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Ali perdute

Prologo

Anna non aveva ancora smesso di parlare, da quando era iniziata la loro serata.
Era una ragazzina bassa, bionda, con i capelli che le scendevano ai lati del viso e si fermavano alle spalle, gli occhi
verdi; non era particolarmente formosa, ma per Armisael quello era l’ultimo dei pensieri. Indossava un avvenente
abito verde acqua, elegante ma sobrio, che le arrivava alle ginocchia; scelta sensata, considerando che era metà luglio
e il caldo in quel periodo si faceva sentire particolarmente a Roma, la Città Eterna. Nemmeno la notte sembrava
portare frescura, e il calore generava sudore che rendeva appiccicaticcia praticamente qualunque cosa. Armisael, dal
canto proprio, aveva scelto qualcosa di più seducente: un abito nero lungo fino ai piedi, con spalline sottili, che
lasciava la schiena scoperta ed evidenziava le sue forme. Nonostante in genere non tenesse particolarmente al proprio
aspetto fisico, quell’occasione era speciale: aveva puntato Anna da settimane, e non avrebbe lasciato che la sua
pigrizia mandasse a monte il lavoro di giorni per ottenere quell’uscita, ragion per cui si era acconciata nella maniera
migliore possibile i lunghi capelli corvini e aveva indossato le lenti a contatto. Non era stato nemmeno uno sforzo così
grande, ma non era abituata a fare attenzione a certi dettagli che gli altri reputavano importanti.
Il locale era un raffinato ristorante di pesce; vi aveva invitato Anna dopo giorni di corte spietata. Era stato molto più
difficile di quanto avesse pensato, ottenere quella particolare serata; molto più di tutte le altre a cui l’aveva invitata
solo come amica, o per passare il tempo e basta. Il chiacchiericcio attorno a loro ogni tanto la faceva distrarre, e
perdeva un pezzo del lunghissimo discorso di Anna su quanto suo padre fosse un ottimo pescatore, e fosse riuscito a
divenire impresario di un’azienda ittica tramite il duro lavoro, per cui spesso doveva esibire un sorriso e chiederle di
ripetere, eliminando con un gesto lievemente imbarazzato le pieghe del panno su cui erano poggiate le posate.
“E quindi di recente ho detto a mio padre che stiamo uscendo insieme! Non è stato proprio felice…” continuò con
tono un po’ più mesto la ragazza, abbassando lievemente lo sguardo.
Armisael si costrinse a sorridere; il padre di Anna era molto religioso, e pure la figlia era molto devota; per qualche
strano motivo, però, sembrava piacerle, eventualità in cui Armisael non aveva nemmeno osato sperare. Difficilmente
chi veniva da un ambiente chiuso come quello religioso aveva vedute tanto ampie da accettare la propria
omosessualità con così poche storie; forse era stato il Destino, a concederle quell’occasione. O forse non era il caso di
giudicare un libro dalla copertina.
“Non ti preoccupare” fece, allungando una mano ad accarezzare quella di Anna con dolcezza; poté sentire un brivido
attraversarla a quel tocco. “Capisco, ed apprezzo lo sforzo che stai facendo per venirmi incontro. Vorrei poter fare
qualcosa per ricambiare”.
Quelle parole gentili sembrarono rallegrare Anna, che tornò a ridere, bella come il sole. “Oh, beh” rispose scostando
appena la mano e prendendo a tamburellare sul tavolo con le dita, accanto ai rimasugli di gamberoni e caviale che
erano stati il piatto forte della serata, preceduti da risotti e intingoli sempre a base di pesce. “In fondo è la mia vita. Ci
vediamo da un po’, credo di essere abbastanza grande da poter scegliere da sola il mio avvenire e cosa mi piaccia,
come ho scelto da sola la mia facoltà universitaria.”
“Ingegneria” la interruppe Armisael, con un sorriso mentre ritirava il braccio.
Anna la osservò dolcemente. “Nessun ragazzo con cui sia uscita prima di incontrarti riusciva mai a ricordarsi in quale
università stessi studiando, Irma.”
Armisael rise; nonostante amasse il nome che sua madre pronunciava con dolcezza ogni volta che la incontrava, lo
pseudonimo “Irma” suonava meno strano alle orecchie degli altri, perciò quando aveva a che fare con membri esterni
alla famiglia adottava quello: era un facile compromesso tra il comune ed il bizzarro, perché era sì usato ma lo era
anche raramente in quella generazione; nomi del genere erano più comuni durante gli anni Trenta o Quaranta, ma
ancora si sentivano usare in giro.
“Questo è perché i maschi sono tendenzialmente meno attenti. Noi abbiamo un livello di attenzione superiore, quindi
ricordiamo più facilmente le cose” replicò sorridendo; ebbe allora il privilegio di vedere Anna arrossire lievemente.
Lei scosse la testa, come per darsi un nuovo contegno; era molto riservata e timida, questo Armisael l’aveva notato
subito. Se invece si riusciva a fare breccia in quel muro di ritrosia, diventava abbastanza espansiva: era facile farla
ridere e arrossire quando sapevi quali tasti toccare.
“Non trovi che sia un po’ offensivo nei confronti dei tuoi fratelli? Insomma, anche loro sono maschi.”
“E infatti sono abbastanza cretini. Gregorio soprattutto non farebbe altro che dormire se potesse. È un miracolo che
abbia un lavoro” commentò Armisael con un sospiro. Anna era figlia unica, quindi non aveva idea di quanto potesse
essere difficile fare da sorella maggiore ad un branco di idioti scalmanati; soprattutto non quando suo padre preferiva
uno sopra gli altri. Sua madre era più equa ed amava tutti indistintamente: era il cuore della famiglia, ed anche quello
che l’aveva spinta a chiedere ad Anna di uscire. Voleva che s’incontrassero; sarebbe stato divertente.
Ma non era il momento adatto; probabilmente sarebbe stato troppo per lei avere a che fare con tutti loro.
Meglio andare per gradi.
“Oh, giusto! Faceva l’imbianchino, vero? Che strano, è un lavoro parecchio faticoso…” replicò Anna con un sorriso
lievemente incredulo. Il semplice incurvarsi delle labbra della giovane donna era sufficiente per scatenare in Armisael
il desiderio di ottenere un differente tipo di sorriso, meno innocente. Ma lo ricambiò comunque, concentrandosi sul
tema del suo fratellino.
“Infatti lo è, ma l’unica altra professione in cui potrebbe essere vagamente qualificato sarebbe il netturbino; ed è
troppo umiliante anche per lui una simile prospettiva.”
“Capisco…” terminò Anna, e tra di loro cadde un silenzio che, se non infastidiva minimamente Armisael,
probabilmente per la ragazza era estremamente imbarazzante. La donna dal vestito nero se lo godette appieno; aveva
come l’impressione che, passato quel breve lasso di tempo, la ragazza con cui era uscita l’avrebbe rotto per un tempo
ben più lungo.
Non poté non sospirare con un sorriso da cui traspariva benevolenza quando Anna, schiarendosi la gola, fece per
parlare di nuovo.
“Sì?” la incoraggiò, sistemandosi meglio sulla sedia. Ormai erano parecchio che stavano sedute, e ogni tanto le
formicolava lievemente un piede; probabilmente Anna stava peggio.
“Ecco…” fece Anna, con una voce che colpì Armisael per quanto fosse bassa e timida, il completo contrario
dell’impressione generale che aveva ricevuto dal suo bersaglio fino a quel momento; soprattutto sgranò gli occhi al
vedere quanto fosse arrossita, e che il suo sguardo fuggiva quello di Armisael come se vi fosse qualcosa che potesse
contaminarla.
Armisael non poté fare a meno di percepire un moto di eccitazione, aspettativa e desiderio, che si premurò di
dissimulare dietro un sorriso cortese; sapeva che cosa Anna stesse per dire. Non aveva dubbi; aveva visto quelle
reazioni in molte persone come lei, uomini o donne che fossero; finalmente tutti quei mesi di lavoro stavano per dare i
loro frutti.
Ma non doveva lasciarsi prendere dalla fretta o avrebbe rischiato di rovinare tutto; non doveva mostrarsi troppo
impaziente ma di avere sotto controllo la situazione, senza però impedire ad Anna di pensare lo stesso; non doveva
metterla in soggezione, ma a proprio agio. Doveva trattarla da pari, come si confaceva a due persone civili.
La sua pazienza e il suo autocontrollo furono ricompensati dopo pochi secondi di attesa.
“Se… se vuoi potremmo… andare a casa tua, dopo cena.”
La soddisfazione che quelle poche parole causarono in Armisael sarebbe stata decisamente eccessiva agli occhi di
qualcun altro, ma non per lei; era perfettamente consapevole di quanta pazienza avesse dovuto esercitare, quanto
tempo avesse impiegato nel suo avvicinarsi ad Anna per gradi, tutto in previsione di quell’unica richiesta, fatta tutta
d’un fiato come se la ragazza sperasse di mangiarsi le parole e renderne incomprensibile il senso.
Tenendo tutto quello che le passava per la mente sotto controllo, Armisael si limitò ad allargare il proprio sorriso,
bianco come la luna che splendeva fuori dal locale, nella notte serena.
“Mi farebbe enormemente piacere.”

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Come prevedibile, l’aria era afosa anche se mancava circa mezz’ora a mezzanotte. L’estate nella Città Eterna non
concedeva realmente alcuna tregua.
Erano appena uscite dal ristorante, e Armisael aveva in mano il cellulare, intenta a digitare una serie di numeri.
“Chi stai chiamando, Irma?” domandò Anna sporgendosi verso il telefono per vedere meglio.
“Il servizio taxi. Arriveremo prima, così, no?”
“Beh…” fece Anna, con un’espressione dubbiosa.
“Che c’è?” chiese l’altra abbassando il cellulare.
“Potresti anche non farlo. Potremmo… anche andare a piedi. E’ una bella serata…” mormorò la ragazza con lo sguardo
basso. Armisael non riuscì a trattenere una risata, di fronte a quella ritrosia che faceva contrasto con il suo
comportamento solitamente aperto e gioviale quando erano assieme.
“Ci vorrà molto più tempo così, lo sai” osservò dopo aver terminato la risata.
“Beh, sì, ma… mi piacerebbe fare due passi assieme a te. Non ce la faccio più a stare seduta. Per favore…”
“E va bene, e va bene…” concesse Armisael con un sorriso, rimettendo il telefono nella pochette; poi le offrì il braccio.
“Allora andiamo?”
Anna arrossì di nuovo, e dopo un paio di esitazioni, fece passare il proprio attorno a quello che Armisael le stava
offrendo. S’incamminarono tranquillamente, nel silenzio della sera, godendosi il cielo stellato ed ignorando le
macchine che sfrecciavano sulla carreggiata a fianco a loro. Rimasero entrambe in silenzio, anche se la donna dai
capelli neri poteva sentire che quella più bassa stava tremando leggermente; era probabilmente nervosa, dato che
non era minimamente tanto freddo.
Poi Anna fece una domanda che la prese totalmente alla sprovvista.
“Conosci qualche storia di angeli o demoni, Irma?”
Armisael si prese un attimo per riflettere sulla domanda; poi vi rispose con un’altra domanda.
“Come mai?”
Anna sembrò un po’ imbarazzata, ma prese un respiro, come per farsi coraggio.
“Beh… sai che vengo da una famiglia molto religiosa. Praticamente ho passato tutta la mia infanzia a sentir parlare di
Dio, degli angeli, del Paradiso e dell’Inferno… Quindi sono sempre stata un po’ curiosa di capirne di più e… l’altro
giorno, ho notato nella tua borsa un testo sulle presenze angeliche. Onestamente non me lo aspettavo…” fece
ridacchiando piano.
“Perché non ti sembravo il tipo?” domandò Armisael divertita. La ragazza aveva occhio; era sorpresa che avesse
notato quel particolare.
“Non particolarmente, no. Però, se anche non ci credi va bene lo stesso… Mi chiedevo solo se non avessi letto
qualcosa da qualche parte, o se anche in casa tua si raccontano certe storie particolari. A casa mia ne passavano
spesso, sia mia madre che mio padre, ma erano poco approfondite…” s’interruppe mentre passavano sotto un
lampione, e alla luce fredda della lampada Armisael vide i suoi occhi brillare di curiosità.
Trattenne a fatica l’ennesima risatina. Certi racconti in famiglia erano decisamente più comuni di quanto Anna non
potesse pensare.
“Ne conosco una sola, in realtà, ma è piuttosto lunga e dovrei partire da parecchio lontano. Ti va bene ugualmente?”
Era meglio andare per gradi, come prima. Non voleva dare l’impressione di essere troppo dentro l’occultismo, o cose
del genere; in fondo, era il motivo per cui usava uno pseudonimo.
Anna sorrise mentre annuiva, felice che Armisael avesse accettato di narrarle una storia. “Abbiamo tempo, no?”
La donna dai capelli scuri sorrise di nuovo, divertita dalla risposta pronta della ragazza che aveva invitato a cena quella
sera.
“In effetti sì. Beh, riconoscerai sicuramente qualche nome; dobbiamo tornare indietro di un bel po’ di tempo…”

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