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Da fb… cose interessanti

Ho iniziato a scrivere nel momento più cruciale della mia vita, quando, inconsciamente, dovevo
decidere chi sarei diventato. Era il 2013.

Sono nato a Cremona. Non ci vivo più. Sono nato il 17 marzo 1993, figlio di uno sbaglio e di
grande amore. Sono cresciuto con i nonni, che mi hanno insegnato la compassione, e a mangiare la
frutta. Sono cresciuto leggendo libri, tagliandomi i capelli di rado, e sospirando sempre per la
ragazza sbagliata.

La mia infanzia profuma di biscotti, e pesche, e piedi nudi d’estate. Sono un bambino felice e
solitario. Poi sono adolescente, e non ho un rapporto con mio padre, e infrango ogni regola, e
disdegno lo studio accademico. Continuo a leggere, però. Continuo a inseguire la ragazza sbagliata.

Ho diciott’anni e mi sento vecchio. Vivo in un paese che cannibalizza i propri figli e si pulisce i
denti con le loro ossa. Fallisco, ancora e ancora. Prendo i miei fallimenti e ci faccio una collana. È
una collana pesante. “Non andrai da nessuna parte,” dicono i miei insegnanti. “Ci rinuncio,”
pensano i miei genitori. Ho diciott’anni e mi sento vecchio.

La ragazza sbagliata, dopo tanto sospirare, mi fa un grande favore, mi spezza il cuore in un milione
di piccoli pezzi. “Questa società è profondamente sbagliata,” mi dico allora. “Abbiamo tutti
rinunciato ai nostri sogni, e ci va bene così. Ci va bene questa vita preconfezionata. Ci va bene non
esistere. Ci va bene arrenderci, e accontentarci e scegliere un dolore facile anziché un’impervia
vittoria.” Mi guardo intorno, e in questa piccola città non cambia mai nulla. “Io merito di meglio.”

A vent’anni parto per fare volontariato. Non ne posso più, sono vuoto e lo sono da tanto, e così
quando metto piede in un piccolo orfanotrofio nell’India meridionale, i miei bambini trovano spazio
in abbondanza in cui insediarsi. Quello spazio è il mio cuore, che prima riecheggiava vuoto e poi,
dopo quell’estate di lavoro e amore, si colma.

Da qui, cambia tutto. Mi metto a scrivere. In Italia raccolgo fondi per costruire un dormitorio nel
mio orfanotrofio. Mi trasferisco in India per dedicarmi completamente ai miei bambini. Lo faccio
con una promessa, usare la mia fortuna di ragazzo bianco e occidentale per prendermi cura di loro.
In India m’iscrivo all’università, dove studio giornalismo e, al contempo, inizio a insegnare a
bambini svantaggiati. Nel 2014, l’orfanotrofio rischia la chiusura a causa delle nuove norme
governative che penalizzano le piccole fondazioni. Raccolgo fondi per costruire un muro
perimetrale intorno all’istituto, salvando così l’orfanotrofio. Fondo una ONLUS a supporto della
mia Missione.

Nel 2015 pubblico “Uno”, il racconto delle vite dei miei bambini, grazie alla fiducia di una piccola
casa editrice. “Uno” è una storia personale, un’epistola a me stesso, roba oscura, spesso caotica, ma
profondamente speranzosa: il racconto di un ventenne desideroso di gridare al mondo come, dopo
essersi quasi arreso allo status quo, ha trovato il coraggio di vivere davvero.

Scrivo di me e di venti orfani sperduti chissà dove in un villaggio del terzo mondo, eppure migliaia
di lettori—come non lo so neanch’io—si radunano attorno alle mie storie, alle Nostre storie,
dapprima con parole d’incoraggiamento, poi contribuendo concretamente, e infine partecipando alla
mia Missione. Questi di cui parlo siete voi, la mia famiglia. Questi Siamo Noi. Nel 2016, mandiamo
tutti i bambini dell’orfanotrofio a scuola e tre dei ragazzi più grandi all’università.
Nel frattempo lavoro per testate quali BBC, South China Morning Post e Metropolis Japan,
specializzandomi, a differenza della maggioranza dei giornalisti, nel dare voce a coloro che ne sono
privi, agli oppressi, ai dimenticati. Nel 2017, i ragazzi da mandare all’università sono cinque, e i
fondi raccolti insufficienti. Per la prima volta, temo di non poter tenere fede alla mia promessa.
Temo di deludere i miei bambini.

Scrivo “Bianco Come Dio” in un mese. Non c’è tempo. Lo auto pubblico. Spero che, grazie al
supporto dei miei lettori, il ricavato sarà sufficiente a coprire le rette universitarie dei miei ragazzi.
“Bianco Come Dio” fa questo e molto di più. Pubblicato solo in eBook e distribuito online, “Bianco
Come Dio” diventa un caso editoriale che conta oggi quasi 10000 lettori, rendendo finalmente
giustizia alle vite, alle lotte e alle speranze dei miei bambini.

Mi laureo in giornalismo. I miei bambini, ormai ragazzi, iniziano l’università. Il mio orfanotrofio
prospera e, con la promessa di continuare sempre a sponsorizzare l’educazione dei piccoli, lascio
l’India dopo quattro anni. Lavoro in Palestina, e poi nel campo profughi di Samos, in Grecia, dove
plasmo e coordino un programma educativo per bambini rifugiati sfuggiti alla guerra e provenienti
dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Palestina, dal Kurdistan, dall’Iran, dall’Algeria, dal
Congo.

Tutto ciò che i miei bambini mi hanno insegnato in India, io lo dono ai miei bambini qui, nel campo
di Samos. Ed è qui che arriva la chiamata di Rizzoli. “Crediamo nel potenziale di ‘Bianco Come
Dio’, e crediamo che le tue Missioni debbano essere conosciute in tutta Italia.”

Qui, in questo luogo che mi sta consumando, che mi sta facendo sbiadire come essere umano,
questo luogo di dolore e ingiustizia e profonda voglia di vivere, oggi so che ogni lotta, ogni lacrima
o goccia di sangue versato, ogni singolo bambino aiutato significano che la nostra voce è ascoltata.

Ogni singolo giorno vissuto significa Cambiare le Cose. Ed è così perché cinque anni fa, quando
uno dei taciti, invisibili treni della vita era in partenza, ho deciso di essere il miglior me stesso
possibile, invitandovi a unirvi a me e vivere davvero.

Cinque anni fa ho detto no. No a una vita che non mi appartiene. No a ciò che la gente si aspetta che
faccia. No ad accontentarmi del poco che la società è disposta a concedermi. Cinque anni fa ho
detto sì. Sì a una vita colma di significato. Sì alle mie aspirazioni, alle mie ambizioni, e ai miei
sogni, tutti quanti. Sì al Cambiamento.

Negli ultimi 5 anni sono passato dall’essere un ragazzo arrendevole a cambiare completamente la
vita di oltre 100 bambini in difficoltà, dando loro una vera, concreta, equa possibilità. Ora potremo
farlo per migliaia.

E sì, forse non avrò guadagnato granché negli ultimi 5 anni, ma se ho saputo risparmiare dolore ad
altri esseri umani, allora mi considero un uomo decisamente ricco. Celebrare la vita, dopotutto, è
farne il miglior uso possibile. Ce l’abbiamo fatta!

“Bianco Come Dio”, Rizzoli, Disponibile ora!

"Vieni, siedi accanto a me, lascia che ti racconti di quando ero un liceale come tanti, certo di avere la vita in
pugno, quando capii invece che era la vita ad avere in pugno me.
Lascia che ti racconti di quando lasciai tutto, la sicurezza di una vita facile e agiata, per attraversare il
mondo alla ricerca di un significato più profondo.
Lascia che ti racconti di quando trovai questo piccolo orfanotrofio, in una delle zone più povere dell’india, e
di come lì scoprii la mia strada.
Lascia che ti racconti di quando mi trasferii India per dedicare la vita a questi bambini, per scrivere la loro
storia e, da giornalista, condividerla con il mondo. Quel giorno trovai ciò che cercavo da sempre.
Non trovai risposte, no, ma domande, le domande giuste per capire il senso della vita e il nostro ruolo in
essa: questo è il racconto del mio cammino."

INTERNSHIP FINALE - Parte 2


South China Morning Post, uno dei più importanti quotidiani di Hong Kong

Mi hanno dato del fuori di testa, mi hanno dato dell’ossessivo, mi hanno dato dell’idealista e del
sognatore, mi hanno dato dell’illuso, dell’eccentrico e del piantagrane.

Non importa. Hanno ragione.

Sono l’unico nella mia intera università a fare due internship questo semestre. L’unico a sacrificare
le proprie vacanze, il tempo con la famiglia e con gli amici. L’unico a lavorare per BBC
Knowledge, a Mumbai, un giorno, e per South China Morning Post, ad Hong Kong, il giorno
successivo.

Chiamami pure pazzo, se questo significa avere un obiettivo e essere pronto a tutto per
raggiungerlo. Chiamami pure ossessivo, ci puoi giurare che lo sono. Non sono al mondo per
scaldare la sedia o per occupare un posto a tavola, io sono qui per fare la differenza. Sono qui per
inseguire la verità e renderla nota alla gente, ed è meglio che tu non abbia intenzione di
impedirmelo, perché in quel caso ti combatterò. Proprio così, combatterò chiunque sia disposto a
perpetrare l’ingiustizia, sia che si tratti di un politico, sia che si tratti di un artigiano che decida di
tapparsi le orecchie e guardare altrove. Alzerò la voce perché il mondo merita di sapere, perché
l’ignoranza ti rende complice, perché vivo con un scopo: cambiare le cose.

E so che sarà un cammino solitario, ma la posta in gioco è troppo alta per lasciarsi intimidire.

Farò tutto quello che è in mio potere per lasciare questo posto, il mondo, in una condizione migliore
di quella in cui l’ho trovato.

Il mondo è un bel posto e per esso vale la pena di lottare.

Non torno, non stavolta.


Due settimane fa ho accettato un'offerta di internship presso la più grande rivista bisettimanale in
inglese del Giappone, Metropolis Japan, a Tokyo.
Non fraintendetemi, sono al settimo cielo, è un'occasione incredibile.
Ma ciò di cui voglio parlarvi oggi è l'Italia.

Per questo stage universitario avevo intenzione di tornare in madrepatria, lavorando per un giornale
italiano e, insomma, passare del tempo con famiglia e amici, occasione rara negli ultimi due anni.
Così ho preso a spedire il mio curriculum. Le grandi testate del Bel paese, naturalmente, non mi
hanno risposto. Ho contattato allora giornali più piccoli, e queste le ragioni del loro rifiuto:
"Abbiamo tagliato metà personale l'anno scorso, non abbiamo tempo per uno stagista."
"La trafila burocratica è troppo complessa."
E la mia preferita:
"Non possiamo prenderti a meno che tu non sia affiliato a qualche partito."
Eh, già. La Terra dei Sognatori.
L'Italia è come una mamma. Una mamma con problemi di alcolismo. Sei bellissima, e ti amo. Ma
non affonderò con te. Mi dispiace.
E mi dispiace per davvero; credo che per un autore abbandonare la terra natia, la terra della propria
letteratura, delle proprie tradizioni, della lingua che tanto ama sia come perdere un frammento di se
stesso, amputato, rimosso.

Scoraggiato, infine, ho mandato il mio curriculum alla cieca: il mattino successivo una risposta
positiva è arrivata dal Giappone.
Eccomi qua, dunque! Pronto a fare del mio meglio attraverso lo strumento della parola, pronto a
scoprire e conoscere e sperimentare ciò che è nuovo ai miei occhi, ma è antico ad occhi altrui.

Purtroppo sarò lontano dall'Italia, però, nelle prossime cinque settimane di stage universitario
aspettatevi di conoscere la Terra del Sol Levante raccontata attraverso una duplice prospettiva: la
mia anima italiana, il mio cuore indiano.

Restate collegati!

‘Uno’ è il sogno di quando ero bambino.


Il sogno di quando perdevo i denti da latte e gli adulti mi chiedevano: ‘Cosa vuoi fare da grande?’ E
io, con loro sorpresa, anziché il cowboy, l’astronauta o il calciatore, rispondevo: ‘Lo scrittore!’
‘Uno’ è il sogno di quando ero ragazzino, e i genitori dei miei compagni di scuola non volevano che
i figli giocassero con me, perché ero diverso.Il sogno di quando vivevo nel più sgargiante dei
mondi, il mondo dei cartoni, e mi chiedevo: ‘Perché i disegnatori non si mettono d’accordo e creano
una puntata con tutti i personaggi insieme?’ E allora ci pensavo io. Scrivevo storie in cui i
Pokemon, i Super Saiyan e i mostri di Yu-Gi-Oh combattessero fianco a fianco.
‘Uno’ è il sogno di un adolescente che sfuggiva alla solitudine rifugiandosi nei libri. Scendeva le
scale di cellulosa, si chiudeva la copertina alle spalle come fosse una porta blindata, e lì si chiedeva:
‘Ma chi sono io?’
Solo che poi il sogno si spegne. Come una lucciola. Se la stringi troppo nel palmo della mano la sua
luce palpita, e infine svanisce. Muta. Sepolta.
‘Uno’, infine, smise di essere il mio sogno. E io smisi di scrivere.
Sono stato bocciato, due volte. Ho avuto problemi con la legge, e me la sono vista brutta. Ho
litigato con ogni singolo membro della mia famiglia, e ci siamo detti il peggio, ancora e ancora. Ho
avuto problemi con i miei coetanei. Ho iniziato a vedere uno psicologo.
E mi sono innamorato. Un amore dolce, metallico, ossessivo.
Ero spezzato, con quell’ingenuità di cui solo gli adolescenti sono capaci.
Avevo vent’anni, e non ne potevo più di me stesso.

Decisi di partire.
Per far fronte alla critica condizione economica famigliare vendetti tutto quello che avevo in
camera: scarpe, camicie, videogiochi, libri e fumetti, maglioni, giocattoli, orologi.
Un giorno di marzo, circondato dagli amici più cari, comprai alla cieca e di nascosto un biglietto
aereo per l’India. Poi decisi di unirmi a un progetto di volontariato internazionale che mi spedì in un
piccolo orfanotrofio del Sud.
A vent’anni, insoddisfatto e asfissiato dalla realtà che mi circondava, spinto da questo impulso a
scoprire il mondo con i miei occhi, partii.
Quel giorno ricominciai a scrivere.

‘Uno’ non è la storia di un eroe. Non è la storia di un volontario. Non è nemmeno la storia di un
bravo ragazzo. ‘Uno’ è la storia di un ragazzo impaurito e profondamente arrabbiato e perso da
sempre, che nel cercare la sua strada in un mondo che lo credeva sbagliato, trova un mondo suo. Un
mondo di piccoli orfani pronti a diventare fratelli, di un uomo destinato a diventare un secondo
padre, e di una donna la cui semplice esistenza è una prova di libertà.

E così, ‘Uno’ mi ha salvato.

Ci sono voluti quasi tre anni. Tre anni di scrittura, riscrittura, rappresentanza editoriale, editing,
grandi speranze e delusioni, per giungere alla pubblicazione, oggi.
E oggi è per voi, è per voi che scrivo. Per chiunque abbia orecchio per ascoltare e un po' di spazio
dentro di sé, nel profondo, per accogliere una storia che non è solo mia, ma di tutti noi, uomini o
donne, operai o ingegneri. Perché ‘Uno’ racconta di quel momento nella vita che noi tutti
attraversiamo: il cambiamento. La crescita.
‘Uno’ è la storia della vita che cambia.

In conclusione, quella che avete davanti è la storia di un grande viaggio. Ma non solo un viaggio
intrapreso, gridando, sul tetto di un treno diretto al Taj Mahal, bensì un viaggio a fondo nel petto dei
personaggi, indagando le problematiche individuali e sociali dell’India moderna, dalla condizione
femminile all'alcolismo, dall’industrializzazione ai matrimoni combinati.
‘Uno’ è un intreccio di amore, morte e fede, solitudine, inadeguatezza e felicità, abbandono, perdita,
nostalgia e speranza, nella spasmodica ricerca che accomuna tanto un ragazzo di vent'anni quanto
un uomo di cinquanta: la ricerca dell'identità.

Vivere questa storia ha cambiato la mia vita per sempre. Spero che leggerla possa rendervi felici.

Entro. Saluto. Stringo un po' di mani dicendo: "Bonjour", "salut", "ça va?" - ecco, ho esaurito il
vocabolario appreso al liceo - e mi dirigo a riporre in ufficio giacca e sciarpa. Fa freddo, in questi
giorni.
In questi ultimi trenta giorni, a Parigi.
Quando ho dovuto cercare un'organizzazione per il mio terzo internship, miravo a lavorare con i
tossicodipendenti. Cercavo l'esperienza più viscerale possibile. Ma pare che un ventiduenne senza
alcuna formazione in materia non sia consigliabile per questo tipo di lavoro.
Così ho trovato Emmaüs. Sebbene non fosse l'esperienza estrema che andavo cercando, mi sono
detto: "Clochard a Parigi. Pittoresco!"
Non potrebbe essere più lontano dalla realtà.

Ma prima di parlarvi dell'antro più oscuro della quotidianità umana, lasciate che vi racconti del
fattore "x".

Quest'incognita è la speranza. Certo, in accezione romantica, in quanto forza motrice dello spirito,
ma soprattutto sotto la lente scientifica, la speranza come fattore psicologico e sociale in grado di
stravolgere il prodotto nonostante l'invariabilità dei fattori.
La "x" che separa uomo e animale.
Quando iniziai a insegnare presso Teach For India, l'ambiente che mi si presentava era pervaso da
questo fattore x. Ovunque guardassi, l'incognita era presente e nel pieno della forza. Esatto: credo
che se la speranza abbia mai camminato in forma umana su questa terra, essa si personifichi nei
bambini che non hanno niente, se non un'unica possibilità.
Nel secondo internship, presso il carcere di Brescia, il fattore x si manifestava rinato, uomini di
mezza età che razionalizzavano i propri sbagli, e bruciavano dal desiderio di iniziare nuovamente,
come se oltre le sbarre li attendesse una vita nuova.
Qui, nella Città dei Lumi, degli amanti, delle baguette e dei piccioni, quel che ho trovato è invece
un nero, fitto, ammasso di nulla.

"Lasciate ogni speranza voi che entrate."


Si dice. Chi entra da quelle porte, però, nulla ha da lasciare. Nulla.
E il sogno bohème è questo e nient'altro, solo un sogno.
Questa gente, uomini, donne, vecchi, vecchie, vivono un incubo ogni volta che si accucciano per
riempirsi la bocca di spazzatura, ogni volta che urinano nei propri pantaloni, ogni volta che parlano
a loro stessi, ogni volta che si drogano sul marciapiede e ogni volta che stuprano o vengono stuprati,
pestano o vengono pestati, e poi dormono nel gelo infernale di questa città splendida.
È la speranza, che non è più di questo mondo. Il loro mondo. E vieni a dirmelo in faccia, dimmi che
è un concetto romanzesco, dimmi che è stucchevole parlarne.
Quando un uomo perde la speranza, tutto ciò che gli resta è la morte.

In quanto a me, sempre pieno di risposte e di sfida negli occhi, ogni volta, finendo il turno di lavoro,
esco sapendo che alla malattia mentale non c'è cura. Che monsieur Raphael, dell'età di mio nonno,
morirà per strada, e lui lo sa, e lo so io.
E Shelina, 35 anni, morirà cercando di salvare il mondo dalla guerra, perché crede di avere un parte
in questo, e noi la chiamiamo pazza.
So che le tre ore trascorse oggi seduto a parlare con loro sono completamente inutili. Lo sono
perché queste persone non possono essere salvate. Nonostante tutti i possibili tentativi, non c'è
speranza.
Inutile.
Salvare.
Speranza.

Mentre osservo le luci della Città dei Lumi scivolare via, lontana, capisco di essere pronto alla
prossima prova, qualunque essa sia.
Perché qualunque cosa facciamo è insignificante.
Ma non è forse egualmente importante farla?

Ormai tre anni fa, lo sapete, presi una decisione.


Ricordo ancora, una sera, cosa dissi a mia madre: "Mamma, quest'estate vado in India."
E ricordo quello che mi rispose lei: "Sì, certo."
Allora non sapeva che stavo risparmiando, che stavo vendendo le mie cose, e che quello stesso
pomeriggio, attorniato dagli amici più cari, avevo già comprato il biglietto aereo.

Più volte vi ho raccontato la storia dei giorni che precedettero la partenza, quel 17 giugno. E più
volte ancora avete vissuto insieme a me gli eventi accaduti dopo il ritorno, quell'8 settembre.

Alcuni di voi conoscevano il Nicolò che è partito, molti di voi conoscono il Nicolò che è tornato.
Ma cos'è successo nel mezzo?
Cosa può aver trovato il ragazzo più impulsivo, il ragazzo più iroso, il più acuminato, dall'altra parte
del mondo?

Ho scritto una volta che in quanto esseri umani siamo essenzialmente incapaci di cambiare. Non ho
intenzione di contraddirmi oggi. Ma se è vero che l'uomo non può cambiare, è innegabile che la vita
intorno a lui continua a farlo.
E ora che ci penso, nulla nella mia è mai stato graduale. C'è sempre questo a schiocco quando la
nave cambia rotta.

E dunque, cos'è questo schiocco, nella vita di ognuno di noi?

Credo sia giunto il momento che vi racconti la storia di quei tre mesi.
Credo sia giunto il momento che vi racconti una storia d'amore e morte e fede, solitudine,
inadeguatezza e felicità, e abbandono, e perdita, nostalgia e speranza.
Credo sia giunto il momento che vi racconti una storia, la mia, ma che potrebbe essere la tua, la
vostra, la nostra.

Lasciate che vi porti nell'unico luogo al mondo in cui mi sia mai sentito Uno.

Prossimamente.

P.s. Domani torno in Italia!

Il giorno del mio sedicesimo compleanno, mia zia mi regalò un libro.


Per me i libri, allora, non erano semplici libri. Non si trattava di solo inchiostro, cellulosa e
rilegatura. No. Quando avevo sedici anni sapevo poco, sia del mondo che di me stesso. Sapevo che
con la scuola non c'era verso d'andare d'accordo, e pure con i coetanei si faticava ad ingranare.
Sapevo anche che gli adulti erano una specie a parte, e purtroppo una specie feroce e per di più
lasciata libera di gironzolare come se nulla fosse, senza nemmeno il microchip. Non sapevo chi ero,
ma questo punto del resto è ancora in lavorazione.
Però sapevo che quando tutto andava a catafascio, c'era un luogo a cui correre. Scendere le scale
porose, spalancare la copertina blindata e chiudersela alle spalle. Inspirare a fondo l'essenza di
un'opera scritta, come l'odore di una donna, un rifugio antiaereo.
Quel luogo era la lettura.
So ora che se quella zia non m'avesse, ignara delle conseguenze, regalato quel libro in quel giorno
particolare, con ogni probabilità oggi tutto sarebbe diverso.
Vedi, che casino?
Basta un minuscolo elemento sottratto alla soluzione, e la reazione chimica cambia completamente.
Proprio così, che che ci piaccia oppure no, che ci faccia piacere o meno sentirlo, a dispetto dei
nostri sforzi più significativi, alla fine siamo tutti in mano alla fortuna.
Per cui se non avessi compiuto sedici anni scartando "Shantaram", la mia vita ora sarebbe un'altra.
Shantaram racconta la vera storia di un eroinomane australiano negli anni 70, dopo essere evaso di
galera.
Non proprio la migliore delle premesse, che dici?
Ma aspetta a giudicare. Il protagonista - e autore -, colpevole della decisione di abbandonare per
sempre moglie e figlia, fugge, lascia la patria, egoista, per avere salva la vita.
Dove fugge?
Esatto!
Shantaram è il motivo per cui, tre anni fa, scelsi l'India.
Tra tutti i paesi bisognosi di aiuto, scelsi il luogo che avevo già visitato, attraverso le parole, in un
libro.
Ma, certo, Gregory David Roberts non è Proust, né Orwell né Primo Levi. Non si tratta di un
pilastro della letteratura, nemmeno lo metto a paragone. E io, d'altro canto, non ho più sedici anni.
Ma se potessi sperare, nella corso della mia vita, di fare per una persona quello che quest'autore,
inconsciamente, fece per me, potrei dire di essere esistito per una ragione. Uno scopo.
Perché questo è il potere della parola scritta. Questo. Trovare un ragazzo di sedici anni sperduto, al
principio della propria vita e condurlo oltre la foresta. Non fuori, ma attraverso.
Shantaram, sei anni orsono, aprì in in me una fenditura. Senza che me ne rendessi conto, quelle
pagine spaccarono appena la mia scorza. Il mio bozzolo, se vogliamo.

Oggi sono passati sei anni. Stringo con trepidazione il seguito di quel romanzo. Magari non mi
piacerà nemmeno, mi dico. Ma non importa, no? Non importa, se scrivendo puoi cambiare
l'esistenza di una persona.
Ho 22 anni. E non è il mio compleanno. Ma, vedi: oggi sono in India.
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