebecca.
«Lo conosci?» chiede Alex.
Suppongo che Rebecca faccia di no con la testa. Li sento aggirare
la sedia e li immagino piegarsi sul mio visitatore.
«Vabbe’, dorme» dice Rebecca. «Lo lasciamo stare?»
«No, lo sbattiamo fuori» replica Steve poco convinto.
«Non dà fastidio a nessuno» gli fa notare Rebecca. «E se è un
amico di Elsa può festeggiare con noi, non credi?»
«Vabbe’…»
Immagino la faccia contrariata di Steve. So che qualche anno fa
aveva un debole per me. Di ragazze che praticano alpinismo non ne
capitano tutti i giorni, anche se abiti in montagna. Rebecca ha
smesso tre anni fa, cominciava ad avere troppa paura. Forse avrei
dovuto ascoltarla quando ha tentato di convincermi a fare lo stesso.
E invece no, ero troppo appassionata. Di conseguenza, Steve si era
subito invaghito. Ma allora io ero fidanzata, per cui gli avevo fatto
capire che cercavo solo un compagno di cordata. Gli altri miei amici
erano troppo grossi per me, ci voleva qualcuno della mia stazza.
Steve è incredibilmente ben proporzionato. Formavamo una
squadra da urlo.
Dal momento in cui il mio rifiuto è stato chiaro, si è relegato nel
ruolo di fratello maggiore. Quando si è stati per tutta la vita il
maggiore è piacevole potersi sentire protetti da qualcuno.
Soprattutto da quando Alex e Rebecca stanno insieme, Steve ha
ingranato la quarta.
E ora è esattamente l’atteggiamento che sta assumendo. Il
fratello maggiore che non vuole si tocchi la sua sorellina.
«Via, Steve» inizia Alex. «Che cosa vuoi che succeda in un
ospedale? Deve essere un amico di Elsa, tutto qui! Si è
addormentato. Non ne facciamo una questione di Stato. La
domanda è: lo svegliamo o iniziamo a festeggiare senza di lui?»
«Credo che stia per deciderlo da solo» fa notare Rebecca.
In effetti, sento il mio visitatore svegliarsi. Visualizzo i suoi occhi
che si aprono, che mettono a fuoco l’ambiente, e ho voglia di ridere
quando percepisco la sua sorpresa nel momento in cui si accorge
che tre persone lo stanno guardando.
«Tu chi sei?»
Steve non ha perso tempo. Scommetto che è a dieci centimetri
dal viso dello sconosciuto, gli occhi strizzati nel tentativo di imitare
il raggio laser di Superman. Conto fino a cinque prima che lo
sconosciuto risponda. La sua voce è melodiosa.
«Un amico.»
«Vabbe’…»
«Ti dico che sono un amico.»
Confermo, deve essere sulla trentina. Altrimenti non avrebbe
dato del tu a Steve.
«Non ti credo.»
«Steve» interviene Alex «smettila.»
«Non lo conosco e non capisco che cazzo ci faccia qui» ribatte
Steve. «Già è un casino accedere a quest’ala dell’ospedale senza che
ti facciano passare ai raggi X, voglio sapere chi è e che cosa ci fa
qui!»
«È proprio per questo che non può fare nulla di male qui!»
«Vabbe’…»
Il mio sconosciuto si raddrizza e stira il maglione.
«Non sai dire altro che “vabbe’”?»
Wow. Lo sconosciuto non sa cosa rischia. Mi piacerebbe
avvisarlo, ma è troppo tardi. Capisco che Steve lo ha preso per il
collo e sollevato dalla sedia.
«Chi diavolo credi di essere?»
«Steve, smettila!» urla Rebecca.
«Cazzo! Chi è questo?» ripete Steve.
«Mettilo giù!» interviene Alex. «E tu chiedi scusa, altrimenti non
ne usciamo più.»
Alex, il prode cavaliere. Capisco perché Rebecca si è innamorata
di lui.
«Scusa» dichiara in tono piatto il mio visitatore. «Mi lasci
adesso?»
Sento il borbottio di Steve e il movimento mentre lascia andare
lo sconosciuto. Capisco poi che si è seduto sul letto, accanto a me. Le
lenzuola si spiegazzano vicino al mio orecchio.
«Mi dispiace, Elsa» mormora Steve accarezzandomi i capelli. «Ne
abbiamo fatto di casino, eh, per il tuo compleanno?»
Per qualche secondo avverto le lacrime nella sua voce. Si sente
ancora in colpa per non avere verificato il mio nodo, per non essere
stato abbastanza forte da evitare che scivolassi insieme alla valanga.
Da quello che ho capito, è stato lui a trovarmi sotto la neve. Il
medico ha detto che è stato un miracolo. Io da parte mia so solo che
è il legame che ho con lui che ci ha aiutati. Un fratello maggiore
protegge sempre.
Ma oggi devo riconoscere che sta un po’ esagerando.
«Okay! Elsa, ti abbiamo portato la torta, le trenta candeline che
non vorrai sicuramente spegnere, ma ce ne freghiamo perché ti avrei
dovuta costringere comunque, e anche un regalino.»
Il tono di Rebecca mi riscalda (così mi immagino). Scarta il
contenuto di una borsa di plastica e sono certa che è Alex ad aiutarla
a sistemare le candeline. Nel frattempo, il mio visitatore si alza.
«Tu, sei sicuro di essere un amico di Elsa?»
Ed ecco che Steve ricomincia. Se esco da questo coma, mi sentirà!
«Sì.»
«Allora come si chiama?»
«Elsa. E comunque lo hai detto tu almeno tre volte.»
«Il cognome?»
«Bilier. Compie oggi trent’anni.»
«Questo lo ha appena detto Rebecca.»
«Cos’è, un interrogatorio?»
«Così pare.»
Steve, il fratello maggiore ultraprotettivo.
«Che cosa studia?»
Passano due secondi prima che il mio sconosciuto risponda.
«Non studia. Lavora.»
«In che settore?»
Ancora due secondi.
«La montagna.»
Sono colpita. Bluffa sistematicamente, ma se la cava benissimo.
Mi chiedo se alla fine non mi conosca davvero.
«E cosa fa esattamente nell’ambito della montagna?»
A quel punto perdo ogni speranza che il mio sconosciuto
indovini. Faccio un mestiere poco comune.
Passano dieci lunghi secondi. Alex e Rebecca stanno accendendo
le candeline e li sento bisbigliare tra loro. Lo sconosciuto fa qualche
passo nella stanza e poi si ferma. Dev’essersi girato verso Steve.
«Senti» inizia «hai ragione. Non conosco Elsa. Tutto quello che
ho detto l’ho ricavato da quello che c’è scritto nella cartella appesa al
suo letto. Sono solo un visitatore che ha sbagliato stanza. Qui era
tranquillo, mi sono fermato un attimo. Non ho disturbato nessuno.
Adesso me ne vado.»
Stranamente, Steve non risponde. È Rebecca invece a prendere la
parola.
«Non vuoi restare con noi per lo spegnimento delle candeline?»
Ecco, il mio sconosciuto deve essere chiaramente sorpreso.
Rebecca è così adorabile e talvolta troppo ingenua. Fortunatamente
il suo Principe azzurro c’è sempre.
«Fermati un attimo» dice Alex.
«Non vorrei disturbare» risponde lo sconosciuto.
«Lo hai detto tu che non hai disturbato nessuno. Saremo in
quattro, a Elsa farà piacere.»
Sento che esita.
«D’accordo.»
Lo sconosciuto si avvicina di nuovo e sposta la sedia. Ho
l’impressione che cerchi di aiutare Alex con qualche cosa in una
borsa mentre Rebecca prende il portacartelle appeso al mio letto.
«Non ci sono molti progressi, sembra» butta lì lei rivolta agli
altri. «Non c’è nemmeno nulla di nuovo. Ah, sì. Qualcuno ha
cambiato la sua età. Impressionante che ci abbiano pensato.»
«Ehm… No, sono… sono stato io» dice lo sconosciuto. «Ho
guardato i fogli per sapere come si chiama e ho visto che oggi è il
suo compleanno. Scusate, spero non vi scocci. Forse non avrei
dovuto.»
«Scherzi? È troppo carino!»
«Davvero?»
«Io trovo magnifico che qualcuno che non conosce Elsa si prenda
la briga di correggere la sua età sulla cartella. Forza, lo tiri fuori
questo pacchetto, sì o no?»
«Ah, scusa. Eccolo.»
«Dallo a Steve. Credo che vorrebbe aprirlo lui. Anche se sa
benissimo che cosa c’è dentro!»
Steve deve avere sicuramente allungato il braccio e deve essersi
girato verso di me. Rebecca appoggia la torta sul tavolino accanto.
Immagino il profumo della frutta, la luce delle fiammelle e il sorriso
triste dei miei amici.
«Okay… Buon compleanno, tesoro» dice Rebecca prima di
soffiare sulle mie trenta candeline.
«Buon compleanno, Elsa» dice Alex.
«Buon compleanno a te» ripete Steve.
Da lontano, il bisbiglio del mio sconosciuto mi arriva comunque
alle orecchie.
«Buon compleanno.»
Lo pronuncia piano. Non posso sapere se perché è imbarazzato,
triste o altro. Ma è commovente. Profondamente commovente.
«Ecco, il tuo regalo» dice Steve riportandomi a cose più materiali.
«È un anello. Hai sempre detto che non ti sposerai mai e che non ne
porterai mai uno perché è fastidioso, di conseguenza te ne abbiamo
preso uno. Forse il desiderio di prenderci a calci in culo ti aiuterà a
tornare più in fretta.»
Immagino che Steve me lo infili al dito. Non so né di quale mano
né a quale dito.
«Non le dici a cosa assomiglia?»
L’intervento del mio sconosciuto sembra sorprendere tutti.
«Be’, non so» continua. «Se bisogna parlarle, tanto vale dirle
tutto, no?»
Il silenzio si protrae per qualche istante.
«A te l’onore» borbotta Steve, come se fosse infastidito dal fatto
di non averci pensato prima.
«Ehm…»
«Forza, dài! Hai ragione!»
«Okay… D’accordo.»
Il mio visitatore si avvicina.
«Allora, direi che è d’argento.»
«È oro bianco» lo interrompe Steve.
«Ah, scusa. Non li distinguo.»
«È più resistente.»
«Okay. Si tratta di oro bianco quindi. Lo hanno scelto perché è
più resistente, così, se hai voglia di colpirlo con una piccozza, vedrai,
non succederà nulla.»
Avrei voluto ridere, o almeno sorridere alla sottile allusione.
«Poi ci sono due fili che si intrecciano tutto intorno. Sembrano
liane. O meglio una sorta di steli di fiori. Ah! Come un cespuglio di
gelsomino, visto che sembra piacerti il profumo!»
Resto stupefatta. Come fa a saperlo?
«Come lo sai?» chiede Steve, facendo eco ai miei pensieri.
«In questa stanza c’è un forte profumo di gelsomino. E proviene
da lei.»
«Ti intendi di profumi?»
«No, mi occupo di ecologia, niente a che vedere. Posso andare
avanti?»
«Prego.»
Mi accorgo di essere impaziente di conoscere il seguito.
«Brilla, è davvero carino. Ed è al tuo anulare destro.»
Sono un po’ delusa. Ce l’ho quasi con Steve per averlo interrotto.
«Invece, la torta è alle pere» continua lo sconosciuto. «Rebecca ti
ha mentito, ha messo trentuno candeline solo per infastidirti, e
posso dirti che hai degli amici pazzeschi che ti vengono ad augurare
buon compleanno dopo venti settimane di assenza.»
A quel punto il silenzio diventa pesante. Per un attimo ho quasi
paura di aver perso l’udito. Ma il ticchettio delle gocce d’acqua
contro la finestra mi tranquillizza. Sento qualcuno soffiarsi il naso.
Scommetto che è Rebecca. Alex la starà stringendo tra le braccia.
Tutti cercano qualche cosa da fare come per scacciare la tristezza che
deve ammorbare la stanza. Le fette di torta vengono distribuite e i
cucchiai strisciano sui piattini di carta.
«Ci racconti qualche cosa di più di te?» chiede Rebecca dopo un
istante.
«Come?» risponde il mio visitatore.
«Intanto potresti cominciare con il presentarti, no? Sappiamo a
malapena come sei arrivato qui. Sono curiosa di sapere di più su un
tizio capace di apprendere tanto su una sconosciuta in meno di
cinque minuti.»
«Mi chiamo Thibault. Ho trentaquattro anni. E dovrei essere
nella stanza di mio fratello che ha avuto un incidente in macchina.»
«Accidenti, spero non sia troppo grave» dice Rebecca dispiaciuta.
«Un po’ sì, si rimetterà, ma avrei preferito il contrario. Ha ucciso
due adolescenti perché era ubriaco. Non ho davvero più voglia di
vederlo.»
«Ah.»
Torna il silenzio. Rifletto su quanto ho appena appreso. Il profilo
del mio sconosciuto si delinea, ma mi mancano ancora alcuni
elementi essenziali. Dubito che uno dei miei amici gli chieda di
descriversi.
Thibault. Devo ricordare questo nome.
«Come ci è arrivata qui?» chiede all’improvviso. «A parte
“valanga durante un’escursione alpinistica” voglio dire.»
Steve si alza. Percorre la stanza avanti e indietro e inizia a
raccontare quello che so già. Poi ascolto tranquillamente il seguito, a
partire dal momento in cui mi hanno ritrovata. Scopro un dettaglio
in più: sono stata trasportata in elicottero. Che peccato, ho sempre
sognato di sorvolare quel ghiacciaio con l’elicottero e non ero
cosciente per poter guardare! Il mio visitatore fa altre domande, fino
alla mia preferita. Avrei tanto voluto rispondere io stessa…
«Perché lo fa? Cioè, perché fa alpinismo? È rischioso, malgrado
tutti i vostri marchingegni.»
«Lo ha nel sangue» dice Steve.
«Per me non basta» ribatte Thibault.
«Sai che cos’è la felicità?»
«È una domanda a trabocchetto?»
«Ebbene, Elsa lo sa» risponde Steve ignorando l’osservazione.
«Quando cammina lassù, è se stessa. Risplende. La montagna è il
suo elemento. Ne ha fatto un mestiere oltre che una passione.»
«Quindi è una guida?»
«No, non poteva. Lavora per l’istituto che compila le mappe dei
sentieri. È specializzata nelle zone dei ghiacciai.»
«Non sapevo che esistesse una professione del genere. Anche se
ho già avuto modo di utilizzare questo tipo di mappe.»
«Ecco. La montagna è lei. Quando cammini con Elsa su un
ghiacciaio, è come se la vedessi nuda. Totalmente vulnerabile. Tutte
le sue emozioni e sensazioni a fior di pelle. È un vero regalo che ti
fa.»
«Wow… Sei innamorato?»
Thibault glielo chiede seriamente. E dopo tutto quello che ha
detto Steve, anch’io attendo la risposta.
«Lo ero. Adesso, sono solo una specie di fratello maggiore che ha
fallito il suo compito.»
«Non dire così. Cosa ci potevi fare se il suo nodo a botto non era
fatto bene?»
«A otto» lo corregge Steve. «Ma avrei dovuto controllarlo.»
Per impedire al silenzio di tornare, Rebecca recupera i piattini e i
cucchiai. È la fine della mia festicciola di compleanno, il mio
visitatore sta per andarsene.
«Bene, grazie per la torta e grazie di avermi permesso di
rimanere.»
«Sei sicuro di non volerti fermare ancora un po’?» gli chiede
Alex.
«No, raggiungo mia madre e mio cugino. Mi staranno cercando.»
«D’accordo. È stato bello conoscerti.»
«Anche per me. La salutate da parte mia?»
«Lo puoi fare tu stesso, lo sai» dice Rebecca.
Il mio visitatore sembra esitare, poi lo sento avvicinarsi. Era più a
suo agio prima, quando era solo con me.
«Noi la baciamo sulla fronte» aggiunge Rebecca. «È l’unico posto
dove non ci sono troppi fili.»
«Ah, okay.»
Ascolto il fruscio delle sue labbra sulla mia pelle, ma, come
prima, non provo nulla. Sento le parole che mi sussurra il più
discretamente possibile all’orecchio prima di raddrizzarsi.
«Ciao, Elsa.»
Si allontana dal mio letto. Gli altri si stanno dando da fare con le
loro cose.
«Grazie ancora, vado.»
«Puoi tornare a trovarla, lo sai.»
Naturalmente è Alex che lo ha proposto.
«Ah, gentile da parte tua, grazie. Non so se…»
«Non esitare» aggiunge Rebecca. «Le farà piacere avere altre
persone che vengono a trovarla. Ne sono sicura.»
«Benissimo. Vi saluto.»
La porta si richiude. Il mio visitatore è uscito. Quel po’ di gioia
che provavo se n’è andata con lui.
«Steve?» lo chiama Alex. «È da un po’ che non parli, ti ha dato
fastidio che io gli abbia detto di tornare?»
«No, va bene.»
«Allora che cosa c’è?»
«Ha iniziato a nevicare e lei lo adorava.»
La tristezza pesa su ogni sua parola. Mi viene da pensare che
preferivo quando c’era solo Thibault. C’erano meno emozioni. Sento
i miei amici sistemare le loro borse e rivestirsi. Li sento baciarmi a
uno a uno sulla fronte, senza alcuna possibilità di ricambiare.
Quando la porta si chiude piano, torna il silenzio totale.
Nemmeno più la pioggia contro la finestra. Nemmeno un respiro al
di fuori del mio.
Vorrei che lui tornasse.
4
THIBAULT

Mia madre guarda fuori dal finestrino e mio cugino è al telefono


sul sedile posteriore. Io guido come un automa per riportare a casa
tutti sani e salvi. La conosco a memoria, ma è meglio che presti più
attenzione alla strada.
Impossibile. La mia mente è altrove.
In quella stanza. La 52. Ho guardato mentre uscivo. C’era una
foto di montagna sotto il numero, un’immagine un po’ speciale
piena di ghiaccio. Ho capito che era stata quella a trarmi in inganno.
Quando sono uscito dall’ospedale, mio cugino era già lì ad
aspettarmi. Ha cercato di sapere che cosa avevo fatto durante tutto
quel tempo. Invano. Non ho scucito una parola. Quando mia madre
ci ha raggiunti qualche minuto dopo, aveva gli occhi arrossati.
Adesso si è un po’ calmata. È come se l’ospedale fosse un’immensa
calamita che attira le lacrime, anche se qualche volta pure la casa
riserva delle sorprese.
Non vedo l’ora che scenda. Sopporto sempre meno tutte queste
emozioni. Non che lei abbia torto, anzi. Ha il diritto di essere triste,
e sarei di sicuro nel suo stesso stato se ci fosse mio figlio in quel
letto d’ospedale, ma, paragonata alla situazione della stanza 52,
quella di mio fratello fa quasi l’effetto di un placebo. Mi ha sconvolto
più di quanto immaginassi. Me n’ero andato solo per dormire un po’
ed ecco che mi ritrovo con un sacco di novità in testa. Sono simpatici
quei tre. Anche Steve, perché, dietro ai suoi modi da fratello
maggiore protettivo, era davvero preoccupato. E talmente triste!
Sembrava mia madre. È quello che mi ha dato più fastidio di lui.
Aveva anche l’aria di essere geloso, ma di cosa, non lo so. Se davvero
non è innamorato, non ha nulla da temere. E in fondo nemmeno se
lo è.
La ragazza, Rebecca, è in gamba. Un po’ ingenua ma piacevole. Il
suo tipo, Alex, è decisamente simpatico e molto socievole. Varrebbe
la pena di incontrarli di nuovo per uno scambio d’idee. Ma mi rendo
conto che non ho modo di farlo se non lasciando un messaggio lì,
nella stanza 52, con scritto: “Ciao, sono Thibault, il ragazzo che si
era addormentato l’altra volta. Se vi va di rivederci, vi lascio il mio
numero”. Quindi, è fatica sprecata.
L’unica persona che posso rivedere, alla fine, è quella con cui non
posso parlare. Perché non mi risponderà.
Elsa. Il fiore di gelsomino pieno di fili. Non ho chiesto perché ce
n’erano così tanti. Non so assolutamente nulla di medicina. Anche
se mi occupo di “medicina della terra”, come la chiamano alcuni. Ma
per quanto riguarda il corpo umano, non ci capisco nulla. Quando il
dottore ha iniziato a spiegarmi i traumi subiti da mio fratello, ho
lasciato perdere dopo cinque secondi. Mia madre ha ascoltato
pazientemente, anche se nemmeno lei ci capiva niente. Mio cugino,
insegnante di educazione fisica, ci aveva fatto una specie di
traduzione ma, a essere sincero, il poliziotto dietro la porta mi
gelava il sangue, quindi non avevo ascoltato molto.
Per fortuna il poliziotto non c’è più. Mio fratello ha reso la sua
deposizione. La sentenza è prevista tra quattro mesi. Tecnicamente,
è il tempo che gli serve per riprendersi dall’incidente. Nell’attesa, il
suo appartamento rimarrà vuoto. Io e mio cugino siamo passati a
svuotare il frigo e a dare una pulita, per evitare che diventi un
disastro durante la sua assenza. Già non era il massimo prima, non è
il caso che assuma l’aspetto di un tugurio. Dalla biancheria intima
sparsa un po’ dappertutto abbiamo capito che c’era un’amica. La
ragazza non si è mai preoccupata di nulla, o forse si è trattato di un
incontro di una sera, perché non ha chiamato nessuno.
Mi fermo nel parcheggio di fronte alla casa di mia madre. La
neve inizia a ricoprire le auto in sosta. Sull’asfalto non attacca ancora
ma sull’erba ce n’è già uno strato sottile. Non saprei dire se la neve
mi piace oppure no. C’è, la accetto così com’è. Per me è soltanto un
altro respiro del pianeta.
I miei due passeggeri scendono. Mio cugino abita proprio
accanto a mia madre. È stato lui a trovarle l’appartamento quando
mio padre se n’è andato. Sento la macchina sollevarsi, alleggerita del
loro peso. Mio cugino infila la testa attraverso la portiera aperta.
«Tu non vieni?»
«Stasera no.»
«Credo che le farebbe piacere.»
«E io credo di non farcela.»
«Sei crudele.»
«Senti, verrò domani. Ma ora… non stasera.»
Mio cugino mi guarda quasi sorpreso dal fatto che io abbia
parlato di domani.
«Okay. Guida con prudenza.»
Chiude la portiera. Mia madre mi guarda attraverso il finestrino
e fa un cenno con la mano. Le mando un bacio e rimetto in moto.
Non appena ho superato il cancello del complesso residenziale mi
sento già meglio. Devo smetterla di passare tanto tempo insieme a
quei due, la loro mestizia mi contagia. Sono una vera e propria
spugna.
Guido senza pensare a nulla fino a quando mi rendo conto che
non ho preso la strada di casa. Sto andando in città. Potrebbe essere
la cosa migliore da fare. Non ho voglia di stare da solo questa sera,
ma non ho nemmeno voglia di avere compagnia. Non ho le idee
molto chiare. Per fortuna so esattamente di che cosa ho bisogno in
questi casi.
«Pronto, Ju?»
La voce del mio migliore amico risuona nel telefono.
«Sì, lo so, non mentre si guida. Che cosa fai stasera?… Che ne
dici di uscire? Ci vediamo al pub?… Cosa? Non puoi prima? Okay…
Allora a dopo!»
Riattacco. Julien, prima malato di lavoro, più recentemente
malato di sua figlia di cinque mesi. Per fortuna, sua moglie è una
delle mie migliori amiche dai tempi dell’università, se lui le dice che
deve incontrarmi, lei capirà. Da quanto ho intuito, però, prima ci
sono un bagnetto, un biberon e altre cose da finire. È vero che il
mercoledì è il suo turno. Hanno trovato un ritmo perfetto quei due!
Ne sono geloso, anche se non cerco una compagna. È quello che
vorrei raggiungere. Quell’equilibrio.
Con Cindy non c’era equilibrio, ma burrasca tutti i giorni. Mi
giustificavo dicendo che si trattava di un altro genere di equilibrio.
Avevo decisamente torto. Quando vedo che cosa sono riusciti a
costruire Julien e sua moglie, mi viene proprio voglia di fare
altrettanto. Ma quando si esce da una relazione come la mia, ci si
chiede se si è ancora capaci di amare.
Così, nell’attesa, amo il mio lavoro, i miei amici, mia madre,
anche se non la smette più di piangere, e non amo più mio fratello.
Da un po’ di tempo la mia vita si riassume così. Individuare ciò che
amo e ciò che non amo. Non è facile.
Ah, sì, non amo gli imbecilli che non sanno parcheggiare nei
posti gratuiti perché per colpa loro sei costretto a pagare tu per
lasciare la macchina. Ed è quello che mi tocca fare questa sera.
A costo di mettere mano al portafogli scelgo il parcheggio più
vicino al pub. Al massimo dovrò percorrere a piedi duecento metri.
È perfetto perché con la neve avrei avuto ancora più freddo.
Posteggio correttamente, in modo da non intralciare gli altri. Infilo
con cura il biglietto in tasca, per evitare che mi succeda come
l’ultima volta che ho passato due ore a cercarlo quando l’avevo
dimenticato sul cruscotto, e raggiungo il pub di corsa.
Una volta dentro, mi sento sollevato. Fa caldo. Le persone
parlano, ridono, ci sono buona musica e un tavolino ancora libero.
Mi accomodo e metto due sottobicchieri davanti a me per far vedere
che aspetto qualcuno. I codici come questo sono rassicuranti. Non
mi verranno a chiedere se la sedia è libera.
Ordino un succo di pera. Il cameriere mi guarda perplesso.
Rispondo che devo guidare e questo gli basta. Quasi si complimenta
con me. So che Julien prenderà una birra. Magari gliene scroccherò
un po’, giusto un contentino, ma non mi piace bere prima di
guidare. Mio fratello si sarebbe dovuto dimostrare altrettanto
ragionevole.
Dopo neanche cinque minuti che ho il mio succo di pera in
mano, una ragazza mi si para davanti.
«È libera questa sedia?»
Indico il sottobicchiere vuoto.
«Ah, scusa, non l’avevo visto. Aspetti qualcuno?»
«Sì. Un amico.»
Sono stato tentato di rispondere “la mia amica”, cioè “il mio
compagno”, così per ridere, perché la ragazza si comporta in modo
strano. Sa decisamente di tentativo di rimorchio. Però questo pub è
piuttosto noto per l’atmosfera gaudente e si discosta dai tipici locali
speed date. Sorrido pensando alle osservazioni di mia madre.
Sembra che i miei capelli arruffati non dispiacciano a tutti. Ma la
tipa pare solo avere voglia di farsi offrire un bicchiere. Odio questo
genere di incontri.
«Posso tenerti compagnia finché non arriva?»
Nella mia mente in un attimo ho come un libro-gioco a scelta
multipla che si sta per aprire. “Se vuoi affrontare il drago, vai a
pagina 62. Se preferisci nasconderti, vai a pagina 33.” Lei ha appena
fatto la scelta finale. Pagina 0.
«Sei decisamente ben fatta ma non hai l’intelligenza di capire se
uno è disponibile o no. La differenza è sottile, me ne rendo conto, e
evidentemente la sottigliezza non è il tuo forte. Mi chiedo persino se
sai che cosa significhi. Quindi, mi spiace, non mi va proprio che tu
mi tenga compagnia finché non arriva il mio amico.»
La ragazza è indignata, ma mi chiedo sinceramente se ha capito
tutto quello che ho detto. A giudicare dalla sua reazione, non deve
essere abituata a farsi liquidare così, ma proprio non sono in vena.
Sembra che abbia diffuso il messaggio o che il sottobicchiere
vuoto in evidenza sul tavolino ottenga il suo effetto perché nessuno
viene più a disturbarmi fino a che non arriva Julien. Sono quasi le
otto. Ha della neve tra i capelli.
«Mamma che tempo!» esclama sedendosi di fronte a me.
«È solo un po’ di neve» gli faccio notare.
«Ma si gela!» mi risponde togliendosi il berretto.
«A chi lo dici…»
Julien si sfila la giacca e fa un cenno per ordinare una birra.
Sollevo il mio bicchiere di succo e il ragazzo al bancone mi fa segno
con la testa che ha capito.
«Allora, che succede?» mi chiede Julien con un’aria molto seria.
«Niente di particolare. È mercoledì.»
«Si tratta della visita a tuo fratello, vero? Ma ci vai anche in altre
occasioni, no?»
«Accompagno mia madre, più esattamente.»
«Sei sempre dell’idea di non volerlo vedere?»
«Già.»
«Okay, allora che cosa c’è che non va?»
«Perché me lo chiedi?»
«Thibault… ce l’hai scritto in faccia. E non mi avresti chiamato
alle sei del pomeriggio, sapendo che mi occupo io di Clara il
mercoledì sera, se non fosse stato importante.»
«Come sta Clara? Spero di non avervi scocciato troppo, te e
Gaëlle.»
«Non preoccuparti, Gaëlle mi ha dato il cambio senza problemi,
e Clara sta benissimo. È in perfetta salute, il pediatra ha detto che è
in piena forma. Sei sempre dell’idea di diventare il suo padrino?»
«Ma certo. È un tesoro, tua figlia, come potrei cambiare idea? E
se continua così andrà a finire che un giorno la sposerò!»
«Ah ah.» Julien ride. «Okay, allora si tratta di donne?»
«No. Cioè… Forse. Ma non ha niente a che vedere con quello che
puoi pensare.»
«E con che cosa allora?»
Appoggio il bicchiere e sprofondo nella sedia.
«Con una ragazza, alcuni suoi amici, mio fratello, la polizia, fili
ovunque, del gelsomino e dei viaggi in macchina fino all’ospedale.»
«Caspita! Aspetta, non ti ho seguito.»
Il cameriere arriva con una birra e il mio succo di pera. Lo
ringraziamo e, nel riempirmi di nuovo il bicchiere, ne verso un po’
sul tavolino che pulisco in modo maldestro.
«Mi chiarisci un po’ la faccenda, per favore?» chiede Julien.
«Sì… aspetta.»
Ho le mani appiccicose e prendo un fazzoletto dalla borsa. Ne ho
sempre con me da quando accompagno mia madre in ospedale.
«È una cosa che mi è appena successa.»
E gli racconto il mio avventuroso pomeriggio. Julien rimane in
silenzio e mi ascolta paziente. Quando ho finito, mi guarda senza
parlare.
«Non dici niente?»
«Be’, che cosa vuoi che dica?» mi risponde. «È piuttosto buffo!»
«Buffo?» Non avrei usato questa parola.
«Okay, curioso può andare? Ma quello che mi interessa è perché
ti sconvolge tanto. Hai sbagliato stanza, tutto qui!»
Julien sta aspettando che mi spieghi. Gli darò la risposta che ho
in mente da tre ore.
«Perché vorrei scambiare di posto quella ragazza e mio fratello?»
Julien è preoccupato. Glielo leggo negli occhi.
«Stai dicendo che vorresti che lei fosse cosciente e tuo fratello in
coma?»
«Esattamente.»
«Il motivo lo sai benissimo.»
«No, non lo so.»
«Smettila, Thibault. Non hai mai mandato giù il fatto che tuo
fratello abbia investito quelle due ragazzine. E sinceramente
nessuno può volertene per questo. Al tuo posto sarei nella tua stessa
condizione. Quella ragazza, Elsa, sembra okay e tu vorresti che si
risvegliasse come tutti quelli che hanno un cuore sulla faccia della
terra. Quindi è normale pensarlo.»
«Un cuore… Non voglio rivedere mai più mio fratello e tu pensi
che io abbia comunque un cuore?»
«Tutti hanno un cuore, Thibault. Dipende poi da cosa uno decide
di farne. Il tuo è ridotto in mille pezzi dopo Cindy. E in un milione
dopo quello che è successo con tuo fratello. Stai dicendo a te stesso
che se tu facessi qualche cosa per risvegliare quella ragazza, questo
forse ti permetterebbe di rincollarne qualcuno. Inizia a perdonarti
per il fatto di pensare questo di tuo fratello.»
Sono sbalordito, come sempre, ma è per questo che Julien è il
mio migliore amico. Per la prima volta in un anno sento le lacrime
salire agli occhi, ma no, non posso. Non qui. Non in un pub
affollato. Non di mercoledì sera.
«Vieni, usciamo» mi dice Julien.
«Come?»
«Stai per crollare.»
Julien svuota il bicchiere e mi costringe a finire il mio succo
velocemente. Due minuti dopo, siamo sul marciapiede bianco.
Aveva ragione, si gela. Julien mi prende per un braccio e mi trascina
un po’ più in là rispetto alla porta. Non vedo nulla, ho come un velo
davanti agli occhi e so che non è neve.
«Dài» mi dice.
Crollo. Due ragazzi, l’uno tra le braccia dell’altro, li si vede di
rado in strada. Spesso si pensa siano gay. Ecco, se passa qualcuno,
che pensi quello che vuole. Voglio solo liberarmi di tutta quest’acqua
che mi offusca la vista. Voglio sputare tutta questa saliva che mi
riempie la bocca. Voglio urlare la mia disperazione al mondo intero.
Mi accontento di piangere sulla spalla di Julien mentre lui mi
abbraccia. Sono mesi che non sento il calore di qualcuno. Quello del
proprio migliore amico è davvero confortante. Dura pochi minuti,
poi il freddo riprende il sopravvento. Julien mi porge un fazzoletto,
ne ha sempre con sé anche lui, ma per via della nascita di sua figlia.
«Vieni da noi?» chiede.
«Scusa?»
«Vieni a dormire da noi stasera, non ti lascio andare a casa in
questo stato.»
«Non ho bevuto, non stirerò nessuno.»
«Lo so che non hai bevuto! Sei sempre stato sobrio, e da un mese
a questa parte più che mai, ma sei troppo confuso per restare solo
questa notte. Dove hai la macchina?»
«Al parcheggio a pagamento qui accanto.»
«Okay, dammi le chiavi, guido io.»
Obbedisco senza fiatare e seguo Julien fino al parcheggio. Pago
la tariffa per la sosta e mi siedo dal lato del passeggero. Fa sempre
uno strano effetto nella propria auto.
Julien guida bene. Mi lascio cullare. Non abita lontano, quindi
dura poco. Mi ha raggiunto a piedi. Quando entriamo in casa, la
moglie ci accoglie con un sorriso.
«Thibault!» esclama sottovoce. Sicuramente la bambina sta
dormendo.
«Buonasera, Gaëlle» le rispondo sorridendo. «Scusa
l’intrusione.»
«Non ti scusare» mi dice baciandomi sulle guance. «Julien mi ha
avvisata per telefono. Ti ho preparato il letto nella camera di Clara.
Dovrai solo cercare di non russare troppo forte e mi spiace ma sarai
svegliato verso le quattro del mattino per il biberon.»
«Nessun problema, è la mia principessina, non me la prenderò.
Ma… Julien ti ha avvisata? Quando lo hai fatto?» chiedo girandomi
verso di lui.
«Con un S M S dal cellulare mentre tu piangevi tra le mie braccia.»
«Bastardo, allora non ti stavi dedicando completamente a me!»
«Mi stavi rovinando la giacca, dovevo trovare in fretta una
soluzione.»
«Quando avete finito di punzecchiarvi» ci interrompe Gaëlle
«guardate che è rimasto qualche cosa da mangiare in cucina.
Thibault, ti ho preparato un asciugamano se vuoi farti una doccia.»
«Grazie, Gaëlle, sei gentilissima.»
«Faresti lo stesso per noi.»
«Comunque, grazie.»
Mi tolgo la giacca e le scarpe mentre loro si scambiano un bacio
veloce e due o tre informazioni sulla piccola. Gaëlle mi dice che
posso andare da Clara e appoggiare le mie cose, tanto non dorme
ancora.
Quando entro nella camera, sono in un’altra dimensione. Prima
c’era lo studio di Julien; ora ha spostato tutto in soggiorno, anche se
il divano letto è finito di qua. È rimasto solo un divanetto normale in
soggiorno perché è impossibile farci stare un materasso.
Il loro appartamento non è grande, ma hanno riservato un posto
di prima scelta alla figlia.
Mi affaccio sul lettino con le sbarre. Clara mi vede arrivare come
un extraterrestre. Muove piano le dita e mostra il suo visetto
d’angelo. L’hanno fatta davvero bene, Gaëlle e Julien.
Lascio la mia principessina e mi guardo intorno. Il divano letto è
aperto, il piumone e il cuscino sembrano davvero comodi. Mi fa
persino più piacere della ragazza che ha tentato di rimorchiarmi
prima. Esco piano dalla camera e mi trascino la porta alle spalle.
Gaëlle è in sala a guardare la tivù e Julien mi sta aspettando in
cucina.
Esito nel sedermi a tavola, ma adesso che le lacrime sono scese
mi rendo conto di avere una fame tremenda. Durante il pasto
parliamo del più e del meno. Tanto di Clara, ma è ovvio, un figlio
diventa la tua priorità. Mentre Julien e io sparecchiamo, Gaëlle ci
dice che va a dormire. Dovrà alzarsi verso le quattro, quando la
piccola piangerà perché vuole il biberon. Le propongo di farlo io per
permetterle di dormire.
«Lo faresti?»
«Volentieri. Devo essere un padrino esemplare, no?»
«Fantastico, grazie mille. Riusciremo a dormire per una notte
intera tutti e due.»
«Dove trovo l’attrezzatura?» chiedo guardando la cucina.
«È tutto lì» mi risponde Gaëlle indicando un angolo del piano di
lavoro. «Dovrai solo scaldarlo a bagnomaria.»
Gaëlle ci bacia e va in camera. Dico a Julien che mi faccio una
doccia.
L’acqua calda mi fa infinitamente bene. Mi attardo un po’, anche
se so che è dannoso per il pianeta. È davvero un’eccezione, e poi non
sto bene, quindi per oggi il pianeta…
Quando esco, Julien mi dice che va a letto anche lui. Rimango
davanti alla tivù per un attimo, dopodiché spengo tutto. Non ho libri
con me, ma tanto non sono nemmeno sicuro di avere voglia di
leggere.
Entro in silenzio nella camera di Clara e mi infilo sotto il
piumone. Il contatto con le lenzuola mi gela. È meraviglioso quando
c’è qualcuno a scaldarle, ma io questo qualcuno non ce l’ho e, per
l’ennesima volta, mi domando se sono pronto a cercarlo.
Sento i bisbigli di Julien e Gaëlle attraverso le due porte
socchiuse. Poi il fruscio delle lenzuola. Credo di avere concesso loro
molto di più di una notte intera di sonno. Non mi infastidisce
sapere che fanno l’amore nella stanza accanto. So che stanno
condividendo un momento meraviglioso.
Mi addormento ma, verso le due, ho di nuovo gli occhi sbarrati.
Mi giro nel letto cercando di non fare rumore. La visita in ospedale
mi ruota nella testa come i vestiti in una lavatrice. Lentamente, i
minuti passano, e a un certo punto sento Clara che si agita. Vado in
cucina a scaldare il biberon e poi torno con il cuscino per
l’allattamento. Non so a chi è venuto in mente, ma è straordinario
per evitare di massacrarsi i muscoli durante la poppata del neonato.
La prima volta che ho dato il biberon a Clara senza questo affare ho
faticato parecchio. Julien riesce a farne a meno. A me è
indispensabile.
Prendo delicatamente Clara prima che si metta a piangere sul
serio e la sistemo tra me e il cuscino. Mi sono rimesso a letto,
appoggiato al muro per stare più comodo. Lei preme la sua
boccuccia sulla tettarella. Il rumore della suzione pian piano mi
culla. Quando ha finito, appoggio di lato il biberon. Ci
riaddormentiamo così, l’una tra le braccia dell’altro.
5
ELSA

Mi chiedo fino a quando potrò solamente udire. Mi chiedo se un


giorno mi risveglierò davvero. So che secondo i medici non sono
praticamente in grado di respirare da sola. So che fanno test regolari
durante i quali resisto solo qualche ora prima che mi considerino di
nuovo troppo debole per riuscire a respirare da sola. Il
funzionamento del corpo è davvero particolare. Ma anche
miracoloso. Come posso continuare a respirare per diversi minuti se
non sento assolutamente nulla?
Questa è un’altra cosa che dovrò chiedere se uscirò dal coma. Ne
vedrà delle belle il mio medico che si fa vivo una volta ogni otto
giorni. Subirà un vero e proprio interrogatorio.
È sabato. Sono passati tre giorni da quando è venuta mia sorella,
ne mancano quattro prima che torni. Magari i miei genitori oggi
passano. In fondo mercoledì era il mio compleanno.
Ed è stato carino. Ho potuto ascoltare i miei amici che non
venivano da un po’. Ho potuto immaginarli mangiare la torta,
soffiare sulle mie candeline e aprire il mio regalo. E ho potuto
scoprire una persona.
Thibault. Ho memorizzato il nome. È strano, avevo paura di
dimenticarlo. Invece la memoria non è per nulla intaccata dal mio
stato vegetativo. Ma avevo paura lo stesso. E per la prima volta da
sei settimane non ho rivissuto in sogno il mio incidente. Non ho
proprio fatto sogni. Solo uno stato buio e profondo. Abbastanza da
definirlo riposante.
Questa mattina l’inserviente è passata a pulirmi, come ogni
giorno. Mi ha lavata quasi tutta. Mi ha sistemato i capelli,
finalmente, spero non abbia fatto un disastro orrendo. Ho i capelli
abbastanza docili, ma occuparsi di un corpo inerte non è così
semplice. L’ho sentita spazzolarli, poi non ne so molto. Non è
sempre facile sapere che cosa combinano le persone intorno a me.
Ci vogliono dei riferimenti per fare paragoni. Ma poiché non ho
alcun ricordo di mia madre mentre mi spazzola i capelli, non sono
in grado di dire che cosa ha fatto l’inserviente. Però so che si è
dimenticata di mettermi il burro di cacao perché non ho sentito il
fruscio viscido della pasta sulle labbra. Ventiquattro ore, non è un
dramma, e non è che dovessi parlare con qualcuno, ma a dire il vero
ci tengo alle mie labbra.
Al lavoro, ne facevo sempre fuori un tubetto in meno di un mese.
Alcune persone sfoderano il cellulare in strada per qualsiasi cosa, io
sfodero in continuazione il burro di cacao in montagna. Altrimenti
mi ritrovo del cartone intorno alla bocca, e non è piacevole.
Per chi? chiederete voi. Per me. Non per gli uomini che baciavo,
quanto piuttosto per me che li baciavo. Il contatto delle labbra tra
loro è un vero miracolo. Mi piace baciare, non ci posso fare nulla. In
compenso, niente rossetto, mai, nemmeno per le grandi occasioni.
Intorpidisce i sensi.
E oggi l’inserviente se n’è dimenticata. Credo che l’abbia
chiamata qualcuno in corridoio. Si è affrettata a finire e se n’è andata
di corsa. Dopo, sento solo il trambusto di un pomeriggio in
ospedale. C’è molta gente in visita il sabato. A parte da me.
Ah, no. Perdono, ho detto una fesseria. Sento la maniglia della
porta. Riconosco la camminata di mia madre e quella, più pesante,
di mio padre. Bisbigliano tutti e due. Non mi piace. Sembra siano
appena entrati in un obitorio. Vorrei gridare che sono ancora lì, viva,
accanto a loro, ma continuano a parlare a bassa voce, come se non
volessero farsi sentire da me.
«… ha il diritto di porsi la domanda. Sono passati quasi cinque
mesi, Henry.»
«Come puoi parlare così?»
Il brontolio di mio padre si distingue anche quando bisbiglia.
«Mi metto nei suoi panni» gli risponde mia madre. «Che cosa
penserei di tutto questo? Persevererei?»
«Come puoi immaginare di essere nei suoi panni?»
«Ci provo! E smettila di contraddirmi solo per farmi saltare i
nervi!»
«Cerco di esaminare i pro e i contro. Stiamo parlando di staccare
la spina a nostra figlia. Non del colore del nostro nuovo tappeto!»
Se potessi sentire il sangue scorrermi nelle vene, lo avrei sentito
anche fermarsi. Prima di tutto perché mio padre ha preso più o
meno le mie difese. E poi perché i miei genitori stanno discutendo
dell’eventualità di spegnere gli apparecchi che mi tengono in vita.
«Ma potrebbe continuare a respirare» azzarda mia madre.
«Succederà come le altre volte: nel giro di due ore andrà in
asfissia.»
«Magari non vuole più lottare.»
«Smettila di pensare al suo posto» ribatte mio padre. «Non ne sai
nulla.»
«Henry!»
«Cosa?»
«Devi rifletterci seriamente!»
C’è un attimo di silenzio. Non so se mio padre ha risposto con un
cenno o se ci sta ancora rimuginando.
«Va bene, ci rifletterò. Ma non oggi.»
Mi sottraggo deliberatamente al seguito della loro
conversazione. Sono altrove. Divago, deliro quasi, sola con i miei
pensieri. C’è da andare fuori di testa a parlare con se stessi.
Ascoltare gli altri a volte genera ancora più confusione.
Mi rendo conto di nuovo della loro presenza quando si alzano
per andarsene. Devo smetterla di fare così. Queste persone vengono
qui per vedermi, per parlare con me. Sperano forse che le ascolti. È il
caso di mia sorella, almeno. E io dedico loro solo cinque minuti di
attenzione, quattro all’inizio e uno alla fine. Ma, tutto sommato,
posso fregarmene. Come potrebbero venire a saperlo?
I miei genitori lasciano la stanza. Non mi danno nemmeno un
bacio o forse era talmente lieve che non sono riuscita a coglierlo.
Mi appresto a rimanere di nuovo sola con me stessa quando la
maniglia cigola di nuovo. Mia madre deve aver dimenticato qualche
cosa da vestire o un foulard. Ma non è il suo passo, e nemmeno
quello di mio padre. È più leggero e al tempo stesso esitante. Non
può essere mia sorella, perché lei si sarebbe fatta subito riconoscere.
Forse è l’inserviente che è venuta a finire il lavoro di questa mattina.
Chissà, magari si è ricordata che non mi ha messo il burro di cacao.
«Buongiorno, Elsa.»
Il sussurro mi giunge alle orecchie come un vento leggero. Il
nome si riaffaccia alla mia mente con la forza di una tempesta.
Thibault. È tornato. Non so perché. Voglio credere che sia perché gli
andava. Poco importa, è qui, per me è una novità, anche se viene solo
per dormire.
«C’è sempre un forte profumo di gelsomino in questa stanza. Ma
chi è che te ne mette tanto?»
L’inserviente, avrei voluto rispondere, con il flacone di olio
essenziale che le ha dato mia madre. Forse ha la mano un po’
pesante.
«Non importa, comunque è un buon profumo.»
Lo sento togliersi la giacca, lo sento anche slacciarsi le scarpe. Ha
intenzione di mettersi a proprio agio, il che significa che si fermerà.
Vorrei fare salti di gioia.
Le scarpe vengono messe in un angolo, la giacca sul mobile
dietro. Stessa sorte tocca a un maglione o una felpa. Deve fare caldo
nella mia stanza. Ne ho conferma qualche istante dopo.
«Che caldo che fa qui dentro! Rimango in maglietta, non ti dà
fastidio? Non preoccuparti, smetto di spogliarmi, bisogna
comunque essere educati.»
Lo ascolto avidamente, anche se fatico a comprendere il suo
comportamento, il suo aspetto, il suo carattere. Perché è tornato?
«Ti starai chiedendo perché sono qui, eh? Ho accompagnato mia
madre a trovare mio fratello. È nella stanza 55, non so se ti ricordi. E
comunque non vedo perché dovresti ricordarti qualcosa. Di certo
non senti nemmeno quello che dico, e scommetto che se ti toccassi il
braccio non sentiresti nulla. Cristo, sto parlando da solo… Che mi
prende?»
Capisco il suo sgomento, ma vorrei lo stesso prenderlo a schiaffi
per chiarirgli le idee e dirgli di continuare a parlare. Non gliel’ha
spiegato nessuno che bisogna parlare alle persone in coma?
«Non so niente del coma» riprende all’improvviso. «Non ho mai
conosciuto nessuno in questo stato e, se posso evitare, preferisco. Mi
sembra mi abbiano detto che si può parlare, quindi parlerò. Ma non
ho la minima speranza che tu mi senta. Potrebbe non essere un
male, si tratterebbe di una seduta di psicoterapia gratuita con la
certezza che nessuno potrà riferire quello che dirò. Prima aprirò la
finestra, perché persino io che sono freddoloso ho un caldo assurdo.
Non ti chiedo il permesso di farlo, tanto non potresti darmelo.»
Sono piacevolmente sorpresa. È la prima volta che qualcuno non
si dimostra accondiscendente con me. In genere tutti quelli che
vengono a trovarmi fanno i numeri per comportarsi in modo
educato, gentile e per essere completamente al mio servizio.
Thibault è il primo che ritiene che dopotutto, visto che sono ridotta
a un vegetale, non c’è bisogno di fare salamelecchi per rimanere
nella mia stanza.
Sento la finestra scorrere e l’aria intrufolarsi. Mi immagino di
rabbrividire.
«Brrr! Meglio che mi sposti!» esclama Thibault. «Ecco, qui va
meglio» aggiunge trascinando una sedia sul lato sinistro del mio
letto.
Riecheggia una suoneria appena soffocata.
«Cazzo, non ho spento il telefono. Scusami, rispondo. Anche se
non te ne frega niente.»
Vorrei ridere. E all’improvviso vorrei piangere. O piuttosto vorrei
che il mio corpo fosse capace di piangere. Non di tristezza ma di
gioia. Thibault è la prima persona che mi ha fatto venire voglia di
ridere in sei settimane. Nemmeno le barzellette idiote del
presentatore radio della donna delle pulizie ci erano riuscite.
Non appena risponde, lo sento trasformarsi in consulente
ecologico.
«Aspetta, che cosa stai dicendo? No, quel dossier non è stato
ancora approvato! La fornitura d’acqua non è approvata… Sì, lo so
che per un progetto eolico ce ne freghiamo ampiamente della
fornitura d’acqua, ma è la legge… Che? I superiori ti fanno
pressione?… Ah, mandali al diavolo. Quindi?… Ah… Senti, è
sabato, rilassati. La terra non esploderà da qui a lunedì, a patto che
un diplomatico da strapazzo non si diverta a far saltare un ordigno
nucleare. E in quel caso avremo il Carnevale con due mesi d’anticipo.
Non daremo più nessuna importanza a questo progetto eolico.
Quindi tira il fiato, e lo guarderemo insieme lunedì mattina. Posso
venire prima se vuoi. Ti fa stare più tranquillo?… Okay, facciamo alle
sette allora. Ma dovrai risarcirmi per la levataccia… Be’, non so… Un
succo di pera?… Sì, volentieri!»
Thibault si mette a ridere. Mi sembra il suono più bello che io
abbia mai sentito. Disegno subito nella mia mente questa risata.
L’associo a una fiamma scintillante, a delle ali dorate che si sollevano
e si abbassano al suono della sua voce. A ogni esplosione di risa,
rischiarano progressivamente il buio che mi circonda. Mi aggrappo a
queste ali nello spazio di un momento. Quando la sua risata si
spegne, io sparisco come le fiamme. Thibault riprende la sua
conversazione.
«A lunedì alle sette allora!»
Riattacca e digita qualcosa sul telefono.
«Ecco, è spento. Non ci disturberà più. Cioè, non mi disturberà
più.»
Lo sento sistemare il cellulare in una tasca della giacca e sedersi
di nuovo sulla sedia di plastica.
«Non sono per niente comode queste sedie. Potrebbero mettere
qualche cosa di imbottito. A te non frega nulla ma per le persone
che vengono a trovarti sarebbe meglio. Forse si fermerebbero di
più.»
Quello che sta dicendo Thibault non è così stupido, ma dubito
che si prenderà la briga di andare a riferirlo al personale
dell’ospedale.
«Sono sicuro che se tu ti ci sedessi sopra la penseresti allo stesso
modo. Se ti va, un giorno proviamo. Se puoi, soprattutto. Non so
nemmeno come ho fatto a addormentarmici sopra l’altra volta!»
Scivola sulla sedia e appoggia i piedi sulle mie lenzuola. Qualche
attimo dopo respira profondamente. Ma come fa a addormentarsi
così velocemente? Le sue notti devono essere meravigliose! O forse
no, e per questo si rifà nel pomeriggio.
Fatto sta che, come la prima volta, lo ascolto respirare. A lungo.
Sento anche il vento. Dev’esserci un albero non molto distante
dalla mia stanza. Mia sorella mi descriveva il colore delle foglie in
autunno. Forse sono le stesse foglie che stanno cadendo ora. Vorrei
poter sentire lo scricchiolio della ghiaia e le conversazioni di sotto
ma mi trovo al quinto piano. Vorrei sentire il rumore del traffico, i
colpi di clacson, ma lo sanno tutti che non si può suonare nei
dintorni degli ospedali.
Ho freddo.
No. Che cosa dico? Non posso avere freddo. Ho solo immaginato
di avere freddo.
Forse mi addormento per un attimo. In realtà non lo so, perché
sento sempre la stessa cosa. Il vento e il respiro morbido di
Thibault. Vorrei che si svegliasse per parlarmi ancora in quel modo
privo di condiscendenza. Il mio desiderio si realizza pochi istanti
dopo, quando lo sento muovere.
«Argh… Non è per niente piacevole.»
Deve stropicciarsi gli occhi e stirarsi togliendo i piedi dal letto.
«La prossima volta mi porto un cuscino!»
Pensa di tornare. Se solo potessi urlare di gioia.
«E la prossima volta non apro la finestra. Tu forse non hai sentito
ma là fuori si gela sul serio! Lascia che mi infili qualcosa prima di
andare a chiudere.»
La finestra scorre. Il vento smette di far danzare le foglie.
«Mia madre si starà chiedendo dove sono finito. Soprattutto visto
che le avevo detto di chiamarmi. Che idiota!»
Cerca il telefono e lo riaccende. Una suoneria segnala la presenza
di un S M S .
«Ecco, infatti. Mi sta aspettando. Solo da due minuti. Per fortuna!
Okay, devo andare.»
Si allaccia le scarpe, mette la giacca, infila i guanti. Quel suono lo
conosco bene, l’ho sperimentato tante volte sulle mie mani, lo
riconosco senza difficoltà. Thibault si avvicina, so che cosa sta per
succedere e ne gioisco in anticipo.
«Vieni qui che ti do un bacio. Insomma, si fa per dire.»
Come il primo giorno, sposta i fili che mi collegano alle
apparecchiature elettroniche. Il suo bacio dura un pochino di più di
quello della volta precedente e lo colloco all’incirca al centro della
guancia. È l’unico che osa spostare tutta questa roba.
«Le tue guance sono fresche. Forse non avrei dovuto aprire la
finestra. Ma… Non sono labbra le tue!» esclama raddrizzandosi. «È
carta di giornale! Oh, Cristo, non sono pagate per questo le
infermiere?»
Si allontana e sento sbattere le ante di un armadio.
«Non lasciano davvero nulla qui! Mio fratello ha le labbra di
un’attrice americana dopo il botox, e tu? Si dimenticano di te? Non è
normale. Le vorrebbero baciare tutti, le tue labbra!»
Poi, di colpo, cala il silenzio. Ho la sensazione che abbiano
tagliato l’audio, invece no, sento un po’ di baccano nel corridoio. Mi
chiedo perché Thibault si sia interrotto così bruscamente. Forse ha
trovato il burro di cacao.
«Userò il mio.»
No, non l’ha trovato. E, stranamente, la sua voce è cambiata. È
meno dinamica, più bassa. Quasi a disagio.
«Ecco. Così va meglio. Non ho mai messo del burro di cacao sulle
labbra a nessuno. Non ho nemmeno mai messo del rossetto alle mie
ex, a essere precisi, quindi mi sembra accettabile. E anche se non sei
d’accordo, non cambia nulla.»
Il tubetto si richiude con un lieve clic.
«Vado. Alla prossima? Mmh… Non mi rispondi comunque. Non
mi resta che immaginarti mentre mi dici di farmi vedere presto,
sarebbe bello. Così non dovrei spiegare al mio migliore amico che
sono tornato a trovarti senza sapere perché.»
Si ferma lì. Sento un sospiro. Lo interpreto come un arrivederci.
Immagino stia sorridendo. Possibilmente con sincerità e non con
tristezza. I passi si allontanano, la maniglia cigola, la porta si
richiude.
Non vedo l’ora che arrivi la settimana prossima.
6
THIBAULT

«Dov’eri?»
«In giro.»
«Ah.»
Mia madre abbassa la testa e si guarda le punte delle scarpe.
Deve conoscerle a memoria, visto il tempo che dedica loro da un
mese a questa parte.
«Che cosa hai fatto?» prosegue.
«Ho dormito.»
«Ah, sì?»
«Sì.»
Non ho mentito, ma so che il piccolo interrogatorio durerà
ancora un po’. Devo soppesare ogni parola per non dover vuotare
completamente il sacco.
«Hai trovato un posto dove poter dormire?» si meraviglia.
«Un posto. Tranquillo.»
Anche in questo caso non ho mentito. Ho persino aggiunto
un’informazione nella speranza che si fermi lì e, in effetti, ha
funzionato.
A mia madre piace fare domande, ma si rassegna piuttosto
facilmente. Non so se è rassegnazione quella che prova nei confronti
di mio fratello. Non ho davvero idea di cosa provi, in realtà, al di
fuori di quella tristezza che traspare da ogni suo gesto e ogni suo
sguardo. Mi sento inadeguato. Mia madre è nella disperazione più
totale accanto a me, e io non faccio niente di più che dormire da lei
tre volte la settimana. Nemmeno lei fa nulla per me, ma sarebbe a
dir poco egoista chiederle di occuparsi di me in un momento simile.
Così mi butto.
«Come stai?»
La mia domanda la sorprende, tanto che smette di camminare
anche se mancano solo quattro metri per raggiungere l’auto.
«Perché me lo chiedi?»
«È tempo che lo faccia, no? Allora, come stai?»
«Male.»
«Questo lo avevo capito. Vorrei conoscere i particolari, mamma.»
Mi guarda come se volesse scovare la fregatura dietro un’offerta
promozionale. O come se avessi otto anni e lei stesse cercando la
marachella dietro la mia espressione d’angioletto.
«Tuo fratello è un “assassino della domenica”, ma è pur sempre
mio figlio.»
È come una doccia fredda. Il suo tono è il più neutro possibile.
Per tutto questo tempo ho creduto che fosse debole e che non
riuscisse a gestire le proprie emozioni. Mi sono tristemente
sbagliato. Mia madre è la persona più forte che conosco, piange solo
con un po’ troppa facilità.
«Come riesci a conciliare le due cose?» le chiedo.
«Grazie all’amore che provo per lui, che è esattamente lo stesso
che provo per te.»
«Ti basta per riuscire a perdonarlo?»
«Non sta a me perdonare chicchessia…»
Conosco il seguito a memoria perché l’ho già sentito un sacco di
volte.
«Perché non spetta a te giudicare» finisco la frase.
Scuote la testa.
«Non abbiamo, né tu né io, alcun giudizio da avanzare. Tuo
fratello ne ha già abbastanza a giudicare se stesso. E anche se ho
passato la vostra infanzia a dire a tutti e due di non giudicarvi, ecco,
devo riconoscere che è una cosa piuttosto positiva che abbia tanto
tempo per riflettere. Ci sono se ha bisogno di me. Rimpiango solo di
non essere stata abbastanza severa nella sua educazione da fargli
capire che non avrebbe dovuto mettersi alla guida un mese fa.»
«Con me ha funzionato.»
«Con lui no.» Sospira.
«Non fartene una colpa!»
«Non me ne faccio una colpa. Mi dispiace che le vite di due
adolescenti siano state portate via. Ora tuo fratello è adulto. Deve
vedersela con la sua coscienza.»
Riprende a camminare e si ferma accanto alla portiera dal lato
del passeggero. Mi avvicino a mia volta e apro la macchina. La sua
testa sporge al di sopra del tettuccio.
«Allora perché piangi così tanto?» le chiedo senza guardarla.
«Perché mio figlio non sta bene.»
«È colpa sua!» ribatto.
«Certo, ma non sta bene, e il mio compito di madre è stargli
accanto.»
«Quindi tu andrai a trovarlo come fai ora fino a quando ci sarà il
processo e continuerai anche quando sarà in prigione?»
Sento la collera montare dentro di me, il mio tono diventa
sempre più aggressivo.
«Sì» risponde in un sussurro.
Apre la portiera e si siede all’interno. Sono ancora fuori, la mano
sulla maniglia. Faccio un respiro profondo per calmarmi ed entro a
mia volta in macchina.
«Capirai quando avrai dei figli» mi dice non appena sono seduto.
«Per ora non ne ho.»
«Per ora…» ripete lei.
La conversazione si ferma lì. Ho i nervi a fior di pelle. Ma, per la
prima volta, c’è qualcosa di positivo: mia madre non piange. Penso
che il nostro scambio di idee l’abbia scossa. Non immagina a che
punto abbia scosso me.
La lascio davanti a casa sua un quarto d’ora dopo dicendole che
rimarrò per qualche notte nel mio appartamento. Ne prende atto
senza mostrare alcuna emozione. Ho l’impressione di avere
riportato a casa un corpo vuoto. In fin dei conti, preferivo quasi
quando piangeva.
Arrivo a casa congelato. Il riscaldamento della mia auto è
capriccioso e oggi è giorno di sciopero. Mi faccio una doccia bollente
per ritornare a una temperatura normale e ne esco con la pelle
arrossata. Nello specchio, i miei capelli sono un disastro. So che
tentare di renderli docili è tempo perso.
Prendo il rasoio e affronto quel po’ di barba di tre giorni. Non è
nelle mie abitudini radermi di sabato. In genere lo faccio di lunedì,
prima di andare al lavoro. Ma in questo momento mi va.
Credo che sia soprattutto perché mi tiene occupate le mani
mentre la mia mente si agita. Infatti, non appena ho finito di
radermi, inizio a fare le pulizie del mio appartamento.
Ripenso a quello che mi ha detto mia madre. “Capirai quando
avrai dei figli.” Tra tutte le incertezze di questo periodo, è l’unica
cosa di cui sono sicuro. Voglio dei figli. La nascita di Clara ha
cancellato ogni dubbio. Anche nei miei amici, che aspettano
disperatamente che io trovi l’anima gemella. Se solo volessero capire
che non la cerco ancora…
Quando ho dormito da Julien, l’altra notte, mi sono
addormentato con Clara tra le braccia. È stata Gaëlle a sorprenderci
tutti e due verso le otto del mattino. Ci ha fatto anche una foto
prima di svegliarci. Ce l’ho nel cellulare. La conservo gelosamente.
Così potrò far vedere alla mia figlioccia come il suo padrino la
stringeva a sé quando aveva solo pochi mesi.
Sto passando l’aspirapolvere e non sento subito il campanello.
Solo quando ho spento il motore degno di un aereo a reazione mi
accorgo che qualcuno sta insistendo alla porta. Mi infilo una
maglietta e rischio di inciampare con i piedi nel cavo
dell’aspirapolvere mentre raggiungo l’ingresso.
«Buong… Cindy?»
La mia ex mi sta di fronte, il suo carré biondo sempre così
impeccabile, il suo vitino da vespa ancora più sottile di quanto mi
ricordassi. Rimango sbalordito, la bocca socchiusa, la mano
immobile sulla maniglia.
«Buongiorno, Thibault» mi risponde. «Posso entrare?»
Balbetto come un idiota e finisco per farmi da parte indicandole
il soggiorno. Cindy mi passa davanti e mi dà un bacio sulla guancia.
Richiudo la porta, sempre muto. Quando mi volto, si sta togliendo il
cappotto e le scarpe con il tacco. Riconosco le autoreggenti nere e la
gonna che indossa. La camicetta è nuova, e devo ammettere che le
sta benissimo.
Si accorge che la sto guardando e sorride. Ritorno in me e corro a
infilarmi un paio di pantaloni.
«Cosa fai?» mi chiede.
«Mi vesto» le rispondo dalla mia camera.
«Sei già vestito» mi fa notare.
«Non per ricevere qualcuno.»
«Oh, ma sono solo io. Ci siamo già visti nudi, i pantaloncini
andavano bene…»
So che ha ragione, ma preferisco lo stesso infilarmi i pantaloni.
Trovo un paio di jeans buttati su una poltrona e li indosso
velocemente. Quando torno in soggiorno, Cindy è seduta sul divano
e si massaggia i piedi.
«Che tortura questi tacchi!» si lamenta.
«Non ho mai capito perché li portate.»
«Perché fanno una bella linea. Secondo te no?»
«Io…»
«In ogni caso ti piacevano quando…»
Non finisce la frase. Non ne ha bisogno. Conosciamo tutti e due
il seguito. La mia educazione da ragazzo gentile e cortese mi salva
fiondandomi in cucina.
«Bevi qualcosa?»
«Berrei volentieri del vino se ne hai.»
«Dovrei averne da qualche parte, ma non ti garantisco nulla.»
«Ah, già, il signor Succo-di-frutta» aggiunge ridendo.
Frugo nei mobiletti e finisco per trovare una bottiglia. Risale di
sicuro alla nostra rottura, quando mio fratello aveva voluto
consolarmi con una festicciola improvvisata. Torno con due bicchieri
pieni. Uno di vino, l’altro di succo di pera.
«Tu cosa bevi?» mi chiede.
«Il solito.»
«Ah.»
Mi chiedo se si ricordi i miei gusti. Abbiamo vissuto insieme per
molto tempo, però mi è sempre sembrato che rimanesse sul
“generale”. All’inizio mi piaceva ma, riflettendoci, trovo che
mancasse di sincerità. Mentre io conoscevo ogni minimo dettaglio
sul suo conto, lei non si interessava ai particolari se non quando era
necessario.
«Okay, allora… Perché sei qui?» le chiedo dopo averle passato il
suo bicchiere.
«Oh, non perdi tempo!» esclama bevendo un sorso.
«Ammetterai che la mia sorpresa è piuttosto comprensibile, no?»
«Hai ragione. Ma passavo solo per avere notizie.»
Il libro-gioco si mette in moto nella mia testa. “Se Cindy è venuta
per avere notizie, andate a pagina 15.” Sono a pagina 15 e c’è scritto:
“Allarme!”.
«Ah» rispondo inespressivo. «Be’, come puoi vedere, non è
cambiato nulla.»
“O quasi” aggiungo tra me e me, ma non mi va di raccontarle dei
miei ultimi giorni.
«Come sta Julien?» mi chiede. «Gaëlle ha partorito?»
«Sì, la piccola Clara. È stupenda.»
«Gaëlle o Clara?»
«Tutte e due.»
Beve un altro sorso di vino e posa il bicchiere. Il mio telefono è
sul tavolo, proprio lì accanto.
«To’, se vuoi vederla» dico prendendolo.
Volevo passarle il telefono, ma Cindy si alza e viene a sedersi
accanto a me. Scorro le foto fino a quella di Clara e me
addormentati. Lei la osserva a lungo senza dire niente, poi mi
guarda.
«Molto carina. Quanto tempo è passato?»
«Solo qualche giorno.»
«Ah, hai dormito da loro?»
Annuisco con il capo. Ho l’impressione che anche lei abbia un
libro-gioco aperto. Il mio è fermo a pagina 80: “Continuate a essere
gentili”.
«E tu invece?» dico per evitare un silenzio troppo imbarazzante.
«Che novità hai?»
«Oh, ho cambiato zona, ma mi piace molto.»
«Su quale settore sei?»
«Sudovest.»
«Ma è dannatamente lontano da qui!»
«Sì, ma faccio ancora un po’ avanti e indietro. Come questo
weekend. A trovare la famiglia, gli amici.»
«Io faccio parte degli amici?»
Ecco, ho fatto una piccola deviazione a pagina 80, virando
momentaneamente su: “Dalle un po’ di fastidio”. Ma non sembra
scocciata dalla mia domanda.
«Ma certo!» esclama.
«Ah…»
«Perché, non sono un’amica?»
Puzza di domanda da un milione di dollari. Pagina 77: “Siate
sinceri”.
«È un po’ difficile dire che sei un’amica, dato il nostro comune
passato e in particolare il modo in cui è finita la nostra relazione.»
«Sei ancora arrabbiato con me?»
A dire il vero non lo so, ma non mi va di lanciarmi in spiegazioni
infinite.
«No, è tutto okay.»
«Allora perché non dovresti considerarmi un’amica?»
Mi fissa con i suoi occhioni. Se li è truccati in modo molto fine
per farli risaltare, e posso sentire il suo profumo. Non lo ha
cambiato, stando ai miei ricordi, riconosco la fragranza che ho
respirato per anni. Mi scosto leggermente per prendere un po’ di
distanza. Quand’è che si è avvicinata tanto?
«Eh, Thibault? Dimmi. Perché?»
La sua voce si è trasformata in un sussurro. Percepisco il suo
respiro e, coperto dal profumo, sento l’odore della sua pelle. I
ricordi si agitano nella mia mente e ho voglia di mandarli via. Ma
nello stesso tempo…
«Non… Non so. È… difficile?»
Trovo la mia risposta ridicola, ma è l’unica che riesco a dare.
Cindy mi squadra intensamente e, come in un flash, mi tornano
in mente tutte le altre volte in cui mi ha guardato così. Vedo lo
stesso ricordo attraversare i suoi occhi e il suo libro-gioco a scelta
multipla le dà una soluzione più rapidamente del mio. Un attimo
dopo le sue labbra sono sulle mie. Rispondo al bacio quasi per
riflesso.
Quasi.
Una parte di me si gode il contatto.
Un’altra ha voglia di vomitare.
Sento Cindy prendermi la mano e appoggiarsela sul fianco
mentre fa scivolare la sua lungo la mia schiena. Mi tira verso di lei.
La stendo bruscamente sul divano.
«Interessante» mormora fissandomi con desiderio. «Non sapevo
ti piacesse tanto prendere il sopravvento.»
«Sono molte le cose che non sai di me» rispondo con freddezza.
Vedo dai suoi occhi che il mio tono la sorprende. Mi affretto a
proseguire prima che il mio desiderio abbia di nuovo la meglio.
«Che ci fai qui, Cindy?»
Si irrigidisce. Evidentemente il suo libro-gioco non ha la risposta
per questo.
«No» proseguo «in realtà non è necessario che tu risponda.
Un’idea ce l’ho e, in sostanza, non mi interessa proprio.»
Mi alzo. Cindy è sempre stesa sul divano. Il suo sguardo è
cambiato. Mi osserva come se dovesse scegliere tra uno straccio e
una pezza. Non ce l’ho con lei, probabilmente do a vedere la stessa
cosa.
«Vattene.»
Resta zitta ma esegue. La guardo rimettersi le scarpe, chiudere
gli ultimi bottoni in alto della camicetta (quando li ha slacciati?). Le
porgo il cappotto e apro la porta prima che abbia il tempo di
metterlo.
«Sei cambiato» mi dice superando la soglia.
«Se tu ti fossi presa il disturbo di conoscermi, ti saresti
risparmiata la fatica di venire.»
«Almeno ho tentato…»
Sbatto la porta senza aggiungere nulla.
Il “siate gentili” l’ho dimenticato un attimo fa.
Sul tavolo, ci sono ancora il suo bicchiere pieno a metà e il mio
succo di pera che non ho nemmeno toccato. Prendo il calice, vado in
cucina e lo svuoto, faccio lo stesso con la bottiglia intera. Butto il
tutto nel secchio della raccolta differenziata: non ho voglia di
rivedere questo bicchiere un giorno.
Quando torno in soggiorno non oso nemmeno guardare il
divano. Vado in camera a cercare una coperta e gliela stendo sopra.
Va già meglio. Prendo il telecomando e accendo la tivù. Sorseggio il
succo di pera senza prestare davvero attenzione ai commenti del
presentatore.
È stato umiliante.
Ecco perché non cerco nessuno.
7
ELSA

È lunedì. Oggi non verrà nessuno a trovarmi. Queste giornate


senza visite sono diventate terribilmente lunghe. Soprattutto da
quando Thibault è entrato nella mia parvenza di vita. Con un po’ di
fortuna, tornerà a trovare suo fratello, o meglio porterà sua madre a
trovare suo fratello. Ma durante la settimana è probabile che lavori
troppo per trovarne il tempo.
Ascolto l’inserviente mentre fa il suo giro. Questa volta non
dimentica nulla. La trovo persino un po’ lenta lì per lì! Neanche mi
stesse preparando per una cerimonia o qualcosa di simile. Sembra
insistere sulle mie labbra, come se si fosse resa conto di averle
dimenticate l’ultima volta.
Finisce in silenzio, come durante tutto il resto della pulizia, poi
se ne va. Qualche minuto più tardi, la porta si apre rumorosamente
e un concerto di voci e scalpiccii entra nella mia stanza. Sono
impressionata dalla quantità di gente. Perché tante persone?
Capto qualche termine medico in mezzo al vociare. Quando ci
sono troppe informazioni, non riesco a capire che cosa succede. Ma
ho abbastanza fiuto (si fa per dire) per distinguere il primario e il
suo staff di interni. Il primario deve essere quello che ha appena
battuto le mani, perché il rumore subito diminuisce e il silenzio
viene gradualmente ristabilito.
Stando ai respiri, devo avere almeno cinque interni o
specializzandi intorno a me. Sono diventata un dannato caso da
manuale! Il primario è ai piedi del letto. Prende il portacartelle dove
sono riportati i miei “stati di servizio”, come amo chiamarli. È da un
po’ che nessuno ci scrive nulla.
«Ecco il caso 52» inizia il medico. «Traumi multipli, di cui uno
cranico. Coma profondo da quasi cinque mesi. Vi lascio leggere i
dettagli.»
Fantastico, sono diventata un numero, per di più di un caso
particolare…
Il portacartelle passa apparentemente di mano in mano senza
rimanerci più di qualche secondo. Dev’esserci una regola tra i
medici, quella di non tenere troppo a lungo un foglio sotto gli occhi.
Forse li infastidisce leggere tutta quella roba, o forse preferiscono
vedere con i propri occhi. O forse vengono formati per riuscire a
cogliere il nocciolo del problema in cinque secondi. Se così fosse,
dovrebbero rivedere il contenuto della loro formazione. Mi
piacerebbe che ce ne fosse uno disposto a chinarsi sul caso 52 per
più di cinque secondi, così scoprirebbe che sono in grado di udire.
«Ecco il suo cervello visto con la diagnostica per immagini.
Naturalmente si tratta degli scatti più significativi. Ho inserito quelli
fatti quando è arrivata a luglio e quelli di due mesi fa. Attendo i
vostri commenti.»
Stavolta ci mettono più di cinque secondi. Li sento bisbigliare ma
mi perdo i dettagli. Sono troppo tecnici per me e sento la tensione
che li attanaglia. Danno l’impressione di essere sotto esame.
«Allora?» chiede il medico. «Che cosa possiamo dire?»
Uno degli interni alla mia destra prende la parola.
«La diagnostica per immagini mostra dei miglioramenti tra
luglio e novembre?»
«È vero, ma mi sarebbe piaciuto sentire maggiori dettagli.
Dovete sempre giustificare perché pensate determinate cose.
Aspetto sulla mia scrivania le vostre argomentazioni scritte per
domani. Dovrete lavorare un po’ questa sera.»
Sento i mormorii di protesta, ma gli interni si calmano subito.
«Che altro?» riprende il primario. «Lei?» Si rivolge a un altro
interno. «Sì, Fabrice?»
«Possiamo essere franchi?
«Siamo sempre franchi, qui. Anche se non è sempre la verità.»
«Possiamo anche evitare i giri di parole?» chiede l’interno di
nome Fabrice.
«Tra noi, sì» risponde il primario. «In presenza dei parenti non è
pensabile. Sempre adattare i propri discorsi alle persone che avete
di fronte. Qui può farlo, la ascoltiamo.»
«Ehm… È fottuta?»
Sento dei sogghigni sommessi, ma le risatine si interrompono
presto.
«Decisamente senza giri di parole, Fabrice» fa notare il primario.
«Ma in effetti ha ragione. Secondo tutti i dati che ha a disposizione, i
commenti dei diversi medici che sono passati e l’assenza di
miglioramenti significativi nel corso degli ultimi tre mesi, questa
persona rasenta il due per cento di probabilità di remissione.»
«Solo il due per cento?» chiede il primo interno.
«Nell’ipotetica eventualità che si risvegli, non sappiamo in che
misura il trauma abbia danneggiato le sue capacità. Viste le zone
interessate, possiamo supporre il linguaggio, la motricità della parte
destra, un problema importante ai nervi deputati alla funzione
prensile, l’incapacità respiratoria che abbiamo già constatato, e…»
Mi sforzo di pensare ad altro. Tento disperatamente di prendere
le distanze da quanto sta dicendo il primario. Non voglio sentire
una parola di più. Tuttavia, ascoltare è l’unica cosa che sono ancora
in grado di fare e, per la prima volta, vorrei non fosse così.
Mi aggrappo a dei pensieri furtivi. L’unico che mi viene in mente
e su cui riesco a focalizzarmi è Thibault. Non so quasi niente di lui,
quindi posso immaginarmi un sacco di cose. Riesco a divagare per
un istante, ma la voce del primario finisce per riportarmi a lui.
«… quindi, due per cento.»
«Significa quasi zero, no?» chiede un interno che non avevo
ancora sentito.
«Sì, più o meno. Ma siamo scienziati e non ci muoviamo
nell’ambito del “più o meno”.»
«Quindi questo significa…» inizia l’interno.
«Significa zero» finisce il primario.
Un carrello cade rumorosamente nel corridoio, come per
ratificare il mio stato. Gli interni stanno scarabocchiando qualche
appunto. Il primario deve essere soddisfatto di sé. Il suo studio di
caso, il 52, è concluso. Può passare ad altro. Ma non sembra ancora
finita.
«Qual è la prossima tappa?» chiede.
«Mettere al corrente i familiari?» propone l’interno che aveva
parlato per primo.
«Esatto. Ho già iniziato da qualche giorno un approccio perché ci
riflettano.»
«Che cosa hanno detto? Se non sono indiscreto…»
«Che ci rifletteranno. La madre sembrava rassegnata, il padre
contrario. Vi capiterà spesso questo tipo di situazione. È molto raro
che i parenti siano tutti d’accordo. È un effetto di contraddizione
quasi naturale. Non si parla con leggerezza di smettere di
mantenere in vita artificialmente un paziente in stato di coma.»
Non mi piace il modo in cui il primario parla dei miei genitori,
ma devo ammettere che ha ragione.
«Trovo tuttavia che è proprio quanto abbiamo appena fatto» dice
all’improvviso l’interno che aveva parlato per primo.
Tendo ulteriormente l’orecchio. L’osservazione deve aver
sorpreso anche il primario, perché non risponde subito.
«Può spiegarsi meglio, Loris?» chiede poi con una voce che
vorrebbe essere neutra ma che fatica a nascondere una certa
tensione.
«I termini che abbiamo appena utilizzato, le approssimazioni
che abbiamo fatto. Lei sostiene che non bisogna parlare con
leggerezza di smettere di mantenere in vita artificialmente un
paziente in stato di coma, tuttavia mi sembra di aver sentito Fabrice
dire che è “fottuta” e credo di aver assistito a un passaggio dal due
per cento allo zero per cento. Se questo non è parlare con
leggerezza, credo che non ci esprimiamo nella stessa lingua.»
Se potessi muovermi, darei un bacio a questo interno. Ma prima
di tutto dovrei cercare di proteggerlo perché, visto il tono del
primario, penso che Loris avrà turni di guardia notturna per diverso
tempo.
«Vuole forse mettere in discussione la diagnosi dei suoi
compagni e futuri colleghi?»
«Non voglio mettere in discussione nulla, signore» si difende
l’interno. «Trovo solo strano essere così brutali con una persona che,
dalle ultime notizie, sta ancora respirando davanti a noi.»
«Loris» riprende il primario come se cercasse di dimostrarsi
paziente «se lei non riesce a sopportare il fatto di trovarsi a dover
staccare dalle macchine qualcuno, questo non è proprio il suo
reparto.»
«Non si tratta di sopportare o non sopportare, signore. Si tratta
di valutare i fatti. Lei dice due per cento. Per me significa due per
cento. Non significa zero. Fino a che non raggiungeremo lo zero,
ritengo che avremo ancora speranza.»
«Non è qui per sperare, Loris.»
«E allora per che cosa sono qui?» risponde l’interno, con un tono
volutamente insolente.
«Per concludere che questo caso è chiuso. Risolto. Finito. È
impossibile ripristinare le funzioni vitali di questa paziente. Come
ha detto il suo collega, è fottuta. E non mi interessa se il termine
secondo lei non è adatto.»
Bene, credo che il giovane Loris passerà tutto il suo internato a
fare turni di notte.
La mia stanza è in silenzio. Immagino Loris sostenere lo sguardo
del suo tutor un istante per poi abbassare gli occhi. Immagino tutti
gli altri far finta di scrivere un breve resoconto. Almeno la sessione
è finita. È pesante essere testimone di questo genere di situazioni,
soprattutto quando ti riguardano. Ma pare che mi sia sbagliata di
nuovo.
«Guardi, Loris, visto che sembra così affezionato a questa
paziente, lascio a lei il compito di annotare le conclusioni della
nostra visita.»
Sento i miei stati di servizio spostarsi alla mia destra. Qualche
strofinio di matita dopo, il portacartelle torna al primario.
«Mmh… Ben riassunto, Loris. Se lei non fosse tanto testardo, la
sceglierei sicuramente una volta finito l’internato. Tuttavia ha
dimenticato un particolare.»
«Quale?»
Il giovane interno non sembra più tanto loquace, e posso capirlo.
Questo primario comincia a darmi seriamente noia alle orecchie.
«Sulla prima pagina» riprende il primario. «Possiamo aggiungere
questo.»
«Che cosa intende?» chiede un altro interno.
«Loris» gli si rivolge il primario. «Può rispondere al suo collega?»
Posso figurarmi perfettamente i pugni chiusi e la mascella
serrata dell’interno che non fa altro che prendere le mie difese da
quando è entrato. Di contro, non ho la più pallida idea di che cosa
sia stato aggiunto sulla prima pagina della mia cartella.
«Questo significa che dichiariamo ufficialmente la nostra
intenzione di staccare la spina e che aspettiamo solo il consenso
della famiglia per stabilire una data.»
8
THIBAULT

Oggi mi sento bene. Anche se mi sono alzato più presto del


solito.
Ho aiutato un collega con uno dei progetti che riguardano
l’eolico. Ci ho guadagnato una bottiglia di succo di pera. Un ottimo
regalo che ho finito presto, ma al mio risveglio avevo già un buon
presentimento.
Quando capisco il motivo del mio buonumore durante la
mattinata mi viene quasi da ridere.
È lunedì, e questa sera devo accompagnare mia madre
all’ospedale. È la prima volta che penso al tragitto con un sorriso.
«Thibault? Che cos’è quell’espressione ebete sul viso?»
Interrompo bruscamente i miei pensieri e vedo il collega che ho
aiutato prima. Mi guarda dal basso verso l’alto, come se cercasse di
leggere qualche cosa sul mio mento. Sento arrivare la domanda
successiva a chilometri di distanza, ma sono curioso di vedere come
risponderò.
«Ehm… Di che parli?» dico semplicemente.
«Di quel sorriso» replica lui indicando la mia bocca.
«Anche tu stai sorridendo!» mi difendo.
«Io lo faccio perché ti sto prendendo per il culo» dice ridendo.
«Quindi? Perché quest’aria felice?»
«Non sono affari tuoi.»
«Tradotto, si tratta di una ragazza.»
«Non sono affari tuoi, ti ho detto!»
«Tradotto, sì, si tratta di una ragazza! Ehi, gente! Thibault ha…»
Prendo il mio collega per la spalla e gli tappo la bocca con l’altra
mano. Sono sicuramente penoso nella mia interpretazione di un
gangster presto smascherato e il mio collega mi scoppia a ridere
sulle dita. Però capisce che non desidero si spinga oltre e tace.
«È molto più complicato» dico togliendo la mano, che non
serviva a nulla.
«Okay» mi risponde lui continuando a sorridere. «Ce lo dirai
quando ne saprai di più!»
Si allontana facendomi l’occhiolino. Mi immergo di nuovo nei
miei pensieri.
Effettivamente, è molto più complicato. Sono felice all’idea di
andare a trovare una ragazza in coma.
Passo la giornata tra lavoro e riflessioni varie, che mi riportano
sempre a Elsa. Ogni tanto penso a mio fratello. Quando sono le
cinque, penso solo a sbrigarmi.
Passo a prendere mia madre a casa. Mi sembra stia meglio.
Sistemo la macchina nel parcheggio dell’ospedale e scendiamo. Pare
che io abbia ancora quel sorriso ebete.
«Che ti succede, Thibault? Hai l’aria così felice oggi.»
«Niente di particolare.»
A differenza del mio collega, lei si accontenta subito della mia
risposta. Accetto di prendere l’ascensore invece di fare le scale.
Imbocchiamo il corridoio del quinto piano.
«Preferisci sempre non entrare?» prova a chiedermi.
«Sì.»
«Che cosa hai intenzione di fare nell’attesa?»
«Dormire, sicuramente. Parlare, forse.»
«Parlare con chi?» si stupisce lei.
«Con i muri» le rispondo con un sospiro.
Siamo fermi proprio davanti alla stanza 55. Guardo mia madre
infilarsi dentro. Scorgo per un attimo il letto di mio fratello. Le
lenzuola sono coperte da un sacco di roba. Carta da regalo, riviste,
telecomandi. Dal rumore che filtra, la televisione è accesa. Esito
mezzo secondo, poi lascio richiudersi la porta.
No. Non sono ancora pronto.
Mi allontano dalla 55 per avvicinarmi alla 52. Schiudo la porta
quel tanto che basta a infilare la testa. Perfetto, non c’è nessuno.
Entro e mi chiudo delicatamente la porta alle spalle come se temessi
di svegliare la persona che occupa la stanza. È curioso, non riesco
mai a decidere come comportarmi con lei.
Il tempo di fare tre passi e già capisco che qualcosa è cambiato.
Sento una differenza, e questa differenza non mi rassicura per
niente. Una parte della stanza è fin troppo pulita e, tuttavia, sul
pavimento all’ingresso ci sono un sacco di impronte di scarpe. Il
gelsomino è coperto da diversi altri odori e, avvicinandomi al letto,
noto sparsi qua e là rimasugli di gomma da cancellare.
Sono venute delle persone oggi. È strano. Potrebbe trattarsi della
famiglia di Elsa, ma ne sarei davvero stupito. Forse i suoi amici, più
probabile. Questo spiegherebbe le numerose impronte sul
pavimento. Non capisco però perché avrebbero dovuto disegnare.
Ma accantono velocemente tutti questi pensieri per concentrarmi su
Elsa. O piuttosto concentrarmi su “Elsa e me”.
È da questa mattina che sono quasi euforico al pensiero di
tornare in questa stanza d’ospedale.
Non è normale.
Me lo ripeto in loop. Non è normale. Non è normale. Non c’è
niente di normale nell’essere eccitato per una visita a una paziente
che non si muove, non sente, non pensa e non parla, per giunta
quando non la si conosce nemmeno.
Per l’ennesima volta dopo il mio primo errore di orientamento in
questo ospedale, mi chiedo che cosa ci faccio qui. E per l’ennesima
volta non ho una risposta. Non importa, sembra che qualche volta si
abbia il diritto a non sapere. È quello che mi dice il mio capo, ma
subito dopo aggiunge sempre: “Finché non dura più di una
giornata”. Ecco, ho ampiamente superato le ventiquattro ore. Forse
dovrei pormi un limite.
Invece di procedere nelle mie riflessioni, avanzo sulle mie gambe
fino alla sedia spostata in un angolo. Sembra che siano rimasti tutti
in piedi in questa stanza. Ignoro completamente il portacartelle in
fondo al letto. Da quanto ho capito alla mia prima visita, i medici
non sono molto loquaci su questi pezzi di carta. E da quanto vedo di
fronte a me, non ci sono cavi, tubi e altri apparecchi in più o in meno
che collegano Elsa alla sua vita terrena.
È come se non fosse cambiato nulla dall’ultima volta.
Forse è per questo che mi ostino a venire qui.
Tutt’a un tratto mi sembra evidente, al punto che lo sussurro tra
me e me. Ma certo che è per questo che vengo qui! Non cambia mai
niente in questa stanza. Elsa è sempre lì, impassibile. Respira
sempre allo stesso ritmo. Le cose sono sempre appoggiate nello
stesso posto, insomma, le poche presenti. Solo la sedia principale si
muove di qualche centimetro o metro ma, a parte questo, si direbbe
una bolla in cui il tempo si è fermato.
Una bolla in cui ho un accesso temporaneo.
Fino a quando rimarrò in questa bolla? Fino a quando Elsa
rimarrà in questa bolla?
Mi siedo con un grugnito. Fantastico, ho appena trovato la
risposta a una domanda e ne ho aggiunte altre due! La questione del
limite temporale rimane invariata.
Rifletto un attimo. È lunedì. Forse entro una settimana. Se fisso
lunedì prossimo come data ultima entro cui prendere una decisione
su quello che voglio fare di queste visite, ce la farò di sicuro. Tra
l’altro le possibilità non sono infinite. O continuo a venire, o la
smetto. Quanto a Elsa, o rimane addormentata, o si sveglia. Non ho
alcuna chance di trovare la risposta per Elsa, ma per me sì.
Nell’attesa, oggi, decido di rinviare. Smetto di farmi domande.
Ho già tolto le scarpe e la giacca. D’inverno pare una tuta
d’astronauta questo giubbotto. Ci metto i guanti, lo scaldacollo, i
documenti, le chiavi dell’auto, quelle di casa e della casa di mia
madre. Sembra che mi porti addosso tutto l’appartamento. Eppure
sono poche cose! E non c’è poi tanto nel mio appartamento.
Non volevo tenere niente di ciò che avevo in comune con Cindy,
così ho fatto un bel repulisti di roba utile e inutile. Mia madre dice
spesso che dovrei personalizzarlo un po’, l’appartamento, ma dice
anche un sacco di altre cose che ignoro deliberatamente e questa è
una di quelle.
Mi sistemo comodamente sulla sedia, almeno ci provo. Brontolo
di nuovo rendendomi conto che mi sono dimenticato di portare un
cuscino o qualche cosa per rendere più confortevole la plastica
rigida. Lancio uno sguardo al mio giubbotto. Non può certo bastare
a foderare il tutto. Mi guardo intorno come se sperassi di trovare
istantaneamente una soluzione. Non c’è nulla. Vado nel bagnetto
attiguo che non serve a niente e ho la conferma che non serve a
niente, perché non ci sono né asciugamani né accappatoi che io
possa usare al posto del cuscino. Torno nella stanza e scorgo la mia
unica possibilità. Esito e mi rendo conto che sono stato
incredibilmente maleducato da quando sono entrato.
«Cazzo! Ehm… Scusa, Elsa. Buongiorno. Ero completamente
altrove quando sono entrato. Stavo pensando. Sì, ogni tanto mi
capita… Ho troppe cose in testa per riuscire a riassumertele, quindi
ti dovrai accontentare di questo. E poi non è che tu mi aiuti proprio
a trovare le risposte.»
Mi guardo intorno un’ultima volta. Non sono completamente
soddisfatto della soluzione che ho trovato ma è sempre meglio di
niente, tanto chi lo verrà a sapere? L’unica cui potrebbe dare fastidio
non se ne renderà conto.
Mi avvicino al letto e infilo le mani attraverso i cavi. Quando le
mie dita si stringono intorno al cuscino, i muscoli mi si
irrigidiscono. Non ce la faccio. Anche se è un corpo inanimato, è
comunque pesante, e anche se Elsa non deve essere più di cinquanta
chili rimane un peso considerevole. E poi non mi vedo proprio a
privarla della sua comodità, anche se lei non si renderebbe conto di
nulla. Mi parrebbe di approfittare di qualcuno. Non è proprio da
me.
Rimango immobile così per qualche secondo, poi tolgo le mani e
rimetto a posto i cavi con cura, i tubi e le altre cose. Elsa non ha
mosso un capello; d’altro canto, non vedo perché avrebbe dovuto
farlo.
«Ti ricordi quando ti ho detto che la sedia non è comoda?»
chiedo girandomi verso l’oggetto in questione. «Ecco, non è
cambiata! Volevo prendere uno dei tuoi cuscini, ma sembra che tu ci
sia incollata sopra, e poi… Non sarebbe galante da parte mia. Per
questa volta pazienza! Mi sciropperò la sedia rigida come un pezzo
di legno, e tu rimarrai bella comoda tra le tue lenzuola.»
In capo a due minuti sono più che mai sicuro che questa sedia
sia uno strumento di tortura concepito per tenere lontani i visitatori.
Ai medici e alle infermiere non piace avere troppa gente nelle
stanze. Con questo tipo di arredamento, si assicurano che le persone
non si fermino a lungo. Mi agito sulla plastica pensando sul serio di
andarmene. Dovrei solo infilarmi in macchina e aspettare mia
madre.
Ma non voglio andarmene.
Il libro-gioco nella mia testa mi spedisce all’istante a pagina 13:
“Non vi rimane che un’ultima soluzione”.
Sì, so qual è questa soluzione, ma non è decisamente la migliore.
È anche del tutto inopportuna, e se qualcuno dovesse entrare nella
stanza, ecco, non riuscirei a cavarmela con un: “Sono un amico”.
Sospiro per la quarantesima volta da quando sono arrivato e mi
alzo. Mi sembra di essere un ragazzino che sta per confessare ai
propri genitori di aver fatto una stupidaggine. Solo che in questo
caso avviso prima di farla.
«Okay, Elsa. Questa sedia è davvero impossibile per me. Quindi o
me ne vado… oppure tu mi fai un po’ di spazio.»
Ho già iniziato a fare il giro del letto per sistemarmi dal lato della
finestra. Ho l’impressione che ci sia più spazio, ma è solo
un’impressione, perché Elsa è perfettamente al centro, quasi al
centimetro, in modo che il materasso si adatti bene al suo corpo. Mi
dirigo da questo lato soprattutto per avere una specie di protezione
se qualcuno dovesse entrare nella stanza. Con un po’ di fortuna non
mi vedranno sdraiato. Con una buona dose di fortuna non verrà
nessuno. E con una fortuna sfacciata le persone avranno pietà di me
vedendomi mettere al riparo dietro una paziente in stato di coma.
Di nuovo, infilo le mani sotto Elsa facendo attenzione a prendere
anche il lenzuolo. Non riesco a passare le mani direttamente sulla
camicia che copre il suo fragile corpo. Tento di sollevarla per
spostarla un pochino, senza scombinare i cavi o altro. È un
fallimento.
Quarantunesimo sospiro dal mio ingresso. Prendo il
portacartelle in fondo al letto. Pesava cinquantaquattro chili al suo
arrivo all’ospedale. Nelle sue condizioni, ne avrà facilmente persi
sei, se non di più. Cristo, non sono nemmeno in grado di sollevare
quarantotto chili. Mi sa che dovrò fare un po’ di ginnastica.
Abbandono l’idea di spostare Elsa e mi accontento di far passare
tutti i fili dall’altra parte. Mi stendo in silenzio accanto a lei, dritto
come un fuso nei trenta centimetri di materasso che ho a
disposizione e mi rilasso di colpo. Trattengo un urlo.
Il materasso è strano. Non è assolutamente come il mio, di
sicuro, ma non è nemmeno un modello che conosco. Nella mia
mente, gli ingranaggi si mettono in moto molto velocemente. Elsa è
stesa o seduta a metà su questo coso da settimane, c’è un materiale
adatto per questo tipo di situazioni.
Ora che mi è tutto chiaro, mi tranquillizzo e mi sdraio di nuovo,
di spalle a Elsa. Malgrado l’assenza di movimento, il suo corpo caldo
mi fa l’effetto di una coperta.
Davvero comodo questo materasso…
Mi addormento in meno di dieci secondi.
9
ELSA

Anche se potessi muovermi, credo che non lo farei comunque.


Rimarrei immobile per non disturbarlo, in silenzio per non
svegliarlo. Forse mi concederei di girarmi quel tanto che basta per
riuscire a guardarlo mentre dorme, ma non mi spingerei oltre.
Ho seguito tutte le manovre di Thibault con un’attenzione
crescente. Non mi sarei mai aspettata che venisse nel letto accanto a
me. Può sembrare morboso il fatto di cercare di addormentarsi nello
stesso letto di una persona in coma, ma, ancora una volta, il mio
visitatore mi sorprende. E dire che mia madre a volte osa a
malapena toccarmi. Thibault si è letteralmente appiccicato a me.
Almeno credo. Il mio letto non sarà di certo molto grande. Alcune
parti di noi devono per forza essere a contatto.
Contatto… Lo desidero da matti, come una bambina davanti a
un gelato al cioccolato. È da circa ventun settimane che non ho più
provato la minima sensazione tattile. Tanto più che l’ultima volta è
stata quella della neve contro tutto il mio corpo. Non proprio un
bellissimo ricordo. D’un tratto, sarei felice di regalare l’intera serie
dei miei moschettoni per sentire anche solo un pezzettino di
Thibault contro di me. Ci sono strati di vestiti e lenzuola tra noi, ma
il suo calore passerebbe lo stesso e mi basterebbe.
A dire il vero il contatto lo potrei sperimentare con chiunque.
L’inserviente mi pulisce tutti i giorni, mia sorella posa regolarmente
la mano su di me, almeno così mi sembra, e quando Steve, Alex e
Rebecca vengono, ho diritto a un bacio sulla fronte. Ma Thibault è
un’altra cosa. È il mio rapporto speciale. È la mia boccata d’ossigeno
di cui continuo a non conoscere il minimo dettaglio fisico.
Per riflesso ordino al cervello di farmi girare la testa e di aprire le
mie palpebre. Mi rendo conto dell’idiozia di tutto ciò listando la
tappa successiva: dire ai miei neuroni di rimettere in funzione i miei
occhi. È inutile. Lo hanno detto stamattina.
Mi deprimo subito mentre inizio a odiare tutti quei medici,
futuri medici, specializzandi e interni, incluso quello che più o meno
mi ha difesa. Ci sono dentro tutti, senza eccezioni. Nel mio delirio
rabbioso, li immagino con facce orrende e caratteri irascibili. Arrivo
perfino a pensare che capiterà prima o poi a qualcuno durante la
propria carriera di fare una diagnosi sbagliata, poi mi riprendo
bruscamente.
No. Una diagnosi sbagliata significherebbe una persona che non
verrebbe guarita. Non posso augurare loro una cosa simile.
Soprattutto quando quella persona potrei essere io.
Potrei essere io…
Potrei essere io!
Non fossi in coma, mi sarei alzata con un balzo gridando qualche
cosa tipo: “Eureka!”, ma mi accontento di gioire dentro.
Potrei essere io la diagnosi sbagliata, con quella storia del due
per cento di cui non ho capito nulla.
Il morale si risolleva di colpo. Ho l’impressione di essere su una
di quelle altalene a bilancia per bambini che si trovano ai giardini
pubblici.
Potrei essere io. Potrei risvegliarmi, dimostrare loro che hanno
torto. Dopotutto, nessuno si immagina che posso ascoltare, eppure è
proprio quello che succede. Se solo riuscissi ad aprire gli occhi o a
dare qualche segnale di attività…
Il vero problema è: come? Per il momento, non ho fatto che
ascoltare e aspettare. Ma ho forse tentato di fare qualcos’altro?
Cinque minuti fa, mi sono letteralmente rifiutata di provare a
girare la testa. Non ho fatto alcuno sforzo, non vedo perché dovrei
farne. Sono tutti così categorici. Però nessuno ha sperimentato il
coma al mio posto, quindi le loro teorie… All’improvviso mi
permetto di dubitarne.
Da qualche parte dentro di me devo anche ammettere che quel
primario mi ha fatta andare in bestia. Vorrei potermi risvegliare solo
per contraddirlo. Ma oggi, ecco, in questo istante, sento che è per un
altro motivo che vorrei risvegliarmi. E fino a ora non ho mai fatto lo
sforzo di tentare. Non lo avevo pensato nemmeno lontanamente.
Tuttavia non ho che questo da fare. Pensare.
Certo, lo sforzo in genere implica l’avere il controllo dei propri
muscoli, per non parlare della totalità del proprio cervello. Non
controllo né gli uni né l’altro, a eccezione della zona uditiva, ma se
questa parte ha accettato di funzionare di nuovo perché le altre non
dovrebbero fare altrettanto? Rimane la domanda “misteriosa”, come
dice spesso Steve: come penso di fare?
La risposta mi arriva subito. Come se non stesse aspettando che
questo momento per palesarsi. Devo solo pensare, perché adesso è
l’unica cosa che mi riesce. Pensare che sto girando la testa. Pensare
che sto sollevando le palpebre e rimettendo in funzione la retina.
Immaginare con fermezza di esserne in grado.
Inizio subito il lavoro.
Il fatto di avere un obiettivo segreto aiuta molto. Be’, non è più
tanto segreto. Muoio dalla voglia di vedere Thibault. Se riesco a
girare la testa, e sarebbe già una prodezza, poi ad aprire gli occhi e a
vedere, e saremmo a livello del miracolo dell’incarnazione, potrei
forse finalmente scoprire com’è il mio visitatore preferito.
Ecco, sarei arrossita ai miei pensieri, ma in fondo non è che i
miei genitori siano proprio una piacevole compagnia durante le loro
visite. E Steve, Alex e Rebecca non vengono molto spesso. Non ho
l’imbarazzo della scelta per assegnare la medaglia d’oro.
Passo tutto il tempo del pisolino di Thibault a ordinare a me
stessa di girare la testa e aprire gli occhi. Alterno le due cose perché
devo riconoscere che l’operazione è francamente noiosa, ma a
motivarmi c’è il respiro del mio temporaneo coinquilino di letto.
Ogni volta che inspira penso di girare la testa, ogni volta che espira
penso di aprire gli occhi. Il modo in cui mi immagino Thibault è
sempre un po’ diverso. Ci sono tuttavia alcuni punti che, ho notato,
non cambiano. Sono per esempio convinta che abbia i capelli scuri,
anche se non ho la più pallida idea del motivo per cui lo penso.
Proseguo con i miei sforzi mentali fino a quando sento del
movimento alla mia destra. Capisco che Thibault non si sta solo
agitando nel sonno ma che si è proprio svegliato. Dev’essere almeno
un’ora che si è addormentato e che io tento invano di girare la testa.
Se sono sicura del fatto che lui abbia davvero dormito, non posso
dire altrettanto della mia nuova attività. Non ho la minima idea dei
risultati, a parte il fatto che non sento assolutamente alcun
cambiamento.
Il sospiro di Thibault mentre brontola mi distoglie dalle mie
riflessioni. Stando ai suoni, si siede e si alza, poi si ferma. Sto
cominciando a chiedermi perché rimane così quando il respiro
regolare a un metro e mezzo da me si interrompe bruscamente.
«Cazzo! I tuoi fili!»
La sua esclamazione mi avrebbe fatta sussultare. Sono curiosa di
sapere che problema c’è con i miei fili.
«Ah! Devo averti spinta o qualcosa di simile nel sonno e questo
deve aver tirato tutta questa roba! Per fortuna non se n’è staccato
nemmeno uno!»
Sentirlo brontolare quasi mi diverte, ma non mi ricordo di
quando si sarebbe mosso al punto da provocare quello che ha detto.
Lo sento risistemare un po’ il mio cablaggio. Mi sono chiesta spesso
a cosa assomiglio in mezzo a tutta questa “roba”, come la chiama
lui. La prima volta mi sono detta che dovevo sembrare un insetto
nella tela del ragno. Poi ho preferito pensarmi come un moschettone
in un sistema di carrucola semplice, quel sistema di legatura per
tirare fuori le persone dai crepacci. Quest’immagine mi appartiene
un po’ di più ed è di certo più elegante. E soprattutto racchiude
l’idea del salvataggio. Mentre nell’altro caso…
C’è ancora movimento intorno a me quando la porta della mia
stanza si apre. Thibault dev’essere rimasto di ghiaccio perché non
percepisco più nulla provenire dalla sua parte. Il nuovo intruso
entra. Thibault continua a non dire niente.
«Buongiorno. Lei è un familiare?»
Riconosco la voce dell’interno che mi ha difesa questa mattina.
Adesso che so di che si tratta, mi chiedo come mai sia qui, ma la
risposta di Thibault mi interessa di più.
«No, sono solo un amico. E lei? Cioè, nel senso… È il suo
medico?»
Interpreto il breve silenzio come un no con la testa.
«Solo l’interno del reparto che passa a fare un giro di controllo.»
«Ah.»
Avrei dato la stessa risposta di Thibault. In circa sette settimane,
nessun interno è mai venuto a fare alcun giro. Credo soprattutto che
sia la lezione di questa mattina ad averlo scosso.
«Ha qualche domanda?» chiede.
«Ehm… No, niente di particolare.»
Sento Thibault girare intorno al letto. Sicuramente vuole
avvicinarsi alle sue cose per andarsene il più presto possibile.
Quando Steve, Alex e Rebecca l’avevano sorpreso, quei tre alla fine
lo avevano messo a suo agio, ma, oggi, ho poche speranze che
l’interno faccia lo stesso. Tanto più che resta in un mutismo totale.
Cerco di raffigurarmi la situazione non potendo vederla. Mi
rendo improvvisamente conto che Thibault è ancora in calzini e che
le lenzuola alla mia destra devono essere tutte spiegazzate. Vorrei
ridere e al tempo stesso ho paura che la sua impronta sul materasso
venga scoperta. Il solo sentire l’adrenalina del proibito, o almeno
dell’insolito cui nessuno ha mai pensato, sarebbe delizioso.
Ma è probabile che l’interno se ne freghi completamente dei
dettagli perché il suo silenzio rimane assoluto. Thibault, da parte
sua, si rimette vestiti e scarpe in modo molto maldestro. Deve
innervosirlo avere qualcuno che lo guarda.
Alla fine lo sento avvicinarsi al mio letto e chinarsi su di me.
Sono sorpresa. Oserà baciarmi sulla guancia anche di fronte
all’interno? Ma il suo movimento si interrompe nel momento in cui
la voce gli esce dalla bocca.
«Sì, ho una domanda.»
L’interno sta pensando oppure sta facendo cenno a Thibault di
andare avanti. Comunque, continua a non dire nulla.
«A che cosa servono tutti quei fili?»
La domanda non è banale e mi ritrovo a prestare attenzione alla
risposta dell’interno, che si decide finalmente ad aprire bocca. Tiene
per sé i termini tecnici e si limita a spiegare l’essenziale della
funzione di ogni flebo, tubo dell’aria, ossimetro e così via. Thibault
chiede anche qualche piccolo dettaglio in più. Il suo interesse mi
stupisce.
La lezione di medicina improvvisata si conclude e io spero che
l’interno lasci velocemente la stanza. Ho paura (insomma, penso
questa paura non potendo sentirla nella pancia) che Thibault non
osi salutarmi nella sua maniera. Ma ancora una volta il suo
atteggiamento oltrepassa tutte le mie aspettative.
«Arrivederci, Elsa» mormora posandomi le labbra sulla guancia.
Questa volta non ho bisogno di costringere il mio cervello a
recepire il contatto. Tutta la mia persona si concentra su questo.
Purtroppo non percepisco nulla, così mi costruisco la sensazione di
sana pianta. Labbra calde e morbide, un bacio delicato.
«Era il suo compagno?» chiede l’interno.
«Perché dice era?» riprende Thibault raddrizzandosi.
«Scusi, è perché… È già passato un bel po’. Lei poteva essersi
guardato intorno, nel frattempo. Insomma, mi scusi. La cosa non mi
riguarda.»
L’interno ha decisamente farfugliato la sua risposta. Per fortuna
Thibault è lontano dal capire. Io so benissimo perché ha detto “era”.
Il primario ha in pratica firmato la mia condanna a morte questa
mattina.
Noto che Thibault non replica all’interno, né alle sue scuse né
alla sua prima domanda. Si limita a salutarlo prima di prendere la
porta. Il mio visitatore preferito lascia la stanza in questa atmosfera
particolare.
Passa un po’ di tempo prima che mi conceda di riportare la mia
attenzione sull’intruso. L’interno apparentemente continua a non
muoversi. Inizio persino a chiedermi se non mi sia persa la sua
uscita quando lo sento spostarsi verso la finestra alla mia destra.
Non so che cosa combina. Per qualche istante c’è un po’ di
trambusto, ma alla fine capisco che è al cellulare.
«Pronto, sono io… No… Pessima giornata, sì… Il primario…
Avvilito? Quasi…»
Avrebbe potuto rispondere “completamente”, visto il tono di
voce assente. Ma il microfono deve distorcere un po’ il tutto. Forse
conta su quello per non preoccupare il suo interlocutore.
«Oh, è solo… una paziente… sì, nel mio reparto. Coma
prolungato… Il suo fidanzato è appena uscito dalla stanza.»
“Ti sbagli, caro il mio interno. Thibault non è il mio fidanzato.
Ma non ho alcun modo per fartelo sapere.”
«Ehm… Sì, gliel’ho chiesto, ma non mi ha risposto. L’aveva
appena baciata sulla guancia ma saltava agli occhi che avrebbe
voluto darle un bacio vero e proprio. E immagino non abbia osato
perché c’ero io… Oh, dài! Ha ancora qualche giorno per farlo…»
Stacco subito per due motivi. Primo, perché Thibault ha dato
l’impressione di volermi dare un bacio “vero e proprio”. Secondo,
perché l’interno è appena scoppiato a piangere. Cristo, ma che gli
prende?
«Scusa, è orrendo quello che ho detto… Sì, lo so! Ma… Vogliono
staccare la spina! Ti rendi conto?… Sì, fa parte del mio mestiere,
ma… È solo che mi strazia. Ah… Aspetta… Il cercapersone sta
vibrando.»
In effetti, da qualche istante avvertivo la vibrazione senza essere
in grado di identificarla.
«Devo andare… Sì… A stasera… Ti amo anch’io…»
Sento sfuggirgli un profondo sospiro prima di richiudersi la
porta alle spalle. Lo avrei tirato anch’io se avessi potuto.
10
THIBAULT

Strizzo gli occhi con il pretesto della violenza dei neon per
evitare lo sguardo di mia madre. Sono di nuovo in ospedale, come se
non me ne fossi mai andato, e, per la seconda volta in meno di una
settimana, ne sono quasi felice.
È mercoledì, giorno di visita, al momento identico a lunedì.
Lavoro, sorrisini da parte dei colleghi, giro per andare a prendere la
mamma, sosta davanti alla 55, tentativo di mia madre di farmi
entrare nella camera di mio fratello.
Faccio finta di non avere visto nulla. Sento ancora il retrogusto
del mio tentativo di lunedì. Non ho voglia di ricominciare.
E poi ho qualcosa di molto meglio da fare.
Mi dirigo verso la stanza 52. C’è ancora quella foto sotto il
numero. Dopo le spiegazioni dei suoi amici, dubito che Elsa ami
particolarmente quel ghiacciaio. Faccio ancora un po’ fatica a capire
la sua passione, soprattutto vedendo dove l’ha portata.
Abbasso la maniglia e mi blocco. Si sente una voce nella stanza,
una voce che però si interrompe al cigolio. Appartiene a una
ragazza, ne sono certo. E non è quella dell’altra volta, Rebecca.
Seguono il rumore di una sedia spinta indietro e dei passi esitanti.
Lascio la maniglia cercando una soluzione di emergenza; devo
essere ridicolo.
Di chiunque si tratti, non ho voglia di spiegare le ragioni della
mia presenza lì. Giocarmi un’altra menzogna o dire una parvenza di
verità. Ne ho abbastanza. Volevo solo riposarmi un po’, in un posto
tranquillo. Nessuna persona sana accetterebbe questa motivazione.
Insomma, a parte Rebecca e il suo compagno. Steve non aveva l’aria
di apprezzare davvero la cosa.
Le scale sono troppo distanti perché possa rifugiarmi lì. La
ragazza mi vedrebbe sicuramente correre una volta aperta la porta, è
ridicolo. Ma lo è altrettanto il fatto che mi butti su una sedia a
qualche metro da lì. Ciò non toglie che possa funzionare. Fingo
un’aria annoiata, incrocio appena il suo sguardo. Sembra una
studentessa, sulla ventina, che osserva il corridoio incredula prima
di rassegnarsi.
Le mie spalle si rilassano e sprofondo ancora di più nella sedia.
Ho detto che sarei sembrato ridicolo, ma pietoso sarebbe più
corretto. Accompagno mia madre a trovare mio fratello in ospedale
e desidero un’unica cosa, sistemarmi nella stanza di una paziente
inerte, e tutto questo nella speranza di stare tranquillo.
Commetto un errore dietro l’altro. Nei confronti di mio fratello,
nei confronti di mia madre. Nei confronti della tranquillità. Il fatto
che io mi rifiuti di andare a trovare un membro della mia famiglia
non significa che Elsa debba subire la stessa sorte. La prova è che
c’erano tre suoi amici la settimana scorsa, e ora ecco che riceve la
visita di qualcun altro.
Mi sorprendo a sperare che la persona se ne vada presto.
Aggiungo “egoista” dopo “pietoso” e sprofondo ancora un po’ nella
sedia.
È la prima volta che mi trattengo nel corridoio del quinto piano,
così mi guardo un po’ attorno. I miei occhi individuano per prima
cosa le scale, dove ormai potrei trovare rifugio, ma alla fine, anche se
sono seduto sulla plastica rigida, non ho il coraggio di alzarmi. Ci
sono una finestra in fondo al corridoio, due porte a battente dal lato
opposto, che devono affacciare su un identico corridoio asettico, e
qualche quadro insignificante appeso ai muri. Dal momento che il
rosa antico delle pareti fa già schifo… non capisco perché si ostinino
a mettere roba ancora più sbiadita. Forse temono che i colori vivaci
possano scioccare le persone.
Eppure, in un reparto simile, si potrebbe pensare il contrario.
Anche se… Non ne so nulla. Non sono mai stato in coma né nella
fase successiva di riabilitazione. Non ho idea di che cosa potrebbero
provocare i colori in una situazione simile. Magari sto
completamente vaneggiando. Per ritrovarmi a pensare a come
sarebbe essere in stato di coma devo avere seriamente un problema.
Mi accorgo che da qualche minuto sto cercando qualcosa con gli
occhi. Sto cercando un altro numero, il 55. Ho un sussulto nel
rendermi conto che la mia sedia in realtà vi si trova proprio accanto.
È da dieci minuti che sono seduto a dieci centimetri dalla porta di
mio fratello. Credo sia stata un’impresa rimanere qui tanto a lungo,
anche senza saperlo.
Eccolo, il mio problema. La stanza 55 e il suo occupante.
Altrimenti perché cercherei di immaginare che cosa significhi
essere in coma? Scuse, insegnamenti, spiegazioni e confessioni
firmate. È tutto quello che ho potuto vedere da quando si è
risvegliato. Ma che cosa significa trovarsi al posto di mio fratello?
Avere bevuto troppo una sera sapendo benissimo che è pericoloso?
Avere investito due ragazzine senza rendersene davvero conto?
Sembra che quando glielo hanno detto al suo risveglio sia quasi
svenuto. Spero abbia provato la più grande paura della sua vita.
E durante quei giorni in cui era fermo a letto, la mente persa
chissà dove mentre il corpo si ristabiliva, che cosa ha provato? Come
stava? Non sentiva niente? Non esperiva niente? Che cosa fai
quando sei in coma? Pensi? Ascolti gli altri? I medici mi avevano
detto di parlare con lui, non ho spiccicato una parola.
Invece, con Elsa, mi ci sono voluti meno di due minuti. Ma
contro Elsa non ho nulla. Mentre contro mio fratello…
Un brusio disturba i miei pensieri. Giro appena la testa di lato,
lasciandola appoggiata alla parete. Il mio battito accelera nel
momento in cui capisco che si tratta della voce di mia madre che
filtra attraverso la fessura della porta. È davvero ostinata. Non
chiude mai quella porta, come se sperasse ancora che io possa
cambiare idea.
Alzo il braccio sinistro alla cieca, sperando di arrivare alla
maniglia per chiudere la porta una volta per tutte, quando il mio
nome fa capolino nel brusio. Avevo volontariamente escluso le
parole, ma il mio nome è troppo difficile da ignorare.
«… non vuole ancora venire.»
«Perché, non sono più suo fratello?»
«Come puoi volergliene?»
Noto che mia madre non ha risposto davvero alla domanda.
Forse perché non ha la risposta giusta, o forse perché si rifiuta di
dirla ad alta voce. Non so nemmeno io che cosa avrei detto. Una
cosa è certa, da quando ha provocato l’incidente io lo odio, ma
abbiamo pur sempre lo stesso cognome, la stessa madre, ed è scritto
nero su bianco sullo stato di famiglia.
Però non posso più dire che formiamo davvero una famiglia. In
una famiglia ci si rispetta, ci si ama, si vivono alti e bassi ma si trova
sempre un’armonia, un equilibrio. Come Gaëlle e Julien. Ecco, mio
fratello è sprofondato mille metri sottoterra ma io mi rifiuto di
seguirlo. Mia madre fa regolarmente avanti e indietro, dice che risale
anche un po’. Non ho nessuna voglia di scavare per riportarlo verso
la superficie. Si è cacciato là sotto da solo e da solo deve spostare la
terra.
«… paura.»
Riapro di colpo gli occhi. Il mio cervello era riuscito a escludere
di nuovo tutti i suoni, ma con questo non ce l’ha fatta, soprattutto
dal momento che è uscito dalla bocca di mio fratello. Mio malgrado,
tendo l’orecchio.
C’è un lungo silenzio. Mia madre non ha voluto rispondere o ha
soltanto sussurrato. Ho la mano ancora sospesa sulla maniglia,
come il mio respiro in gola.
«Ho avuto paura. E ho ancora paura.»
Quel po’ di aria che avevo nei polmoni resta intrappolata e sento
come un rivolo d’acqua che mi cola lungo tutto il corpo. Comincio a
tossire senza controllo e mi nascondo la faccia tra le mani. Anche se
avessi voluto ascoltare il seguito della conversazione, non ci sarei
riuscito. A ogni modo, è in questo momento che vedo uscire la
ragazza dalla stanza di Elsa.
Mentre il mio respiro è ancora strozzato in gola, la guardo
andare verso gli ascensori. Non appena le porte si sono richiuse
faccio un balzo dalla sedia e mi precipito alla numero 52
riprendendo a respirare.
Giro la maniglia come se stessi lanciando un S OS e richiudo la
porta appoggiandomici contro. Ho i muscoli talmente tesi che
sembra io stia cercando di impedire a una folla di persone di entrare
nella stanza. Sono scappato dalla 55 nella speranza di non sentire
più niente. In effetti, non sento niente a parte le apparecchiature
elettroniche di Elsa. Ma i miei pensieri, invece, ci sono ancora tutti, e
sono quelli che sto cercando di lasciare in corridoio.
Se mio fratello ha avuto paura, se l’è assolutamente meritato. Se
ha ancora paura, se lo merita. Ma questo prova forse il suo
pentimento.
Scuoto la testa stringendo i pugni. Mi rifiuto di trovargli delle
scuse o di accettare una qualche redenzione. Voglio continuare a
detestarlo. Se smetto di odiarlo significa che lo perdono, e non
posso fare una cosa simile. Ma è pur sempre mio fratello, almeno, in
parte. Potrei forse detestarlo in parte.
Non ha alcun senso. Niente ha senso qui dentro. Inclusa la mia
presenza nella stanza 52. Eppure sono qui, e l’odore del gelsomino
calma progressivamente la mia mente. Ho trovato la mia ancora di
salvezza, il segnale luminoso che mi riporta sulla terra ferma dopo
un viaggio nelle profondità. Ho trovato il mio rifugio, ed è
decisamente meglio delle scale.
Decisamente meglio di una sedia in un corridoio accanto
all’abisso in cui è sprofondato mio fratello.
«Tieni, ti ho portato questo.»
Julien mi porge un libro giallo e nero ancor prima di salutarmi.
Gli è rimasta della neve sul berretto e ha le guance tutte rosse. Sono
arrivato al pub qualche minuto prima di lui, ho già avuto il tempo di
scaldarmi.
«Che cos’è?» chiedo prendendogli la giacca per appoggiarla sulla
panca accanto a me.
«Basta che leggi il titolo.»
Julien inizia a togliersi a uno a uno gli strati che lo ricoprono fino
a rimanere in maglietta. Prendo il libro sul tavolo. Coma per negati.
Come hanno potuto pubblicare un titolo simile? Lo accantono e mi
concentro su Julien. Ha appena ordinato per tutti e due e si sta
mettendo più comodo sulla sedia.
«Pensavo che non saresti venuto» gli dico in tono quasi di scuse.
«Ho contrattato un’oretta con Gaëlle. Posso fare di meglio.
Insomma, sì. Forse c’è una soluzione che ci permetterà di passare
più tempo insieme.»
«Quale?» chiedo speranzoso dal momento che non ho
assolutamente voglia di tornare subito a casa.
«Gaëlle dice di venire da noi come mercoledì scorso.»
L’attenzione di Gaëlle mi colpisce, ma rifiuto subito la proposta.
«Aspetta, non voglio occuparvi casa ogni volta che mi va di
vederti. Peggio per me, avrei dovuto deprimermi ieri, o farlo
domani.»
«Ma queste cose non le puoi decidere. E sai come è fatta Gaëlle,
vuole sicuramente qualcosa in cambio del suo invito.»
«Che cosa vuole in cambio?»
«La stessa cosa dell’altra volta, sapere che ti occuperai tu del
biberon di Clara durante la notte, e anche un piccolo supplemento.»
Julien ha aggiunto l’ultima parte con un sorriso di scuse. Inizio a
temere. Gaëlle ha una scala “piccolo/grande” completamente
deformata.
«Coraggio. Quale sarebbe questo enorme supplemento che mi
chiede?»
«In realtà si tratta di un enorme supplemento che ti chiediamo
tutti e due.»
«Ah, ecco, allora è del tutto sproporzionato» scherzo io.
«Vorremmo che tu tenessi Clara per il weekend.»
«Cosa?»
Il mio “cosa” sembra lo strillo di un’anatra strozzata e buona
parte dei clienti ai tavoli vicini si zittisce e mi squadra. Li ignoro
fissando Julien come se mi avesse appena annunciato che si
trasferisce dall’altra parte del paese.
«Sei pazzo? Un intero weekend?»
«Da venerdì sera a domenica sera» continua Julien. «Starai da
noi, è più semplice se ti trasferisci con la tua roba piuttosto che
Clara venga da te con tutto il nostro appartamento al seguito. Gaëlle
ti spiegherà tutto sui biberon e il resto. Ma la maggior parte la
conosci già.»
«Un attimo, Julien. Tutte le volte che ho fatto il bagnetto a Clara
o roba simile voi c’eravate. Voglio dire, se fosse andato storto
qualche cosa voi potevate rimediare. Se invece siete lontani…
Peraltro, dove andreste?»
«Gaëlle ha prenotato una casa in montagna.»
«Della serie, non avrei alcun modo di contattarvi…»
«Non andiamo in capo al mondo» mi dice ridendo. «E c’è la rete,
lassù. Ma sappiamo che te la caverai.»
«Siete proprio gli unici a pensarlo.»
Bevo un sorso del mio succo di pera. Nemmeno la sua dolce
consistenza riesce a eclissare la fifa che provo all’idea di avere Clara
sotto la mia responsabilità per due giorni.
«Non potete chiedere ai genitori di Gaëlle?»
«Non possono, e lei vuole metterti un po’ alla prova.»
La cosa mi sorprende meno, visto che viene da Gaëlle, e riesco
persino a sorridere. È Julien che mi ha proposto come padrino.
Gaëlle all’inizio non era convinta. Quando ho accettato, non avrei
mai immaginato di dover affrontare un vero e proprio colloquio di
lavoro. Per il momento credo di avere superato tutte le prove, e
questa dev’essere l’ultima, il test finale che deciderà per il sì o per il
no, anche se so che, in ogni caso, non ci saranno molte altre
possibilità. Il battesimo è tra meno di due settimane.
«Di’ a Gaëlle che va bene.»
«Sei sicuro?» chiede Julien con un sorriso fino alle orecchie.
«Sì, va bene, ma deve farmi una dimostrazione pazzesca questa
sera! Se devo passare l’esame, voglio avere il tempo di prepararmi i
bigliettini da nascondere!»
«Questa sera esce, ti farò ripassare io» dice scherzando Julien.
«Ah, è per questo che hai solo un’oretta?»
«Esattamente. Uscita con le amiche.»
«Senti un po’, si diverte mica male il tuo tesoro!»
«E io sono già due volte che mi sottraggo al mio impegno di
padre per vedere te» mi ricorda.
«È vero…»
Ora che la contrattazione è finita cambiamo argomento. Ho fatto
scivolare con discrezione Coma per negati sulla panca all’inizio della
conversazione per allontanare il libro dallo sguardo di Julien,
altrimenti so che avrebbe subito deviato sull’argomento. Riesco a
evitare le domande su Elsa concentrandomi esclusivamente sul
tempo, mio fratello, la neve, una futura sciata, ancora mio fratello, il
mio appartamento, di nuovo mio fratello, tutto questo fino a che i
nostri bicchieri sono vuoti e l’oretta concessa a Julien ormai
trascorsa.
Ci muoviamo come la volta precedente: corriamo a recuperare la
mia macchina, poi saliamo in fretta le scale. Julien ha gli occhi
puntati sul suo orologio, sa che cosa lo aspetta se osa oltrepassare il
limite, soprattutto dal momento che Gaëlle non si è concessa quasi
nessuna uscita dopo il parto. Sta già suonando alla porta al terzo
piano mentre io sono solo al secondo. Le mie capacità atletiche sono
davvero peggiorate.
Sento Gaëlle aprire e scherzare sulla puntualità. Ho appena il
tempo di riprendere fiato sulla soglia che mi mette Clara tra le
braccia.
«Aspetta! Ho ancora la giacca e tutto quanto addosso! La
congelo!»
«Con gli strati che la ricoprono non corre alcun rischio» mi
risponde Gaëlle. «Dài, se non ti sbrighi rischia di sicuro di mettersi a
piangere.»
Spingo Julien per precipitarmi in soggiorno. Gaëlle non mi dà
tregua, sembra quasi che il mio weekend di prova inizi con due
giorni d’anticipo. Mi svesto in modo maldestro cercando di tenere
Clara più comoda possibile. Mi sembra di essere un abilissimo
giocoliere.
Il mio numero deve divertire Clara, perché vedo le sue labbra
tremare leggermente quando la faccio passare da una parte all’altra
il tempo di sfilare una alla volta le maniche del giubbotto. Trovo
anche il modo di togliermi le scarpe con una mano sola e sento le
risate che provengono dall’ingresso. Gaëlle e Julien mi stanno
guardando. Apparentemente il piccolo test è superato.
Gaëlle mi fa un cenno e bacia Julien. Distolgo lo sguardo per non
invadere il loro breve attimo d’intimità, che non è poi così breve
come pensavo visto che ho l’impressione che il bacio prenda tutta
un’altra piega. Come dare torto a Julien? Ho visto come è vestita
Gaëlle sotto il cappotto, è sublime.
Quando Julien torna verso di me dopo avere chiuso la porta, ha
quel sorriso beato da uomo felice e i capelli un po’ spettinati. Gli
passo Clara il tempo di sfilarmi il maglione e riprendo la mia futura
figlioccia in modo che possa spogliarsi anche lui. La situazione è
piuttosto buffa vista dall’esterno. Due tizi con un bebè. Sembriamo
due balie, completamente pazzi della bimba ma competenti.
Sono con il mio migliore amico in bagno e lo osservo lavare la
figlia. La mia lezioncina di ripasso inizia, soprattutto quando gli do
il cambio mentre lui cerca una tutina pulita.
«Allora, la visita di oggi come è andata?» chiede frugando in un
armadio.
«Non sono andato a trovare mio fratello, te l’ho detto, no?»
Ce l’ho un po’ con me stesso per il fatto di non dirgli tutta la
verità. Eppure se lo meriterebbe.
«Non mi riferivo a tuo fratello, Thibault.»
Che furbo questo Julien! In realtà, non ha mai perso di vista
l’argomento principale della serata. Aspettava solo che fossi in una
situazione in cui non avrei potuto evitare la sua domanda. Tiro fuori
Clara dall’acqua e la appoggio delicatamente sull’asciugamano
accanto. Lei agita le braccine verso di me.
«Come le altre volte. Ho dormito» dico spostandomi per lasciarlo
passare.
«Non fai altro che dormire quando vai a trovarla?»
«Parlo un po’, ma, francamente, che cosa vorresti che facessi?»
La mia risposta dev’essere piuttosto azzeccata perché Julien non
aggiunge nulla. Finisce di vestire Clara e me la mette tra le braccia
per sistemare la parte dedicata a lei. Faccio finta di ballare con la
mia figlioccia mentre lui si dà da fare tra i cassetti.
«Che cosa pensi di fare?»
La domanda di Julien fa eco a quella che mi gira in testa già da
qualche giorno. Smetto lentamente di ballare, pensieroso.
«Non so che cosa posso fare, ma so che cosa vorrei.»
«Cioè?» prosegue Julien.
«Vorrei che si risvegliasse.»
«Questo dipende solo da lei, lo sai.»
«Ne dubito proprio.»
Riprende Clara e lo seguo in soggiorno. In due minuti e con una
mano sola ha preparato tutto il necessario per darle il biberon. Io
prendo il cuscino per l’allattamento e mi sistemo accanto a lui sul
divano.
«Tieni, ripassa un po’» dice porgendomi la figlia. «E così sei
bloccato e puoi continuare a rispondere.»
«Rispondere a cosa?»
«In realtà non ho davvero più domande, forse solo un consiglio.»
«Quale?»
«Stai attento.»
Per qualche secondo i versi di Clara mentre succhia dal biberon
sono l’unico rumore che si sente nella stanza.
«A cosa devo stare attento?» sussurro anche se conosco
benissimo la risposta.
«Ti stai innamorando di una ragazza di cui non sai quasi nulla.
Se fosse l’unico problema, passi, ma… Ti stai anche innamorando di
una ragazza che è a forte rischio di non risvegliarsi mai più.»
«Che ne sai?»
«So quello che mi hai detto tu, Thibault. Apparentemente non c’è
alcun miglioramento, e trovo che tu sia davvero troppo coinvolto per
un incontro a senso unico che è avvenuto solo una settimana fa.»
«Lo so…»
Sì, lo so. È l’unica risposta che posso dare. Al limite, potrei dire:
“Ho sentito”, ma Julien lo sa benissimo. Ho sentito, ascoltato,
analizzato e già assimilato ognuna delle sue parole per il semplice
motivo che mi ronzano in testa da un po’ di tempo.
«Mi piacerebbe comunque che si risvegliasse…»
11
ELSA

Il rumore della maniglia che cigola mi sveglia. Capisco subito


che si tratta della donna delle pulizie. La sua camminata, il carrello,
la radio. È notte, tra le dodici e l’una. Non mi sono mai chiesta come
mai le pulizie vengano fatte in un orario simile. È così semplice da
capire. Il personale non rischia in alcun modo di svegliare chiunque
si trovi nel mio stato.
Passa velocemente la scopa sotto il letto, insiste un po’ di più sui
lati. Ho avuto visite oggi, mia sorella e Thibault, dovrà sicuramente
passare anche lo straccio.
Mi piace molto essere svegliata dalla donna delle pulizie, per via
della radio, anche se “svegliata” è una parola grossa. A parte i
commenti del presentatore, addormentato come è normale che sia
per chiunque a quest’ora di notte, la musica che ascolta non è poi
tanto male. Rido mentalmente nel rendermi conto che sono al
corrente degli ultimi successi del momento. Se esco da qui, saprò le
parole di tutte quelle canzoni. Questo potrebbe sorprendere più di
una persona.
La donna delle pulizie entra nel bagnetto che viene utilizzato
solo dai miei visitatori; la sento brontolare sul fatto che potrebbero
evitare ma pulisce comunque. Impiega circa il tempo di due canzoni
e uno stacco pubblicitario.
Quando la musica riprende, sta tornando nella stanza. È un
pezzo che amo molto. Ho voglia di canticchiarlo. Mi ricorda i
momenti più belli sul ghiacciaio. Mi assento per qualche istante
ripensando a quelle discese dopo le scalate in cui mi concedevo di
cantare. Si poteva fare solo in discesa, ma significava che stavo bene.
Bene… Sì, il tempo di una canzone potevo sentirmi bene…
Conosco la melodia e la maggior parte delle parole a memoria,
ripeto il tutto ancora una volta nella mia testa. Sento
contemporaneamente lo straccio strusciare sul pavimento. Se fossi
al posto della donna delle pulizie, mi muoverei a tempo. Rovina
tutto il ritmo della musica con i suoi colpi a caso e i suoi brevi
sospiri affaticati. Ma si ferma bruscamente e il manico dello
spazzolone sbatte all’improvviso a terra. Non mi preoccupo più di
tanto: se fosse caduta, l’avrei sentita. Sembra essersi paralizzata. Mi
sta bene, così posso ascoltare meglio la canzone.
«Ma cosa…»
Il suo mormorio è pieno di paura. Smetto a malincuore di fare il
coretto nella mia testa. Che cosa può avere visto da sconvolgerla a
tal punto? Non posso più provare la paura a livello viscerale ma
immagino benissimo che cosa avrebbe scatenato in me. Un bel
formicolio nella pancia, freddo improvviso dietro la nuca, il respiro
che si riduce a un filo d’aria e tutto il corpo in tensione, in agguato
nell’attesa del minimo segno che possa razionalizzare questa paura
e farla sparire. Ma dev’essere una mia reazione personale perché lei
esce a grandi passi dalla stanza, e mi sembra anche di sentire le sue
scarpe di gomma risuonare molto velocemente nel corridoio prima
che la porta si richiuda.
Perfetto, ha lasciato la radio, posso finire di ascoltare la canzone
tranquillamente. Il pezzo si conclude, e ne segue subito un altro, che
mi piace meno.
La porta si riapre in quell’istante e ordino inutilmente al mio
cervello tutte le operazioni necessarie all’identificazione delle
persone che entrano. Girare la testa, raddrizzare il busto, aprire gli
occhi e trasmettere tutti i dati ricevuti dalle retine. Ovviamente, non
faccio niente di tutto ciò, ma immagino di farlo. Da lunedì, ho
aggiunto questo modo di procedere a ogni mio periodo di veglia, in
due giorni è diventato quasi spontaneo.
Però, ascolto attentamente quello che succede intorno a me. Ci
sono due persone. La donna delle pulizie e qualcun altro.
Bisbigliano, quindi all’inizio percepisco a fatica quello che dicono,
ma, dopo che la porta si è richiusa e si sono avvicinati, le loro voci
aumentano di volume.
«Le dico che ho sentito qualcosa!»
«Andiamo, Maria, è impossibile.»
La conversazione mi permette come minimo di conoscere il
nome di colei che mi fa ascoltare la radio, ma ecco, più del ronzio
dell’apparecchio sono le sue parole a richiamare la mia attenzione.
«Dottore, le dico che non ho sognato! Ho sentito un rumore
provenire da lei.»
«Maria, mi perdoni, ma mi permetto di dubitarne.»
Questa volta capto meglio la voce dell’uomo, e si tratta del mio
interno difensore. Avevo ragione quando ho pensato che il primario
gli avrebbe fatto fare i turni di guardia notturna. O forse non era
mai venuto prima solo perché non era mai successo niente.
«Non vuole credermi?» chiede Maria sospettosa.
Il suo accento ispanico si adatta perfettamente all’idea che mi
ero fatta di lei. La immagino con gli occhi stretti, mentre scruta
l’interno come se lo volesse ridurre a un mucchietto di cenere per il
fatto che ha osato dubitare di lei. Ma lui non si lascia intimidire.
«Maria, la situazione di questa ragazza è disperata. Non
possiamo fare più niente per lei.»
«Cosa? Mi sta dicendo che volete staccare la spina? Come avete
fatto con la signora Solange, qui accanto?»
«Santo Dio, Maria! Conosce i nomi di tutte le persone che
passano da qui?»
«Non bestemmi, Loris! Eh, sì, conosco anche il suo!» butta lì
come sfoderando un’arma di fronte al suo avversario. «Ma cosa
crede? Che si parli tutto il tempo di numeri? Le mie colleghe non
hanno tutte pazienti che non possono rispondere, loro!»
«Vuole essere cambiata di reparto?»
Il sospiro profondo di Maria avrebbe potuto essere il mio. Il
giovane interno capisce infine dove vuole andare a parare la sua
interlocutrice.
«Sì, staccheremo la spina» finisce per rispondere.
«Quando?»
«Ancora non si sa.»
«Perché?» continua Maria come un poliziotto impegnato in un
interrogatorio.
«Perché è impossibile che ritorni.»
«Che cosa ne sa?»
«La medicina è una scienza, Maria! Insomma, non voglio tenerle
una lezione. Lo vede il portacartelle lì ai piedi del letto? È stata
aggiunta un’indicazione particolare all’inizio della settimana. Sì,
coraggio, lo prenda!»
La collera dell’interno è ormai evidente. Sento Maria che stacca
violentemente il portacartelle dal supporto. Nemmeno lei nasconde
la sua rabbia.
«Guardi sulla prima pagina, l’indicazione in basso, a margine,
lato destro.»
«Non vedo niente» ribatte Maria.
«Sì, lo vede. È che non sa che cosa significa.»
«Questo scarabocchio qui? Sembra una freccia o una croce.»
«C’è scritto “meno X”. Si usa la X nell’attesa di sapere quanti
giorni esattamente, il tempo che la sua famiglia si decida.»
«Non ci credo. È mostruoso fare una cosa simile.»
«È la verità. Ho dovuto scriverlo io stesso. Non piace a me come
non piace a lei, ma è così.»
«È così?» ripete la donna delle pulizie. «Sa una cosa, Loris?»
«Cosa?»
«Lei mi delude.»
Mi preparo ad ascoltare il seguito, a sentire il giovane interno che
si difende dicendo che l’opinione di una donna delle pulizie non gli
interessa molto, ma resto sorpresa di fronte al silenzio che si crea.
Silenzio fino a un certo punto, poiché la radio è ancora accesa.
«Anch’io sono deluso da me stesso, ma che cosa vuole che
faccia…»
Mi chiedo se si metterà di nuovo a singhiozzare come l’ultima
volta. Spero tanto per lui che riesca a evitarlo.
«Potrebbe comportarsi da uomo e non come un burattino. Detto
questo, mi ascolti e poi farà ciò che vuole di quello che le dico. Stavo
passando lo straccio quando ho sentito un rumore. Non era lo
spazzolone e nemmeno la radio, non era semplicemente il suo
respiro, sembrava una parola.»
«Le sue corde vocali non possono funzionare dopo una così
lunga inattività.»
«Non ho detto che ha parlato» lo riprende Maria.
Il sospiro esasperato questa volta proviene dal medico. Lo sento
camminare, poi fermarsi.
«Va bene, Maria. Sono disposto a verificare velocemente le sue
funzioni. Ma solo perché lei mi lasci in pace!»
«Ah, ecco un uomo!»
Percepisco un sorrisetto trionfante nell’osservazione di Maria e la
rassegnazione dell’interno. Lui tira fuori due o tre cose dalla tasca
mentre Maria torna al suo carrello come se nulla fosse. Durante
questo tempo, mi aggrappo alla minuscola speranza che la loro
conversazione mi ha appena dato. Se Maria non se l’è inventato,
significa che sono riuscita a muovere le labbra, e questo grazie a una
canzone.
Sento l’interno che si china su di me, capisco che mi sta toccando
perché ha tirato le lenzuola. Ma spio tutto questo con orecchio
distratto. Mentre si muove, tutta la mia attenzione è incentrata sulla
canzone trasmessa poco fa. Ripeto in loop le parole e la melodia
nella mia testa. Grido quasi il tutto nella mia mente, ma sembra che
nulla superi i confini del mio cervello, perché l’interno interrompe il
suo esame con un ennesimo sospiro.
«Mi dispiace, Maria, ma non è cambiato nulla. Mi creda, avrei
voluto che così non fosse. La prego, non aggiunga altro.»
Capisco che la donna delle pulizie ha tentato di interromperlo.
«Torno al mio posto. Non esiti a chiamarmi se succede davvero
qualcosa.»
«È successo davvero.»
«Secondo lei. Io le dico che è impossibile.»
«Secondo lei» ripete Maria.
L’interno esce. Poi è la volta di Maria e del suo carrello.
Mi aggrapperò alla mia piccola speranza domani mattina. Per il
momento, ho voglia di piangere.
12
THIBAULT

Quanta neve. In genere mi lascia del tutto indifferente. Oggi mi


innervosisce. Se continua così, finirò per essere penosamente
bocciato al mio weekend di prova ancor prima che inizi. Julien mi ha
detto di presentarmi per le sei di sera. Cioè tra solo dieci minuti e,
vista la coltre bianca che si sta formando sulla strada, so che mi
servirebbe ben più di una decina di minuti per essere puntuale.
Sono già cinque minuti che procedo a passo d’uomo. Lo spartineve è
tre auto davanti a me.
Mi rassegno all’idea di confessare il mio fallimento al telefono
quando mi suona il cellulare. Compare il nome di Julien. Ahia…
Non potrò nemmeno ottenere una riduzione della pena cooperando
con il nemico. Rispondo stringendo i denti e parto prima che il mio
migliore amico riesca a pronunciare una parola.
«Julien, mi dispiace, non sarò mai lì per le sei. Eppure sono
uscito per tempo dal lavoro, avevo preparato tutto in macchina per
non dover passare da casa, ma…»
Julien scoppia a ridere. Forse ho la possibilità di rimediare,
dopotutto. Ma sono i rumori di sottofondo a sorprendermi di più.
«Aspetta, dove sei?» gli chiedo.
«In macchina, come te!»
«Cosa? Siete già partiti? Avete lasciato Clara a casa da sola?» Ma
no, che scemo, mi correggo subito. «Alla fine avete deciso di portare
Clara con voi?»
«Cosa dici?» si stupisce Julien. «No, no! Non è cambiato nulla
del programma! È solo che con tutta questa neve avevo ancora
qualche acquisto da fare prima di partire e mi trovo bloccato come
te! Che schifo di spartineve!»
«Sei anche tu dietro uno spartineve?»
«Sono un’auto dietro a te, Einstein!»
Mi giro di riflesso, senza preoccuparmi dei veicoli che procedono
davanti a me. In effetti riconosco Julien attraverso il parabrezza
dell’auto che ci separa e gli faccio un cenno. Mi risponde segnalando
con i fari. L’autista della macchina in mezzo fa una faccia strana ma
alla fine capisce che non mi rivolgo a lui.
«Okay, allora sono salvo!» dico rigirandomi verso la strada per
lasciare la frizione.
«Decisamente! Comunque Gaëlle è eccitata come una bambina
all’idea di avere un weekend solo per noi due, non sarà un quarto
d’ora di ritardo a preoccuparla. Forse la strada, al massimo… Ho
chiamato il posto dove alloggeremo, da loro non nevica ancora, è
previsto solo nella notte.»
«Meglio così, sarete più tranquilli allora.»
«Da quando hai un’opinione sulla neve tu?»
La mia risposta dovrebbe essere immediata, invece ci penso per
qualche istante prima di esprimerla a parole. Ho la sensazione che
un’altra frase voglia prendere il suo posto ma non riesco a capire
quale.
«Il mio migliore amico e sua moglie partono con un tempo
simile mentre io tengo la loro figlia di meno di un anno. Tu mi vedi
adottarla se dovesse succedervi qualcosa?»
«Ah, sì, è carino da parte tua preoccuparti per noi!» scherza
Julien prima di tornare serio. «Tu lo sai che diventare padrino può
comportare questo tipo di cose. Quando firmerai in chiesa la
settimana prossima, ti impegnerai a esserci per il nostro tesoruccio,
eh!»
«Cerco appunto di dimenticare questo genere di impegni…» gli
rispondo stando al gioco. «E poi non verrà scritto da nessuna parte
che avrò la custodia di vostra figlia in quel caso.»
«Gaëlle non te l’ha detto?»
Il tono di Julien mi riporta immediatamente a una modalità
meno scherzosa.
«Aspetta, che stai dicendo?»
«Ma no, dài, non agitarti, sto scherzando!»
«Ah, ora sono più tranquillo!»
Il cuore mi batte all’impazzata. Mi accorgo di avere avuto
davvero paura. Le responsabilità, sul lavoro nessun problema. Gli
impegni professionali non mi sconvolgono minimamente. Nella mia
vita privata, invece, dopo Cindy, è andato tutto in mille pezzi.
«Thibault? Ci sei ancora?»
«Ah. Sì.»
Devo avere lasciato passare qualche secondo per sentire Julien
così preoccupato.
«Non è serio parlare al telefono mentre si guida» dico per
recuperare.
«Non ci fermeranno certo per i venti metri al minuto che
percorriamo. Ti sfido a indicarmi un vigile occupato a dare multe
invece che dirigere il traffico!»
«Comunque… Avevi altro da dirmi?»
«Non avrai mica rivisto Cindy di recente?»
La domanda di Julien mi sorprende più di tutte le altre. Devo
avere l’espressione di un rospo cui hanno tagliato la lingua.
«Come lo sai?» farfuglio.
«Perché l’ho notato oggi, trovo che tu sia peggiorato rispetto a
prima quando ti si parla di responsabilità.»
Non è difficile capire perché Julien è il mio migliore amico.
«Come è successo?» prosegue.
Ci penso un attimo. Come è successo?
«Male» inizio. «Sgradevole. Lei è cambiata. È stato pietoso.»
«Aspetta, Thibault, di cosa stai parlando?»
«Della sua visita lampo a casa mia. Aveva pessime intenzioni!»
Sento la mia rabbia. Anche dopo una settimana non ho ancora
mandato giù l’incontro.
«Vai avanti.»
«Chiaro, si annoiava a casa. Ho detto abbastanza?»
«Lo ha fatto? Non lo avrei mai detto.»
«Credo ci siano molte cose che non si direbbero gli uni degli
altri.»
«E tu cos’hai fatto?»
«L’ho buttata fuori, che cosa credevi?»
Per un mezzo secondo ce l’ho terribilmente con Julien per aver
osato pensare che io abbia potuto cedere ancora una volta al fascino
di Cindy ma, dopo un attimo di riflessione, la mia collera si placa.
Nello stato in cui sono in questo periodo, sarebbe potuto benissimo
capitare.
«Perdonami, Thibault» si scusa Julien.
«Non preoccuparti.»
«E invece sì che mi devo preoccupare. Ho anche pensato che tu
avresti potuto cambiare idea, ma mi sono ricreduto subito dopo.»
«Ti sei ricreduto, è questo che conta. E, francamente, sarebbe
potuto succedere.»
Un’altra pausa al telefono. Due amici che riflettono sulle loro
azioni e sulle loro idee.
Le ragazze non immaginano mai che cosa ci frulla per la testa.
Passiamo spesso per vasi completamente vuoti, invece io so che
nella mia mente infuria sempre la tempesta. Deve essere lo stesso in
quella di Julien. Restiamo in silenzio, attaccati ai nostri telefoni
come due idioti. Forse le ragazze in fondo non hanno tutti i torti.
Però si sbagliano sui termini: non è che siamo completamente vuoti,
è che non riusciamo a capire che cosa farne della nostra tempesta.
Fortunatamente lo spartineve ci salva trenta secondi dopo.
«Julien?» dico come se non fosse successo nulla. «Lo spartineve
parcheggia sul marciapiede. Dovremmo avere la strada libera, le
auto davanti a me sembrano procedere più velocemente.»
«Okay, mettiamo giù. A tra poco! Non stare a impazzire per
lasciarmi un posto dove possa parcheggiare, di’ solo a Gaëlle che
l’aspetto giù.»
Alle sei e dieci scendo finalmente dall’auto. Julien accosta e
mette le quattro frecce. Gli faccio un cenno e mi riparo nel suo
palazzo. Il riscaldamento si è deciso a funzionare, ma la macchina
non era il forno che avrei voluto. Salgo i gradini due alla volta per
riscaldarmi e mi riprometto seriamente di ricominciare ad andare a
correre.
Gaëlle mi apre in una tenuta decisamente diversa da quella di
mercoledì. Le spiego la situazione in poche frasi e lei mi indica i due
grossi zaini all’ingresso. Ne metto uno in spalla, l’altro lo tengo tra
le braccia e vado all’ascensore. Di sotto, Julien è uscito dall’auto. Il
bagagliaio è già aperto. Gli passo gli zaini da caricare e verifico
qualche punto con lui. E lì mi sorge una domanda.
«E per portarla fuori?»
«Vuoi già uscire con mia figlia, Julien?»
«Ma dài, hai capito.»
«Scusa, non ho resistito…» Ride. «Il passeggino è ripiegato tra
l’armadio e il muro della sua cameretta. Pensi di usarlo per uscire?
Mi sembra di averti sempre visto portare fuori Clara nel
marsupio…»
«Perché non l’ho mai fatto da solo, c’eravate sempre voi, tu o
Gaëlle, che vi ostinate a cacciarla in quell’aggeggio con le cinghie.»
«Come? Non lo trovi pratico?»
«Certo che sì! E lo userò di sicuro. Ma mi potrebbe servire anche
il passeggino.»
«Curioso, detto da te! Okay, sai dov’è, ci fidiamo. Non c’è bisogno
di fare chissà quali manovre per aprirlo, è automatico.»
«Dicevi la stessa cosa delle cinghie del marsupio e ci ho messo
un quarto d’ora a capire come funzionano.»
«Non lamentarti. Quando Gaëlle mi ha mostrato come si annoda
la fascia, alla fine le ho fatto vedere il catalogo dei passeggini.»
Sorrido pensando a quanto deve essere costato al suo orgoglio.
Anche il mio migliore amico supercompetente ha dei problemi con
la paternità.
«Okay, credo che resti solo uno zainetto da prendere e, conosci
tua moglie, lo vorrà portare da sé. Passate un bel weekend e
divertitevi anche per me.»
«Dovresti andare via anche tu ogni tanto, sarebbe fantastico» mi
dice Julien chiudendo il bagagliaio.
«Con chi?» Sospiro.
Julien si limita a farmi un sorriso prima di risalire in auto. Gli
faccio un ultimo cenno rientrando nel palazzo.
«Vuoi che ti rispieghi qualcosa?» mi chiede Gaëlle quando sono
di nuovo da lei.
«No, tutto chiaro. Vai. Il tuo Principe azzurro ti sta aspettando»
le rispondo baciandola sulla guancia.
Gaëlle mi abbraccia. Lei è fatta così.
«Grazie, Thibault» mi sussurra all’orecchio. «Non sai quanto
apprezzo il regalo che ci stai facendo.»
«Tranquilla, lo faccio volentieri.»
«Sarebbe meraviglioso se anche tu potessi avere una famiglia.»
Ho la risposta già pronta. Il “con chi” appena espresso solo un
minuto prima. Ma dalla mia bocca esce tutt’altro.
«Sì, sarebbe meraviglioso.»
Gaëlle indietreggia un po’ e mi squadra sbalordita e divertita al
tempo stesso. Capisco i suoi sentimenti. Dev’essere la prima volta
che confesso questo desiderio ad alta voce. Lo hanno già capito tutti
vedendomi con Clara, ma non ho mai detto nulla in proposito.
«Sono contenta che tu me l’abbia detto» aggiunge lei sorridendo.
La accompagno alla porta e le auguro un buon weekend. Tra i
miei avanti e indietro non ho nemmeno avuto il tempo di salutare la
mia figlioccia. Clara è ben sistemata nella specie di lettino-box e si
muove piano. Mi chino sopra di lei e la sollevo tra le braccia.
Nessuna fatica con lei, non saranno i suoi pochi chili a mettermi in
difficoltà.
Mi avvicino alla finestra lasciandola giocare con le mie dita. Non
ho alcun modo di sapere se Julien e Gaëlle sono partiti, le loro
finestre affacciano tutte sul lato opposto alla strada.
La neve continua a scendere e i lampioni arancione conferiscono
uno strano aspetto alla città. Non sono ancora le sei e mezzo eppure
da qui si direbbe già tutto addormentato. Mi sorprendo dei miei
pensieri e mi torna in mente la domanda di Julien. Da quando la
neve mi fa questo effetto?
Una risposta l’avrei, ma mi terrorizza, quindi la metto da parte e
vado a sedermi sul divano.
13
ELSA

Mia madre e mio padre sono qui, nella mia stanza. Non sono
soli. C’è anche il primario. Questo dannato medico che mi esce dagli
occhi. E vorrei letteralmente fargli ingoiare il camice tanto mi dà sui
nervi.
Da quando ho sentito la sua voce, la mia mente è sconvolta. È qui
per parlare del famoso “meno X” una volta per tutte. L’idea era già
stata espressa, ma non in maniera così radicale. E “radicale” è
troppo debole. Se esistesse un termine in grado di racchiudere
“asettico”, “diretto” e “completamente disinteressato” credo che
riassumerebbe il modo in cui viene esposta l’argomentazione.
«Capisce, signora mia, non ci sono davvero più speranze.»
“E il tuo linguaggio ricercato, imbecille? È già tanto che tu non
dica ‘donna’. Se vuoi annunciare il mio decesso anticipato abbi
almeno la cortesia di farlo con eleganza! Sembri un personaggio di
uno di quei vecchi film western americani, solo che tu indossi un
camice!”
D’altro canto me lo raffiguro proprio così questo primario che mi
fa orrore. Il camice completamente sbottonato, un pugno sul fianco
e il gomito dell’altro braccio appoggiato al muro. Mi gioco la testa
che sotto indossa un paio di jeans, e non i pantaloni da medico. Una
maglietta sbracata. Okay, così è come lo immagino io, ma, davvero,
potrebbe essere molto simile. Una trascuratezza offensiva. Non
capisco come mai mio padre non abbia ancora reagito.
Mia madre, dal canto suo, ha reagito dopo un bel po’. Piange più
o meno silenziosamente. Lo sento soprattutto quando parla, perché
i singhiozzi le spezzano la voce.
In fondo è curioso. Dopotutto, è lei che ha avuto per prima
l’intenzione di staccare la spina. Ma, vista la sua reazione emotiva, si
direbbe che i ruoli dei miei genitori si siano invertiti.
«Da-da-davvero ne-nessuna?»
La sua voce si è completamente inceppata alla fine della
domanda. Spero che mio padre abbia avuto l’intelligenza di
stringerla fra le braccia o almeno di prenderle la mano. È nella
disperazione più totale, e non le capita spesso. Deve essere anche
nel panico, a coronare il tutto. Mando una richiesta silenziosa a mio
padre perché adempia in modo adeguato al suo ruolo di marito.
Dubito fortemente che la mia richiesta abbia effetto ma capisco che
almeno ha fatto qualcosa.
«Anna, calmati prima di fare domande.»
È un consiglio molto ragionevole, mio padre in tutto il suo
splendore, ma non è esattamente quello che avrei voluto sentire.
«Può attendere un attimo, il tempo che mia moglie si riprenda?»
Il grugnito del medico dev’essere un sì. Cosa dicevo… Un vero
western. Ma dov’è finito il mio interno? Avrebbe sicuramente fatto
le cose con più tatto! Benché se si fosse messo a singhiozzare anche
lui… ci sarebbero state molte lacrime da asciugare nel pomeriggio.
Il primario esce. La mia seconda richiesta silenziosa è che si
verifichi un qualsiasi evento che possa portarlo nel giro di un
minuto a rompersi una gamba. Ma anche quintuplicando il tempo
previsto, non è successo nulla, poiché, quando torna, non sento
alcuna stampella battere sul pavimento.
«Avete avuto modo di riflettere?»
“Ma sicuro, andiamo! In cinque minuti, tu credi che abbiano
avuto ampiamente il tempo di decidere una cosa simile!” So che
invece di innervosirmi dovrei servirmi di tutta questa energia per
ordinare al mio cervello di attivarsi per raddrizzarmi, ma non c’è
niente da fare, sono in grado di concentrarmi solo sulle mie
emozioni. Thibault è l’unico che riesca a trasformare queste
emozioni in azione. Ecco, sono proprio un uragano di collera.
Per un attimo ho un dubbio… La collera non è una reazione
fisiologica chimica? Questo significa che sto facendo progressi? Ma
ho studiato geologia, non medicina, quindi lascio perdere e attendo
con impazienza la risposta dei miei.
«No.»
La voce di mio padre è ferma e il messaggio chiaro, anche se
francamente avrei preferito che gli tirasse un pugno in faccia. Non
so da dove mi viene tutta questa aggressività ma è evidente che la
incanalo su questo medico. Sarà il mio istinto di sopravvivenza?
Dopotutto, il mio futuro è nelle mani di quest’uomo e delle sue
argomentazioni. Se riesce a convincere tutti, staccherà la spina e…
No. Non voglio pensare al seguito. Per ora, sono qui. Ascolto. E
oggi sono viva e voglio restarlo.
«Va bene» risponde il medico. «Avete tutto il diritto di esitare.
Ma sappiate che più aspetterete prima di decidere, più grande sarà il
dolore.»
Sa di frase registrata, come quella delle segreterie telefoniche
programmabili. “Risponde la segreteria del dottor Machin, potete
staccare la spina di vostra figlia dopo il segnale acustico.”
«Lei ha figli, dottore?»
La domanda di mio padre richiama la mia attenzione. Sento che
il mio pugno immaginario potrebbe trasformarsi in un’osservazione
pungente che avrà più o meno lo stesso effetto.
«Sì, due.»
Bugiardo…
C’è qualcosa di straordinario nel fatto di poter contare soltanto
sul senso dell’udito, perché tutto ciò che è collegato ai suoni
acquisisce un sapore particolare.
In sette settimane ho potuto notare che associavo
spontaneamente un colore e una consistenza a ciò che dicevano le
persone. La voce di mia sorella che racconta le sue storie d’amore
assume un aspetto di velluto rosso vomito tanto straborda di
ormoni. Mia madre è una specie di cuoio viola che vuole apparire
robusto ma che si crepa in diversi punti come una vecchia borsetta.
Questo primario è scialbo e ruvido come una trave d’acciaio da
costruzione.
In mezzo a tutto questo, per fortuna, da una decina di giorni è
comparso un arcobaleno. Thibault è arrivato con tutte le sue
emozioni, tutte quelle novità per me. Non sono riuscita a dargli un
colore in particolare. Era proprio cangiante e sconcertante. Mi sono
decisa per un arcobaleno. L’ho trovato poetico. È sempre meglio del
resto, che stava diventando disgustoso all’inverosimile.
Insomma, questo medico è un bugiardo. Da quanto ha appena
detto so che mente. Non ha due figli. Dubito che ne abbia anche
uno solo. Per me questo tizio ha una moglie e basta. Sicuramente
questa risposta è artefatta come la precedente e serve per ingannare
gli interlocutori. È anche vero che potrebbe averne piene le scatole
di sentirsi dire: “Ah, no? Non ha figli? Allora non può capire che
cosa significhi prendere una decisione simile!”.
Mi sorprendo. È davvero la prima volta che ho delle idee
ragionevoli nei riguardi del mio medico abituale. Comunque non
riesco a concepire il fatto che si possa essere medico con la volontà
di salvare delle vite e diventare totalmente disinteressato alla morte
programmata di qualcuno. Ma com’è che si passa dal
coinvolgimento personale, come dimostra il mio interno, al totale
distacco che mostra questo primario? Forse dopo anni di esperienza.
Anzi, sicuramente. Non vedo in che altro modo. Non è certo la
prima volta che si trova a prendere una decisione di questo tipo. Ma,
malgrado tutto, dà l’impressione che non lo riguardi minimamente.
So che non è proprio così, ma resta comunque la sensazione che se
ne trae. Insomma, per me che posso solo ascoltare.
Mio padre, che non sa che il medico mente, non prosegue con lo
schiaffo verbale che avrebbe voluto dargli e si accontenta di
consolare mia madre bisbigliando.
«Signore» prova il medico che ha capito che non riuscirà più a
ottenere nulla da mia madre «ecco i documenti. So che non avete
preso alcuna decisione, ma, talvolta, avere il testo sotto gli occhi
aiuta. Non vi chiedo di compilarli questa sera. Solo di leggerli. O
magari lasciarli su un tavolo per poterci riflettere spesso. In ogni
caso non esitate a chiamarmi. In qualsiasi momento. Ci sono i miei
recapiti in fondo, in questo inserto. Ripeto, in qualsiasi momento. Se
sono occupato, non rispondo, semplicemente. Ma si tratta di una
linea riservata a questo tipo di chiamate e cerco, per quanto mi è
possibile, di esserci per la famiglia dei miei pazienti.»
Stavolta non so cosa pensare. Forse sto imparando che cosa
significa essere neutrale. Quello che dice il mio medico è
professionale. Ciò non toglie che una parte di me avrebbe preferito
che fosse l’interno a occuparsi di tutto questo. Almeno ho avuto
modo di sentirlo dire “ti amo” a qualcuno. Significa che ha un cuore
che vive e batte. Non voglio dire che il primario non abbia un cuore,
ma piuttosto che lo ha rinchiuso in quello stesso metallo freddo e
ruvido che associo al timbro della sua voce.
Mio padre prende i fogli e il medico saluta i miei genitori. Odo
un vago mormorio da parte loro, poi solo i singhiozzi di mia madre.
Credo che mio padre le stia accarezzando la testa. Pian piano lei si
calma, poi si avvicina al mio letto. Forse mi prende la mano, forse
semplicemente mi guarda. Non sento più granché. Mi sto per
addormentare.
14
THIBAULT

«Julien! Accidenti a te! Ahia!»


La maledizione mi torna indietro come un boomerang. Appena
un secondo dopo avergli espresso il mio odio, il passeggino mi ha
pizzicato le dita.
Clara si muove lentamente nel suo lettino. L’ho rimessa lì non
appena ho capito che una semplice scossa al passeggino ripiegato
non sarebbe bastata ad aprirlo completamente. Faccio un passo
indietro come per prendere le distanze dall’impresa da portare a
termine e guardo il mio orologio. Se vado avanti così, non avrò mai
abbastanza tempo per fare tutto. Pazienza, sarà per un’altra volta!
Apro l’armadio e tiro fuori il marsupio. Almeno con questo non
ingaggerò una lotta all’ultimo sangue. Lancio un’occhiata al
passeggino saldamente ripiegato. “Questa sera, caro mio… capirai
in che guaio ti sei messo. Questa sera prendo le istruzioni e
vedremo chi l’avrà vinta.” Non ho certo intenzione di disturbare
Gaëlle e Julien per chiedere il loro aiuto, sarà un assolo, ma il
libretto che ho scorto sul tavolo del soggiorno sarà un ottimo
compagno d’armi.
Infilo il marsupio quasi con naturalezza e fisso tutte le fibbie
necessarie. Ci infilo Clara, non prima di aver passato un minuto
buono a riempirla di baci sulla fronte, e risistemo il tutto. Siamo
pronti per uscire. Sono fiero di me, malgrado il mio cocente
fallimento con il passeggino.
Fuori è tutto grigio. La neve caduta ieri si è già sciolta sotto gli
pneumatici degli autobus e delle auto. Quel poco rimasto ha perso il
suo splendore con i gas di scarico. Il cielo è così cupo che mette
paura.
È sconvolgente quanto il clima sia cambiato in un giorno. Ieri
nevicava, oggi minaccia temporale. Per questo volevo prendere il
passeggino, perché ha un affare in plastica che tiene Clara al riparo
quando piove. Però ho un ombrello che, visto il diametro, è
praticamente un ombrellone da spiaggia. Proteggerò la mia
meravigliosa figlioccia sotto il giaccone se sarà necessario, ma credo
che l’ombrello possa bastare.
Cammino sul marciapiede sgomberato dalla neve. È un
vantaggio che io almeno non rischi di scivolare, mi avrebbe
rallentato molto, per giunta con Clara appiccicata addosso. Incrocio
gli sguardi di diverse giovani donne della mia età. Si inteneriscono
subito per la mia aria da papà-sciatore. Perché, tra il berretto, la
giacca, i guanti, lo scaldacollo e gli scarponi, solo Clara testimonia
che non sto andando sulle piste.
A ogni sorriso femminile che mi spetta, il mio libro-gioco mi
riporta a pagina 60: “Sorridete gentilmente, non si sa mai”. Mi
ostino a voler girare pagina per leggere la frase successiva
(“Proseguite senza fermarvi”), continuando a chiedermi che cosa ci
sia di tanto straordinario nel vedere un uomo che porta un neonato.
Potrei aggiungere “extraterrestre” dopo “papà-sciatore”.
La strada per l’ospedale è molto più breve da casa di Julien. Non
mi serve l’auto, non devo andare a prendere mia madre. Mi sono
messo d’accordo con lei. O meglio, lei si è messa d’accordo con
un’amica. Io avevo la scusa di Clara per non dovermi costringere alla
visita a mio fratello. Dovevo solo aspettare che mia madre non fosse
più in ospedale. Ecco, sono le quattro, è perfetto. Deve aver finito.
Con un po’ di fortuna, l’amica in questione l’ha invitata da lei.
Magari ceneranno anche insieme. Farebbe bene a mia madre.
Farebbe bene a tutti.
Raggiungo velocemente l’ospedale. La mia piccola Clara si
guarda attorno con gli occhi pieni di curiosità. Alla sua età, tutto
deve sembrare interessante. Né io né lei abbiamo avuto il tempo di
raffreddarci. Con gli strati che le ho messo addosso e il passo
spedito che ho assunto, non c’erano rischi. Nonostante questo, mi
infilo in ascensore invece di prendere le scale. Ancora una volta ho
diritto a un’occhiata affettuosa da parte delle donne confinate in
questo piccolo spazio insieme a me. Di qualunque età, tra l’altro.
Incrocio lo sguardo di una donna sulla trentina. Molto carina.
Luminosa, direi. Appare quasi finta tanto il suo viso è radioso.
Sembrerebbe piena di speranza nel vedermi bisbigliare a Clara che
va tutto bene e ne capisco il motivo solo quando esce dall’ascensore
con il suo compagno e si dirige al reparto maternità.
Una volta al quinto piano, non faccio in tempo ad alzare un dito
che tutti escono o si appiattiscono contro le pareti per farmi passare.
Fatico a nascondere il mio stupore e, non appena le porte metalliche
si richiudono alle mie spalle, scoppio a ridere.
«Hai visto che effetto facciamo?» mormoro a Clara solleticandole
il naso.
All’improvviso sento una voce familiare. Sollevo lo sguardo e
colgo subito il motivo del mio disagio. In fondo al corridoio, mia
madre spinge una sedia a rotelle. Sulla sedia c’è un uomo. Mio
fratello. È la sua voce che ho riconosciuto. Mi guardo velocemente
intorno. La tromba delle scale è a qualche metro alla mia sinistra.
Ma faccio appena in tempo a muovere un passo in quella direzione
che mia madre mi chiama.
«Thibault?»
Percepisco la sua sorpresa insieme a tutta una serie di altre cose
contenute in questa semplice domanda. Una madre, o più in
generale una donna, ha la capacità di riuscire a inserire un
dizionario intero in una sola parola. In quel momento so che in quel
“Thibault” c’è: “Che cosa ci fai qui? Perché sei venuto? Hai cambiato
idea nei confronti di tuo fratello? Ma lei è Clara! È troppo carina,
fammela salutare! Come sei arrivato? Mi avevi detto che non saresti
venuto!”. E via discorrendo.
Al posto di tutto questo, il “Thibault?” è sufficiente e io resto
stoicamente piantato come un albero ad aspettare che il minicorteo
mi raggiunga, incapace di fare il più piccolo movimento.
«Vieni, c’è Amélie, l’amica che mi ha accompagnata qui. Siamo
rimaste un po’ più a lungo da lei, per questo sono arrivata così tardi.
Mi cercavi?»
Senza saperlo, mia madre mi ha appena salvato la vita, o quanto
meno l’onore. Non avevo assolutamente idea del modo in cui avrei
potuto spiegare la mia presenza in ospedale.
«Ho provato a passare da te, ma non c’eri. Mi sono preoccupato.
In genere a quest’ora sei già rientrata.»
«Oh, tesoro» dice lei accarezzandomi la guancia. «Ogni tanto
vado da Amélie, lo sai. Perché non mi hai chiamata sul cellulare?»
«Lo tieni sempre spento, non ci ho pensato.»
«Che cosa te l’ho comprato a fare questo telefono?»
La voce che si è appena inserita nella conversazione mi fa
l’effetto di un pugno nello stomaco. Chiudo gli occhi e inspiro
lentamente. Finora Clara ha nascosto la figura seduta nella sedia a
rotelle spinta da mia madre. Ma adesso che mio fratello ha parlato
non posso più continuare a ignorarlo. Riapro gli occhi e abbasso
lentamente il mio sguardo su di lui.
«Buongiorno, Sylvain.»
«Ciao, Thibault! È da un po’ che non ti si vede da queste parti!»
Vorrei sospirare ma mi trattengo. Mio fratello non si smentisce
mai. Non so nemmeno perché ho sperato che un incidente potesse
cambiarlo. È incapace di dire qualcosa senza metterci dell’ironia.
Fare una conversazione seria con lui è una sfida continua.
«Chissà come mai?» ribatto fissandolo negli occhi.
Mio fratello non mi somiglia molto. I suoi capelli castani sono
sempre stati più disciplinati dei miei e i suoi occhi azzurri hanno
fatto vacillare più ragazze di quanto avrei potuto immaginare. Noto
tuttavia qualche cicatrice di traverso sulle sue guance. Un’altra sopra
il sopracciglio destro. Faccio scorrere il mio sguardo sul resto del
corpo. Un braccio è ingessato, le gambe steccate. Il medico ha detto
che il cruscotto dell’auto si è letteralmente piegato sulle sue
ginocchia. Una volta ho preso un colpo al ginocchio e ho trovato il
dolore atroce. Non mi stupisce che mio fratello abbia perso
conoscenza e che il suo corpo sia entrato in coma per sei giorni.
Malgrado tutto quello che gli rimprovero, dev’essersela vista brutta.
Ma il dolore non basta per perdonare.
«Sempre una parola buona» butta lì.
Mi aspettavo un’ironia insolente, ma il tono di mio fratello alla
fine risulta più distaccato del previsto. Sembra quasi ferito. Non è
da lui. Credo mi stia prendendo in giro.
«Sempre così spensierato» rispondo in modo asciutto.
«Basta, voi due.»
In queste parole avrei pensato di riconoscere la voce di mia
madre, e invece no. È la sua amica che ha parlato. I suoi occhi si
spostano da mio fratello a me con un evidente rimprovero. Capisco
il motivo un momento dopo, quando vedo le mani di mia madre
contratte sulle maniglie della carrozzina.
«Scusa, mamma, non volevo…»
Mio fratello e io ci interrompiamo nello stesso istante e, per la
prima volta dal nostro incontro di oggi, percepiamo questo legame
di parentela che ci unisce. Le parole sono uscite dalle nostre bocche
come sincronizzate. Mia madre ha lo sguardo stupito, ma la magia
non dura. Un respiro dopo, tutto si cancella.
Appoggio la mia mano sulla sua per rassicurarla. Lei mi guarda
sul punto di piangere. La bacio sulla guancia sussurrandole
all’orecchio: «Mi dispiace, non sono ancora pronto».
In quel momento Clara comincia a dimenarsi. L’attenzione di
mia madre si sposta sulla mia adorabile figlioccia, quella di Amélie
anche, e io mi ritrovo a rispondere alle loro domande sulla sua
salute, i genitori via per il weekend e come la gestisco. Si scambiano
commenti su cosa facevano loro quando avevano i figli piccoli, le
ascolto distrattamente, gli occhi fissi sulla manina che cerca di
prendere il cursore della mia cerniera lampo.
«Tutto bene Julien e Gaëlle?» chiede a bassa voce mio fratello.
Decisamente, il suo nuovo modo di parlare è l’opposto di quello
che gli ho sempre associato. Non riesco a capire se mi dà sui nervi o
no.
«Non vedo come possa riguardarti» dico continuando a guardare
Clara.
«Piantala, Thibault. Rispondi almeno alla domanda.»
«Tutto bene.»
«E tu ti occupi della figlia quando non ci sono?»
«Non si nota?»
«Thibault…»
Dev’essere la prima volta in vita mia che lo sento sospirare. In
genere, continuava a ridacchiare con un ghigno che avrei sempre
voluto strappargli via dalla bocca. Tuttavia ha l’aria sincera. Forse
dovrei fare uno sforzo.
«Per oggi, sì, è la prima volta.»
«Dai l’impressione di saperci fare.»
Il tono della sua voce mi sconcerta ancora una volta e mi fa
abbassare lo sguardo su di lui. Osserva Clara in modo strano. Certo
non come me, ma mi sembra di vedere dell’affetto e del rimorso nei
suoi occhi. Molto furtivamente.
«Ti stai allenando?» butta lì ridendo di nuovo.
La sua risata non è completamente sincera. Si direbbe nasconda
qualcosa, come un brutto scherzo. Un pessimo scherzo, d’altronde,
visto che il suo viso assume subito dopo un’espressione di una
serietà tremenda. Faccio una fatica pazzesca a interpretare il suo
comportamento. Non so come rispondere.
Potrei ribattere con un no che darebbe spazio a una tirata in cui
continuerebbe a prendermi in giro. Potrei rispondere con un sì e, in
questo caso, mi beccherei di sicuro tutta una serie di altre domande.
Invece, mi ritrovo a scegliere attentamente ogni singola parola.
«Mi diverto.»
Credo di avere sorpreso mio fratello per la prima volta dopo
tanto tempo. Non replica e si limita a fissarci, Clara e me. Poi i suoi
occhi ci lasciano e si perdono verso il fondo del corridoio.
Stranamente sento lo stomaco contrarsi, mi si chiude anche la gola.
Mi rendo conto che avrei voglia di continuare a parlargli, ma che
non ce la faccio. Così non aggiungo più niente e aspetto che mia
madre e la sua amica finiscano la loro breve conversazione.
«Scendi con noi?» azzarda lei.
«Io…»
«Be’, non rimarrai qui!»
«Ho bisogno di… digerire tutto questo.»
Lancio un’occhiata a mio fratello. Sylvain fissa sempre il fondo
del corridoio. C’è solo una finestra che dà sull’esterno, ma dubito
che attiri davvero il suo interesse, così come le nuvole che si vedono
fuori. Sembra più perso nei suoi pensieri. Mia madre aveva detto che
passava il tempo a riflettere. Forse aveva ragione nel credere in lui.
Non ero comunque mai riuscito ad avere una vera conversazione
con lui.
«Bene… Come vuoi» replica mia madre. «Prendi almeno
l’ascensore con noi?»
Fortunatamente ho già avuto il tempo di pensare a come
rimanere in ospedale senza che lo debba sapere il mondo intero.
«Faccio le scale, lo sai.»
«Ah.»
La sua delusione è evidente ma, anche se avessi avuto davvero
intenzione di andarmene, non avrei risposto diversamente. Mi fa un
sorriso triste e si appoggia alla sedia a rotelle per spingerla. La sua
amica mi saluta con un cenno della testa. Lo sguardo di mio fratello
è sempre perso nel vuoto.
Rimango immobile fino a quando le porte dell’ascensore si
richiudono alle loro spalle, con l’anima in subbuglio. Non appena
sento le porte sbattere, sono come un orologio ricaricato. Accarezzo
distrattamente Clara sul berretto mentre mi avvio verso la mia
destinazione. Ho già individuato la fotografia di montagna
appiccicata sotto i due numeri. La conosco a memoria, questa foto.
So anche dove è stata scattata, l’ho cercata su internet nel weekend.
Appoggio una mano sulla maniglia, l’altra sulla porta per
spingerla, e prendo un respiro profondo. Non so perché, ma sono
teso.
15
ELSA

Una voce nuova. Luminosa. Priva di ogni impurità. Come la neve


appena caduta. Un fiocco dorato che mi si avvicina. Quasi il suono
più meraviglioso che io abbia mai udito, dopo la voce più profonda
che sussurra nella mia stanza. Un arcobaleno e un fiocco di neve,
non vedo proprio come possano coesistere dal punto di vista della
temperatura, ma coesistono nella mia stanza.
Esplode in me un ricordo vivido. Sì, ho già visto qualcosa di
simile. Doveva essere per forza su un ghiacciaio. Durante la notte
aveva nevicato e la neve aveva cominciato a sciogliersi al sorgere del
sole in un cielo limpido. L’acqua formava dei torrenti sinuosi che
seguivano il tracciato di un serpente. Un piccolo ostacolo nel
ghiacciaio provocava una minicascata, sufficiente a far comparire un
arcobaleno, se ci si metteva nel punto giusto. Neve e arcobaleno
insieme. Quindi è possibile.
Ho voglia di sorridere. Al ricordo. Al meraviglioso regalo che
Thibault mi ha fatto portando questo piccolino con lui.
Improvvisamente tutto crolla. Thibault ha un neonato con sé. Il
mio cervello dispiega e risolve tutte le equazioni associate alla
situazione. Il mio morale sprofonda all’istante sotto venti metri di
ghiaccio. Ho l’impressione di soffocare.
Vado in panico. La mia mente mi crede di nuovo imprigionata
sotto la valanga di neve di luglio. Sento premere tutto attorno a me
e, come quest’estate, non ho alcun modo di urlare il mio terrore.
Dentro di me, solo tempesta e strazio. Sono dieci giorni che non ho
incubi nel sonno. E ora sto vivendo da sveglia la somma di tutte
queste eccezioni. Il terrore allo stato puro.
Nel mezzo di questa tempesta, da molto lontano, sento tuttavia
un suono, soffocato dalle urla del vento che mi penetra da tutte le
parti. Cerco di concentrarmi su questo suono, di attribuirgli un
colore, una consistenza, un sapore, qualsiasi cosa possa farmi
evadere da questa prigione di angoscia. Cerco di focalizzarvi tutta la
mia attenzione scacciando i ricordi del mio incidente. Ma non
appena riesco ad allontanarli tornano subito, ancora più violenti.
Grido nella mia testa che qualcuno mi salvi e, all’improvviso, tutto si
ferma.
«Elsa! Elsa! Cristo, che succede?»
Il mio arcobaleno vacilla. I suoi colori tremano. Thibault è
letteralmente sconvolto. Il neonato si è messo a piangere. Questa
nuova confusione sonora dovrebbe essere insopportabile,
soprattutto così vicino al mio orecchio, e invece no, mi rassicura più
di qualsiasi altra cosa al mondo. Sento il ticchettio di un orologio
che va e viene, il fruscio dei miei capelli, un sussurro costante.
«Elsa. Elsa. Elsa.»
Il bebè si mette a piangere più forte, poi tutti i suoni vicino a me
si interrompono.
«Scusa, Clara. Ero preoccupato per Elsa. Ssh. Ssh. Ecco, così.»
La piccola singhiozza piano e si calma nel giro di qualche
secondo. Sembra che io non sia l’unica a farsi catturare dalla voce di
Thibault.
La porta della mia stanza si apre con fragore. Rumore di passi
rapidi, due persone senz’altro. Tutto si sussegue a velocità folle.
«Ma… lei è qui?»
Il mio interno. Contemporaneamente sorpreso e arrabbiato.
«Si occupi di lei!» dice Thibault. «Non stia a preoccuparsi del
fatto che sono qui!»
«Il neonato mi distrae» replica l’interno.
«Non se ne parla, io resto qui!»
«Dottore?»
Una voce femminile. Di certo un’infermiera le cui mani si
agitano su di me già da qualche secondo.
«Sì» risponde l’interno.
«Qualche collegamento staccato, ma è tutto stabile» dice
l’infermiera.
«Cosa?»
«Glielo ripeto, è tutto stabile.»
«Questo significa che sta bene?» interviene Thibault.
«Lei è incorreggibile!» dice offeso l’interno.
«Ehi! Ha appena avuto uno spasmo talmente forte che ho
creduto si spaccasse!» butta lì Thibault con una voce da arcobaleno
diventato rosso. «Che cosa si aspettava da me?»
«Cosa ha fatto?» chiede l’interno.
«Io? Niente!»
«Alcuni cavi sono staccati e lei mi dice di non aver fatto niente?»
«Si è quasi seduta! E, vista la violenza dello spasmo, avrebbe
potuto abbondantemente strappare tutti i vostri aggeggi!»
«I nostri aggeggi la tengono in vita!»
«Allora perché è tutto stabile?»
La neonata ricomincia a piangere. Thibault le dedica subito la
sua attenzione. Il suo mormorio ci mette un po’ più di tempo a
calmarla, arriva quasi a urlare. L’interno invece si avvicina
all’infermiera e li sento parlare in un linguaggio tecnico. Percepisco
alcuni clac di tubi, le rotelline delle flebo, il fruscio delle lenzuola. La
piccola Clara si è calmata.
«Mi dispiace» dice l’interno.
Capisco che in me va tutto bene. Al tempo stesso oso sperare che
il mio istinto di sopravvivenza si sarebbe allarmato se fossi stata in
pericolo di… Estrometto volontariamente la fine del mio
ragionamento.
«Scusi se mi sono arrabbiato» risponde Thibault, la cui voce ha
ritrovato le sue tinte abituali.
«Ha detto che ha avuto uno spasmo?» prosegue l’interno.
«È durato solo un secondo, ma credo che sia stato il secondo più
lungo di tutta la mia vita.»
«Mi può descrivere ciò che ha visto?»
Un breve silenzio, come se Thibault raccogliesse le idee.
L’infermiera continua il suo lavoro su di me.
«È successo all’improvviso. Stavo togliendo il berretto a Clara e il
bip dell’ossimetro, quel coso che mi ha fatto vedere l’ultima volta, ha
cominciato ad andare velocissimo. Un secondo dopo, Elsa si è
contratta in modo incredibile. Come le ho detto, era così violento…
Non ho fatto attenzione al resto dei sensori e alle flebo, ero
concentrato solo su di lei.»
«Capisco.»
L’interno dà qualche indicazione all’infermiera, poi prosegue.
«Non è successo niente di particolare quando lei è arrivato?»
«No, nulla. Davvero. Ero entrato da appena un minuto. Non
avevo nemmeno tirato fuori Clara dal marsupio. E, come può
vedere, è ancora lì. Mi scusa un attimo?»
«Prego.»
Allora è così, Clara, questo piccolo fiocco dorato, è appiccicata al
petto di Thibault. Questo spiega perché i suoi rumori erano tanto
vicini.
«È sua figlia?» chiede l’interno.
In mezzo secondo tutto il mio essere si imballa di nuovo. Sento
la tempesta ricominciare a mettere caos nella mia mente.
«No, è la figlia di una coppia di amici.»
Tutto torna al suo posto. Clara non è la figlia di Thibault. Intenso
sollievo.
Questo pensiero è seguito immediatamente da uno schiaffo
mentale che mi autoinfliggo. Che cosa mi prende? Perché dovrebbe
riguardarmi il fatto che Thibault sia il papà di un piccolo fiocco di
neve dorato? Mi devo arrendere all’evidenza. Devo pormi al riparo
dalle mie stesse emozioni. A furia di aggrapparmi a Thibault, me ne
sto impossessando.
«Benissimo» riprende l’interno. «Lei sa che sarebbe buona
norma evitare di introdurre neonati in questo reparto.»
«Non ne ero al corrente. Posso rimanere lo stesso?»
«Per oggi chiuderò un occhio. Ma la prossima volta eviti di
portarla.»
Credo che l’infermiera abbia finito tutti i suoi controlli, perché
mi sembra di sentirla mentre liscia le mie lenzuola e risistema il
resto dei sensori. Il rumore metallico del portacartelle staccato dal
supporto me lo conferma pochi istanti dopo.
«Dottore? Vuole aggiornarla?»
«Scriva lei per me, per cortesia.»
L’interno detta in un gergo incomprensibile, poi firma la pagina
che gli porge l’infermiera. Quest’ultima lascia la stanza.
Thibault deve avere finito di sistemarsi, lo sento mentre fa
saltare Clara tra le sue braccia con disinvoltura. Non credo tuttavia
che sia giunto al punto di togliersi le scarpe. Se è venuto con una
neonata, non ha certo intenzione di dormire.
«Non ha risposto alla mia domanda» dice all’improvviso.
«Scusi?» si stupisce l’interno.
«Come mai anche con tutti questi aggeggi staccati riesce a
respirare?»
«Il suo organismo la mantiene in vita per circa due ore. È in
grado di respirare da sola e le sue funzioni vitali sono sufficienti in
questo lasso di tempo. Oltre, ha di nuovo bisogno di un
respiratore.»
«È normale?»
«Capita talvolta. Per noi è un segnale che il corpo non si è ancora
ristabilito e che il coma è necessario.»
Senza dubbio, avrei preferito che fosse l’interno a parlare di
staccare la spina ai miei genitori invece che il primario. Ha un modo
molto meno categorico di presentare le cose. Fa quasi passare il mio
coma per una malattia naturale e benigna.
«Ha un’idea del tempo in cui ci resterà?» si informa Thibault.
«Non posso rispondere a questa domanda.»
«Perché? Non lo sa?»
«Perché lei non è un familiare.»
L’interno si scusa quasi nel rispondere. Sento che vorrebbe dire
di più ma si trattiene.
«La lascio con lei» dice per mettere fine alla sua esitazione. «Le
auguro una buona giornata.»
«Altrettanto a lei.»
L’interno esce e ci lascia soli, Clara, Thibault e me. Sono ancora
completamente scossa da ciò che è appena successo. Scende il
silenzio. Anche i piccoli movimenti della neonata si mantengono
discreti. Mi chiedo che cosa stia succedendo. Ho l’impressione che il
mio arcobaleno si offuschi.
16
THIBAULT

Devo calmarmi.
No, sono calmo. Devo controllarmi, piuttosto. Julien ha visto
giusto.
Mi sto innamorando di una ragazza in coma. No, non è proprio
sano. Ma quando l’ho vista, gli occhi spalancati, in preda a questa
specie di sussulto pazzesco, ho reagito di riflesso.
Di riflesso… Mi faccio paura da solo, tanto più che mi sfugge un
sussurro dalle labbra.
«Elsa… Non so quasi nulla di te, eppure…»
Lascio la frase in sospeso. Per una volta, non mi rivolgo davvero
all’occupante della stanza. Non sento alcun bisogno di finire la frase
ad alta voce. Il seguito si delinea da solo nella mia mente. Mi rendo
conto allora che devo assomigliare a mio fratello dieci minuti fa. Il
paragone tra noi due mi demoralizza un po’, ma sono certo di avere
lo stesso sguardo evasivo che lui rivolgeva al cielo grigio oltre la
finestra.
Clara si agita tra le mie braccia; cerco un posto dove posarla e
lasciarla libera. Mi rendo conto allora di tutti i miei errori di padrino
ancora inesperto. Sono stato davvero un egoista a trascinarla
all’ospedale con me. Non ho nemmeno pensato di portare un
tappetino con i suoi giochi e le altre cose per tenerla impegnata.
Avevo calcolato tutto per non dover portare né biberon né
pannolini, ma non ho pensato al resto. L’unica possibilità è mettere
Clara sul letto accanto a Elsa, ma mi servirà un po’ più di spazio per
farlo.
Stendo il giaccone per terra e vi poso sopra Clara giusto il tempo
di ricavarle un posticino più comodo accanto al corpo inerte. Mi
blocco un istante. Elsa sembra così tranquilla rispetto a prima.
Niente a che vedere con i lineamenti tesi e le mani irrigidite del suo
corpo contratto.
Un aspetto positivo in questo spasmo c’è stato, anche se avrei
comunque preferito che non si verificasse: ho potuto vedere gli
occhi di Elsa. Di un azzurro pallido che mi ha sconvolto quanto lo
stato in cui versava. Rifletto un istante e ritrovo il luogo in cui ho
visto la stessa sfumatura di colore. La foto attaccata alla porta.
L’azzurro del ghiaccio su cui camminava.
Prima di vedere quella foto non avrei mai pensato che il ghiaccio
potesse essere azzurro. Per me, il ghiaccio è bianco, al massimo
trasparente se si tratta di un blocco abbastanza puro e liscio. Mi
riferisco alla brina del congelatore o ai cubetti di ghiaccio tondi del
pub. Le mie fonti sono piuttosto limitate. Nessuno mi aveva mai
mostrato del ghiaccio azzurro, al massimo nella versione alimentare
aromatizzata, e lo avevo trovato tremendo.
Lì, su quella foto, ho scoperto che cosa è in grado di fare il nostro
pianeta. La cosa mi ha sorpreso, perché, lavorando nel campo
dell’ecologia, ho già affrontato studi di caso relativi alla banchisa e ai
ghiacciai. Ma non essendomi specializzato in questo ambito, il tutto
si è limitato ai miei primi due anni da studente. Dopo mi sono
concentrato su altre cose. Elsa mi ha riportato con i piedi per terra.
O meglio sul ghiaccio.
Tiro un sospiro scuotendo la testa. Dieci giorni che le nostre
strade si sono incrociate, dieci giorni che il mio mondo si è orientato
verso di lei. Non ho alcuna speranza di rivedere nel giro di un’ora
questo azzurro che è glaciale solo nel colore, ma ho la speranza di
rivederlo un giorno. Il fatto che l’interno non abbia voluto
rispondere alla mia domanda non significa che Elsa sia condannata
a rimanere per anni in coma. Forse non ha osato dirmi che ne ha
ancora per tre mesi. Tre mesi ad alcune persone possono sembrare
tanti.
In compenso, mi ha dato qualche informazione non di poco
conto. Elsa può sopravvivere due ore senza tutta quella roba
elettronica. Avevo già capito l’ultima volta che in buona parte erano
solo sensori vari, ma non sapevo che fosse possibile staccare tutto
per qualche istante.
Adesso lo so, e mi sta bene.
Mi sporgo sopra di lei e prendo il tubo del respiratore artificiale.
Tremo all’idea di portare a termine il mio gesto e di provocare
qualcosa di irreversibile. Ma ho avuto la prova cinque minuti fa che
non avrebbe alcuna conseguenza per un certo tempo.
Stringo i denti e chiudo gli occhi. Clac. Ho scollegato il tubo
trasparente del respiratore. Sullo schermo accanto sento ancora il
bip regolare e rassicurante. Non oso fermare la macchina che
continua a pompare a vuoto. Le équipe mediche avranno senz’altro
un modo per tenere il tutto monitorato a distanza.
Mi allungo al di sopra del letto e allontano l’asta della flebo. Ne
approfitto per sganciare altri due o tre cavi, il tempo di spostare
Elsa. Per ultimo, metto la mano sull’ossimetro fissato al suo indice. È
l’unico vincolo temporale che ho se non voglio che le infermiere
arrivino in modalità “emergenza”.
Ho già infilato una mano sotto il corpo di Elsa. So che non ho
fatto alcun progresso rispetto all’ultima volta ma, oggi, decido che
ce la farò, a costo di procurarmi un crampo alla spalla. Preparo i
miei muscoli allo sforzo di sollevarla mentre stacco l’ossimetro dal
dito. Con l’altra mano la prendo per la vita e, con un pietoso
grugnito, riesco a spostarla di una ventina di centimetri.
L’adrenalina mi fa rimettere in fretta l’ossimetro all’indice e
ricollego tutta la roba che avevo staccato. Risistemo anche gli altri
cavi. È perfetto, Elsa è la stessa di qualche secondo prima, solo venti
centimetri più in là. L’unica cosa non proprio perfetta è il crampo
che mi è venuto simultaneamente sopra entrambe le scapole, ma
dimentico il dolore, tanto più che ho detto che ne valeva la pena.
Mi raddrizzo e do un’occhiata a Clara. La mia figlioccia è stesa
sulla schiena dove l’ho lasciata, e i suoi occhietti stanno
cominciando a chiudersi. La spessa imbottitura del mio giaccone
deve darle la sensazione di un materasso caldo e morbido. Per un
attimo immagino di essere al suo posto e subito mi minaccia il
sonno. Forse l’avere spostato Elsa alla fine mi sarà utile in altro
modo.
Prendo Clara e la sistemo sul letto accanto a Elsa. Si muove
contenta, il posto deve essere molto più morbido del mio giaccone
sul pavimento in resina. Mi tolgo le scarpe più velocemente
possibile e mi siedo sul bordo del materasso per studiare il tutto.
So che Gaëlle e Julien qualche volta dormono supini, con Clara
sdraiata a pancia in giù sul loro petto, ma non mi fido, soprattutto in
uno spazio così ristretto. Pazienza, mi metterò di lato, tenendo Clara
tra Elsa e me. Non rischierà in alcun modo di cadere.
L’unica cosa che non devo fare è addormentarmi ma, anche se il
sonno mi tenta tutte le volte che la mia figlioccia sbadiglia con la sua
boccuccia, so che rimarrò abbastanza sveglio da sorvegliarla. Mi
sistemo al limite del materasso per lasciarle più spazio possibile, ma
credo proprio che non se ne accorgerebbe nemmeno se la stringessi
un po’ di più contro di me. Vista l’immobilità delle sue manine,
credo si sia addormentata.
Il mio sguardo vaga sulla persona che si trova immediatamente
dietro di lei. Il braccio destro di Elsa forma un angolo strano e mi
rendo conto che l’ho lasciato io di traverso sulla sua pancia quando
l’ho spostata. Lo prendo lentamente come se avessi paura di
svegliarla e glielo stendo lungo il fianco. Peccato che al suo fianco ci
sia Clara e che, malgrado tutti i miei sforzi, mi ritrovi costretto a
lasciare il braccio inanimato a contatto con la mia figlioccia. La cosa
non sembra affatto disturbare la piccola, che non si muove di un
millimetro. Mi allungo allora attorno a Clara per formare una specie
di bozzolo. Le mie ginocchia toccano le gambe di Elsa, la mia fronte
è sulla sua spalla.
Da così vicino, il profumo di gelsomino che abitualmente emana
sembra più forte. O è il suo odore che filtra di più attraverso le
lenzuola? Chiudo gli occhi per un momento e tutt’a un tratto ho
voglia di piangere. Il singhiozzo mi sfugge dalla bocca prima che io
abbia il tempo di trattenerlo. Mi sembra di vomitare una palla di
dolore tanto le mie labbra si schiudono.
Sono penoso. Debole. Ho bisogno di essere steso in un letto
d’ospedale accanto a una donna in coma e a una neonata che dorme
per dare finalmente libero sfogo alle lacrime. In realtà ho pianto
anche la settimana scorsa con Julien, ma qui è completamente
diverso. Le due persone presenti in questa stanza non potranno mai
riferire quanto le mie lacrime fossero copiose né a che punto i miei
gemiti fossero dolorosi. Posso lasciarmi andare.
Non smetto più di piangere. Piango la mia arroganza, la mia
debolezza e le mie invidie. Piango per non essere ancora capace di
parlare a mio fratello. Piango la mia gelosia nei confronti di Gaëlle e
Julien, della loro unione felice, della loro famiglia perfetta. Sogno di
essere al loro posto e, in mancanza di questo, porto la figlia in visita
all’ospedale e abbasso la testa tutte le volte che una donna mi
sorride con tenerezza.
All’improvviso ho freddo, ma so che è solo un effetto della mia
mente. Non sento davvero freddo, è che vorrei avere due braccia
intorno a me a consolarmi. Non quelle di mia madre, non quelle di
Julien, tanto meno quelle di mio fratello. No, le uniche che forse
riuscirebbero a consolarmi oggi sono le braccia inerti a qualche
centimetro da me. E so benissimo perché lo penso. Ho bisogno di
quelle braccia per il semplice motivo che non le posso avere ora e
che, se le voglio, dovrò combattere. Sicuramente per la prima volta
nella mia vita.
Ho sempre ottenuto tutto facilmente. La promozione a scuola, gli
studi successivi, le tappe della mia vita, il mettermi in coppia. Anche
per Cindy è stato facile. E, a distanza, posso aggiungere che anche
quando mi ha lasciato è stato facile, perché mi ha dato sufficienti
motivi di detestarla per mandare giù più velocemente la rottura.
Sono tutti gli effetti secondari che sono stati meno evidenti, e mi
sono lasciato travolgere. Ho rialzato la testa cercando un nuovo
appartamento ma, alla fine, è l’unico obiettivo che ho realmente
raggiunto. Soffro per l’incidente di mio fratello anche se non c’entro
nulla. Forse è ora che io mi tiri fuori da tutto questo.
Forse è ora che io mi tiri fuori da tutto questo.
Smetto di singhiozzare altrettanto bruscamente di come ho
iniziato. Ecco la mia decisione. Ecco come combatterò. Combatterò
per me stesso e combatterò per lei. Voglio che Elsa si svegli e voglio
svegliarmi anch’io. Due boe di salvataggio che lavorano insieme. Io
farò la parte cosciente per tutti e due, lei farà la parte… Ehm… Non
so in realtà che parte potrebbe avere, ma voglio pensare che farà
qualche cosa.
Le mie ultime lacrime scivolano sul mio sorriso.
Sento allora un certo calore sulle dita e abbasso lo sguardo verso
di esse. Mi mordo le labbra scoprendo che è il braccio di Elsa che sto
accarezzando.
Devo calmarmi.
No, sono calmo. Devo controllarmi, piuttosto. Julien ha visto
giusto.
Sono innamorato di una ragazza in coma.
In questo momento mi sembra la cosa più sana che mi sia mai
capitata.
17
ELSA

Una vera delizia. Sono contro un arcobaleno e un fiocco di neve


dorato. Davanti ai miei occhi chiusi sfila tutta una serie di colori,
sfumature, piena di piccole faville al tempo stesso tenui e brillanti.
Mi sembra che la neonata si sia addormentata perché il suo respiro è
quanto c’è di più tranquillo. Quello di Thibault mi dice che è sveglio.
Il mio mi dice…
Il mio mi dice che Thibault ha riagganciato male il respiratore.
Ho seguito ogni suo singolo movimento e, anche se non sono
riuscita ad associare ciascun suono al rispettivo sensore, quello del
respiratore l’ho identificato. Odo un piccolo sibilo, molto lieve. Il
tubo dell’aria mi passa proprio sopra l’orecchio. Riesco e sentire, in
mezzo a tutto il resto, questo spiffero d’ossigeno che si perde nella
stanza.
Non c’è da agitarsi, se solo potessi farlo. L’aria che arriva ai miei
polmoni è sufficiente a farmi respirare. Non c’è d’aver paura.
La paura… È proprio questa paura che non voglio sentire, quindi
mi concentro sul mio esercizio abituale quando Thibault è qui.
Voglio girare la testa e aprire gli occhi.
Voglio girare la testa e aprire gli occhi.
Voglio girare la testa e aprire gli occhi.
Nel bel mezzo di questa ripetizione mentale all’improvviso c’è
un intruso. Calore. Dolcezza. Contatto.
Fugace. Mi devo essere sbagliata.
Voglio girare la testa e aprire gli occhi.
Voglio girare la testa e aprire gli occhi.
Di nuovo, dolcezza.
“Lascia perdere, cosa credi di poter sentire?”
Voglio girare la testa e aprire gli occhi.
Calore. Localizzato.
Localizzato? Dove? Dov’è?
Già sparito.
Ma non mi sono sbagliata. Tanto più che nel momento in cui ho
avvertito questo calore è comparsa una macchia viola davanti ai miei
occhi.
Avvertito… Come posso essere sicura di non essermelo
inventato, questo calore? Con tutti i miei esercizi di
autosuggestione, come distinguere ciò che è reale da ciò che è
immaginario?
Lascio cadere la domanda. Decido che è reale. Dopo tutto, la
donna delle pulizie sembra mi abbia sentita cantare l’ultima volta.
Okay… Cantare è sicuramente esagerato. Forse ho solo espirato più
forte del solito. Ma lei pareva così convinta! E con la musica che mi
girava in testa, ho voluto credere di essere finalmente riuscita a
emettere un segnale verso il mondo esterno.
Rido dentro di me, mi sembra di essere un’extraterrestre che
vuole mettersi in contatto con gli abitanti del pianeta.
Un’extraterrestre che al momento è capace di comunicare solo
attraverso i colori. E poi “comunicare” è una parola grossa. In
genere, la comunicazione avviene nei due sensi. Qui è proprio a
senso u…
Calore improvviso.
Scarica elettrica.
Il bip dell’ossimetro diventa più veloce e breve, poi rallenta
qualche istante dopo. Accanto a me, Thibault si muove. Credo che
cerchi di guardare il piccolo schermo su cui sfila il testimone delle
mie pulsazioni cardiache. Si immobilizza, come se stesse cercando
di capire, o come se aspettasse qualcosa. Deve ricredersi o
tranquillizzarsi, perché i movimenti successivi mi dicono che si sta
stendendo di nuovo. Solo a metà.
Anche in questo caso potrei sbagliarmi. Tanto più che non vedo
perché avrebbe dovuto solo sedersi. Ma, in genere, quando Thibault
si sistema accanto a me, passa un po’ di tempo a dimenarsi come un
gatto che cerca la posizione giusta. Stavolta non ho sentito nulla di
simile. Tutto tranquillo, starà sicuramente pensando, riflettendo,
sorvegliando Clara o chissà che altro. Poco importa. È qui, è ciò che
conta. Perché io, al momento, ho del lavoro da fare, e so benissimo
che va molto meglio se Thibault è con me.
Voglio girare la testa e aprire gli occhi. Voglio girare la testa e
aprire gli occhi.
Calore e contatto.
Sul braccio.
Contemporaneamente, il bip alla mia sinistra fa quattro battiti
veloci e poi si stabilizza di nuovo.
«Cristo, che succede?»
Anche se ha sussurrato, è evidente che Thibault è preoccupato.
Dopotutto, mi ha spostata e non sa che cosa può avere provocato.
Okay, ha anche riattaccato male il respiratore, solo che questo lui
non lo sa. Ma ho la netta sensazione che l’accelerazione del battito
del mio cuore non abbia niente a che vedere con la pompa alla quale
sono collegata solo in parte.
Sono stata in grado di localizzare il calore sul braccio.
Ho sentito. Davvero. Nessuna immaginazione, stavolta. Ne sono
sicura. Per qualche istante il mio cervello ha individuato il mio
braccio. In compenso non so quale, se il sinistro o il destro. Ma ho
sentito.
E voglio sentire di nuovo.
Il bisogno di contatto. Lo penso come una dipendenza, una vera
assuefazione che richiederebbe mesi di cure per disintossicarsi. Un
bisogno insaziabile che potrebbe chiudermi la gola, offuscarmi le
idee, farmi tremare fino alla punta delle dita.
Il mio desiderio viene esaudito qualche respiro dopo.
Sento di nuovo.
Calore, dolcezza, contatto.
Braccio destro, stavolta, di sicuro. In compenso però so che non
posso muoverlo. Non ci provo nemmeno. Mi concentro su questi
piccoli impulsi nervosi per tentare di associarli a dei ricordi. Dopo
quello che deve essere stato un lungo istante, sono in grado di
distinguere due zone di “calore, dolcezza, contatto”. Una immobile.
Una che si muove. Per lo meno, questa è la mia impressione.
È assurdo… Non sento né le mie gambe, né le mani, né tutto il
resto, ma sono in grado di isolare due zone che saranno a malapena
tre centimetri quadrati.
La forte accelerazione del bip del monitor alla mia destra mi fa
accantonare queste riflessioni. Tocca a me chiedermi che cosa sta
succedendo. Non capisco più niente. Non sento più niente.
Insomma, sì, sento una sola zona di calore e di contatto, quella
immobile. Di contro, il posto in cui la sensazione era in movimento
non c’è più. Vorrei capire che cosa mi succede.
I rumori si attenuano improvvisamente. Attingendo ai ricordi,
mi verrebbe quasi da dire che il mio cervello ha volontariamente
messo a tacere il mio udito per concentrarsi su altro. Ma su cosa?
Percepisco da lontano questo bip che metterebbe in agitazione
qualsiasi medico e mi chiedo perché non è piombato ancora
nessuno nella stanza. La mia cognizione del tempo è terribilmente
sfasata, non riesco a capire se è da un secondo o un’ora che il mio
battito si è imbizzarrito.
È la prima volta che il mio udito non funziona. Forse il
respiratore era veramente necessario. Forse sono i miei ultimi istanti
coscienti. Ho voglia di stringere i denti e di combattere per
riprendere i sensi. O, piuttosto, il mio senso dell’udito. Vorrei tanto
capire.
Nella mia mente è tutto in subbuglio. I colori, le consistenze, le
idee. Di nuovo, non so se sono passati due giorni o pochi minuti,
poi, progressivamente, mi riprendo. Sento i piccoli bip
normalizzarsi, sento il motore del respiratore, sento la perdita d’aria
nel tubo, sento Thibault e le sue lacrime.
Le avevo già sentite prima. Pesanti, spesse, piene di amarezza
nelle tinte grigiastre che mi erano passate davanti agli occhi. Ora il
loro colore non ha niente a che vedere con quello precedente. È
comunque piuttosto strano. Si direbbe un misto di tristezza e gioia.
Incomprensibile. Lascio perdere la mia analisi.
Sento anche il mio corpo che inspira a fondo.
È sorprendente. Anche se in effetti può essere che dopo un
simile afflusso sanguigno il mio organismo abbia bisogno di
rifornirsi di nuovo. La domanda rimane comunque perché.
Perché… Ho l’impressione che sia l’unica cosa che sono in grado
di chiedermi oggi.
18
THIBAULT

Non ho potuto resistere. L’ho baciata.


Mi aspettavo qualcosa di freddo. Primo errore.
Mi aspettavo qualcosa di rigido. Secondo errore.
Certo, non c’era il rischio che Elsa rispondesse al bacio, ma è
stato morbido. Abbastanza morbido da farmi associare questo
contatto con il ricordo di un qualsiasi altro bacio dato a un corpo
addormentato. Il genere di bacio in piena notte, quando il partner
dorme ancora. Magari quello con cui si cerca proprio di svegliare
anche l’altro. Quello grazie al quale la notte prende tutta un’altra
piega, o puramente sentimentale, o puramente fisica, o anche un
insieme delle due cose. Mi chiedo da quanto tempo non condivido
un momento simile.
Ma lì, in quella stanza d’ospedale, non so che cosa mi ha preso.
Qualcuno direbbe: “È stato più forte di me”. Non amo questa
espressione. Io direi piuttosto…
Era ovvio.
L’ho baciata.
Mi mordo l’indice per scaricare la tensione. Sono rientrato a casa
di Julien e Gaëlle già da due ore e sono ancora sovreccitato. Di certo
è per la scarica di adrenalina causata da tutta la situazione, e forse
anche per questi maledetti ormoni che si mettono in moto quando i
nostri sentimenti si risvegliano. Ho sprizzato euforia da tutti i pori
fino a poco fa, tornando all’appartamento quasi alla cieca. Quanto si
può diventare ridicoli quando si è innamorati…
Un cinguettio di Clara mi riporta momentaneamente sulla terra.
Vista l’ora, sarà il caso che le prepari il biberon della sera.
Rientrando, ho acceso la tivù per riflesso, ma il volume è
bassissimo. Credo di averlo fatto perché mi tenesse compagnia, ma
soprattutto per distrarmi. Il problema è che non funziona.
Nemmeno Clara ci riesce.
Una volta pronto il biberon, la appoggio su di me e la lascio
succhiare tranquilla. Il mio sguardo vaga in soggiorno e alla fine
trova un bersaglio. Il manuale del passeggino. È vero che ho un
progetto per domani, e che dovrò imparare ad aprire questo coso
infernale. Ma un altro libro attira la mia attenzione sotto il tavolino.
È strano che io lo abbia scorto, perché è ben nascosto sotto le
riviste. Sono stato io a metterlo lì l’ultima volta, imboscato apposta
per dimenticarlo prima di andarmene. Esito ancora un momento. Mi
chiedo proprio perché Julien mi abbia comprato questo libro, lui che
mi ripete da una settimana di fare molta attenzione a me e a quello
che mi succede nella testa e nel cuore. Magari pensa che questo
possa farmi desistere dall’andare a trovare Elsa. Magari vuole solo
contribuire alla mia cultura medica. Nutro grossi dubbi su
quest’ultima ipotesi.
Rimango immobile, in preda all’indecisione fino a quando Clara
finisce il suo biberon. È come una guerra di sguardi. Io che scruto il
libro per farlo levitare fino a raggiungere la mia mano, il libro che
mi sfida a prenderlo. Fortunatamente per lui, il libro ottiene un
rinvio per il tempo di mettere a letto Clara. Sfortunatamente per lui,
gli salto addosso intorno alle nove di sera, dopo una cena e una
doccia, come un soldato alla fine pronto per la battaglia.
Il libro inizia con una prefazione che salto bellamente. L’indice
sembra ben fatto, ma lo tralascio altrettanto velocemente per
affrontare l’introduzione. Cinque secondi dopo, ho già girato una
buona decina di pagine per entrare nel vivo dell’argomento.
Le spiegazioni all’inizio sono esposte in modo abbastanza
semplice, intercalando qualche frase scientifica. Ma presto i termini
diventano davvero troppo tecnici. Quando sollevo il naso verso
l’orologio a muro, sono le nove e dieci. No… Non è possibile… Ho
l’impressione che sia da più di un’ora che mi scervello su questo
libro. Resterà definitivamente sepolto sotto le riviste. Mi dichiaro
sconfitto.
E credo che una parte di me non abbia voglia di leggere quante
poche possibilità di risvegliarsi ha una persona in coma.
Non ho la minima idea dello stato di Elsa, nessuno me ne vuole
parlare. E, alla fine, mi sono reso conto che preferisco che nessuno
me ne parli. Preferisco non vedere e non sapere niente. Se non so
niente, mantengo la speranza. E la speranza è tutto ciò che mi
permette di andare avanti oggi.
Nove e un quarto, prendo il manuale del passeggino. Torno
facendo piano nella camera di Clara per recuperare l’oggetto del mio
scontento, e sposto il tavolino per crearmi un po’ di spazio. Le
mosse che seguono devono sembrare un pessimo balletto. Mi
trasformo in un terribile ballerino, pietoso partner di un passeggino
che accetta di piegarsi, o meglio di aprirsi, alle mie esigenze solo
dopo un duetto all’ultimo sangue.
Annuncio infine il clou dello spettacolo, vittorioso, alle dieci.
Lascio però il passeggino pronto all’ingresso. Anche se l’ho aperto e
richiuso cinque volte consecutive per essere sicuro di aver
memorizzato il movimento, temo lo stesso di non saperlo più fare
domani mattina.
Preparo tutto quello che mi serve per la mia figlioccia che mi
sveglierà in piena notte, poi mi stendo con delicatezza nel mio letto.
La lotta contro il passeggino deve avermi stancato più del previsto
perché mi addormento velocemente. Verso le quattro del mattino,
con la mente offuscata do il biberon a Clara prima di immergermi di
nuovo in un sonno profondo.
La sveglia suona alle sette. O meglio, il mio telefono vibra alle
sette. Mi precipito a spegnerlo per non disturbare i sogni della
piccola meraviglia che divide la camera con me.
È pazzesco vedere a che punto si possono ritrovare
comportamenti simili in situazioni pur così diverse. Ricordo di
essermi svegliato per tre anni in questo stesso modo per non
disturbare Cindy, che poteva dormire un quarto d’ora in più di me.
Le preparavo la colazione, all’inizio con amore, poi per abitudine.
Ripensandoci, credo di avere ricevuto un grazie solo durante le
prime settimane. Mi era indifferente, ero innamorato, poi abituato.
Adesso sono semplicemente devoto. E so anche che Clara non mi
lascerà.
Mi preparo di tutto punto, in modo da essere completamente
libero per quando Clara si sveglierà, cosa che non tarda di fare. La
copro con una varietà di vestiti per tenerla bene al caldo rispettando
le direttive di Gaëlle. Mi adopero a cercare anche il berrettino rosa
che le avevo regalato quando è nata. Lo trovo riposto in ordine
insieme al resto dei vestiti per “uscire”, come dice Julien. Capita a
proposito, pensavo proprio di “uscire”.
Un’uscita un po’ particolare però. Sarà una novità per la mia
figlioccia. Una novità anche per me. Non ho mai fatto jogging-
passeggino. So solo che il modello acquistato da Julien lo prevede.
Ho lo stesso qualche timore, ma si tratta più di eccitazione che di
nervosismo. Intanto posso dire, per la prima volta dall’inizio del
mese di dicembre, che ho un po’ meno l’aria di un astronauta.
Quando mi chiudo la porta alle spalle, il giaccone rimane appeso
all’attaccapanni.
Prendere l’ascensore con il passeggino si rivela meno difficile di
quanto mi fossi immaginato, contrariamente al semplice fatto di
uscire dal palazzo. Alle nove del mattino di domenica non c’è molta
gente a tenermi aperta la porta, anzi, non c’è proprio nessuno.
Ordino a Clara di tapparsi le orecchie mentre impreco a ripetizione
finché non oltrepasso il portone. Una volta fuori, all’improvviso mi
sembra di rinascere.
Non arrivo a capire davvero tutte le sensazioni che mi
attraversano, ma mi beo del semplice fatto di vedere i raggi del sole
filtrare attraverso le nuvole. Tecnicamente non dovrebbe piovere,
ma abbasso comunque quella specie di campana di plastica al di
sopra del passeggino. Non vorrei che Clara prendesse freddo.
Inizio dirigendomi verso il parco a passo sostenuto. Dopo
qualche centinaio di metri sono conquistato dalle scarpe che ho
preso in prestito da Julien. Se il passeggino è altrettanto adatto alla
corsa, mi piacerà più del previsto. Una volta giunto ai viali asfaltati
che percorrono la grande area verde, accelero progressivamente. Mi
trovo allora a trotterellare, all’inizio in modo maldestro, poi con più
sicurezza, lungo tutto il perimetro del parco.
Nel passeggino, Clara sembra più sveglia che mai. Questa nuova
esperienza deve incantarla. Ero molto scettico qualche giorno fa, ma,
adesso che mi trovo qui, sono convinto. Inizio anche a pianificare
nella mia testa delle sessioni più regolari. Dovrò parlarne con Julien.
Potremmo andare a correre insieme, così, di tanto in tanto. Mi
chiedo se anche Gaëlle si unirà a noi.
Verso le dieci il parco si è già riempito un po’ di più, seppur
molto meno di quanto immaginassi. Per il semplice motivo che il
sole sta iniziando a nascondersi definitivamente dietro le nubi.
Prendo allora la strada di casa e nel tratto finale mi rimetto a correre
perché ha iniziato a piovere.
Arrivo fradicio, tra sudore e pioggia, ma mi occupo prima
dell’angioletto che si è assopito nel passeggino. La spoglio e la
cambio, dopodiché Clara rifiuta categoricamente di lasciare le mie
braccia. Gironzolo in soggiorno giocando con lei, ma il mio morale
sprofonda con il diminuire della luce. Non è ancora mezzogiorno e
sembra già notte. Assomiglia stranamente a ciò che mio fratello
osservava ieri pomeriggio.
Quando un raggio di sole filtra attraverso le nuvole, mi avvicino
alla finestra per cercare di ritrovare le sensazioni che ho avuto
uscendo questa mattina. Non torna nulla. È come se il mio
organismo avesse dimenticato tutto.
La pioggia cade in lontananza. Solo un angolino ha ancora diritto
a un raggio di luce, facendo andare e venire un arcobaleno
pallidissimo. Si direbbe una spia luminosa che mi ricorda troppo
bene una certa linea su un certo schermo in una certa stanza
d’ospedale. Indico i colori per mostrarli a Clara, anche se so
benissimo che lei non si ricorderà mai di questa domenica in cui il
suo padrino le ha insegnato come fare per assistere a un tale
fenomeno.
Sospiro fissando l’arcobaleno. Sono di nuovo apatico, sembro
imitare l’attuale personalità di mio fratello. Clara deve percepirlo
perché cerca di liberarsi dalle mie braccia. La adagio nel suo lettino
e torno alla finestra, come attratto da una calamita.
La pioggia intensa assomiglia al mio stato d’animo.
All’improvviso ho voglia di urlare il mio dolore, ma so che questo
genere di comportamento comincia a farmi bene. Ho pianto
abbastanza. Ho preso delle decisioni. Odio i temporali, ma questo
arcobaleno sembra tuttavia ridarmi speranza.
I temporali serviranno pure a qualcosa.
19
ELSA

Il rumore languido del bacio che mia sorella si scambia con il


suo compagno del momento mi ripugna. Come osa farlo nella mia
stanza? Certo, lei non ha mai dovuto porsi delle domande in materia
di amichetti. Le basta pescare nell’assembramento che la segue
ovunque. Quindi il prescelto non deve averci pensato un solo istante
prima di rispondere al suo bacio.
Stando al fruscio di alcuni tessuti, ho anche l’impressione che
abbia fatto scivolare le mani sotto la maglietta di mia sorella. Lo
sento ridere, ma lei deve avere cambiato idea, perché le loro labbra
infine smettono di divorarsi.
Sospiro mentalmente. Sì, ero stufa di sentire che si baciavano,
ma, diciamolo, ero anche un po’ gelosa. Non perché mia sorella mi
ha parlato meno del solito, ma perché non provo quel genere di
contatto da quella che mi sembra un’eternità.
Quando mi sono svegliata questa mattina, avevo perso un po’ la
cognizione del tempo, poi è arrivata mia sorella e ho capito che è
mercoledì. Ho potuto stabilire una data precisa quando ha risposto
al telefono. Mi sembra sia il 10, ma non sono sicura di niente. In
ogni caso posso dire che Natale sarà tra circa due settimane. Mi
chiedo quale regalo mi toccherà.
Il nulla, di sicuro.
Che regalo si può mai fare a una ragazza in coma? Soprattutto
quando il suo compleanno è stato quattro settimane prima, e i
medici pensano solo a staccare la spina?
Mi ricordo il Natale dell’anno scorso, era stato più noioso che
mai. Mi ero ritrovata incastrata in uno di quei pranzi delle feste
interminabili in cui ci sono sempre le stesse persone e si mangiano
sempre gli stessi piatti, mentre io desideravo solo infilarmi gli sci ai
piedi e divertirmi sulle piste in una giornata in cui sugli impianti
non c’è quasi mai nessuno. Mia madre mi aveva rimproverata a più
riprese per la mia mancanza di convivialità. Avevo ribattuto
all’osservazione dicendo che mia sorella aveva avuto il permesso di
portare il compagno con cui si era messa da due settimane mentre a
me avevano negato la presenza di un amico di lunga data.
L’amico che volevo invitare era Steve. Tutta la mia famiglia lo
conosceva già, ma mi avevano detto di no. Mio padre lo detestava da
quando aveva saputo che si trattava del mio compagno di cordata.
Mia madre lo ignorava da quando aveva capito che si trattava
soltanto del mio compagno di cordata (e non del mio compagno e
basta). Mia sorella…
Mia sorella, non ho la minima idea di ciò che pensasse, ma d’un
tratto ho l’impressione che lo scoprirò presto. Dietro la porta della
stanza sento piuttosto chiaramente delle voci e mi sembra proprio
di riconoscere quella di Steve. La gioia mi pervade, e mi pervade
davvero. Meglio, mi sommerge, perché la mia vittoria della
settimana è di essere di nuovo in grado di percepire le mie
emozioni.
Sento che cosa mi circola nelle vene. Sento questi messaggi
chimici che mi attraversano e che provengono dal mio cervello per
tornarvi ricchi di informazioni. Il disgusto e poi la gioia sono quelle
che provo oggi, mentre ieri mi sembra di avere avuto diritto al
dispiacere e alla collera.
Questi ultimi due erano per il primario e il suo interno passati in
visita di cortesia. In realtà, venivano solo per parlare del mio caso.
Era come se avessero bisogno di avermi davanti agli occhi per
argomentare meglio ognuno dalla sua posizione. Il primario ha dato
una lezione di morale pazzesca all’interno quando ha saputo che
aveva messo al corrente la mia famiglia del mio sussulto di sabato.
L’interno si è difeso dicendo che era assolutamente normale farlo. Il
medico ha insistito sul fatto che bisogna lasciare da parte i dettagli
insignificanti quando si è scritto un bel “meno X” sulla cartella. Il
mio sussulto era solo un riflesso, un impulso nervoso che non
passava assolutamente attraverso il cervello ma dal mio sistema
nervoso vegetativo. Ho lasciato perdere sui termini medici
successivi, anche se ero curiosa di conoscere le argomentazioni del
mio medico ufficiale. Quando sono tornata in me, nella stanza non
c’era più nessuno.
Ma adesso mi ritrovo con cinque persone che fanno un baccano
incredibile.
«Pauline!» esclama Rebecca. «Oh, non pensavo di vederti! Che
bello che sei venuta. Come stai?»
Mia sorella risponde velocemente a Rebecca. Posso immaginare
l’espressione disorientata del suo compagno trovandosi di fronte a
tre sconosciuti. Mia sorella li presenta. Il suo ragazzo emette appena
un breve grugnito a mo’ di saluto. Credo che non passino nemmeno
dieci secondi prima che se la batta.
Steve e Alex sogghignano nel loro angolo mentre Rebecca si
preoccupa come sua abitudine.
«Credi che lo abbiamo spaventato?»
«Oh, tranquilla, Rebecca!» le risponde mia sorella. «È solo un po’
selvatico.»
«Visto il modo in cui ti teneva per la vita, “selvatico” è
effettivamente il termine giusto» commenta Alex ridendo.
«Alex!» esclamano insieme le due ragazze.
«Oh, dài, si può ridere un po’, no?»
«E io sono d’accordo con lui» aggiunge Steve.
«Io… Ehm… scusate.»
Sono sconcertata. Era senza dubbio la voce di mia sorella, però
trasformata. Una specie di lieve sussurro che non sembra per niente
convinto. Francamente non è da lei… E all’improvviso capisco.
Mia sorella e Steve. Aiuto… Mia sorella è forse innamorata di
Steve?
Ora che l’ipotesi mi passa per la testa, mi chiedo perché non ci
ho pensato prima. Eppure era così evidente! E invece no, dovevo
finire in coma per rendermene conto. Tutti quegli indizi che non ho
mai visto. Ecco perché non riuscivo a definire con certezza che cosa
mia sorella pensasse di lui.
Questa idea mi permette di percepire a livello fisiologico la mia
nuova emozione del momento, la compassione. Perché mi ritrovo a
sperare con tutta me stessa che mia sorella riesca a confessare
quello che prova. Certo, magari non in questa stanza d’ospedale.
Soprattutto dal momento che Steve non è il tipo che perde tempo in
spiegazioni, nemmeno con le ragazze.
Credo che solo con me abbia tentato di essere più sottile e,
sfortunatamente per lui, non ha funzionato, anche se è un tratto del
carattere che mi piace.
Mi raffiguro il quadretto di Steve e mia sorella insieme. Mi fa
sorridere interiormente. Immagino di sorridere davvero.
«Ha l’aria felice, oggi» dice Rebecca.
Capisco che sta parlando di me perché i suoi passi si sono fatti
più vicini al letto. Ho voglia di urlare di gioia quando sento il
contatto della sua mano sul mio braccio sinistro, la mia seconda
vittoria dopo la visita di Thibault.
«Eppure non ce n’è proprio motivo.»
La voce di mia sorella mi gela il sangue nelle vene. Nuova
emozione. Il timore. Non sono ancora alla paura. E a dire il vero è la
prima volta che ho voglia di non provare nulla.
«In che senso, Pauline?» chiede Steve.
«No, niente.»
«No, scusa, credi davvero di poter dire una cosa simile e poi far
finta di nulla?»
Che cosa dicevo… Il tatto di Steve, completamente inesistente.
«Non sono autorizzata a parlarvene» prosegue mia sorella.
«Come non sei autorizzata?»
«Perché non fate parte della famiglia.»
Steve dev’essere sul punto di esplodere. Capisco che Rebecca si è
avvicinata a mia sorella.
«Pauline, tu sai che, per Elsa, noi facciamo parte della sua
famiglia, anche se non abbiamo alcun legame di parentela. Non ci
puoi lasciare in questa attesa dopo quello che hai detto. Che cosa
succede?»
Ecco, questo è tatto. Ringrazio silenziosamente Rebecca per il
suo intervento delicato ma deciso. I miei tre amici vogliono una
risposta e non se ne andranno fino a che non l’avranno ottenuta.
«Ragazzi, devo davvero spiegarvelo?»
La voce di mia sorella mi strazia il cuore. Credo che stia per
scoppiare a piangere.
«Non si risveglierà, è così?»
La voce di Steve è fredda come i ghiacciai sui quali siamo abituati
a camminare. Nella mia mente, i suoi colori passano dal rosso cupo
al blu più glaciale possibile. Troppe emozioni per me. Ho quasi
voglia di sottrarmi all’ascolto della conversazione.
«I medici dicono di no.»
Il tono di mia sorella conclude la sua spiegazione. Nessuno
interviene. Almeno non subito.
Com’è prevedibile, è Alex a parlare per primo.
«Grazie per l’informazione. Sono sicuro che Elsa avrebbe voluto
che tu ce lo dicessi.»
«Non so assolutamente che cosa Elsa avrebbe voluto, e credo che
non lo saprò mai» ribatte mia sorella con rabbia.
«Calmati, Pauline, non serve a niente prendersela così.»
«Come non serve a niente? Io me la prendo quanto voglio!»
Credo di non avere mai sentito mia sorella esprimersi in questo
modo.
È il momento in cui la maniglia della porta cigola di nuovo. Sento
inspirare tutte insieme le quattro persone nella mia stanza. Non
sarà mica l’amichetto che ha deciso di tornare?
«Ehm… Credo di essere capitato in un brutto momento.»
Thibault. Il mio arcobaleno. Che faticherà a disperdere
l’atmosfera elettrica.
«Già, direi!» gli risponde mia sorella. «E tu chi sei?»
«Calmati, Pauline.»
Stavolta l’ordine arriva da Steve. Sono al tempo stesso colpita e
sorpresa.
«Vieni con me» continua lui.
«Dove?» sbotta mia sorella.
«Fuori. Ti devi calmare.»
Capisco che la prende per il braccio e la trascina fino al corridoio.
La porta sbatte alle loro spalle. Sulla stanza cala un silenzio pesante.
Era quello che pensavo. Anche con mia sorella e Steve fuori dalla
stanza, il temporale all’interno continua.
«Buongiorno, voi due…» dice Thibault avvicinandosi. «Credo di
essere arrivato proprio in un brutto momento. O ho fatto qualcosa
che non avrei dovuto?»
Immagino il mio arcobaleno abbacchiato, che non sa bene come
comportarsi. Almeno è quello che riflette la sua voce. Ho anche il
desiderio profondo di riuscire nel mio esercizio, “girare la testa e
aprire gli occhi”. Vorrei così tanto vederlo.
«No, è solo la sorella di Elsa che è un po’… a disagio» dice Alex
cauto.
«Non sembra così a disagio» lo provoca Thibault.
Nessuno gli risponde. Sento che si avvicina a me. Metto in allerta
tutte le parti del mio cervello che potrebbero funzionare. A forza di
concentrarmi, percepisco un contatto sulla fronte, sui capelli e sulla
guancia, mentre sento una mano che ci passa sopra. Ho la
sensazione di annegare, come se il dolce calore fosse imponente
come un oceano. Tuttavia la sensazione è impalpabile quanto un’ala
di farfalla. Il respiro di Thibault è molto vicino, come nei giorni in
cui si addormentava accanto a me.
«Oggi non posso restare, Elsa» sussurra il più piano possibile.
«Hai gente in visita. Non farò l’egoista tenendoti tutta per me.»
Emozioni confuse. Miscuglio caotico di gelosia, invidia, tristezza
e qualcosa che non riesco proprio a isolare.
Sensazione netta. Thibault mi bacia sulla guancia. È come
un’esplosione di sapori. Focalizzo ogni minima particella del mio
cervello, anche quelle inattive, su ciò che provo. Credo che potrei
descrivere nel dettaglio la forma delle sue labbra, la curva della sua
bocca, il più piccolo solco su questa carne rosa che sogno
letteralmente di baciare.
Ora più che mai voglio girare la testa e aprire gli occhi.
Il calore svanisce prima che io ci riesca.
Non potendo più affogare nel contatto, affogo nella mia tristezza
sentendo Thibault salutare Rebecca e Alex. Esce dalla stanza, io
sono in un mondo a parte. Nemmeno le voci dei miei amici sono in
grado di riportarmi a loro. Riesco comunque a cogliere qualche
parola in mezzo a tutto questo, come se il suono fosse soffocato
dalle nubi.
«Pensi che dovremmo parlargliene? Sembra esserle così vicino,
adesso…»
«No. Lascialo sognare. Lascia che almeno uno possa ancora
farlo.»
20
THIBAULT

Guardo alternativamente ogni tre minuti circa prima l’orologio a


muro dell’ufficio e poi il mio, come se uno dei due potesse
mentirmi. È da stamattina che non riesco a concentrarmi, è atroce. Il
dossier che ho davanti agli occhi non procede di un passo. Mi chiedo
persino se è davvero avanzato di un solo passo da quando l’ho preso
in mano.
So benissimo che cosa mi succede. Ho un vuoto dentro che potrà
essere colmato soltanto domani, perché ieri non ho potuto vederla.
Insomma, ho potuto vederla, ma solo per due minuti, e ho dovuto
ricorrere a tutta la mia galanteria per non rimanere e accaparrarmi
Elsa durante l’oretta che avevo a mia disposizione. Di conseguenza
ho gironzolato per i corridoi dell’ospedale passando diverse volte
davanti alla camera 52, ma anche a quella di mio fratello. Mia madre
aveva lasciato la porta socchiusa come per tentarmi un’ennesima
volta.
Aveva ragione. Mi sono lasciato tentare. Sono entrato nella
stanza senza dire niente. Hanno cercato di farmi parlare, ma ho
preso una rivista senza nemmeno alzare gli occhi verso di loro e mi
sono sistemato in un angolo, visto che mia madre occupava l’unica
sedia scomoda concessa ai visitatori.
Ho ascoltato la loro conversazione con orecchio distratto
sfogliando le pagine della rivista, che si è rivelata essere una raccolta
di tutte le notizie più stravaganti. Non mi sono nemmeno accorto
che mia madre fosse uscita. È stato quando mio fratello si è schiarito
la voce che ho finalmente sollevato lo sguardo e constatato che
eravamo soli. Ci siamo fissati per un momento, nel silenzio, poi mio
fratello ha preso la parola. All’inizio è stata una conversazione
assolutamente banale, poi all’improvviso ha cambiato rotta.
“Perché non vieni mai a trovarmi?”
“Davvero te lo domandi?” ho detto in tono piatto.
“In realtà… no” ha risposto con un sospiro. “Tu pensi che io mi
meriti ciò che mi accade. Ma ti riformulo la domanda. Dove te ne vai
mentre la mamma è qui? Resti in macchina?”
In quel momento ho chiuso la rivista, buttato un’occhiata alla
porta chiusa e ho deciso di dire tutto. Senza fermarmi, ho raccontato
i miei crolli sulle scale, le mie crisi di collera, il mio errore di stanza
due settimane fa, il mio incontro con Elsa. Ho raccontato tutti i miei
momenti di indecisione, e persino l’istante in cui ho preso coscienza
dei miei sentimenti per una ragazza in coma. Ho ammesso anche di
non riuscire ancora ad accettare che mio fratello abbia ucciso due
persone solo perché era stato troppo stupido per rinunciare a
mettersi al volante.
Ho buttato fuori tutto questo alla rinfusa, ma lui è riuscito a
seguirmi. A un certo punto ho anche creduto di vedere i suoi occhi
luccicare, ma no, non era possibile.
“Ce l’hai ancora così tanto con me?” mi ha chiesto alla fine del
mio monologo.
“Eccome…”
“Che cosa ci fai qui, allora?”
“Che cosa?”
“Che diavolo ci fai nella mia stanza? Lei non voleva vederti,
oggi?”
Sono balzato in piedi e, in meno di due secondi, ero sopra di lui,
una mano sul suo petto, la faccia a venti centimetri dalla sua.
“Ti proibisco di parlare in questo modo di lei.”
I miei occhi hanno sostenuto il suo sguardo per un lungo istante,
fino a quando lui lo ha distolto. Ciò che ha detto dopo mi ha fatto
indietreggiare per la sorpresa.
“Sei davvero innamorato.”
Non lo ha detto con cattiveria o scherno. Lo ha detto con invidia.
Non ho capito niente di quanto stava accadendo. Tanto più che mio
fratello ha proseguito:
“Sei davvero innamorato e io ti invidio. Non di essere
innamorato, ma di poter provare emozioni di questo tipo. Non sono
mai stato molto sincero o… profondo, sì, è questa la parola. Non
sono mai stato profondo nei miei sentimenti per gli altri. Non lo so.
Avevo paura che non mi amassero? O forse me ne fregavo. E oggi lo
trovo… pessimo. Ma questo non significa che riesca a fare
altrimenti.”
Sono rimasto immobile fintanto che ha parlato, poi ho capito che
si sarebbe fermato lì. Ero francamente sopraffatto. Non avevo dato
alcun credito a mia madre quando mi aveva detto che mio fratello
rifletteva su quanto gli era accaduto.
Forse avrei dovuto.
“Devi solo provarci” ho buttato lì tornando a sedermi nell’angolo
della stanza.
“Mi piacerebbe” ha risposto senza fronzoli.
“Che cosa ti aspetti?”
“Non ne ho idea.”
Da quel momento il suo sguardo ha vagato verso l’esterno, e ha
parlato solo a mia madre quando è tornata. In ogni caso mi ha
fissato per qualche secondo quando ce ne stavamo andando via. Il
miscuglio più anarchico che io abbia mai scorto. C’era una tale
confusione di sentimenti ed emozioni nei suoi occhi che sul
momento mi sono chiesto come aveva potuto dirmi che non provava
nulla. Poi ho fatto un cenno con la testa per salutarlo, o per
incoraggiarlo a non so bene cosa. La sua risposta è stata ancora più
discreta della mia, e ci siamo limitati a questo.
In macchina, mia madre ha cercato di sapere che cosa fosse
successo nei suoi dieci minuti di assenza. Ho avuto quasi
l’impressione che avesse fatto in modo di lasciarci soli. Quando l’ho
riportata a casa, ha voluto che mi fermassi. Per una volta, ho detto di
sì senza esitare. Non avrei chiesto ancora a Julien di tenermi
compagnia per la serata, soprattutto dal momento che il battesimo
di Clara è domenica e che ha altro da fare che stare dietro al suo
migliore amico.
A questo punto, sono tre ore che mi trattengo dal chiamarlo
perché ho la sensazione che la serata sarà molto dura. Non ho voglia
di andare da mia madre che mi farebbe tutta una serie di domande.
Non ho voglia di andare da un collega che me ne farebbe ancora di
più. Ho solo voglia di vedere lei.
Il libro-gioco si attiva all’improvviso nella mia mente. È rimasto
bloccato per tutto il giorno a pagina 100, o “pagina bianca”, come mi
piace descriverla. Ora è come se un colpo di vento lo avesse fatto
tornare a pagina 99: “Fate quello che vi sentite”.
Che cosa mi impedisce di andare a trovare Elsa questa sera? Le
visite sono permesse tutti i giorni, cambiano solo gli orari. Oggi è
giovedì. In genere si può entrare dalle tre alle sei del pomeriggio.
Ho la risposta mezzo secondo dopo. Finisco di lavorare alle sei.
Quindi, non c’è modo.
Sì. Un modo c’è.
Non mi prendo nemmeno il tempo di sorridere alla pagina 54 –
“Fate tutto il possibile per riuscirci” – e mi precipito nell’ufficio del
mio capo. Nel libro-gioco non era indicato che cosa fare per riuscirci,
c’era scritto soltanto “tutto il possibile”. Scelgo una parziale onestà:
non ho il tempo di inventarmi qualcosa.
«Ho un impegno importante. Posso uscire prima?»
Il mio superiore mi guarda con sospetto. Non ho mai fatto
alcuna richiesta personale da quando lavoro in questa azienda, ma
dopo i miei attacchi di collera contro Cindy al momento della nostra
rottura, anche se risalgono a un anno fa, sul mio dossier è stata
apposta una grande croce rossa.
«Di che cosa si tratta?» chiede il mio superiore sospirando.
«È complicato da spiegare» rispondo esitando.
«Ho l’impressione che sia lei a essere complicato, Thibault.»
«È molto probabile.»
La mia risposta lo fa sorridere e capisco che ce l’ho fatta.
«Che cosa significa per lei “prima”?» mi chiede vedendomi già
uscire dal suo ufficio.
«Subito?» butto lì, dicendomi che rischio al massimo un rifiuto
educato.
«Vada. Levi le tende. Domani però sarà qui alle sette.»
Scuoto la testa a mo’ di ringraziamento, poi corro in ufficio a
recuperare le mie cose. Il cuore mi batte all’impazzata, non so se per
la corsa sulle scale o per la vittoria. Non mi interessa proprio.
So solo una cosa.
La vedrò.
21
ELSA

È Natale con due settimane di anticipo. È giovedì e Thibault è


qui.
Si trova nella mia stanza già da un po’. È arrivato euforico. Mi ha
raccontato la sua strana giornata e mi ha anche detto che aveva
lasciato il lavoro prima per venire a trovarmi. Sono rimasta
perplessa sentendo questa notizia. Tanto più che si tratta di una
delle rare volte in cui ha avuto una conversazione di questo tipo con
me, se si può parlare di conversazione. La sua voce colorata era
piena di sfumature cangianti. Alla fine si è stabilizzata su una
consistenza vellutata e non sono più riuscita a capire tutto. D’altra
parte, non sempre capisco davvero, ma non è importante. Mi sento
bene, è questo che conta.
Malgrado il “meno X” scarabocchiato sulla mia cartella clinica,
mi sento bene.
D’altronde, mi sembra che Thibault sia l’unica persona all’oscuro
di questo dettaglio. Forse è per questo che mi sento bene quando lui
è qui. Forse è per questo che in sua presenza recupero i sensi. Adoro
la mia famiglia e i miei amici, ma… Thibault è davvero la persona
per cui voglio risvegliarmi a ogni costo.
Ora è steso accanto a me come tutte le altre volte. Ha, come tutte
le altre volte, ricollegato male il respiratore, cosa che farà brontolare
l’infermiera quando se ne accorgerà. Per ora pensa ancora che il
tubo scivoli. Non immagina che qualcuno lo scolleghi regolarmente.
In ogni caso, ho l’impressione che Thibault si sia abituato a
spostarmi. O che sia più allenato. Ma in così pochi giorni sarebbe
sorprendente. Ciò non toglie che oggi devo essere stata spinta fino
al bordo del letto, perché l’ho sentito sospirare di soddisfazione
sistemandosi sul mio materasso. Tuttavia non ho ancora la certezza
che dorma.
«Elsa…»
No, non dorme. O forse parla nel sonno. Ma questo sussurro è
quello di una persona completamente sveglia.
«Elsa…»
Vorrei rabbrividire. Quanto vorrei rispondergli! Il suo nome mi
ha attraversato la mente più volte in due settimane che qualsiasi
altro pensiero da due mesi. È una delle poche certezze che ho su di
lui. Il suo nome. Per il resto, non faccio che immaginare come sia.
Nelle ore di solitudine, ho avuto il tempo di dare un ordine ai
miei sensi. All’inizio sono partita dal presupposto che la vista fosse
il più importante, tuttavia, essendo isolata con il solo udito, mi sono
detta che sentire era già un bel colpo di fortuna. Per il gusto, ho
deciso che poteva essere secondario. Per l’olfatto, mi sono resa conto
che mi piacerebbe sapere che odore ha Thibault. In quel momento il
breve bip accanto a me si è imbizzarrito per qualche secondo, poi
sono tornata ai miei esercizi mentali. Ma arrivo sempre alla
conclusione che nessuno funziona come quando Thibault è sdraiato
vicino a me.
E, oggi più che mai, vorrei scoprire il suo viso, il colore dei suoi
occhi, osservare queste mani che mi hanno mandato delle scariche
elettriche sulle braccia la prima volta.
Vorrei annusarlo, sapere se usa un profumo, imparare a
riconoscere l’odore della sua pelle. Vorrei toccare il suo corpo con
tutto il mio.
In compenso lascio il senso del gusto da parte perché l’ossimetro
impazzisce in modo esagerato quando mi ci attardo. Ogni volta che
ho immaginato di baciare Thibault recuperando il ricordo che avevo
delle sue labbra sulla mia guancia, ho sentito arrivare l’infermiera.
Alla quarta volta in meno di mezza giornata, il medico di servizio ha
detto di smetterla di interromperlo per questo. Rammento tuttavia
che ha accennato al fatto di ricordare al suo collega, il medico che mi
ha in cura, di rifarmi una risonanza magnetica. Ma quando aveva
visto il “meno X” sulla mia cartella, si era subito ricreduto, dicendo
all’infermiera di dimenticare ciò che aveva detto.
Questo intervallo mi ha lasciato una minima speranza di poter
mostrare al mondo che sono ancora attiva. Ma si affidano tutti ai
sensori di minor ampiezza, e nessuno di questi è in grado di
mostrare i segni della mia attività cerebrale. Eppure… Eppure sono
viva!
Ho voglia di gridarlo.
Sono viva!
«Elsa… Quando hai intenzione di risvegliarti?»
La voce di Thibault mi fa venire voglia di piangere. Posso perfino
sentire le mie sacche lacrimali che cercano di attivarsi. È pazzesco
poterle individuare nel proprio corpo. Certo, non è un gran
successo, al mio risveglio non dichiarerò fiera che sono in grado di
localizzarle, ma ora è una vera delizia riuscire a farlo, percepire una
volta di più delle parti del mio organismo. Sentire non è che una
tappa sulla strada del movimento. È una specie di credo che mi sono
inventata. Il mio cervello è capace di ricevere informazioni. Ora
vorrei che le inviasse.
Vorrei anche poter dare una risposta a Thibault. E i miei dubbi
mi fanno subito sprofondare. So che ho bisogno di tempo per
risvegliarmi. Ma non ho questo tempo. Il “meno X” sulla mia
cartella si trasformerà forse presto in “meno qualche cosa”. E anche
se spero che quel qualche cosa sia il più grande possibile, so
benissimo che non sarà infinito. Prendere una decisione simile
inevitabilmente logorerà i miei genitori. Non li ho “visti” dopo il
loro scambio con il medico, so che ci stanno pensando. Ma, al loro
posto, se alla fine dovessi decidere per il sì, preferirei non tirarla
troppo per le lunghe.
«Voglio che tu ti risvegli.»
Queste poche parole pronunciate nel più dolce sussurro mi
distolgono dai miei pensieri negativi. Sono combattuta tra un
ironico “figurati io!” e un “grazie…” pieno di emozioni. Devo
accontentarmi di immaginare di dire l’uno o l’altro. Il mio corpo
sembra tuttavia percepire questo desiderio, perché mi sento
sospirare. Mi sembra anche di sentire il mio diaframma muoversi
nella pancia. Ancora un altro progresso. Se solo Thibault potesse
restare sempre qui con me.
Lo immagino allora raggomitolato a ogni ora del giorno e della
notte accanto a me, che respira, vibra, presente come non mai.
Ripenso alle sue labbra sulla mia guancia. Sul monitor il ritmo
cardiaco accelera un po’, tuttavia niente di allarmante. I miei
pensieri vanno da soli verso ciò che mi ero vietata da qualche tempo,
ma non posso trattenermi. Il bip aumenta ancora di frequenza e
ripeto con insistenza al mio cervello di controllare tutto questo.
Sembra funzioni.
Da quel momento, la mia immaginazione deraglia. Seriamente.
Poi tutto si paralizza.
Una sensazione mi percorre le gambe.
Ho freddo.
«Elsa. Ti devi risvegliare e rimettere su un po’ di muscoli!»
Il tono scherzoso di Thibault mi sorprende quanto la sensazione
di freddo. Ma di cosa parla?
«Mi sono permesso di guardarti le gambe. Spero tu non me ne
voglia. Ho solo sollevato il bordo del lenzuolo. Nessuna cattiva
intenzione da parte mia, ti vedo solo dai piedi alle ginocchia. Mi
stavo chiedendo a che cosa assomiglino.»
Ho voglia di ridere. Che cosa potranno mai avere di tanto
interessante le mie gambe?
«Ho cercato qualche informazione approfondita sull’alpinismo.
Leggendo tutto quello che ho trovato mi sono detto che dovevi
essere incredibilmente muscolosa! Ma qui, bella mia, ci sarà un bel
po’ di lavoro da fare al tuo risveglio!»
Di nuovo, vorrei ridere a più non posso, rispondere a Thibault
che lavorerò quanto vorrà e chi se ne frega, al momento, di sapere
che i miei polpacci assomigliano a rami d’albero. Chi se ne frega! Ho
freddo, Thibault! Ho freddo! Te ne rendi conto?
«Sono innamorato di te, Elsa.»
Uno. Due. Tre. Biiiiiiiiiiiiiip!
L’ossimetro emette un forte suono nel momento in cui il mio
petto si contrae. I muscoli del collo si tendono bruscamente, la testa
scivola un poco all’indietro. Le spalle ricadono sulla schiena. Il
bacino indietreggia. Il respiro è rotto. Poi tutto ricade.
Sento un pizzicore nelle membra, come un retrogusto, o un
retropensiero dovrei dire, di ciò che mi è successo. Per un intero
secondo sono stata interamente cosciente del mio corpo. “Ripetilo,
Thibault, te ne supplico. Voglio essere di nuovo me stessa.”
«Elsa… Io… Io credo che tu mi abbia sentito.»
“Sì, ti ho sentito, Thibault! Certo che sì! Sono almeno due
settimane che ti sento! E vorrei sentirtelo ripetere ancora e ancora.
Per risvegliarmi, per tranquillizzarmi, solo per il piacere di saperlo.
“Sapere che una persona su questa terra crede ancora in me.”
Ma sento semplicemente un gran fruscio di lenzuola e il peso di
un corpo che si solleva dal materasso. Percepisco il mio che si sposta
e viene rimesso al centro del letto. Poi Thibault si infila le scarpe e i
vestiti. Conosco il suo rituale a memoria. Il maglione, la giacca, la
cerniera, lo scaldacollo, i guanti, il berretto nella tasca e una passata
con la mano tra i capelli.
Il suo peso sul bordo del letto.
«So che mi senti, Elsa.»
Le sue labbra contro la mia guancia.
Il bip dell’ossimetro durante il contatto.
«Me ne dai prova ogni volta.»
In quel momento, percepisco dei rumori di corsa nel corridoio,
ma i passi frettolosi superano la mia porta senza fermarsi. Questo
sembra riportare Thibault a quanto stava facendo.
«A domani…»
Un bacio ancora e Thibault se ne va.
Il mio cervello ha immagazzinato più informazioni che mai. Ora,
al lavoro.
22
THIBAULT

«Si sposti!»
Mi appiattisco subito contro il muro del corridoio, il tono
pressante dell’infermiere è sufficiente a farmi capire che non ha il
tempo di essere gentile. Non so che cosa sta succedendo, ma c’è un
gran trambusto al quinto piano. Infermieri e medici corrono in un
modo che sarà sicuramente organizzatissimo ma che a me pare
piuttosto disordinato. Dev’essere accaduto qualcosa, ma in quel
momento non me ne frega niente.
La mia mente è altrove. Da qualche parte tra il mio corpo e il mio
cuore. Non ho mai fatto una dichiarazione in simili circostanze. Ma
sfido chiunque a raccontarmi di essersi trovato in una situazione
così.
Imbocco le scale perché gli ascensori sono tutti requisiti per il
caso urgente che sembra gettare nel panico la metà del piano.
Quando arrivo giù, l’agitazione si è già diffusa. Esco dall’ospedale
camminando rasente i muri per non disturbare le persone in camice
che si precipitano all’esterno. Scorgo un assembramento di
personale medico a una trentina di metri. Deve essere il motivo del
subbuglio.
Raggiungo l’auto, i miei pensieri sempre appollaiati al quinto
piano intorno al fragile corpo della stanza 52. Quel corpo che avrei
voluto stringere tra le mie braccia. Ma quando ho visto quelle gambe
così sottili e fragili dopo mesi di immobilità, ho represso il mio
desiderio egoista e mi sono accontentato di sedermi di nuovo
accanto a lei prima di andarmene. Avrei avuto troppa paura di
rompere qualcosa.
Arrivo a casa venti minuti dopo senza essermi reso davvero
conto del tragitto. Mi metto sul divano, con tutti i sensi
addormentati. I miei gesti sono solo il frutto del riflesso e
dell’abitudine. Un’idea si instilla lentamente dentro di me mentre
sorseggio un bicchiere di succo di pera.
Amo qualcuno e questo qualcuno lo sa.
Faccio un sospiro profondo e mi mordo il labbro inferiore per
trattenere invano un enorme sorriso. Chiunque mi chiedesse di
spiegare la situazione concluderebbe che sono pazzo. Allontano
questo pensiero dicendo a me stesso che se l’avessi incontrata e
amata prima che cadesse in stato di coma, la situazione sarebbe in
fin dei conti un po’ diversa.
La suoneria del cellulare mi obbliga a lasciare il divano e il mio
sogno a occhi aperti.
«Pronto?» dico sbadigliando.
«Sei già stanco a quest’ora?»
«Julien… Non ho nemmeno più il diritto di sbadigliare, adesso?»
«Non quando ti chiamo!»
«Okay, e per cosa mi chiami?»
Il mio migliore amico si lancia in un piccolo questionario
sapientemente preparato da sua moglie riguardo al battesimo di
Clara. Ho pensato bene a questo, non devo dimenticare quest’altro,
bisognerà che faccia questo durante la cerimonia, e via dicendo.
«Mi ricordo tutto, tranquillizzati! Che cosa sta cercando di fare
Gaëlle? Vuole sottopormi a un ultimo test per diventare padrino?
Questo weekend non è bastato?»
«Sì, sì, sei stato bravissimo con Clara. Gaëlle era davvero
contenta.»
«Quindi?»
«No, cercavo solo di alleggerire un po’ lo stress.»
Qui Julien mi prende alla sprovvista. Il mio migliore amico
stressato?
«Che ti succede?» gli chiedo subito dopo.
«Oh, è solo l’organizzazione del battesimo che ci tiene un po’
sulle spine, Gaëlle e me.»
Il suo tono mi induce a esitare.
«Julien… Che cosa ti aspetti precisamente da me?»
«Hai un po’ di tempo questa sera?»
«Certo che ho tempo per te! Ma che cosa succede?»
Le risposte di Julien iniziano davvero a preoccuparmi.
«Oh, niente di serio, tranquillo!»
«E allora perché sei così?»
«È solo che devo dirti una cosa. Ti va se ci vediamo al pub? No,
meglio da te. Ti andrebbe?»
«Sì, perfetto! Ma sei sicuro che va tutto bene?»
«Certo. A dopo.»
Julien mette giù. Rimango perplesso per un istante e abbandono
l’idea di richiamarlo per saperne di più. Tra poco sarà qui, meglio
aspettare.
Alzo lo sguardo sul mio appartamento. Non ci ho fatto caso
rientrando perché non ero del tutto concentrato su quello che stavo
facendo, ma il soggiorno è conciato male.
Approfitto della mezz’ora che impiegherà Julien a venire qui per
mettere un po’ in ordine, poi controllo che cosa ho da offrirgli al di
fuori del succo di pera. La risposta è chiara dopo cinque minuti di
attenta ricerca: niente. Pazienza, è il mio migliore amico, capirà.
Suona il citofono. Apro a Julien e lo aspetto davanti alla porta.
Quando arriva, lo squadro per tentare di capire le ragioni di questa
visita improvvisa. Mi dà un bacio ed entra velocemente, si toglie le
scarpe, corre in soggiorno e si butta sul divano.
Gli faccio vedere la bottiglia di succo di pera senza dire niente.
Fa un gesto della mano per farmi capire che gli va bene. Nessuno di
noi due ha detto una parola dopo la risposta al citofono. Mi sistemo
di fronte a lui e lo scruto. Mi viene da ridere perché in genere capita
più spesso l’inverso.
«Perché ridi?» mi chiede.
«In questi ultimi tempi eri tu ad aspettare che io parlassi.
Stavolta è il mio turno.»
Julien scuote la testa e vedo un sorriso comparirgli sulle labbra.
Poi si raddrizza, stringe la mano destra nella sinistra, segno che ha
davvero paura, e fa un lungo respiro.
«Gaëlle è incinta.»
In una frazione di secondo, passo attraverso una moltitudine di
stati. Felice per il mio amico, geloso di lui, contento per Clara che
avrà un fratellino o una sorellina, ansioso per la mia coppia di amici
che avrà un secondo bambino a casa, e capisco allora il bisogno di
Julien di “alleggerire lo stress”, come mi ha detto al telefono.
Tuttavia riassumo il tutto in una parola.
«È fantastico!»
Julien mi guarda fisso e vedo finalmente il suo viso illuminarsi.
«L’hai detto!»
Mi alzo e lo stringo tra le braccia. Percepisco tutta la sua
emozione all’idea di diventare papà per la seconda volta. Mi accorgo
anche che piange un po’, sicuramente di gioia, non vedo per quale
altro motivo.
«Tutto okay tu?» mi chiede rimettendosi a sedere sul divano.
«Con una notizia simile? Ovvio!»
«No, ma… Voglio dire…»
Capisco il leggero disagio di Julien. Sa che adoro i bambini. Lo
sanno tutti. E sa anche che il fatto di non averne inizia a pesarmi.
«Tutto okay, Julien. Porta pazienza. Troverò la persona al
momento giusto.»
«È un incredibile passo avanti questo!» esclama con sincerità.
«Sì, lo so. Ma mi spieghi perché eri così teso?»
Preferisco cambiare argomento, non ho voglia di parlare della
mia situazione con Elsa.
«Ebbene, era questo che mi angosciava» confessa.
«Cosa?»
«Tu.»
«Io?»
«Il fatto di annunciartelo.»
Mi scioglierei in lacrime se non fossi convinto che affermare la
propria virilità è molto importante in una situazione come questa.
Ho messo da parte i miei principi quando ho pianto l’ultima volta al
pub, ma qui mi ci aggrappo.
«Julien… Davvero, puoi smetterla di torturarti per questo. Sì,
sono un po’ geloso della meravigliosa famiglia che hai, ma penso di
essere pronto per crearne una mia, quindi non crucciartene, okay?»
Julien sembra verificare sul mio viso che non stia nascondendo
una bugia da qualche parte. Apparentemente, non ha trovato nulla.
Scuote la testa e gli sorrido divertito. Scoppiamo a ridere quando il
mio telefono squilla di nuovo.
«Scusami, torno subito» gli dico nel mezzo delle nostre risa.
Rispondo senza guardare la provenienza della chiamata, ancora
immerso nell’euforia della notizia che ho appena ricevuto. Divento
bruscamente serio nel sentire l’atmosfera dietro la voce femminile.
Non sono del tutto capace di associarle un luogo, ma qualche cosa
mi dice che questa telefonata è una cosa seria.
«Il signor Gramont?»
«Sono io.»
«Buonasera. È l’ospedale delle Rosaline.»
Mi si gela il sangue nelle vene. La voce dell’infermiera scompare
dietro uno schermo sonoro che il mio cervello si costruisce da solo
per nascondere le informazioni mentre cerca i possibili motivi di
una chiamata simile. La prima persona che mi viene in mente è Elsa.
Ma non vedo proprio perché l’ospedale mi dovrebbe contattare per
lei.
«Pronto? Signor Gramont? È in linea?»
«Ehm… Sì, mi scusi. Non ho sentito nulla. Può ripetere per
favore?»
«Le dicevo che la contatto perché non sono riuscita a trovare
l’altra persona, la signora Gramont. Immagino sia sua madre,
giusto?»
«Sì, lo è. Che cosa succede?»
«Io… sono davvero dispiaciuta di doverglielo comunicare per
telefono ma… suo fratello è morto. È caduto dalla finestra della sua
stanza circa un’ora fa. Abbiamo tentato di rianimarlo, ma invano.
Tutta l’équipe è convinta che si sia trattato di un suicidio. Mi
dispiace davvero tanto. Sarà… Sarà necessario passare all’ospedale
per sistemare le questioni burocratiche, e poi per… insomma, lei
capisce.»
Se dice ancora una volta che è dispiaciuta, riattacco.
«Signor Gramont?»
Sono pietrificato. Ho un freddo terribile. Anche se la mia mente
si è svuotata, trovo comunque il modo di rispondere.
«Sarò lì tra mezz’ora insieme alla signora Gramont.»
Riattacco senza darle il tempo di aggiungere altro. Mi ero
allontanato per abitudine, per non disturbare Julien con la
conversazione telefonica. Alla fine lo sento avvicinarsi alle mie
spalle.
«Thibault? Che cosa succede?»
Dapprima rimango girato verso la finestra, poi mi volto
lentamente. I miei principi in fatto di virilità stanno andando in
mille pezzi.
«Si tratta di Sylvain…»
Julien capisce in un secondo. Eppure non vedo come sia
possibile. O forse ha solo colto che è successo qualche cosa di
importante.
«Dobbiamo andare all’ospedale?»
«Devo prima passare a prendere mia madre.»
«È così grave?»
Scuoto la testa, incapace di pronunciare una parola di più. Julien
si dà da fare intorno a me mentre io resto immobile, mi lancia le
scarpe e la giacca da cosmonauta. Non so come finisco sul sedile del
passeggero della sua auto. Non so nemmeno come mia madre
finisce su quello posteriore. Assolutamente più nulla. Nient’altro
che il dolore e questa fottuta barriera che tento di erigere intorno a
me.
23
ELSA

Mi aveva detto: “A domani”.


È passata una settimana.
Ho ripensato al nostro ultimo contatto un numero incalcolabile
di volte per capire se mi fossi sbagliata, ma no. Sono sicura che mi
ha detto: “A domani”. All’inizio ero abbastanza tranquilla. Magari
aveva altro da fare. Aveva certamente altro da fare. Questo mi ha
provocato un pizzico di gelosia.
Durante la settimana ho avuto una piccola speranza quando la
maniglia della mia stanza ha cigolato, ma era solo un medico. Non
sono riuscita a capire con esattezza quale, ma sospetto fortemente si
trattasse del mio interno. Credo che stesse sfogliando la cartella e
che ci abbia scarabocchiato qualcosa. Si è anche trattenuto davanti a
tutti i miei monitor come se li stesse studiando, poi se n’è andato
senza dire una parola. D’altro canto, perché avrebbe dovuto farlo?
Ho allora sperimentato nuove emozioni. Delusione, angoscia
passeggera. Paura.
La paura, alla fine, mi doveva pur venire. Tuttavia avrei voluto
arrivasse per ultima. Soprattutto perché non è il genere di paura che
amo provare.
Su un ghiacciaio con i ramponi ai piedi, quando scorgevo un
ponte di neve o un crepaccio, avevo sempre un po’ paura. Ma era
una paura con l’adrenalina sotto controllo, come dicevo a Steve. Si
sapeva che dipendeva quasi tutto unicamente da noi, dal nostro
modo di attraversare, dalla nostra delicatezza e dalla nostra rapidità,
dalla nostra agilità e dalla nostra intelligenza. C’era sempre una
parte affidata al caso, ma, francamente, non si fa alpinismo se non si
accetta l’esposizione al rischio a ogni passo.
Quella che provo oggi è una paura che mi divora dall’interno.
Non ho alcuna influenza su di essa, alcun mezzo di metterla a tacere
dietro un’altra emozione. Rimango in attesa, e questa attesa è
interminabile.
Prima di tutto ho avuto paura che Thibault non tornerà mai più.
Questo implicherebbe che i miei esercizi non saranno più così
efficaci, e quindi che non mi sveglierò in tempo. In mezzo a tutto
questo, ho avuto paura che gli fosse accaduto qualcosa. Insomma,
era certo che il mio organismo si rimettesse a funzionare intorno a
questa chimica atroce.
Per fortuna, tutto ciò ha in parte stimolato il resto. Il mio senso
del tatto è più acuto. Mi è anche sembrato di percepire un debole
profumo di gelsomino nel momento in cui l’inserviente mi ha fatto
scivolare due gocce di essenza sul collo, ma non ho capito se sia
stato semplicemente il frutto della mia immaginazione o se fosse
reale. Ancora una volta ho scelto di pensare che fosse reale. Con il
rischio di morire, tanto vale fare in modo di immagazzinare il
maggior numero di informazioni possibile, anche se questo
implicasse soltanto di sentire un profumo di gelsomino. O di
inventarselo.
Mi sembra di essere una borsa in disordine. Una borsa piena di
tutta una serie di cose tanto grottesche quanto naturali, ma che si
ingarbugliano tra loro. Non faccio più una vera differenza tra le
informazioni che mi tempestano. Ce ne sono sempre di più. È come
se il mio cervello fosse arrivato alla saturazione. Come se le zone
attive, che prima misuravano solo qualche nanometro quadrato, in
queste ultime tre settimane avessero occupato tutto lo spazio. Si
impilano, si sovrappongono. Temo che finiranno per mescolarsi. È
per questo che mi dico ogni giorno che potrebbe essere passata
meno di una settimana da quando Thibault mi ha detto: “A domani”,
ma la radio della donna delle pulizie mi conferma la data ogni notte.
Ed è strano, perché mercoledì non è venuta nemmeno mia
sorella. Forse aveva degli esami. Forse è rimasta troppo scossa dopo
l’ultima visita. Non ho alcuna speranza che abbia già concluso con
Steve. Lui non appartiene certo al plotone al suo seguito. Spero solo
che ce la faccia. Steve merita una bella storia, e sarebbe ora che lei
ne mettesse in piedi una.
Avrei tanto voluto metterne in piedi una anch’io.
Ho l’impressione che pensarci sia al tempo stesso essenziale e
ridicolo. Come posso, nelle mie condizioni, dare tanta importanza a
una storia d’amore? Dovrei voler vivere per muovermi, tornare su un
ghiacciaio, vedere la mia famiglia, conoscere persone, scoprire il
mondo, sorridere in continuazione e ridere ancora e ancora. So che
sono cose per me importanti. Lo sono enormemente. Ma so anche
che il sentimento di amare è ciò che dà una nota di colore a tutto
questo.
Sorrido mentalmente. Potrei fornire tante informazioni a mia
sorella con le mie storie di colori. Le servirebbero davvero per le
Belle arti. Non le auguro di trovarsi al mio posto per scoprire tutto
quello che ho imparato, però mi piacerebbe condividerlo con lei.
Dopo, non so se sarebbe capace di adattarlo al mondo reale con
pittura e pennelli, ma varrebbe la pena tentare.
Ci siamo, ho iniziato a divagare. Devo smettere di pensare.
Insomma, smettere di pensare a tante cose nello stesso tempo. A
tante persone. Mi confonde.
Ho trovato la soluzione ieri, cioè… quello che penso fosse ieri. Ce
l’avevo già da un bel po’, ma non avevo capito quanto questa piccola
attività mi aiutasse a dimenticare tutto il resto. È stato solo nel
praticarla che mi sono resa conto di quanto desse sollievo alla mia
mente. Quindi la riprendo ora.
Voglio girare la testa e aprire gli occhi.
Voglio girare la testa e aprire gli occhi.
Di tanto in tanto, un pensiero furtivo si intrufola nel mezzo. Un
“voglio amare”, che scaccio subito. Mi trascinerebbe in una
divagazione molto più nefasta.
Voglio girare la testa e aprire gli occhi.
Anche se dovesse succedere solo mezzo secondo prima che la
mia mente si spenga definitivamente, voglio girare la testa e aprire
gli occhi.
24
THIBAULT

Il rumore di una porta che sbatte sul mio pianerottolo mi fa


sussultare. Apro gli occhi a fatica e lascio alle mie pupille il tempo
di abituarsi all’oscurità.
In un angolo della stanza, il piccolo orologio elettronico segna le
2.44. Sento il ronzio liquido del frigo in cucina, il brusio di una o due
auto, giù, in strada. Qualche piccola spia rossa brilla vicino a me. I
lampioni arancione della città fanno entrare un po’ di luce nel mio
appartamento.
Se non sentissi questa maledetta pressione all’altezza dello
stomaco, direi che si tratta di una notte normale, tranquilla, in cui
mi sono addormentato sul divano leggendo qualcosa. Peccato che
non ci sia nessun libro sul tavolino del soggiorno, solo il cadavere di
una bottiglia di succo di pera, e devono essere due giorni che non mi
faccio una doccia. O forse tre…
Sposto la vecchia coperta con i piedi e mi tiro su. Mi gira la testa.
Devono essere ventiquattro ore che non mangio nulla. Da quanto
tempo esattamente sono qui sul divano?
Meglio non cercare la risposta.
Il mio stomaco si chiude ancora di più. Non riesco a capire se ho
fame o no. In ogni caso, sarebbe saggio mangiare qualche cosa.
Mi alzo in modo maldestro e vado in cucina. Il frigo è ancora
piuttosto pieno, ma i primi cibi che tiro fuori o non sono allettanti o
sono scaduti. Alla fine scelgo pasta e hamburger. Il pasto del
perfetto studente, ma, intorno alle tre del mattino, è l’unica cosa che
mi va.
Faccio bollire l’acqua e poso la pasta accanto ai fornelli. Quando
la padella che ho messo sul fuoco si scalda, inizio a cuocere la carne.
Compio gli ultimi gesti – tirare fuori un piatto, le posate e lo
scolapasta – quasi a tentoni, poi mi accascio su una sedia.
Ho fatto tutto al buio, utilizzando come unico riferimento ciò che
il debole chiarore dei lampioni era disposto a fornirmi. Non so come
sarebbe mangiare in questa penombra, ma so che non ho voglia di
provare l’esperienza. Inclino la sedia all’indietro per raggiungere la
cappa. Ho il braccio abbastanza lungo per schiacciare il piccolo
interruttore. La luce gialla si ferma alle mie spalle, ma rischiara
quanto basta da permettermi di distinguere l’ambiente intorno a
me. Sarà sufficiente.
Un’altra lucetta, bianca e intermittente, attira la mia attenzione
in soggiorno. È il mio cellulare. L’ho accantonato per qualche giorno,
come il telefono di casa. Mi sono preso anche la briga di cambiare il
messaggio della segreteria del fisso, invitando chi chiama a lasciar
detto solo in caso si tratti di qualche cosa di veramente molto
importante. Se non è così, non hanno che da riattaccare. Ricordo di
aver sentito due volte la voce di mia madre che mi chiedeva come
stavo. Lo stesso Julien e Gaëlle. Ma dopo il primo giorno, più nulla.
Con il cellulare non ho fatto altrettanto. Non volevo mandare un
messaggio al mondo intero per spiegare la mia situazione. Devo
avere una trentina di notifiche. Tra messaggi vocali e scritti, avrò da
fare per una mattinata intera. So che, oltre a mia madre e Julien, mi
avranno cercato dei parenti e, peggio ancora, so che vorranno
parlare del pranzo di Natale, che sarà tra qualche giorno. Anche mio
cugino deve aver tentato di contattarmi sabato scorso.
Alle mie spalle, l’acqua sta bollendo. Mi alzo per buttare la pasta,
giro l’hamburger il cui odore mi fa già venire l’acquolina in bocca e
rassicura mentalmente il mio stomaco informandolo che manca
poco. È strano vedere a che punto i nostri istinti primari possano
spuntare quando meno ce lo aspettiamo. Sono a terra per la morte di
mio fratello e il mio corpo mi chiede di mangiare. Potrebbe apparire
insensato, invece no, è il ciclo naturale delle cose.
Lo ha detto anche la persona che ha sepolto mio fratello sabato
scorso. È tutto un ciclo. Si nasce, si vive, si muore. È ciclico, continua
per gli altri fino a che non scompaiono a loro volta. Io non so dove
ho iniziato, ma ciò che è certo è che ho l’impressione di essere
bloccato a metà del cerchio, incapace di uscirne.
No, in realtà, so benissimo dove ho iniziato. Ho iniziato giovedì
scorso quando sono arrivato in ospedale con mia madre e Julien.
Presto è risultato evidente che mio fratello si era proprio suicidato e
che non si era trattato di un incidente. Aveva lasciato qualche indizio
nella sua stanza, tra cui uno destinato proprio a me. Quando
eravamo piccoli, ci eravamo detti che un giorno saremmo diventati
piloti di linea e saremmo volati via insieme, tutti e due.
Sull’aeroplanino di carta appoggiato al suo letto c’era scritto:
“Abbiamo preso il volo ognuno per conto proprio, solo che non
abbiamo scelto la stessa pista d’atterraggio”. C’era uno smiley sotto
e, anche se il parallelismo con il modo in cui aveva messo fine alla
sua esistenza sarebbe potuto risultare inquietante, so che mio
fratello si riferiva semplicemente alle nostre scelte di vita.
Poi tutto si è susseguito senza che io vi prestassi davvero
attenzione. I documenti, il funerale, il mio capo che mi rifila due
settimane di congedo, il battesimo di Clara, in occasione del quale
mi hanno lasciato tutti in pace perché Gaëlle e Julien avevano
avvisato la maggior parte dei presenti. Sono riuscito a strapparmi un
sorriso quando ho avuto Clara tra le mie braccia nel momento di
firmare l’enorme registro, poi me ne sono andato appena finita la
cerimonia. È stato una volta rientrato che ho modificato il messaggio
della mia segreteria telefonica. Dopo, non ho più avuto contatti con
nessuno.
L’odore della carne cotta mi riporta in me. Preparo il piatto e lo
poso sul tavolo. Sono sorpreso dalla voracità con cui divoro il pasto.
Vuoto una bottiglietta d’acqua e la riempio di nuovo prima di
tornare in soggiorno. Non so se è per il fatto di aver mangiato o
semplicemente di essermi svegliato a un’ora simile, ma ho un sonno
terribile. Crollo sul divano con, per la prima volta da diversi giorni,
la seria intenzione di dormire. Non faccio in tempo a contare fino a
tre che le tenebre mi avvolgono di nuovo.
Stavolta è il campanello alla porta a svegliarmi. Una rapida
occhiata all’orologio. Sono quasi le undici di mattina. Il mio
soggiorno è inondato dalla luce, eppure dormivo davvero
profondamente. Il suono acuto del campanello mi fa trasalire di
nuovo e borbotto un vago “arrivo” liberandomi dalla coperta.
Il piccolo specchio appeso dietro la porta d’ingresso mi serve per
la prima volta da un anno, perché mi prendo tre secondi per tentare
di sistemarmi i capelli. Per il resto, sono vestito, nello stesso modo
da un’eternità, ma è meglio di niente.
Apro la porta con la ferma intenzione di mandare al diavolo la
persona che si trova lì dietro e mi trattengo vedendo la nonna che
abita accanto a me.
«Ah! Eccola!» esclama. «Non sapevo se era in vacanza o no,
perché la sua casella della posta straborda! Mi sono permessa di
recuperare quello che fuoriusciva. Tenga. E… Dovrebbe farsi una
doccia.»
Mi fa l’occhiolino e rimango sconcertato mentre lei torna nel suo
appartamento. Mi rendo conto allora che è lei che sbatte la porta alle
tre del mattino. Ha un’energia sorprendente per la sua età. Non
perde tempo in smancerie.
Do prima un’occhiata alle lettere che mi ha portato. Niente di
davvero importante, appoggio tutto in soggiorno. Esito tra un caffè e
una doccia, opto per il caffè, la doccia dopo. È la fame a tirarmi fuori
dal bagno, e mi ritrovo di nuovo a fare la cernita nel frigorifero.
Mentre il mio pasto cuoce lentamente, prendo la pila di lettere e
fingo di interessarmene.
Avevo ragione, non c’era nessuna urgenza. Anzi, sono lettere del
tutto inutili. La luce bianca lampeggiante del cellulare entra nel mio
campo visivo nel momento in cui vado a posare la posta all’ingresso.
Mi dico che, corrispondenza per corrispondenza, tanto vale
continuare e sorbirmi il telefono.
Guardo velocemente gli S M S e rispondo in modo telegrafico a
Julien, a mio cugino e a mia madre. Non ho voglia di chiamare
nessuno. Segue la lunga lista dei messaggi vocali, e lascio il telefono
in viva voce per ascoltarli tutti, urlando “cancellare” di volta in volta
dalla cucina dove curo il mio pasto. Devo essere al dodicesimo
quando una voce nuova inizia a parlare.
«Buongiorno, Thibault. Sono Rebecca. Ti ricordi? Ci siamo visti
all’ospedale. Ti stupirai del fatto che ho il tuo numero, ma sono
riuscita ad averlo a forza di chiederlo al personale dell’ospedale.
Volevo avvisarti, e Alex e Steve sono d’accordo con me. Staccheranno
la spina a Elsa. Ecco. La sua famiglia ha stabilito che avverrà tra
quattro giorni. Non so se vuoi venire a dirle addio, o qualcosa di
simile. Adesso hai il mio numero, non esitare a chiamarmi.»
Il mio corpo e il mio cervello si rimettono in moto in un lampo.
Mi precipito sul cellulare per riascoltare il messaggio e litigo con la
tastiera. Dopo un minuto riesco finalmente a sapere quando è stato
registrato. Rebecca mi ha chiamato lunedì 16. Stando a quanto
indica il telefono oggi è il 20. Non è difficile capire che “tra quattro
giorni” è oggi. Il mio orologio interiore si ferma, poi, lentamente,
nella mia testa tutto riparte.
Spengo il gas e mi precipito a prendere le mie cose. Non perdo
tempo nemmeno ad allacciarmi le scarpe o a infilarmi la giacca.
Quando arrivo alla macchina, non so neanche se ho chiuso la porta a
chiave. L’unica cosa che so è che sono stato il più grande idiota sulla
faccia della terra.
Come ho potuto dimenticarlo? Come ho potuto dimenticare
Elsa?
Guidando, mi rendo conto che non l’ho dimenticata ma che ho
smesso di credere in lei. Il suicidio di mio fratello mi ha fatto
cambiare idea riguardo al fatto che Elsa potesse sentirmi. Lei
rappresentava il mio lasciapassare finché mio fratello era lì. Dal
momento in cui lui ci ha lasciati, ho avuto l’impressione che anche
Elsa mi lasciasse. Peccato che sia stato io a lasciarla, alla fine. Che
idiota…
So che può sentirmi. Ne sono sicuro.
Quindi la domanda che mi devo porre adesso non è: “Come ho
potuto essere tanto stupido da mettere tutto questo da parte?”,
bensì: “Perché hanno intenzione di staccarle la spina?”.
E con questa domanda imbocco il corridoio del quinto piano
dell’ospedale, mentre il mio cuore e la mia mente si preparano
all’argomentazione che sono sicuro dovrò affrontare a breve.
25
ELSA

Ho paura.
Almeno, è chiaro. Sono terrorizzata.
Non devo essere l’unica, d’altra parte. Il primario e l’interno
sono usciti da un bel po’. Si sono trattenuti solo all’inizio, per la
parte medica. Mi verrebbe da dire la parte elettrica, perché,
francamente, anche un bambino di sei anni sarebbe stato in grado
di fermare tutti i miei apparecchi.
Adesso, rimangono con me tre persone. Siamo arrivati a essere
in nove, me compresa, in questa stanzetta. Era piuttosto affollata.
Steve, Rebecca e Alex sono appena usciti. Mi è sembrato di capire
che avrebbero aspettato di sotto. Mi viene da vomitare al solo
pensiero. I miei amici stanno aspettando che io… Che orrore. Al
loro posto, avrei già rimesso il pranzo e sarei voluta scappare il più
lontano possibile. Sono scappati solo cinque piani più giù. Questo
crea una certa distanza, ma si trovano comunque nel perimetro
dell’ospedale.
I miei genitori e mia sorella sono qui, e anche loro aspettano.
Vorrei dire loro di abbandonare il campo. Non voglio il loro amore,
tanto meno il loro dispiacere. Non hanno creduto in me, è proprio
disgustoso. Ma forse hanno ragione, in fondo. Che cos’è una vita che
non può che ricevere senza dare nulla? Se significa passare il resto
dei miei giorni solo ad ascoltare e sentire, mi chiedo se non sia
meglio…
La porta si apre. I passi sono rapidi, il respiro affannato. I miei
genitori sembrano sorpresi, stando al ritmo dei piagnucolii non si
tratta del medico che ha cambiato idea.
«Buongiorno» dice mia madre con una voce infinitamente triste.
«Lei è qui per…»
«Mamma» la interrompe mia sorella «per chi vuoi che sia qui?
Forza, vieni, la lasciamo tranquilla due minuti. È già un’ora e mezzo
che siamo qui, non se ne andrà subito.»
Il tono di mia sorella, tra fermezza e dolore smisurato, mi
distrugge.
«Perché lo fate?»
Il mio cuore fa un balzo nel petto, provocando una breve
alterazione nelle mie deboli pulsazioni, ma nessuno ci fa caso.
Il mio arcobaleno.
Non avevo riconosciuto il suo passo né il suo modo di respirare,
eppure, senza il baccano del respiratore, la stanza è piuttosto
silenziosa. Forse il mio cervello comincia davvero a essere in carenza
d’ossigeno, è da più di un’ora che respiro da sola, o meglio che tento
di farlo. Il mio cervello sa che è difficile, cerco di tenere duro. Ma
adesso che ho sentito la voce di Thibault è come se il mio organismo
volesse aggrapparsi a un’ultima speranza.
Mia madre inizia a balbettare una parvenza di frase.
«In che senso perché…»
«Mamma, non sei credibile! Perché le stacchiamo la spina! Eh? È
questo che vuole sapere! No? Non è così? Non è questo che vuole
sapere?»
L’amarezza di mia sorella riecheggia in tutta la stanza. Credo che
lei non sia mai stata d’accordo con i miei genitori sul fatto di
staccarmi la spina.
«Sì, è quello che vorrei sapere» risponde finalmente Thibault.
«Lo chieda a loro!» sbotta mia sorella prima di uscire dalla
stanza.
«Pauline» la chiama mia madre. «Torna qui! Che… Vado a
prenderla.»
«Lasciala stare.» Mio padre sospira.
«No, vado a prenderla.»
La porta sbatte. Immagino mio padre e Thibault, tutti e due nella
stanza. In altre circostanze l’incontro avrebbe potuto essere
interessante. Invece ho qui con me due anime perse.
Thibault si avvicina a me e mi bacia sulla guancia. Visualizzo
perfettamente mio padre che si irrigidisce. Non ha la minima idea di
chi sia Thibault, e, a ben guardare, non si può certo dire che io ne
sappia molto di più, ma vedere uno sconosciuto che bacia sua figlia
non lo deve lasciare indifferente.
«Respiri ancora…» mi sussurra Thibault all’orecchio con sollievo,
prima di raddrizzarsi. «Allora?» chiede a mio padre senza togliermi
la mano dalla spalla.
«Non c’è più alcuna speranza» risponde mio padre in un tono
sfiduciato.
«Questo perché lo avete deciso voi.»
«Crede che sia stata una decisione facile?»
Mio padre sta iniziando ad arrabbiarsi. Vorrei avvisare Thibault,
ma non posso fare niente. Così mi limito ad ascoltare. Dopotutto, è
ciò che mi riesce meglio. Per i pochi attimi che mi restano.
«È più facile che crederci» ribatte Thibault. «Lei può sentirci! Sa
che siamo qui! Come potete condannarla?»
«Sì, lo so» dice mio padre piuttosto nervoso. «Tutte quelle storie
sul fatto che le persone in coma ci possono sentire. Ma si deve
arrendere all’evidenza: Elsa ha scelto di lasciarci.»
«Lei non ha scelto proprio niente! Che cosa vuole che scelga nel
suo stato?»
Ecco, qui vorrei dire a Thibault che si sbaglia. Io ho scelto di
tentare. Il problema è che non ha funzionato in tempo.
«Ma chi è lei innanzitutto?» chiede all’improvviso mio padre.
«Un amico di Elsa.»
Questa risposta la conosco a memoria. Non so perché, ma oggi
mi delude un po’.
«Non l’ho mai vista» prosegue mio padre. «Fa parte di quelli che
la accompagnano su quei… su quei ghiacciai?»
Ha pronunciato l’ultima parola con un tale disgusto che deve
avere anche storto il naso.
«No. Ma che importa? Non potete staccarle la spina. Non prima
che lei si risvegli!»
«Elsa non si risveglierà.»
«Che cosa ne sa? Le dico che lei può sentirci!»
«La situazione è questa! E non starò qui ad ascoltare lei che non è
altro che un sedicente amico di cui non ho mai sentito parlare, che
non sa che cosa mia moglie e io abbiamo passato per giungere a
questa decisione! Amo mia figlia! Mia moglie e io amiamo nostra
figlia! Con che diritto si permette di dirmi che cosa ne pensa lei?»
Mio padre ha concluso urlando. La voce di Thibault contrasta
quanto a volume. La sua risposta è quasi un sussurro.
«Perché amo sua figlia.»
Sensazione di caldo e freddo insieme. Pizzicore alle dita.
L’ossimetro, l’unico apparecchio a cui sono ancora collegata, riflette
l’accelerazione dei battiti del mio cuore. Odo Thibault girarsi verso
di me.
«Elsa? Elsa, lo so che mi senti! Ha visto?» dice a mio padre. «Ha
reagito.»
«La smetta. È solo uno scarto aleatorio. I suoi medici ce lo hanno
già spiegato. Ora la lasci.»
La collera di mio padre è diventata esasperazione.
«Non se ne parla» ribatte Thibault. «Non mi muovo da qui.»
«Bah… Faccia come vuole. Ma… Cosa fa?»
Stavolta distinguo chiaramente la preoccupazione nella voce di
mio padre. Colgo allora un rumore che è diventato piuttosto
familiare, quello di tutti i miei apparecchi che vengono spostati. Il
problema è che nessuno di essi è più collegato a me. Capisco che
Thibault ha intenzione di riattaccare tutto. Solo che non sa rimettere
una flebo o infilarmi i tubicini nel naso.
«Quello che avrebbe dovuto fare lei» risponde Thibault
concentrato su di me.
«Ma, lei è pazzo… La smetta! La smetta immediatamente!»
«Provi a impedirmelo.»
Il tono di Thibault avrebbe gelato chiunque. L’arcobaleno si è
rappreso in un attimo in un blu-bianco degno del più solido dei
ghiacciai che conosco.
«Vado a cercare i medici.»
Mio padre si allontana, la porta sbatte. Sono sola con Thibault.
Lui sposta le macchine, cerca i tubi. Ma credo che le infermiere
abbiano fatto un lavoro molto scrupoloso. Non deve rimanere molto
in questa stanza al di fuori del respiratore troppo pesante da
spostare e dell’ossimetro che pronuncerà la decisione finale. Avverto
una mano tremante sulla spalla.
«Elsa, per favore. So che mi senti. Non so nulla, io, di coma. Ma
so che sei qui. Per favore…»
La porta della stanza si apre rumorosamente ma il suono mi
arriva soffocato. Mi sembra che dei passi si precipitino verso di me.
O piuttosto verso Thibault, perché sento che me lo strappano via. I
rumori sono sempre più deboli. Riesco solo a identificare le voci in
mezzo a una folla chiassosa e tuttavia curiosamente silenziosa. Il
medico, l’interno, mio padre, mia madre e mia sorella isterici. Steve
è qui, anche lui. Parla con qualcuno, o meglio, grida contro
qualcuno.
Mi sento leggera e pesante al tempo stesso. Non so più dove
sono. Tutto si confonde, mi rifugio nel mio esercizio.
Solo per una volta.
Solo per una volta prima che tutto sparisca.
26

Ho eliminato dalla mia vista tutto ciò che mi accade intorno.


Sono concentrato unicamente su di lei. Tutto il mio corpo è gestito
da riflessi, o forse il mio cervello è letteralmente inchiodato su due
compiti: tentare di liberarmi dalla stretta di Steve e guardarla.
Se smette di respirare, credo che smetterò con lei.
Ora che non mi agito più si sentono solo brontolii, respiri,
mormorii. Anche qualche pianto. Forse ne faccio parte. Poco
importa. Ma la totalità di questi suoni è ritmata dal bip lento,
terribilmente lento del monitor.
La curva luminosa mi ipnotizza. Passo da essa a Elsa,
consapevole che, per la prima volta, posso sentire il suo respiro
senza macchinari. Sembra così lento, così fragile.
Con tutte le persone che mi circondano e mi sorvegliano, non
oso aprire bocca. Avrei voglia di dire talmente tante cose a Elsa. E,
allo stesso tempo, si potrebbe ridurre tutto a poche parole.
Rilasso le spalle, la stretta di Steve si allenta progressivamente.
«La devi lasciare andare, ragazzo.»
La testa mi ricade in avanti e le mie palpebre si riempiono di
lacrime. La bocca ripete in loop il nome di Elsa senza oltrepassare il
mormorio, poi ritrovo la voce in un ultimo rigurgito di speranza.
«Elsa, dimostraglielo!»
Sento tutti gli sguardi girarsi verso di me. Il bip continua la sua
pulsazione rallentando. Tengo i pugni talmente stretti che le mani
devono essere completamente bianche.
Nella mia mente, parte un conto alla rovescia. “Dieci… Nove…
Elsa, svegliati… Otto… Sette… Forza, lo so che mi senti… Sei… Hai
reagito quando… Cinque… Quattro…”
«Cosa…?»
La voce della ragazza che ho già avuto occasione di incrociare mi
sottrae al mio conteggio. Suppongo sia la sorella di Elsa. Anche se
non si assomigliano molto, ho potuto cogliere una certa affinità nei
loro tratti.
«Pare che il suo ritmo cardiaco stia aumentando…»
Sollevo la testa. La sorella ha ragione, i numeri sullo schermo
sono più alti degli ultimi che avevo visto. Dirigo lo sguardo verso i
medici alla mia sinistra. Ce n’è uno che riconosco, quello che mi
aveva parlato dell’apparecchiatura elettronica di Elsa. Sembrano
entrambi perplessi, ma credo di scorgere un barlume di speranza
negli occhi dell’interno. Il suo superiore fa segno di no con la testa
sussurrandogli qualche cosa. L’interno si gira verso la famiglia.
«Aleatorio.»
È l’unica cosa che dice. Non voglio sentire mai più quella parola
in vita mia.
Solo per una volta. Solo per una volta.
È ciò che assorbe ogni minima parte attiva del mio cervello.
Non sento più nulla. È l’unica cosa che desidero.
Solo per una volta.
Voglio girare la testa e aprire gli occhi.
Il mio cuore smette di battere nel momento in cui il suo accelera.
Sprofondo in quello sguardo che ho scorto una volta sola. Le mie
labbra si schiudono inspirando insieme a tutte le persone presenti
nella stanza. Ogni cosa è sospesa.
So che le lancette del mio orologio continuano a girare, ma
l’immobilismo totale di coloro che mi circondano, compreso Steve,
mi dà la sensazione che il tempo si sia fermato. Mi sento un
privilegiato, sono l’unico ad avvicinarmi a lei.
Richiudo le palpebre. C’era troppa luce. Le riapro lentamente e,
in quell’istante, lui è davanti a me. Non dirò che lo preferivo in
versione arcobaleno perché il mio cervello non è ancora in grado di
interpretare tutti i colori visibili. So solo che ce l’ho fatta e le sue
parole fanno eco ai miei pensieri.
«Sei qui.»
Sono qui.
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So che sei qui
di Clé lie Avit
Copyright © 2015 by Editions Je an-Claude Lattè s
© 2015 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo de ll’ope ra originale : Je suis là
Ebook I S BN 9788852067105
COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | GRAPHIC DESIGNER:
SUSANNA TOSATTI | FOTO © AGENCE LA TOURETTE | ELABORAZIONE DA
FOTO © HILXIA SZABO/GALLERY STOCK
«L’AUTRICE» || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | GRAPHIC DESIGNER:
SUSANNA TOSATTI | ELABORAZIONE DA FOTO © HILXIA SZABO/GALLERY
STOCK
Table of Contents
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autrice
Frontespizio
SO CHE SEI QUI
1. ELSA
2. THIBAULT
3. ELSA
4. THIBAULT
5. ELSA
6. THIBAULT
7. ELSA
8. THIBAULT
9. ELSA
10. THIBAULT
11. ELSA
12. THIBAULT
13. ELSA
14. THIBAULT
15. ELSA
16. THIBAULT
17. ELSA
18. THIBAULT
19. ELSA
20. THIBAULT
21. ELSA
22. THIBAULT
23. ELSA
24. THIBAULT
25. ELSA
26
Copyright

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