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Fuoco fatuo

“Cloc. Cloc. A ritmo lento e cadente camminava la città della delusione. Barocca ed incorniciata
nella sua sapiente cultura s’incellofanava di nuove radici di corallo. La barriera semovente dalle
zampe di un’arpia famelica. Musiche dolci accompagnavano la distruzione del tempo. Ed avanzava
senza far nulla, la dotta ascoltatrice. Adagiava la sua docile lingua blu sul terreno assaporandone il
minerale antiquato. E nulla volse a riscattarsi. La babele tentacolare deperiva di sé stessa annullando
col nuovo il vecchio. E mostri si generavano nella sua onirica cavalcata. Ed i suoi abitanti.

Da involucri di resina nascevano ominidi grigi come pietra. Costituendo la società degli orrori in
quella terra di acuta ignoranza…”

L’enciclopedia citava questo mentre i ratti la divoravano in fondo al vicolo. E John LaBerge li
osservava dietro i cassonetti, sbucando come un lombrico miracolato. Adorava il puzzo stantio della
verdura e degli scarti alimentari gettati dal ristorante Caspar’s, e non si curava dell’orlo del
pantalone infradiciato di inverosimile poltiglia. Finito il pasto se ne tornò sui suoi passi, giocando a
campana tra le mattonelle del marciapiede. Mentre cumulo e cirro s’incontravano in cielo
enarrandosi traumi lontani mille miglia, coccolandosi tra lacrime di ansia e perdono.

Casa sua s’infiltrava nella piccola fessura tra una villa a schiera ed un nuova in via di costruzione.
Ed il cantiere sembrava non finire mai i lavori, tant’è che si chiamava Sisyphe & Co. Così tra il
continuo martellare ed il dolce sottofondo di bambine al gioco s’avviò su per la scalinata.

Posò il berretto a ricami blu e bianchi. Pulì gli occhiali non curati sul comodino. Ed adagiò i glutei
deformati sulla poltrona ottocentesca di nonna. Tra lasagne e vodka alla pesca si delucidava alla
finestra un oceano ridondante di case arroccate in quella città – stato. Come impala le macchine
correvano per le vie e lui giaceva. La vicina all’altro lato della strada dipingeva serate mondane e
risolini velati nella minestra sui fornelli. Un lento anelante rituale degenerativo dovuto a
sostenimento di inesperienza giovanile ed assenza di ideali, così dicevano alla madre. E la clinica
odontoiatrica fatturava meno delle aspettative. Votate Leary, votate Leary, vi porterà l’assistenza
medica gratuita, istituirà affitti ridotti per i disagiati ed offrirà personalmente visite ginecologiche
gratuite a tutte le vostre mogli. Ma lui era solo, non potevano rubargli la liquirizia radicata in forma
umana. E solo andava avanti tra sbuffi di fumo e sfogliare di pagine. Con la sua lingua blu per vizio
di strani gommosi. Stop. Tempo d’onanismo. E ripartiva, più profondo di prima.

Come una banda marciante il tempo incalzava nel suo nonnulla non parafrasato. “The say we’re
young and we don’t know. We won’t find out until we grow.”, recitava il vinile nella stanza di
sopra, dove la sorella danzava vivacemente provando pose grottesche e vestiti decisamente flapper.
Controversa creatura dai paradossali gusti in fatto di cultura e costume. Bum, bum, scopava il
vicino nel chiasso di zuccate alla testiera del talamo. Sacro e profano. E la metropolitana entrava in
galleria collegando il settore finanziario e i tempi cambiavano. Veniva gente da ogni dove,
dovunque vagasse, e non si accorgeva della restrizione di quella società che come acqua si
innalzava inzuppando loro gli stinchi. E nessuno nuotava. Incessante cantilena fastidiosa. Cartelloni
pubblicitari, merda ovunque. Come fare a vivere? Le conseguenze? Non ci sarebbero state
conseguenze, diamine. Prese la pistola, la porse alla bocca e premette il grilletto.
La sorella corse di sotto, il rumore l’aveva distolta. Nel correre inciampò negli scalini e naufragò in
salotto, in mezzo al rosso. Non bastarono le scuse a spiegare il perché di tutta quella salsa di
pomodoro e cocci caduti, evidentemente le sue mani di burro non potevano affrontare la
preparazione di una dannata pizza. Fame, fame, pappa!

La povera nonnina prese ad incurvare la schiena e raccogliere tutto con benevola pazienza. Mentre
la ragazza correva a farsi una doccia per il party a breve. Latte e biscotti con Rufus, dal naso
schiacciato. Gnam, gnam, gnam. Distorsione da tubo catodico nella città della delusione.

Battere e levare di sinapsi effimere, votanti Leary. Niente più liquirizia, ti fa male. E s’alzò gettando
la tazza dalla finestra. Mise la berretta, indossò gli occhiali e s’avviò per le scale. Le chiavi, e tra
sbadigli rovistò nella tasca, aprì il portone. La sig.ra dell’assistenza sociale si stava pulendo dal
bagno di latte e ne approfittò per svicolare fino alla stazione, dove barboni ansimanti ed urlanti di
dolore inneggiavano al patriottismo. Cappuccio beige e piccione morto sulla maglia, l’amico
frugalmente addobbato lo accompagnò ai mercatini. Melodie originali di ballerini d’aste. Diamanti
intercostali in mano a lunghi pizzetti ed etniche toghe. Viso grigio, continuava indicando la strada
attraverso la piazza. Cartina, rollio, pace. La nebbia panchinara e sguardo d’innocua intesa. Flap,
stappò la bottiglia e sorseggiò.

Evidentemente quella schweppes era dannatamene amara. La scolò, prese un giornaletto e corse in
bagno. Tempo d’onanismo. E ripartiva più profondo di prima. Prese lo zainetto e tornò in classe per
la lezione di chimica. Tra i bunsen arroventava l’anello, e poi, mordendosi le labbra, lo rinfilava
all’anulare. La galleria delle cornacchie attorniava il bellissimo bambino che stilizzato si stringeva
alle ginocchia sulla pagina degli appunti. Ruppe la grafite della matita e la tritò ponendola alle
labbra, assaporando il falso eterno. Si toccò il seno, camuffandosi grattando. Osservava, fingendosi
trafelato, il bellissimo ragazzo di nome Stanley, membro della squadra di calcio scolastica, e senza
aggiungere altro si avvicinava sempre più alla ragazza dal morbido seno all’altro capo del banco di
lavoro. Si lavò le mani, e la invitò ad un brunch. Suonò la campanella e tornò a casa, senza passare
per le strisce pedonali. L’enorme frastuono e le strisciate di gomme sull’asfalto.

Alla fine il brunch non andò a buon fine ed insieme ad Axel decise di rifarsi con un’emozionante
gara di rally per le vie campagnole. Il tempo correva, e le curve in un turbinio di paglia e colori.
Quel sabato sarebbe andato a filosofare, e per filosofare s’intendeva stelle, cinema ed unghie
truccate. Manipolo di uomini leggendari i suoi amici, ognuno a modo suo stillava linfa per lui.
Inevitabile l’invito per la festa di capodanno.

L’onnipresente voglia di uccidere si placò a suon di lima, per lasciar spazio ad una più viva voglia
di distrarsi, ed il tempo assumeva strane forme. La festa era giusta, danza, musica, fuochi e
bevande, e lei. L’orologio da taschino la faceva da padrona, insieme ad i suoi tacchi. Le faceva da
sostegno con ilarità. Ed il suo sorriso, un brunch?

Alla fine, nella sua goffaggine, si accordò per una più pacata cena con pizza. Interessato ed
eccezionalmente, in edizione speciale, si dimostrò simpatico, e germogliava. I tamburi suonavano, e
quella diavolo di ditta di costruzioni ancora non finiva. Domandandosi di un bacio ne ricevette uno.
Una folata alla Marilyn Monroe. E tutto corse nella valanga di un amore improvviso. Spacciatore di
beni legali. Smise la scuola, finì le passioni e si dedicò a colei che più non riusciva a dimenticare. E
si spense, traendo sempre maggior linfa dall’amata non ne produceva, pensando egoisticamente alla
gioia dell’amor sincero. Scoprirono il vicendevole nucleo, con il chiarore in volto di chi, un po’
pallido, s’affaccia alla finestra dopo notti inquiete ed assapora poi la brezza mattutina. Senza
destarsi da anacronistici avvisi d’ingiunzione imperterrito martoriava il cuore, proclamandosi
efficace palliativo. E s’incorniciava sempre più d’argento il relitto dell’amor perduto, ricercando le
sue radici fra coniglietti ed insensate sviste. Stop. Tempo d’onanismo. E ripartiva più profondo di
prima, senza uscirne. Lei partì, le coccole ed i sinceri sorrisi, tra il sole, le fiamme.

In amore col morto non riuscì a trattenersi dall’olezzo di stantio di verdure e scarti alimentari, acide
primule vegetative. Ne colse alcune il giardiniere, ricevendo la paga. Il barocco sincero non
attanagliava le menti, e si dimostrava inerme innanzi alle proprie colpe, sebben vero, ma colpevole,
amava come non mai prima, alienato gentile con tutti, mai più simpatico.

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