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Il pensiero di fronte all'esperienza del male politico del

Novecento: Arendt
IL TOTALITARISMO E «IL FARDELLO CHE IL NOSTRO TEMPO CI HA POSTO SULLE
SPALLE
A cinquant’anni dalla sua prima edizione, Le origini del totalitarismo (1951) -l’opera che rese celebre la
pensatrice tedesca Hannah Arendt (1906-1975) -può essere considerata come una pietra militare del
dibattito novecentesco sul totalitarismo non solo per le analisi storiche e politiche, che suscitarono da
subito molto discussioni e anche molti fraintendimenti, ma soprattutto per la radicalità degli interrogativi
filosofici sollevati dall’autrice.

Se l’intento generale dell’opera (suddivisa in tre parti: Antisemitismo, Imperialismo o Totalitarismo) è


quello di comprendere il totalitarismo ovvero, come scrive Arendt nella prefazione, di «esaminare e portare
coscientemente il fardello che il nostro tempo ci ha posto sulle spalle», il presupposto interpretativo
fondamentale è che l’evento del totalitarismo, in primo luogo nella Germania nazista, infranga
irrevocabilmente la continuità della tradizione occidentale. Ciò avviene innanzitutto dal punto di vista
politico, nel senso che il regime totalitario si distingue nettamente dalle forme di governo fino a etnei
momento conosciute in Occidente, “ro m p en d o ” con tutte le categorie del pensiero politico occidentale;
in secondo luogo dal punto di vista morale, poiché con il sistema totalitario, il cui culmine è rappresentato
dai campi di concentramento e di sterminio, compare sulla scena della storia umana una forma di “male
radicale" assolutamente inedita.

Il riconoscimento della sua "novità" non significa però che il totalitarismo debba essere guarda-
to come un corpo esterno. un accidente della storia politica occidentale che una volta sconfitto
non potrà mai più ripetersi, ma, al contrario, costringe, secondo Arendt, a riconsiderare il passato
«alla luce del presente», per reperire quegli elementi di ordine sociale, politico o ideologico che, in
un mondo non totalitario, hanno predisposto il terreno per l'affermarsi dell'esperienza totalitaria.
L'importanza di tale compito critico-ricostruttivo si giustifica quindi in una duplice direzione: non
solo verso il passato, rispetto al quale, si impone il dovere di giudicare e di risarcire la memoria delle
vittime, ma anche verso il presente e il futuro affinché si possa rimanere vigili rispetto all'insorgenza
sempre possibile e mai abbastanza scongiurata di forme politiche totalitarie, magari dissimulate sotto le
vesti di un'apparente democrazia.
11 primo brano proposto è tratto dal capitolo conclusivo della prima edizione di “Le origini del
Totalitarismo”, capitolo dedicato a comprendere in che senso i campi di concentramento e di
sterminio rappresentino l'essenza del sistema totalitario, il "laboratorio" in cui l'ideologia tota-
Nel brano Arendt evoca la questione del «male radicale», adottando una celebre espressione
kantiana; in breve, la tesi della pensatrice è che l'essenza dell'ideologia totalitaria sia da identifica-
re nel tentativo di compiere un attentato "ontologico" all'umanità dell'uomo, cioè nell'aspirazione a
plasmare gli uomini secondo un determinato ideale di umanità.
Tale pretesa di trasformare alla radice la natura, di ricreare gli uomini, sfidando la stessa creazione di Dio,
in modo da poterne determinare e prevedere azioni e reazioni si è resa attuabile propriamente e
unicamente nei campi di concentramento, il luogo in cui gli esseri umani vengono ridotti a esemplari di una
specie, deprivati di ogni identità personale, ovvero di ogni facoltà di decidere e di dare inizio
spontaneamente a qualcosa di nuovo, di essere cioè, nel linguaggio arendtiano <<capaci di rivoluzione>>
e quindi, responsabili delle scelte o delle non scelte compiute. solo il terrore e il campo di concentramento,
che come paventa Arendt è una "soluzione" che rischia di venire ancora adottata di fronte a masse di esseri
umani privati di ogni diritto, resi “superflui” dalle “regole” dell'economia e della guerra, sono riusciti
annientare alla radice tale facoltà.
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Concezione filosofica della politica, a ritornare in un certo senso a quella medesima tradizione, operandone
una sorta di riabilitazione? Ancora una ragione di tipo etico-politico, che ha a che vedere in modo
essenziale con l’avvento del totalitarismo.

Nella prefazione dell’opera Arendt spiega infatti come il progetto di un’indagine sul significato del
“pensiero” avesse preso corpo a partire da un’esperienza concreta da lei compiuta assistendo a
Gerusalemme al processo di Adolf Eichmann, uno degli ufficiali nazisti responsabili dell’olocausto:
l’esperienza di quella che lei definisce, con un’espressione che ha fatto scandalo, la <<banalità del male>>.
In realtà, tale espressione non implica affatto, come alcuni vollero credere, una banalizzazione del male,
perché al contrario la constatazione di come si possa divenire complice del male senza essere demoni, ma
anzi persone apparentemente del tutto “normali”, con la “coscienza a posto”, rende la questione del male
profondamente inquietante e ancora una volta ineludibile pietra d’inciampo per la volontà di
comprensione.

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