Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
E
lsa ha trent’anni, adora la montagna e le gite in alta quota. Ma è a
causa di questa passione che ora si trova in un letto d’ospedale, dopo
una brutta caduta da una parete ghiacciata. È in coma da venti
settimane. Sente tutto, ma nessuna delle persone accanto a lei se ne accorge.
Un giorno, per errore, entra nella sua stanza un ragazzo sconosciuto.
Thibault non sa nulla della storia di Elsa, ma inizia a parlarle, conosce i suoi
amici, qualcosa nella ragazza addormentata che profuma di gelsomino e gli
sembra così dolce lo tiene legato magneticamente alla sua stanza. Giorno dopo
giorno torna a farle visita.
Ed Elsa? Sente tutto, ma non può rispondere. Non può chiedere a quel
ragazzo gentile di prometterle che tornerà anche il giorno dopo, non può
dirgli che sa riconoscere il suono della sua risata in corridoio e che ora quasi
sente il calore del suo bacio sulla guancia.
Thibault non sa che Elsa non si risveglierà più, perché a breve la
staccheranno dalle macchine che la tengono in vita. L’hanno deciso i medici,
la famiglia ha acconsentito. Tutti credono che sia impossibile che Elsa si
risvegli, eppure ogni volta che Thibault entra nella stanza il suo cuore…
L’autrice
«Dov’eri?»
«In giro.»
«Ah.»
Mia madre abbassa la testa e si guarda le punte delle scarpe.
Deve conoscerle a memoria, visto il tempo che dedica loro da un
mese a questa parte.
«Che cosa hai fatto?» prosegue.
«Ho dormito.»
«Ah, sì?»
«Sì.»
Non ho mentito, ma so che il piccolo interrogatorio durerà
ancora un po’. Devo soppesare ogni parola per non dover vuotare
completamente il sacco.
«Hai trovato un posto dove poter dormire?» si meraviglia.
«Un posto. Tranquillo.»
Anche in questo caso non ho mentito. Ho persino aggiunto
un’informazione nella speranza che si fermi lì e, in effetti, ha
funzionato.
A mia madre piace fare domande, ma si rassegna piuttosto
facilmente. Non so se è rassegnazione quella che prova nei confronti
di mio fratello. Non ho davvero idea di cosa provi, in realtà, al di
fuori di quella tristezza che traspare da ogni suo gesto e ogni suo
sguardo. Mi sento inadeguato. Mia madre è nella disperazione più
totale accanto a me, e io non faccio niente di più che dormire da lei
tre volte la settimana. Nemmeno lei fa nulla per me, ma sarebbe a
dir poco egoista chiederle di occuparsi di me in un momento simile.
Così mi butto.
«Come stai?»
La mia domanda la sorprende, tanto che smette di camminare
anche se mancano solo quattro metri per raggiungere l’auto.
«Perché me lo chiedi?»
«È tempo che lo faccia, no? Allora, come stai?»
«Male.»
«Questo lo avevo capito. Vorrei conoscere i particolari, mamma.»
Mi guarda come se volesse scovare la fregatura dietro un’offerta
promozionale. O come se avessi otto anni e lei stesse cercando la
marachella dietro la mia espressione d’angioletto.
«Tuo fratello è un “assassino della domenica”, ma è pur sempre
mio figlio.»
È come una doccia fredda. Il suo tono è il più neutro possibile.
Per tutto questo tempo ho creduto che fosse debole e che non
riuscisse a gestire le proprie emozioni. Mi sono tristemente
sbagliato. Mia madre è la persona più forte che conosco, piange solo
con un po’ troppa facilità.
«Come riesci a conciliare le due cose?» le chiedo.
«Grazie all’amore che provo per lui, che è esattamente lo stesso
che provo per te.»
«Ti basta per riuscire a perdonarlo?»
«Non sta a me perdonare chicchessia…»
Conosco il seguito a memoria perché l’ho già sentito un sacco di
volte.
«Perché non spetta a te giudicare» finisco la frase.
Scuote la testa.
«Non abbiamo, né tu né io, alcun giudizio da avanzare. Tuo
fratello ne ha già abbastanza a giudicare se stesso. E anche se ho
passato la vostra infanzia a dire a tutti e due di non giudicarvi, ecco,
devo riconoscere che è una cosa piuttosto positiva che abbia tanto
tempo per riflettere. Ci sono se ha bisogno di me. Rimpiango solo di
non essere stata abbastanza severa nella sua educazione da fargli
capire che non avrebbe dovuto mettersi alla guida un mese fa.»
«Con me ha funzionato.»
«Con lui no.» Sospira.
«Non fartene una colpa!»
«Non me ne faccio una colpa. Mi dispiace che le vite di due
adolescenti siano state portate via. Ora tuo fratello è adulto. Deve
vedersela con la sua coscienza.»
Riprende a camminare e si ferma accanto alla portiera dal lato
del passeggero. Mi avvicino a mia volta e apro la macchina. La sua
testa sporge al di sopra del tettuccio.
«Allora perché piangi così tanto?» le chiedo senza guardarla.
«Perché mio figlio non sta bene.»
«È colpa sua!» ribatto.
«Certo, ma non sta bene, e il mio compito di madre è stargli
accanto.»
«Quindi tu andrai a trovarlo come fai ora fino a quando ci sarà il
processo e continuerai anche quando sarà in prigione?»
Sento la collera montare dentro di me, il mio tono diventa
sempre più aggressivo.
«Sì» risponde in un sussurro.
Apre la portiera e si siede all’interno. Sono ancora fuori, la mano
sulla maniglia. Faccio un respiro profondo per calmarmi ed entro a
mia volta in macchina.
«Capirai quando avrai dei figli» mi dice non appena sono seduto.
«Per ora non ne ho.»
«Per ora…» ripete lei.
La conversazione si ferma lì. Ho i nervi a fior di pelle. Ma, per la
prima volta, c’è qualcosa di positivo: mia madre non piange. Penso
che il nostro scambio di idee l’abbia scossa. Non immagina a che
punto abbia scosso me.
La lascio davanti a casa sua un quarto d’ora dopo dicendole che
rimarrò per qualche notte nel mio appartamento. Ne prende atto
senza mostrare alcuna emozione. Ho l’impressione di avere
riportato a casa un corpo vuoto. In fin dei conti, preferivo quasi
quando piangeva.
Arrivo a casa congelato. Il riscaldamento della mia auto è
capriccioso e oggi è giorno di sciopero. Mi faccio una doccia bollente
per ritornare a una temperatura normale e ne esco con la pelle
arrossata. Nello specchio, i miei capelli sono un disastro. So che
tentare di renderli docili è tempo perso.
Prendo il rasoio e affronto quel po’ di barba di tre giorni. Non è
nelle mie abitudini radermi di sabato. In genere lo faccio di lunedì,
prima di andare al lavoro. Ma in questo momento mi va.
Credo che sia soprattutto perché mi tiene occupate le mani
mentre la mia mente si agita. Infatti, non appena ho finito di
radermi, inizio a fare le pulizie del mio appartamento.
Ripenso a quello che mi ha detto mia madre. “Capirai quando
avrai dei figli.” Tra tutte le incertezze di questo periodo, è l’unica
cosa di cui sono sicuro. Voglio dei figli. La nascita di Clara ha
cancellato ogni dubbio. Anche nei miei amici, che aspettano
disperatamente che io trovi l’anima gemella. Se solo volessero capire
che non la cerco ancora…
Quando ho dormito da Julien, l’altra notte, mi sono
addormentato con Clara tra le braccia. È stata Gaëlle a sorprenderci
tutti e due verso le otto del mattino. Ci ha fatto anche una foto
prima di svegliarci. Ce l’ho nel cellulare. La conservo gelosamente.
Così potrò far vedere alla mia figlioccia come il suo padrino la
stringeva a sé quando aveva solo pochi mesi.
Sto passando l’aspirapolvere e non sento subito il campanello.
Solo quando ho spento il motore degno di un aereo a reazione mi
accorgo che qualcuno sta insistendo alla porta. Mi infilo una
maglietta e rischio di inciampare con i piedi nel cavo
dell’aspirapolvere mentre raggiungo l’ingresso.
«Buong… Cindy?»
La mia ex mi sta di fronte, il suo carré biondo sempre così
impeccabile, il suo vitino da vespa ancora più sottile di quanto mi
ricordassi. Rimango sbalordito, la bocca socchiusa, la mano
immobile sulla maniglia.
«Buongiorno, Thibault» mi risponde. «Posso entrare?»
Balbetto come un idiota e finisco per farmi da parte indicandole
il soggiorno. Cindy mi passa davanti e mi dà un bacio sulla guancia.
Richiudo la porta, sempre muto. Quando mi volto, si sta togliendo il
cappotto e le scarpe con il tacco. Riconosco le autoreggenti nere e la
gonna che indossa. La camicetta è nuova, e devo ammettere che le
sta benissimo.
Si accorge che la sto guardando e sorride. Ritorno in me e corro a
infilarmi un paio di pantaloni.
«Cosa fai?» mi chiede.
«Mi vesto» le rispondo dalla mia camera.
«Sei già vestito» mi fa notare.
«Non per ricevere qualcuno.»
«Oh, ma sono solo io. Ci siamo già visti nudi, i pantaloncini
andavano bene…»
So che ha ragione, ma preferisco lo stesso infilarmi i pantaloni.
Trovo un paio di jeans buttati su una poltrona e li indosso
velocemente. Quando torno in soggiorno, Cindy è seduta sul divano
e si massaggia i piedi.
«Che tortura questi tacchi!» si lamenta.
«Non ho mai capito perché li portate.»
«Perché fanno una bella linea. Secondo te no?»
«Io…»
«In ogni caso ti piacevano quando…»
Non finisce la frase. Non ne ha bisogno. Conosciamo tutti e due
il seguito. La mia educazione da ragazzo gentile e cortese mi salva
fiondandomi in cucina.
«Bevi qualcosa?»
«Berrei volentieri del vino se ne hai.»
«Dovrei averne da qualche parte, ma non ti garantisco nulla.»
«Ah, già, il signor Succo-di-frutta» aggiunge ridendo.
Frugo nei mobiletti e finisco per trovare una bottiglia. Risale di
sicuro alla nostra rottura, quando mio fratello aveva voluto
consolarmi con una festicciola improvvisata. Torno con due bicchieri
pieni. Uno di vino, l’altro di succo di pera.
«Tu cosa bevi?» mi chiede.
«Il solito.»
«Ah.»
Mi chiedo se si ricordi i miei gusti. Abbiamo vissuto insieme per
molto tempo, però mi è sempre sembrato che rimanesse sul
“generale”. All’inizio mi piaceva ma, riflettendoci, trovo che
mancasse di sincerità. Mentre io conoscevo ogni minimo dettaglio
sul suo conto, lei non si interessava ai particolari se non quando era
necessario.
«Okay, allora… Perché sei qui?» le chiedo dopo averle passato il
suo bicchiere.
«Oh, non perdi tempo!» esclama bevendo un sorso.
«Ammetterai che la mia sorpresa è piuttosto comprensibile, no?»
«Hai ragione. Ma passavo solo per avere notizie.»
Il libro-gioco si mette in moto nella mia testa. “Se Cindy è venuta
per avere notizie, andate a pagina 15.” Sono a pagina 15 e c’è scritto:
“Allarme!”.
«Ah» rispondo inespressivo. «Be’, come puoi vedere, non è
cambiato nulla.»
“O quasi” aggiungo tra me e me, ma non mi va di raccontarle dei
miei ultimi giorni.
«Come sta Julien?» mi chiede. «Gaëlle ha partorito?»
«Sì, la piccola Clara. È stupenda.»
«Gaëlle o Clara?»
«Tutte e due.»
Beve un altro sorso di vino e posa il bicchiere. Il mio telefono è
sul tavolo, proprio lì accanto.
«To’, se vuoi vederla» dico prendendolo.
Volevo passarle il telefono, ma Cindy si alza e viene a sedersi
accanto a me. Scorro le foto fino a quella di Clara e me
addormentati. Lei la osserva a lungo senza dire niente, poi mi
guarda.
«Molto carina. Quanto tempo è passato?»
«Solo qualche giorno.»
«Ah, hai dormito da loro?»
Annuisco con il capo. Ho l’impressione che anche lei abbia un
libro-gioco aperto. Il mio è fermo a pagina 80: “Continuate a essere
gentili”.
«E tu invece?» dico per evitare un silenzio troppo imbarazzante.
«Che novità hai?»
«Oh, ho cambiato zona, ma mi piace molto.»
«Su quale settore sei?»
«Sudovest.»
«Ma è dannatamente lontano da qui!»
«Sì, ma faccio ancora un po’ avanti e indietro. Come questo
weekend. A trovare la famiglia, gli amici.»
«Io faccio parte degli amici?»
Ecco, ho fatto una piccola deviazione a pagina 80, virando
momentaneamente su: “Dalle un po’ di fastidio”. Ma non sembra
scocciata dalla mia domanda.
«Ma certo!» esclama.
«Ah…»
«Perché, non sono un’amica?»
Puzza di domanda da un milione di dollari. Pagina 77: “Siate
sinceri”.
«È un po’ difficile dire che sei un’amica, dato il nostro comune
passato e in particolare il modo in cui è finita la nostra relazione.»
«Sei ancora arrabbiato con me?»
A dire il vero non lo so, ma non mi va di lanciarmi in spiegazioni
infinite.
«No, è tutto okay.»
«Allora perché non dovresti considerarmi un’amica?»
Mi fissa con i suoi occhioni. Se li è truccati in modo molto fine
per farli risaltare, e posso sentire il suo profumo. Non lo ha
cambiato, stando ai miei ricordi, riconosco la fragranza che ho
respirato per anni. Mi scosto leggermente per prendere un po’ di
distanza. Quand’è che si è avvicinata tanto?
«Eh, Thibault? Dimmi. Perché?»
La sua voce si è trasformata in un sussurro. Percepisco il suo
respiro e, coperto dal profumo, sento l’odore della sua pelle. I
ricordi si agitano nella mia mente e ho voglia di mandarli via. Ma
nello stesso tempo…
«Non… Non so. È… difficile?»
Trovo la mia risposta ridicola, ma è l’unica che riesco a dare.
Cindy mi squadra intensamente e, come in un flash, mi tornano
in mente tutte le altre volte in cui mi ha guardato così. Vedo lo
stesso ricordo attraversare i suoi occhi e il suo libro-gioco a scelta
multipla le dà una soluzione più rapidamente del mio. Un attimo
dopo le sue labbra sono sulle mie. Rispondo al bacio quasi per
riflesso.
Quasi.
Una parte di me si gode il contatto.
Un’altra ha voglia di vomitare.
Sento Cindy prendermi la mano e appoggiarsela sul fianco
mentre fa scivolare la sua lungo la mia schiena. Mi tira verso di lei.
La stendo bruscamente sul divano.
«Interessante» mormora fissandomi con desiderio. «Non sapevo
ti piacesse tanto prendere il sopravvento.»
«Sono molte le cose che non sai di me» rispondo con freddezza.
Vedo dai suoi occhi che il mio tono la sorprende. Mi affretto a
proseguire prima che il mio desiderio abbia di nuovo la meglio.
«Che ci fai qui, Cindy?»
Si irrigidisce. Evidentemente il suo libro-gioco non ha la risposta
per questo.
«No» proseguo «in realtà non è necessario che tu risponda.
Un’idea ce l’ho e, in sostanza, non mi interessa proprio.»
Mi alzo. Cindy è sempre stesa sul divano. Il suo sguardo è
cambiato. Mi osserva come se dovesse scegliere tra uno straccio e
una pezza. Non ce l’ho con lei, probabilmente do a vedere la stessa
cosa.
«Vattene.»
Resta zitta ma esegue. La guardo rimettersi le scarpe, chiudere
gli ultimi bottoni in alto della camicetta (quando li ha slacciati?). Le
porgo il cappotto e apro la porta prima che abbia il tempo di
metterlo.
«Sei cambiato» mi dice superando la soglia.
«Se tu ti fossi presa il disturbo di conoscermi, ti saresti
risparmiata la fatica di venire.»
«Almeno ho tentato…»
Sbatto la porta senza aggiungere nulla.
Il “siate gentili” l’ho dimenticato un attimo fa.
Sul tavolo, ci sono ancora il suo bicchiere pieno a metà e il mio
succo di pera che non ho nemmeno toccato. Prendo il calice, vado in
cucina e lo svuoto, faccio lo stesso con la bottiglia intera. Butto il
tutto nel secchio della raccolta differenziata: non ho voglia di
rivedere questo bicchiere un giorno.
Quando torno in soggiorno non oso nemmeno guardare il
divano. Vado in camera a cercare una coperta e gliela stendo sopra.
Va già meglio. Prendo il telecomando e accendo la tivù. Sorseggio il
succo di pera senza prestare davvero attenzione ai commenti del
presentatore.
È stato umiliante.
Ecco perché non cerco nessuno.
7
ELSA
Strizzo gli occhi con il pretesto della violenza dei neon per
evitare lo sguardo di mia madre. Sono di nuovo in ospedale, come se
non me ne fossi mai andato, e, per la seconda volta in meno di una
settimana, ne sono quasi felice.
È mercoledì, giorno di visita, al momento identico a lunedì.
Lavoro, sorrisini da parte dei colleghi, giro per andare a prendere la
mamma, sosta davanti alla 55, tentativo di mia madre di farmi
entrare nella camera di mio fratello.
Faccio finta di non avere visto nulla. Sento ancora il retrogusto
del mio tentativo di lunedì. Non ho voglia di ricominciare.
E poi ho qualcosa di molto meglio da fare.
Mi dirigo verso la stanza 52. C’è ancora quella foto sotto il
numero. Dopo le spiegazioni dei suoi amici, dubito che Elsa ami
particolarmente quel ghiacciaio. Faccio ancora un po’ fatica a capire
la sua passione, soprattutto vedendo dove l’ha portata.
Abbasso la maniglia e mi blocco. Si sente una voce nella stanza,
una voce che però si interrompe al cigolio. Appartiene a una
ragazza, ne sono certo. E non è quella dell’altra volta, Rebecca.
Seguono il rumore di una sedia spinta indietro e dei passi esitanti.
Lascio la maniglia cercando una soluzione di emergenza; devo
essere ridicolo.
Di chiunque si tratti, non ho voglia di spiegare le ragioni della
mia presenza lì. Giocarmi un’altra menzogna o dire una parvenza di
verità. Ne ho abbastanza. Volevo solo riposarmi un po’, in un posto
tranquillo. Nessuna persona sana accetterebbe questa motivazione.
Insomma, a parte Rebecca e il suo compagno. Steve non aveva l’aria
di apprezzare davvero la cosa.
Le scale sono troppo distanti perché possa rifugiarmi lì. La
ragazza mi vedrebbe sicuramente correre una volta aperta la porta, è
ridicolo. Ma lo è altrettanto il fatto che mi butti su una sedia a
qualche metro da lì. Ciò non toglie che possa funzionare. Fingo
un’aria annoiata, incrocio appena il suo sguardo. Sembra una
studentessa, sulla ventina, che osserva il corridoio incredula prima
di rassegnarsi.
Le mie spalle si rilassano e sprofondo ancora di più nella sedia.
Ho detto che sarei sembrato ridicolo, ma pietoso sarebbe più
corretto. Accompagno mia madre a trovare mio fratello in ospedale
e desidero un’unica cosa, sistemarmi nella stanza di una paziente
inerte, e tutto questo nella speranza di stare tranquillo.
Commetto un errore dietro l’altro. Nei confronti di mio fratello,
nei confronti di mia madre. Nei confronti della tranquillità. Il fatto
che io mi rifiuti di andare a trovare un membro della mia famiglia
non significa che Elsa debba subire la stessa sorte. La prova è che
c’erano tre suoi amici la settimana scorsa, e ora ecco che riceve la
visita di qualcun altro.
Mi sorprendo a sperare che la persona se ne vada presto.
Aggiungo “egoista” dopo “pietoso” e sprofondo ancora un po’ nella
sedia.
È la prima volta che mi trattengo nel corridoio del quinto piano,
così mi guardo un po’ attorno. I miei occhi individuano per prima
cosa le scale, dove ormai potrei trovare rifugio, ma alla fine, anche se
sono seduto sulla plastica rigida, non ho il coraggio di alzarmi. Ci
sono una finestra in fondo al corridoio, due porte a battente dal lato
opposto, che devono affacciare su un identico corridoio asettico, e
qualche quadro insignificante appeso ai muri. Dal momento che il
rosa antico delle pareti fa già schifo… non capisco perché si ostinino
a mettere roba ancora più sbiadita. Forse temono che i colori vivaci
possano scioccare le persone.
Eppure, in un reparto simile, si potrebbe pensare il contrario.
Anche se… Non ne so nulla. Non sono mai stato in coma né nella
fase successiva di riabilitazione. Non ho idea di che cosa potrebbero
provocare i colori in una situazione simile. Magari sto
completamente vaneggiando. Per ritrovarmi a pensare a come
sarebbe essere in stato di coma devo avere seriamente un problema.
Mi accorgo che da qualche minuto sto cercando qualcosa con gli
occhi. Sto cercando un altro numero, il 55. Ho un sussulto nel
rendermi conto che la mia sedia in realtà vi si trova proprio accanto.
È da dieci minuti che sono seduto a dieci centimetri dalla porta di
mio fratello. Credo sia stata un’impresa rimanere qui tanto a lungo,
anche senza saperlo.
Eccolo, il mio problema. La stanza 55 e il suo occupante.
Altrimenti perché cercherei di immaginare che cosa significhi
essere in coma? Scuse, insegnamenti, spiegazioni e confessioni
firmate. È tutto quello che ho potuto vedere da quando si è
risvegliato. Ma che cosa significa trovarsi al posto di mio fratello?
Avere bevuto troppo una sera sapendo benissimo che è pericoloso?
Avere investito due ragazzine senza rendersene davvero conto?
Sembra che quando glielo hanno detto al suo risveglio sia quasi
svenuto. Spero abbia provato la più grande paura della sua vita.
E durante quei giorni in cui era fermo a letto, la mente persa
chissà dove mentre il corpo si ristabiliva, che cosa ha provato? Come
stava? Non sentiva niente? Non esperiva niente? Che cosa fai
quando sei in coma? Pensi? Ascolti gli altri? I medici mi avevano
detto di parlare con lui, non ho spiccicato una parola.
Invece, con Elsa, mi ci sono voluti meno di due minuti. Ma
contro Elsa non ho nulla. Mentre contro mio fratello…
Un brusio disturba i miei pensieri. Giro appena la testa di lato,
lasciandola appoggiata alla parete. Il mio battito accelera nel
momento in cui capisco che si tratta della voce di mia madre che
filtra attraverso la fessura della porta. È davvero ostinata. Non
chiude mai quella porta, come se sperasse ancora che io possa
cambiare idea.
Alzo il braccio sinistro alla cieca, sperando di arrivare alla
maniglia per chiudere la porta una volta per tutte, quando il mio
nome fa capolino nel brusio. Avevo volontariamente escluso le
parole, ma il mio nome è troppo difficile da ignorare.
«… non vuole ancora venire.»
«Perché, non sono più suo fratello?»
«Come puoi volergliene?»
Noto che mia madre non ha risposto davvero alla domanda.
Forse perché non ha la risposta giusta, o forse perché si rifiuta di
dirla ad alta voce. Non so nemmeno io che cosa avrei detto. Una
cosa è certa, da quando ha provocato l’incidente io lo odio, ma
abbiamo pur sempre lo stesso cognome, la stessa madre, ed è scritto
nero su bianco sullo stato di famiglia.
Però non posso più dire che formiamo davvero una famiglia. In
una famiglia ci si rispetta, ci si ama, si vivono alti e bassi ma si trova
sempre un’armonia, un equilibrio. Come Gaëlle e Julien. Ecco, mio
fratello è sprofondato mille metri sottoterra ma io mi rifiuto di
seguirlo. Mia madre fa regolarmente avanti e indietro, dice che risale
anche un po’. Non ho nessuna voglia di scavare per riportarlo verso
la superficie. Si è cacciato là sotto da solo e da solo deve spostare la
terra.
«… paura.»
Riapro di colpo gli occhi. Il mio cervello era riuscito a escludere
di nuovo tutti i suoni, ma con questo non ce l’ha fatta, soprattutto
dal momento che è uscito dalla bocca di mio fratello. Mio malgrado,
tendo l’orecchio.
C’è un lungo silenzio. Mia madre non ha voluto rispondere o ha
soltanto sussurrato. Ho la mano ancora sospesa sulla maniglia,
come il mio respiro in gola.
«Ho avuto paura. E ho ancora paura.»
Quel po’ di aria che avevo nei polmoni resta intrappolata e sento
come un rivolo d’acqua che mi cola lungo tutto il corpo. Comincio a
tossire senza controllo e mi nascondo la faccia tra le mani. Anche se
avessi voluto ascoltare il seguito della conversazione, non ci sarei
riuscito. A ogni modo, è in questo momento che vedo uscire la
ragazza dalla stanza di Elsa.
Mentre il mio respiro è ancora strozzato in gola, la guardo
andare verso gli ascensori. Non appena le porte si sono richiuse
faccio un balzo dalla sedia e mi precipito alla numero 52
riprendendo a respirare.
Giro la maniglia come se stessi lanciando un S OS e richiudo la
porta appoggiandomici contro. Ho i muscoli talmente tesi che
sembra io stia cercando di impedire a una folla di persone di entrare
nella stanza. Sono scappato dalla 55 nella speranza di non sentire
più niente. In effetti, non sento niente a parte le apparecchiature
elettroniche di Elsa. Ma i miei pensieri, invece, ci sono ancora tutti, e
sono quelli che sto cercando di lasciare in corridoio.
Se mio fratello ha avuto paura, se l’è assolutamente meritato. Se
ha ancora paura, se lo merita. Ma questo prova forse il suo
pentimento.
Scuoto la testa stringendo i pugni. Mi rifiuto di trovargli delle
scuse o di accettare una qualche redenzione. Voglio continuare a
detestarlo. Se smetto di odiarlo significa che lo perdono, e non
posso fare una cosa simile. Ma è pur sempre mio fratello, almeno, in
parte. Potrei forse detestarlo in parte.
Non ha alcun senso. Niente ha senso qui dentro. Inclusa la mia
presenza nella stanza 52. Eppure sono qui, e l’odore del gelsomino
calma progressivamente la mia mente. Ho trovato la mia ancora di
salvezza, il segnale luminoso che mi riporta sulla terra ferma dopo
un viaggio nelle profondità. Ho trovato il mio rifugio, ed è
decisamente meglio delle scale.
Decisamente meglio di una sedia in un corridoio accanto
all’abisso in cui è sprofondato mio fratello.
«Tieni, ti ho portato questo.»
Julien mi porge un libro giallo e nero ancor prima di salutarmi.
Gli è rimasta della neve sul berretto e ha le guance tutte rosse. Sono
arrivato al pub qualche minuto prima di lui, ho già avuto il tempo di
scaldarmi.
«Che cos’è?» chiedo prendendogli la giacca per appoggiarla sulla
panca accanto a me.
«Basta che leggi il titolo.»
Julien inizia a togliersi a uno a uno gli strati che lo ricoprono fino
a rimanere in maglietta. Prendo il libro sul tavolo. Coma per negati.
Come hanno potuto pubblicare un titolo simile? Lo accantono e mi
concentro su Julien. Ha appena ordinato per tutti e due e si sta
mettendo più comodo sulla sedia.
«Pensavo che non saresti venuto» gli dico in tono quasi di scuse.
«Ho contrattato un’oretta con Gaëlle. Posso fare di meglio.
Insomma, sì. Forse c’è una soluzione che ci permetterà di passare
più tempo insieme.»
«Quale?» chiedo speranzoso dal momento che non ho
assolutamente voglia di tornare subito a casa.
«Gaëlle dice di venire da noi come mercoledì scorso.»
L’attenzione di Gaëlle mi colpisce, ma rifiuto subito la proposta.
«Aspetta, non voglio occuparvi casa ogni volta che mi va di
vederti. Peggio per me, avrei dovuto deprimermi ieri, o farlo
domani.»
«Ma queste cose non le puoi decidere. E sai come è fatta Gaëlle,
vuole sicuramente qualcosa in cambio del suo invito.»
«Che cosa vuole in cambio?»
«La stessa cosa dell’altra volta, sapere che ti occuperai tu del
biberon di Clara durante la notte, e anche un piccolo supplemento.»
Julien ha aggiunto l’ultima parte con un sorriso di scuse. Inizio a
temere. Gaëlle ha una scala “piccolo/grande” completamente
deformata.
«Coraggio. Quale sarebbe questo enorme supplemento che mi
chiede?»
«In realtà si tratta di un enorme supplemento che ti chiediamo
tutti e due.»
«Ah, ecco, allora è del tutto sproporzionato» scherzo io.
«Vorremmo che tu tenessi Clara per il weekend.»
«Cosa?»
Il mio “cosa” sembra lo strillo di un’anatra strozzata e buona
parte dei clienti ai tavoli vicini si zittisce e mi squadra. Li ignoro
fissando Julien come se mi avesse appena annunciato che si
trasferisce dall’altra parte del paese.
«Sei pazzo? Un intero weekend?»
«Da venerdì sera a domenica sera» continua Julien. «Starai da
noi, è più semplice se ti trasferisci con la tua roba piuttosto che
Clara venga da te con tutto il nostro appartamento al seguito. Gaëlle
ti spiegherà tutto sui biberon e il resto. Ma la maggior parte la
conosci già.»
«Un attimo, Julien. Tutte le volte che ho fatto il bagnetto a Clara
o roba simile voi c’eravate. Voglio dire, se fosse andato storto
qualche cosa voi potevate rimediare. Se invece siete lontani…
Peraltro, dove andreste?»
«Gaëlle ha prenotato una casa in montagna.»
«Della serie, non avrei alcun modo di contattarvi…»
«Non andiamo in capo al mondo» mi dice ridendo. «E c’è la rete,
lassù. Ma sappiamo che te la caverai.»
«Siete proprio gli unici a pensarlo.»
Bevo un sorso del mio succo di pera. Nemmeno la sua dolce
consistenza riesce a eclissare la fifa che provo all’idea di avere Clara
sotto la mia responsabilità per due giorni.
«Non potete chiedere ai genitori di Gaëlle?»
«Non possono, e lei vuole metterti un po’ alla prova.»
La cosa mi sorprende meno, visto che viene da Gaëlle, e riesco
persino a sorridere. È Julien che mi ha proposto come padrino.
Gaëlle all’inizio non era convinta. Quando ho accettato, non avrei
mai immaginato di dover affrontare un vero e proprio colloquio di
lavoro. Per il momento credo di avere superato tutte le prove, e
questa dev’essere l’ultima, il test finale che deciderà per il sì o per il
no, anche se so che, in ogni caso, non ci saranno molte altre
possibilità. Il battesimo è tra meno di due settimane.
«Di’ a Gaëlle che va bene.»
«Sei sicuro?» chiede Julien con un sorriso fino alle orecchie.
«Sì, va bene, ma deve farmi una dimostrazione pazzesca questa
sera! Se devo passare l’esame, voglio avere il tempo di prepararmi i
bigliettini da nascondere!»
«Questa sera esce, ti farò ripassare io» dice scherzando Julien.
«Ah, è per questo che hai solo un’oretta?»
«Esattamente. Uscita con le amiche.»
«Senti un po’, si diverte mica male il tuo tesoro!»
«E io sono già due volte che mi sottraggo al mio impegno di
padre per vedere te» mi ricorda.
«È vero…»
Ora che la contrattazione è finita cambiamo argomento. Ho fatto
scivolare con discrezione Coma per negati sulla panca all’inizio della
conversazione per allontanare il libro dallo sguardo di Julien,
altrimenti so che avrebbe subito deviato sull’argomento. Riesco a
evitare le domande su Elsa concentrandomi esclusivamente sul
tempo, mio fratello, la neve, una futura sciata, ancora mio fratello, il
mio appartamento, di nuovo mio fratello, tutto questo fino a che i
nostri bicchieri sono vuoti e l’oretta concessa a Julien ormai
trascorsa.
Ci muoviamo come la volta precedente: corriamo a recuperare la
mia macchina, poi saliamo in fretta le scale. Julien ha gli occhi
puntati sul suo orologio, sa che cosa lo aspetta se osa oltrepassare il
limite, soprattutto dal momento che Gaëlle non si è concessa quasi
nessuna uscita dopo il parto. Sta già suonando alla porta al terzo
piano mentre io sono solo al secondo. Le mie capacità atletiche sono
davvero peggiorate.
Sento Gaëlle aprire e scherzare sulla puntualità. Ho appena il
tempo di riprendere fiato sulla soglia che mi mette Clara tra le
braccia.
«Aspetta! Ho ancora la giacca e tutto quanto addosso! La
congelo!»
«Con gli strati che la ricoprono non corre alcun rischio» mi
risponde Gaëlle. «Dài, se non ti sbrighi rischia di sicuro di mettersi a
piangere.»
Spingo Julien per precipitarmi in soggiorno. Gaëlle non mi dà
tregua, sembra quasi che il mio weekend di prova inizi con due
giorni d’anticipo. Mi svesto in modo maldestro cercando di tenere
Clara più comoda possibile. Mi sembra di essere un abilissimo
giocoliere.
Il mio numero deve divertire Clara, perché vedo le sue labbra
tremare leggermente quando la faccio passare da una parte all’altra
il tempo di sfilare una alla volta le maniche del giubbotto. Trovo
anche il modo di togliermi le scarpe con una mano sola e sento le
risate che provengono dall’ingresso. Gaëlle e Julien mi stanno
guardando. Apparentemente il piccolo test è superato.
Gaëlle mi fa un cenno e bacia Julien. Distolgo lo sguardo per non
invadere il loro breve attimo d’intimità, che non è poi così breve
come pensavo visto che ho l’impressione che il bacio prenda tutta
un’altra piega. Come dare torto a Julien? Ho visto come è vestita
Gaëlle sotto il cappotto, è sublime.
Quando Julien torna verso di me dopo avere chiuso la porta, ha
quel sorriso beato da uomo felice e i capelli un po’ spettinati. Gli
passo Clara il tempo di sfilarmi il maglione e riprendo la mia futura
figlioccia in modo che possa spogliarsi anche lui. La situazione è
piuttosto buffa vista dall’esterno. Due tizi con un bebè. Sembriamo
due balie, completamente pazzi della bimba ma competenti.
Sono con il mio migliore amico in bagno e lo osservo lavare la
figlia. La mia lezioncina di ripasso inizia, soprattutto quando gli do
il cambio mentre lui cerca una tutina pulita.
«Allora, la visita di oggi come è andata?» chiede frugando in un
armadio.
«Non sono andato a trovare mio fratello, te l’ho detto, no?»
Ce l’ho un po’ con me stesso per il fatto di non dirgli tutta la
verità. Eppure se lo meriterebbe.
«Non mi riferivo a tuo fratello, Thibault.»
Che furbo questo Julien! In realtà, non ha mai perso di vista
l’argomento principale della serata. Aspettava solo che fossi in una
situazione in cui non avrei potuto evitare la sua domanda. Tiro fuori
Clara dall’acqua e la appoggio delicatamente sull’asciugamano
accanto. Lei agita le braccine verso di me.
«Come le altre volte. Ho dormito» dico spostandomi per lasciarlo
passare.
«Non fai altro che dormire quando vai a trovarla?»
«Parlo un po’, ma, francamente, che cosa vorresti che facessi?»
La mia risposta dev’essere piuttosto azzeccata perché Julien non
aggiunge nulla. Finisce di vestire Clara e me la mette tra le braccia
per sistemare la parte dedicata a lei. Faccio finta di ballare con la
mia figlioccia mentre lui si dà da fare tra i cassetti.
«Che cosa pensi di fare?»
La domanda di Julien fa eco a quella che mi gira in testa già da
qualche giorno. Smetto lentamente di ballare, pensieroso.
«Non so che cosa posso fare, ma so che cosa vorrei.»
«Cioè?» prosegue Julien.
«Vorrei che si risvegliasse.»
«Questo dipende solo da lei, lo sai.»
«Ne dubito proprio.»
Riprende Clara e lo seguo in soggiorno. In due minuti e con una
mano sola ha preparato tutto il necessario per darle il biberon. Io
prendo il cuscino per l’allattamento e mi sistemo accanto a lui sul
divano.
«Tieni, ripassa un po’» dice porgendomi la figlia. «E così sei
bloccato e puoi continuare a rispondere.»
«Rispondere a cosa?»
«In realtà non ho davvero più domande, forse solo un consiglio.»
«Quale?»
«Stai attento.»
Per qualche secondo i versi di Clara mentre succhia dal biberon
sono l’unico rumore che si sente nella stanza.
«A cosa devo stare attento?» sussurro anche se conosco
benissimo la risposta.
«Ti stai innamorando di una ragazza di cui non sai quasi nulla.
Se fosse l’unico problema, passi, ma… Ti stai anche innamorando di
una ragazza che è a forte rischio di non risvegliarsi mai più.»
«Che ne sai?»
«So quello che mi hai detto tu, Thibault. Apparentemente non c’è
alcun miglioramento, e trovo che tu sia davvero troppo coinvolto per
un incontro a senso unico che è avvenuto solo una settimana fa.»
«Lo so…»
Sì, lo so. È l’unica risposta che posso dare. Al limite, potrei dire:
“Ho sentito”, ma Julien lo sa benissimo. Ho sentito, ascoltato,
analizzato e già assimilato ognuna delle sue parole per il semplice
motivo che mi ronzano in testa da un po’ di tempo.
«Mi piacerebbe comunque che si risvegliasse…»
11
ELSA
Mia madre e mio padre sono qui, nella mia stanza. Non sono
soli. C’è anche il primario. Questo dannato medico che mi esce dagli
occhi. E vorrei letteralmente fargli ingoiare il camice tanto mi dà sui
nervi.
Da quando ho sentito la sua voce, la mia mente è sconvolta. È qui
per parlare del famoso “meno X” una volta per tutte. L’idea era già
stata espressa, ma non in maniera così radicale. E “radicale” è
troppo debole. Se esistesse un termine in grado di racchiudere
“asettico”, “diretto” e “completamente disinteressato” credo che
riassumerebbe il modo in cui viene esposta l’argomentazione.
«Capisce, signora mia, non ci sono davvero più speranze.»
“E il tuo linguaggio ricercato, imbecille? È già tanto che tu non
dica ‘donna’. Se vuoi annunciare il mio decesso anticipato abbi
almeno la cortesia di farlo con eleganza! Sembri un personaggio di
uno di quei vecchi film western americani, solo che tu indossi un
camice!”
D’altro canto me lo raffiguro proprio così questo primario che mi
fa orrore. Il camice completamente sbottonato, un pugno sul fianco
e il gomito dell’altro braccio appoggiato al muro. Mi gioco la testa
che sotto indossa un paio di jeans, e non i pantaloni da medico. Una
maglietta sbracata. Okay, così è come lo immagino io, ma, davvero,
potrebbe essere molto simile. Una trascuratezza offensiva. Non
capisco come mai mio padre non abbia ancora reagito.
Mia madre, dal canto suo, ha reagito dopo un bel po’. Piange più
o meno silenziosamente. Lo sento soprattutto quando parla, perché
i singhiozzi le spezzano la voce.
In fondo è curioso. Dopotutto, è lei che ha avuto per prima
l’intenzione di staccare la spina. Ma, vista la sua reazione emotiva, si
direbbe che i ruoli dei miei genitori si siano invertiti.
«Da-da-davvero ne-nessuna?»
La sua voce si è completamente inceppata alla fine della
domanda. Spero che mio padre abbia avuto l’intelligenza di
stringerla fra le braccia o almeno di prenderle la mano. È nella
disperazione più totale, e non le capita spesso. Deve essere anche
nel panico, a coronare il tutto. Mando una richiesta silenziosa a mio
padre perché adempia in modo adeguato al suo ruolo di marito.
Dubito fortemente che la mia richiesta abbia effetto ma capisco che
almeno ha fatto qualcosa.
«Anna, calmati prima di fare domande.»
È un consiglio molto ragionevole, mio padre in tutto il suo
splendore, ma non è esattamente quello che avrei voluto sentire.
«Può attendere un attimo, il tempo che mia moglie si riprenda?»
Il grugnito del medico dev’essere un sì. Cosa dicevo… Un vero
western. Ma dov’è finito il mio interno? Avrebbe sicuramente fatto
le cose con più tatto! Benché se si fosse messo a singhiozzare anche
lui… ci sarebbero state molte lacrime da asciugare nel pomeriggio.
Il primario esce. La mia seconda richiesta silenziosa è che si
verifichi un qualsiasi evento che possa portarlo nel giro di un
minuto a rompersi una gamba. Ma anche quintuplicando il tempo
previsto, non è successo nulla, poiché, quando torna, non sento
alcuna stampella battere sul pavimento.
«Avete avuto modo di riflettere?»
“Ma sicuro, andiamo! In cinque minuti, tu credi che abbiano
avuto ampiamente il tempo di decidere una cosa simile!” So che
invece di innervosirmi dovrei servirmi di tutta questa energia per
ordinare al mio cervello di attivarsi per raddrizzarmi, ma non c’è
niente da fare, sono in grado di concentrarmi solo sulle mie
emozioni. Thibault è l’unico che riesca a trasformare queste
emozioni in azione. Ecco, sono proprio un uragano di collera.
Per un attimo ho un dubbio… La collera non è una reazione
fisiologica chimica? Questo significa che sto facendo progressi? Ma
ho studiato geologia, non medicina, quindi lascio perdere e attendo
con impazienza la risposta dei miei.
«No.»
La voce di mio padre è ferma e il messaggio chiaro, anche se
francamente avrei preferito che gli tirasse un pugno in faccia. Non
so da dove mi viene tutta questa aggressività ma è evidente che la
incanalo su questo medico. Sarà il mio istinto di sopravvivenza?
Dopotutto, il mio futuro è nelle mani di quest’uomo e delle sue
argomentazioni. Se riesce a convincere tutti, staccherà la spina e…
No. Non voglio pensare al seguito. Per ora, sono qui. Ascolto. E
oggi sono viva e voglio restarlo.
«Va bene» risponde il medico. «Avete tutto il diritto di esitare.
Ma sappiate che più aspetterete prima di decidere, più grande sarà il
dolore.»
Sa di frase registrata, come quella delle segreterie telefoniche
programmabili. “Risponde la segreteria del dottor Machin, potete
staccare la spina di vostra figlia dopo il segnale acustico.”
«Lei ha figli, dottore?»
La domanda di mio padre richiama la mia attenzione. Sento che
il mio pugno immaginario potrebbe trasformarsi in un’osservazione
pungente che avrà più o meno lo stesso effetto.
«Sì, due.»
Bugiardo…
C’è qualcosa di straordinario nel fatto di poter contare soltanto
sul senso dell’udito, perché tutto ciò che è collegato ai suoni
acquisisce un sapore particolare.
In sette settimane ho potuto notare che associavo
spontaneamente un colore e una consistenza a ciò che dicevano le
persone. La voce di mia sorella che racconta le sue storie d’amore
assume un aspetto di velluto rosso vomito tanto straborda di
ormoni. Mia madre è una specie di cuoio viola che vuole apparire
robusto ma che si crepa in diversi punti come una vecchia borsetta.
Questo primario è scialbo e ruvido come una trave d’acciaio da
costruzione.
In mezzo a tutto questo, per fortuna, da una decina di giorni è
comparso un arcobaleno. Thibault è arrivato con tutte le sue
emozioni, tutte quelle novità per me. Non sono riuscita a dargli un
colore in particolare. Era proprio cangiante e sconcertante. Mi sono
decisa per un arcobaleno. L’ho trovato poetico. È sempre meglio del
resto, che stava diventando disgustoso all’inverosimile.
Insomma, questo medico è un bugiardo. Da quanto ha appena
detto so che mente. Non ha due figli. Dubito che ne abbia anche
uno solo. Per me questo tizio ha una moglie e basta. Sicuramente
questa risposta è artefatta come la precedente e serve per ingannare
gli interlocutori. È anche vero che potrebbe averne piene le scatole
di sentirsi dire: “Ah, no? Non ha figli? Allora non può capire che
cosa significhi prendere una decisione simile!”.
Mi sorprendo. È davvero la prima volta che ho delle idee
ragionevoli nei riguardi del mio medico abituale. Comunque non
riesco a concepire il fatto che si possa essere medico con la volontà
di salvare delle vite e diventare totalmente disinteressato alla morte
programmata di qualcuno. Ma com’è che si passa dal
coinvolgimento personale, come dimostra il mio interno, al totale
distacco che mostra questo primario? Forse dopo anni di esperienza.
Anzi, sicuramente. Non vedo in che altro modo. Non è certo la
prima volta che si trova a prendere una decisione di questo tipo. Ma,
malgrado tutto, dà l’impressione che non lo riguardi minimamente.
So che non è proprio così, ma resta comunque la sensazione che se
ne trae. Insomma, per me che posso solo ascoltare.
Mio padre, che non sa che il medico mente, non prosegue con lo
schiaffo verbale che avrebbe voluto dargli e si accontenta di
consolare mia madre bisbigliando.
«Signore» prova il medico che ha capito che non riuscirà più a
ottenere nulla da mia madre «ecco i documenti. So che non avete
preso alcuna decisione, ma, talvolta, avere il testo sotto gli occhi
aiuta. Non vi chiedo di compilarli questa sera. Solo di leggerli. O
magari lasciarli su un tavolo per poterci riflettere spesso. In ogni
caso non esitate a chiamarmi. In qualsiasi momento. Ci sono i miei
recapiti in fondo, in questo inserto. Ripeto, in qualsiasi momento. Se
sono occupato, non rispondo, semplicemente. Ma si tratta di una
linea riservata a questo tipo di chiamate e cerco, per quanto mi è
possibile, di esserci per la famiglia dei miei pazienti.»
Stavolta non so cosa pensare. Forse sto imparando che cosa
significa essere neutrale. Quello che dice il mio medico è
professionale. Ciò non toglie che una parte di me avrebbe preferito
che fosse l’interno a occuparsi di tutto questo. Almeno ho avuto
modo di sentirlo dire “ti amo” a qualcuno. Significa che ha un cuore
che vive e batte. Non voglio dire che il primario non abbia un cuore,
ma piuttosto che lo ha rinchiuso in quello stesso metallo freddo e
ruvido che associo al timbro della sua voce.
Mio padre prende i fogli e il medico saluta i miei genitori. Odo
un vago mormorio da parte loro, poi solo i singhiozzi di mia madre.
Credo che mio padre le stia accarezzando la testa. Pian piano lei si
calma, poi si avvicina al mio letto. Forse mi prende la mano, forse
semplicemente mi guarda. Non sento più granché. Mi sto per
addormentare.
14
THIBAULT
Devo calmarmi.
No, sono calmo. Devo controllarmi, piuttosto. Julien ha visto
giusto.
Mi sto innamorando di una ragazza in coma. No, non è proprio
sano. Ma quando l’ho vista, gli occhi spalancati, in preda a questa
specie di sussulto pazzesco, ho reagito di riflesso.
Di riflesso… Mi faccio paura da solo, tanto più che mi sfugge un
sussurro dalle labbra.
«Elsa… Non so quasi nulla di te, eppure…»
Lascio la frase in sospeso. Per una volta, non mi rivolgo davvero
all’occupante della stanza. Non sento alcun bisogno di finire la frase
ad alta voce. Il seguito si delinea da solo nella mia mente. Mi rendo
conto allora che devo assomigliare a mio fratello dieci minuti fa. Il
paragone tra noi due mi demoralizza un po’, ma sono certo di avere
lo stesso sguardo evasivo che lui rivolgeva al cielo grigio oltre la
finestra.
Clara si agita tra le mie braccia; cerco un posto dove posarla e
lasciarla libera. Mi rendo conto allora di tutti i miei errori di padrino
ancora inesperto. Sono stato davvero un egoista a trascinarla
all’ospedale con me. Non ho nemmeno pensato di portare un
tappetino con i suoi giochi e le altre cose per tenerla impegnata.
Avevo calcolato tutto per non dover portare né biberon né
pannolini, ma non ho pensato al resto. L’unica possibilità è mettere
Clara sul letto accanto a Elsa, ma mi servirà un po’ più di spazio per
farlo.
Stendo il giaccone per terra e vi poso sopra Clara giusto il tempo
di ricavarle un posticino più comodo accanto al corpo inerte. Mi
blocco un istante. Elsa sembra così tranquilla rispetto a prima.
Niente a che vedere con i lineamenti tesi e le mani irrigidite del suo
corpo contratto.
Un aspetto positivo in questo spasmo c’è stato, anche se avrei
comunque preferito che non si verificasse: ho potuto vedere gli
occhi di Elsa. Di un azzurro pallido che mi ha sconvolto quanto lo
stato in cui versava. Rifletto un istante e ritrovo il luogo in cui ho
visto la stessa sfumatura di colore. La foto attaccata alla porta.
L’azzurro del ghiaccio su cui camminava.
Prima di vedere quella foto non avrei mai pensato che il ghiaccio
potesse essere azzurro. Per me, il ghiaccio è bianco, al massimo
trasparente se si tratta di un blocco abbastanza puro e liscio. Mi
riferisco alla brina del congelatore o ai cubetti di ghiaccio tondi del
pub. Le mie fonti sono piuttosto limitate. Nessuno mi aveva mai
mostrato del ghiaccio azzurro, al massimo nella versione alimentare
aromatizzata, e lo avevo trovato tremendo.
Lì, su quella foto, ho scoperto che cosa è in grado di fare il nostro
pianeta. La cosa mi ha sorpreso, perché, lavorando nel campo
dell’ecologia, ho già affrontato studi di caso relativi alla banchisa e ai
ghiacciai. Ma non essendomi specializzato in questo ambito, il tutto
si è limitato ai miei primi due anni da studente. Dopo mi sono
concentrato su altre cose. Elsa mi ha riportato con i piedi per terra.
O meglio sul ghiaccio.
Tiro un sospiro scuotendo la testa. Dieci giorni che le nostre
strade si sono incrociate, dieci giorni che il mio mondo si è orientato
verso di lei. Non ho alcuna speranza di rivedere nel giro di un’ora
questo azzurro che è glaciale solo nel colore, ma ho la speranza di
rivederlo un giorno. Il fatto che l’interno non abbia voluto
rispondere alla mia domanda non significa che Elsa sia condannata
a rimanere per anni in coma. Forse non ha osato dirmi che ne ha
ancora per tre mesi. Tre mesi ad alcune persone possono sembrare
tanti.
In compenso, mi ha dato qualche informazione non di poco
conto. Elsa può sopravvivere due ore senza tutta quella roba
elettronica. Avevo già capito l’ultima volta che in buona parte erano
solo sensori vari, ma non sapevo che fosse possibile staccare tutto
per qualche istante.
Adesso lo so, e mi sta bene.
Mi sporgo sopra di lei e prendo il tubo del respiratore artificiale.
Tremo all’idea di portare a termine il mio gesto e di provocare
qualcosa di irreversibile. Ma ho avuto la prova cinque minuti fa che
non avrebbe alcuna conseguenza per un certo tempo.
Stringo i denti e chiudo gli occhi. Clac. Ho scollegato il tubo
trasparente del respiratore. Sullo schermo accanto sento ancora il
bip regolare e rassicurante. Non oso fermare la macchina che
continua a pompare a vuoto. Le équipe mediche avranno senz’altro
un modo per tenere il tutto monitorato a distanza.
Mi allungo al di sopra del letto e allontano l’asta della flebo. Ne
approfitto per sganciare altri due o tre cavi, il tempo di spostare
Elsa. Per ultimo, metto la mano sull’ossimetro fissato al suo indice. È
l’unico vincolo temporale che ho se non voglio che le infermiere
arrivino in modalità “emergenza”.
Ho già infilato una mano sotto il corpo di Elsa. So che non ho
fatto alcun progresso rispetto all’ultima volta ma, oggi, decido che
ce la farò, a costo di procurarmi un crampo alla spalla. Preparo i
miei muscoli allo sforzo di sollevarla mentre stacco l’ossimetro dal
dito. Con l’altra mano la prendo per la vita e, con un pietoso
grugnito, riesco a spostarla di una ventina di centimetri.
L’adrenalina mi fa rimettere in fretta l’ossimetro all’indice e
ricollego tutta la roba che avevo staccato. Risistemo anche gli altri
cavi. È perfetto, Elsa è la stessa di qualche secondo prima, solo venti
centimetri più in là. L’unica cosa non proprio perfetta è il crampo
che mi è venuto simultaneamente sopra entrambe le scapole, ma
dimentico il dolore, tanto più che ho detto che ne valeva la pena.
Mi raddrizzo e do un’occhiata a Clara. La mia figlioccia è stesa
sulla schiena dove l’ho lasciata, e i suoi occhietti stanno
cominciando a chiudersi. La spessa imbottitura del mio giaccone
deve darle la sensazione di un materasso caldo e morbido. Per un
attimo immagino di essere al suo posto e subito mi minaccia il
sonno. Forse l’avere spostato Elsa alla fine mi sarà utile in altro
modo.
Prendo Clara e la sistemo sul letto accanto a Elsa. Si muove
contenta, il posto deve essere molto più morbido del mio giaccone
sul pavimento in resina. Mi tolgo le scarpe più velocemente
possibile e mi siedo sul bordo del materasso per studiare il tutto.
So che Gaëlle e Julien qualche volta dormono supini, con Clara
sdraiata a pancia in giù sul loro petto, ma non mi fido, soprattutto in
uno spazio così ristretto. Pazienza, mi metterò di lato, tenendo Clara
tra Elsa e me. Non rischierà in alcun modo di cadere.
L’unica cosa che non devo fare è addormentarmi ma, anche se il
sonno mi tenta tutte le volte che la mia figlioccia sbadiglia con la sua
boccuccia, so che rimarrò abbastanza sveglio da sorvegliarla. Mi
sistemo al limite del materasso per lasciarle più spazio possibile, ma
credo proprio che non se ne accorgerebbe nemmeno se la stringessi
un po’ di più contro di me. Vista l’immobilità delle sue manine,
credo si sia addormentata.
Il mio sguardo vaga sulla persona che si trova immediatamente
dietro di lei. Il braccio destro di Elsa forma un angolo strano e mi
rendo conto che l’ho lasciato io di traverso sulla sua pancia quando
l’ho spostata. Lo prendo lentamente come se avessi paura di
svegliarla e glielo stendo lungo il fianco. Peccato che al suo fianco ci
sia Clara e che, malgrado tutti i miei sforzi, mi ritrovi costretto a
lasciare il braccio inanimato a contatto con la mia figlioccia. La cosa
non sembra affatto disturbare la piccola, che non si muove di un
millimetro. Mi allungo allora attorno a Clara per formare una specie
di bozzolo. Le mie ginocchia toccano le gambe di Elsa, la mia fronte
è sulla sua spalla.
Da così vicino, il profumo di gelsomino che abitualmente emana
sembra più forte. O è il suo odore che filtra di più attraverso le
lenzuola? Chiudo gli occhi per un momento e tutt’a un tratto ho
voglia di piangere. Il singhiozzo mi sfugge dalla bocca prima che io
abbia il tempo di trattenerlo. Mi sembra di vomitare una palla di
dolore tanto le mie labbra si schiudono.
Sono penoso. Debole. Ho bisogno di essere steso in un letto
d’ospedale accanto a una donna in coma e a una neonata che dorme
per dare finalmente libero sfogo alle lacrime. In realtà ho pianto
anche la settimana scorsa con Julien, ma qui è completamente
diverso. Le due persone presenti in questa stanza non potranno mai
riferire quanto le mie lacrime fossero copiose né a che punto i miei
gemiti fossero dolorosi. Posso lasciarmi andare.
Non smetto più di piangere. Piango la mia arroganza, la mia
debolezza e le mie invidie. Piango per non essere ancora capace di
parlare a mio fratello. Piango la mia gelosia nei confronti di Gaëlle e
Julien, della loro unione felice, della loro famiglia perfetta. Sogno di
essere al loro posto e, in mancanza di questo, porto la figlia in visita
all’ospedale e abbasso la testa tutte le volte che una donna mi
sorride con tenerezza.
All’improvviso ho freddo, ma so che è solo un effetto della mia
mente. Non sento davvero freddo, è che vorrei avere due braccia
intorno a me a consolarmi. Non quelle di mia madre, non quelle di
Julien, tanto meno quelle di mio fratello. No, le uniche che forse
riuscirebbero a consolarmi oggi sono le braccia inerti a qualche
centimetro da me. E so benissimo perché lo penso. Ho bisogno di
quelle braccia per il semplice motivo che non le posso avere ora e
che, se le voglio, dovrò combattere. Sicuramente per la prima volta
nella mia vita.
Ho sempre ottenuto tutto facilmente. La promozione a scuola, gli
studi successivi, le tappe della mia vita, il mettermi in coppia. Anche
per Cindy è stato facile. E, a distanza, posso aggiungere che anche
quando mi ha lasciato è stato facile, perché mi ha dato sufficienti
motivi di detestarla per mandare giù più velocemente la rottura.
Sono tutti gli effetti secondari che sono stati meno evidenti, e mi
sono lasciato travolgere. Ho rialzato la testa cercando un nuovo
appartamento ma, alla fine, è l’unico obiettivo che ho realmente
raggiunto. Soffro per l’incidente di mio fratello anche se non c’entro
nulla. Forse è ora che io mi tiri fuori da tutto questo.
Forse è ora che io mi tiri fuori da tutto questo.
Smetto di singhiozzare altrettanto bruscamente di come ho
iniziato. Ecco la mia decisione. Ecco come combatterò. Combatterò
per me stesso e combatterò per lei. Voglio che Elsa si svegli e voglio
svegliarmi anch’io. Due boe di salvataggio che lavorano insieme. Io
farò la parte cosciente per tutti e due, lei farà la parte… Ehm… Non
so in realtà che parte potrebbe avere, ma voglio pensare che farà
qualche cosa.
Le mie ultime lacrime scivolano sul mio sorriso.
Sento allora un certo calore sulle dita e abbasso lo sguardo verso
di esse. Mi mordo le labbra scoprendo che è il braccio di Elsa che sto
accarezzando.
Devo calmarmi.
No, sono calmo. Devo controllarmi, piuttosto. Julien ha visto
giusto.
Sono innamorato di una ragazza in coma.
In questo momento mi sembra la cosa più sana che mi sia mai
capitata.
17
ELSA
«Si sposti!»
Mi appiattisco subito contro il muro del corridoio, il tono
pressante dell’infermiere è sufficiente a farmi capire che non ha il
tempo di essere gentile. Non so che cosa sta succedendo, ma c’è un
gran trambusto al quinto piano. Infermieri e medici corrono in un
modo che sarà sicuramente organizzatissimo ma che a me pare
piuttosto disordinato. Dev’essere accaduto qualcosa, ma in quel
momento non me ne frega niente.
La mia mente è altrove. Da qualche parte tra il mio corpo e il mio
cuore. Non ho mai fatto una dichiarazione in simili circostanze. Ma
sfido chiunque a raccontarmi di essersi trovato in una situazione
così.
Imbocco le scale perché gli ascensori sono tutti requisiti per il
caso urgente che sembra gettare nel panico la metà del piano.
Quando arrivo giù, l’agitazione si è già diffusa. Esco dall’ospedale
camminando rasente i muri per non disturbare le persone in camice
che si precipitano all’esterno. Scorgo un assembramento di
personale medico a una trentina di metri. Deve essere il motivo del
subbuglio.
Raggiungo l’auto, i miei pensieri sempre appollaiati al quinto
piano intorno al fragile corpo della stanza 52. Quel corpo che avrei
voluto stringere tra le mie braccia. Ma quando ho visto quelle gambe
così sottili e fragili dopo mesi di immobilità, ho represso il mio
desiderio egoista e mi sono accontentato di sedermi di nuovo
accanto a lei prima di andarmene. Avrei avuto troppa paura di
rompere qualcosa.
Arrivo a casa venti minuti dopo senza essermi reso davvero
conto del tragitto. Mi metto sul divano, con tutti i sensi
addormentati. I miei gesti sono solo il frutto del riflesso e
dell’abitudine. Un’idea si instilla lentamente dentro di me mentre
sorseggio un bicchiere di succo di pera.
Amo qualcuno e questo qualcuno lo sa.
Faccio un sospiro profondo e mi mordo il labbro inferiore per
trattenere invano un enorme sorriso. Chiunque mi chiedesse di
spiegare la situazione concluderebbe che sono pazzo. Allontano
questo pensiero dicendo a me stesso che se l’avessi incontrata e
amata prima che cadesse in stato di coma, la situazione sarebbe in
fin dei conti un po’ diversa.
La suoneria del cellulare mi obbliga a lasciare il divano e il mio
sogno a occhi aperti.
«Pronto?» dico sbadigliando.
«Sei già stanco a quest’ora?»
«Julien… Non ho nemmeno più il diritto di sbadigliare, adesso?»
«Non quando ti chiamo!»
«Okay, e per cosa mi chiami?»
Il mio migliore amico si lancia in un piccolo questionario
sapientemente preparato da sua moglie riguardo al battesimo di
Clara. Ho pensato bene a questo, non devo dimenticare quest’altro,
bisognerà che faccia questo durante la cerimonia, e via dicendo.
«Mi ricordo tutto, tranquillizzati! Che cosa sta cercando di fare
Gaëlle? Vuole sottopormi a un ultimo test per diventare padrino?
Questo weekend non è bastato?»
«Sì, sì, sei stato bravissimo con Clara. Gaëlle era davvero
contenta.»
«Quindi?»
«No, cercavo solo di alleggerire un po’ lo stress.»
Qui Julien mi prende alla sprovvista. Il mio migliore amico
stressato?
«Che ti succede?» gli chiedo subito dopo.
«Oh, è solo l’organizzazione del battesimo che ci tiene un po’
sulle spine, Gaëlle e me.»
Il suo tono mi induce a esitare.
«Julien… Che cosa ti aspetti precisamente da me?»
«Hai un po’ di tempo questa sera?»
«Certo che ho tempo per te! Ma che cosa succede?»
Le risposte di Julien iniziano davvero a preoccuparmi.
«Oh, niente di serio, tranquillo!»
«E allora perché sei così?»
«È solo che devo dirti una cosa. Ti va se ci vediamo al pub? No,
meglio da te. Ti andrebbe?»
«Sì, perfetto! Ma sei sicuro che va tutto bene?»
«Certo. A dopo.»
Julien mette giù. Rimango perplesso per un istante e abbandono
l’idea di richiamarlo per saperne di più. Tra poco sarà qui, meglio
aspettare.
Alzo lo sguardo sul mio appartamento. Non ci ho fatto caso
rientrando perché non ero del tutto concentrato su quello che stavo
facendo, ma il soggiorno è conciato male.
Approfitto della mezz’ora che impiegherà Julien a venire qui per
mettere un po’ in ordine, poi controllo che cosa ho da offrirgli al di
fuori del succo di pera. La risposta è chiara dopo cinque minuti di
attenta ricerca: niente. Pazienza, è il mio migliore amico, capirà.
Suona il citofono. Apro a Julien e lo aspetto davanti alla porta.
Quando arriva, lo squadro per tentare di capire le ragioni di questa
visita improvvisa. Mi dà un bacio ed entra velocemente, si toglie le
scarpe, corre in soggiorno e si butta sul divano.
Gli faccio vedere la bottiglia di succo di pera senza dire niente.
Fa un gesto della mano per farmi capire che gli va bene. Nessuno di
noi due ha detto una parola dopo la risposta al citofono. Mi sistemo
di fronte a lui e lo scruto. Mi viene da ridere perché in genere capita
più spesso l’inverso.
«Perché ridi?» mi chiede.
«In questi ultimi tempi eri tu ad aspettare che io parlassi.
Stavolta è il mio turno.»
Julien scuote la testa e vedo un sorriso comparirgli sulle labbra.
Poi si raddrizza, stringe la mano destra nella sinistra, segno che ha
davvero paura, e fa un lungo respiro.
«Gaëlle è incinta.»
In una frazione di secondo, passo attraverso una moltitudine di
stati. Felice per il mio amico, geloso di lui, contento per Clara che
avrà un fratellino o una sorellina, ansioso per la mia coppia di amici
che avrà un secondo bambino a casa, e capisco allora il bisogno di
Julien di “alleggerire lo stress”, come mi ha detto al telefono.
Tuttavia riassumo il tutto in una parola.
«È fantastico!»
Julien mi guarda fisso e vedo finalmente il suo viso illuminarsi.
«L’hai detto!»
Mi alzo e lo stringo tra le braccia. Percepisco tutta la sua
emozione all’idea di diventare papà per la seconda volta. Mi accorgo
anche che piange un po’, sicuramente di gioia, non vedo per quale
altro motivo.
«Tutto okay tu?» mi chiede rimettendosi a sedere sul divano.
«Con una notizia simile? Ovvio!»
«No, ma… Voglio dire…»
Capisco il leggero disagio di Julien. Sa che adoro i bambini. Lo
sanno tutti. E sa anche che il fatto di non averne inizia a pesarmi.
«Tutto okay, Julien. Porta pazienza. Troverò la persona al
momento giusto.»
«È un incredibile passo avanti questo!» esclama con sincerità.
«Sì, lo so. Ma mi spieghi perché eri così teso?»
Preferisco cambiare argomento, non ho voglia di parlare della
mia situazione con Elsa.
«Ebbene, era questo che mi angosciava» confessa.
«Cosa?»
«Tu.»
«Io?»
«Il fatto di annunciartelo.»
Mi scioglierei in lacrime se non fossi convinto che affermare la
propria virilità è molto importante in una situazione come questa.
Ho messo da parte i miei principi quando ho pianto l’ultima volta al
pub, ma qui mi ci aggrappo.
«Julien… Davvero, puoi smetterla di torturarti per questo. Sì,
sono un po’ geloso della meravigliosa famiglia che hai, ma penso di
essere pronto per crearne una mia, quindi non crucciartene, okay?»
Julien sembra verificare sul mio viso che non stia nascondendo
una bugia da qualche parte. Apparentemente, non ha trovato nulla.
Scuote la testa e gli sorrido divertito. Scoppiamo a ridere quando il
mio telefono squilla di nuovo.
«Scusami, torno subito» gli dico nel mezzo delle nostre risa.
Rispondo senza guardare la provenienza della chiamata, ancora
immerso nell’euforia della notizia che ho appena ricevuto. Divento
bruscamente serio nel sentire l’atmosfera dietro la voce femminile.
Non sono del tutto capace di associarle un luogo, ma qualche cosa
mi dice che questa telefonata è una cosa seria.
«Il signor Gramont?»
«Sono io.»
«Buonasera. È l’ospedale delle Rosaline.»
Mi si gela il sangue nelle vene. La voce dell’infermiera scompare
dietro uno schermo sonoro che il mio cervello si costruisce da solo
per nascondere le informazioni mentre cerca i possibili motivi di
una chiamata simile. La prima persona che mi viene in mente è Elsa.
Ma non vedo proprio perché l’ospedale mi dovrebbe contattare per
lei.
«Pronto? Signor Gramont? È in linea?»
«Ehm… Sì, mi scusi. Non ho sentito nulla. Può ripetere per
favore?»
«Le dicevo che la contatto perché non sono riuscita a trovare
l’altra persona, la signora Gramont. Immagino sia sua madre,
giusto?»
«Sì, lo è. Che cosa succede?»
«Io… sono davvero dispiaciuta di doverglielo comunicare per
telefono ma… suo fratello è morto. È caduto dalla finestra della sua
stanza circa un’ora fa. Abbiamo tentato di rianimarlo, ma invano.
Tutta l’équipe è convinta che si sia trattato di un suicidio. Mi
dispiace davvero tanto. Sarà… Sarà necessario passare all’ospedale
per sistemare le questioni burocratiche, e poi per… insomma, lei
capisce.»
Se dice ancora una volta che è dispiaciuta, riattacco.
«Signor Gramont?»
Sono pietrificato. Ho un freddo terribile. Anche se la mia mente
si è svuotata, trovo comunque il modo di rispondere.
«Sarò lì tra mezz’ora insieme alla signora Gramont.»
Riattacco senza darle il tempo di aggiungere altro. Mi ero
allontanato per abitudine, per non disturbare Julien con la
conversazione telefonica. Alla fine lo sento avvicinarsi alle mie
spalle.
«Thibault? Che cosa succede?»
Dapprima rimango girato verso la finestra, poi mi volto
lentamente. I miei principi in fatto di virilità stanno andando in
mille pezzi.
«Si tratta di Sylvain…»
Julien capisce in un secondo. Eppure non vedo come sia
possibile. O forse ha solo colto che è successo qualche cosa di
importante.
«Dobbiamo andare all’ospedale?»
«Devo prima passare a prendere mia madre.»
«È così grave?»
Scuoto la testa, incapace di pronunciare una parola di più. Julien
si dà da fare intorno a me mentre io resto immobile, mi lancia le
scarpe e la giacca da cosmonauta. Non so come finisco sul sedile del
passeggero della sua auto. Non so nemmeno come mia madre
finisce su quello posteriore. Assolutamente più nulla. Nient’altro
che il dolore e questa fottuta barriera che tento di erigere intorno a
me.
23
ELSA
Ho paura.
Almeno, è chiaro. Sono terrorizzata.
Non devo essere l’unica, d’altra parte. Il primario e l’interno
sono usciti da un bel po’. Si sono trattenuti solo all’inizio, per la
parte medica. Mi verrebbe da dire la parte elettrica, perché,
francamente, anche un bambino di sei anni sarebbe stato in grado
di fermare tutti i miei apparecchi.
Adesso, rimangono con me tre persone. Siamo arrivati a essere
in nove, me compresa, in questa stanzetta. Era piuttosto affollata.
Steve, Rebecca e Alex sono appena usciti. Mi è sembrato di capire
che avrebbero aspettato di sotto. Mi viene da vomitare al solo
pensiero. I miei amici stanno aspettando che io… Che orrore. Al
loro posto, avrei già rimesso il pranzo e sarei voluta scappare il più
lontano possibile. Sono scappati solo cinque piani più giù. Questo
crea una certa distanza, ma si trovano comunque nel perimetro
dell’ospedale.
I miei genitori e mia sorella sono qui, e anche loro aspettano.
Vorrei dire loro di abbandonare il campo. Non voglio il loro amore,
tanto meno il loro dispiacere. Non hanno creduto in me, è proprio
disgustoso. Ma forse hanno ragione, in fondo. Che cos’è una vita che
non può che ricevere senza dare nulla? Se significa passare il resto
dei miei giorni solo ad ascoltare e sentire, mi chiedo se non sia
meglio…
La porta si apre. I passi sono rapidi, il respiro affannato. I miei
genitori sembrano sorpresi, stando al ritmo dei piagnucolii non si
tratta del medico che ha cambiato idea.
«Buongiorno» dice mia madre con una voce infinitamente triste.
«Lei è qui per…»
«Mamma» la interrompe mia sorella «per chi vuoi che sia qui?
Forza, vieni, la lasciamo tranquilla due minuti. È già un’ora e mezzo
che siamo qui, non se ne andrà subito.»
Il tono di mia sorella, tra fermezza e dolore smisurato, mi
distrugge.
«Perché lo fate?»
Il mio cuore fa un balzo nel petto, provocando una breve
alterazione nelle mie deboli pulsazioni, ma nessuno ci fa caso.
Il mio arcobaleno.
Non avevo riconosciuto il suo passo né il suo modo di respirare,
eppure, senza il baccano del respiratore, la stanza è piuttosto
silenziosa. Forse il mio cervello comincia davvero a essere in carenza
d’ossigeno, è da più di un’ora che respiro da sola, o meglio che tento
di farlo. Il mio cervello sa che è difficile, cerco di tenere duro. Ma
adesso che ho sentito la voce di Thibault è come se il mio organismo
volesse aggrapparsi a un’ultima speranza.
Mia madre inizia a balbettare una parvenza di frase.
«In che senso perché…»
«Mamma, non sei credibile! Perché le stacchiamo la spina! Eh? È
questo che vuole sapere! No? Non è così? Non è questo che vuole
sapere?»
L’amarezza di mia sorella riecheggia in tutta la stanza. Credo che
lei non sia mai stata d’accordo con i miei genitori sul fatto di
staccarmi la spina.
«Sì, è quello che vorrei sapere» risponde finalmente Thibault.
«Lo chieda a loro!» sbotta mia sorella prima di uscire dalla
stanza.
«Pauline» la chiama mia madre. «Torna qui! Che… Vado a
prenderla.»
«Lasciala stare.» Mio padre sospira.
«No, vado a prenderla.»
La porta sbatte. Immagino mio padre e Thibault, tutti e due nella
stanza. In altre circostanze l’incontro avrebbe potuto essere
interessante. Invece ho qui con me due anime perse.
Thibault si avvicina a me e mi bacia sulla guancia. Visualizzo
perfettamente mio padre che si irrigidisce. Non ha la minima idea di
chi sia Thibault, e, a ben guardare, non si può certo dire che io ne
sappia molto di più, ma vedere uno sconosciuto che bacia sua figlia
non lo deve lasciare indifferente.
«Respiri ancora…» mi sussurra Thibault all’orecchio con sollievo,
prima di raddrizzarsi. «Allora?» chiede a mio padre senza togliermi
la mano dalla spalla.
«Non c’è più alcuna speranza» risponde mio padre in un tono
sfiduciato.
«Questo perché lo avete deciso voi.»
«Crede che sia stata una decisione facile?»
Mio padre sta iniziando ad arrabbiarsi. Vorrei avvisare Thibault,
ma non posso fare niente. Così mi limito ad ascoltare. Dopotutto, è
ciò che mi riesce meglio. Per i pochi attimi che mi restano.
«È più facile che crederci» ribatte Thibault. «Lei può sentirci! Sa
che siamo qui! Come potete condannarla?»
«Sì, lo so» dice mio padre piuttosto nervoso. «Tutte quelle storie
sul fatto che le persone in coma ci possono sentire. Ma si deve
arrendere all’evidenza: Elsa ha scelto di lasciarci.»
«Lei non ha scelto proprio niente! Che cosa vuole che scelga nel
suo stato?»
Ecco, qui vorrei dire a Thibault che si sbaglia. Io ho scelto di
tentare. Il problema è che non ha funzionato in tempo.
«Ma chi è lei innanzitutto?» chiede all’improvviso mio padre.
«Un amico di Elsa.»
Questa risposta la conosco a memoria. Non so perché, ma oggi
mi delude un po’.
«Non l’ho mai vista» prosegue mio padre. «Fa parte di quelli che
la accompagnano su quei… su quei ghiacciai?»
Ha pronunciato l’ultima parola con un tale disgusto che deve
avere anche storto il naso.
«No. Ma che importa? Non potete staccarle la spina. Non prima
che lei si risvegli!»
«Elsa non si risveglierà.»
«Che cosa ne sa? Le dico che lei può sentirci!»
«La situazione è questa! E non starò qui ad ascoltare lei che non è
altro che un sedicente amico di cui non ho mai sentito parlare, che
non sa che cosa mia moglie e io abbiamo passato per giungere a
questa decisione! Amo mia figlia! Mia moglie e io amiamo nostra
figlia! Con che diritto si permette di dirmi che cosa ne pensa lei?»
Mio padre ha concluso urlando. La voce di Thibault contrasta
quanto a volume. La sua risposta è quasi un sussurro.
«Perché amo sua figlia.»
Sensazione di caldo e freddo insieme. Pizzicore alle dita.
L’ossimetro, l’unico apparecchio a cui sono ancora collegata, riflette
l’accelerazione dei battiti del mio cuore. Odo Thibault girarsi verso
di me.
«Elsa? Elsa, lo so che mi senti! Ha visto?» dice a mio padre. «Ha
reagito.»
«La smetta. È solo uno scarto aleatorio. I suoi medici ce lo hanno
già spiegato. Ora la lasci.»
La collera di mio padre è diventata esasperazione.
«Non se ne parla» ribatte Thibault. «Non mi muovo da qui.»
«Bah… Faccia come vuole. Ma… Cosa fa?»
Stavolta distinguo chiaramente la preoccupazione nella voce di
mio padre. Colgo allora un rumore che è diventato piuttosto
familiare, quello di tutti i miei apparecchi che vengono spostati. Il
problema è che nessuno di essi è più collegato a me. Capisco che
Thibault ha intenzione di riattaccare tutto. Solo che non sa rimettere
una flebo o infilarmi i tubicini nel naso.
«Quello che avrebbe dovuto fare lei» risponde Thibault
concentrato su di me.
«Ma, lei è pazzo… La smetta! La smetta immediatamente!»
«Provi a impedirmelo.»
Il tono di Thibault avrebbe gelato chiunque. L’arcobaleno si è
rappreso in un attimo in un blu-bianco degno del più solido dei
ghiacciai che conosco.
«Vado a cercare i medici.»
Mio padre si allontana, la porta sbatte. Sono sola con Thibault.
Lui sposta le macchine, cerca i tubi. Ma credo che le infermiere
abbiano fatto un lavoro molto scrupoloso. Non deve rimanere molto
in questa stanza al di fuori del respiratore troppo pesante da
spostare e dell’ossimetro che pronuncerà la decisione finale. Avverto
una mano tremante sulla spalla.
«Elsa, per favore. So che mi senti. Non so nulla, io, di coma. Ma
so che sei qui. Per favore…»
La porta della stanza si apre rumorosamente ma il suono mi
arriva soffocato. Mi sembra che dei passi si precipitino verso di me.
O piuttosto verso Thibault, perché sento che me lo strappano via. I
rumori sono sempre più deboli. Riesco solo a identificare le voci in
mezzo a una folla chiassosa e tuttavia curiosamente silenziosa. Il
medico, l’interno, mio padre, mia madre e mia sorella isterici. Steve
è qui, anche lui. Parla con qualcuno, o meglio, grida contro
qualcuno.
Mi sento leggera e pesante al tempo stesso. Non so più dove
sono. Tutto si confonde, mi rifugio nel mio esercizio.
Solo per una volta.
Solo per una volta prima che tutto sparisca.
26