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Verità e processo

VERITÀ E PROCESSO
Revista de Processo | vol. 228/2014 | p. 63 - 78 | Fev / 2014
DTR\2014\320

Michele Taruffo
Professor de Direito Processual Civil da Universidade de Pavia (Itália).

Área do Direito: Processual


Resumo: O autor deste ensaio analisa diversas concepções de verdade e estuda, criticamente,
afirmações que habitualmente são feitas pela doutrina para se separar a verdade e a verdade
processual.

Palavras-chave: Verdade - Certeza - Prova - Verdade formal - Verdade material.


Riassunto: L'autore di questo saggio analizza varie concezioni di verità e studia, criticamente,
affirmazioni che vengono spesso fatte dalla dottrina per separare la verità reale della verità
processuale.

Parole chiave: Verità - Certezza - Prova - Verità formale - Verità materiale.


Sumário:

- 1.Verità e funzione del processo - 2.Fatti ed enunciati - 3.Narrazioni fattuali - 4.Narrazioni buone e
narrazioni vere - 5.Narrazioni processuali - 6.Caratteri della verità processuale

Recebido em: 04.10.2013

Aprovado em: 12.12.2013


1. Verità e funzione del processo

L’amministrazione della giustizia è un’area del sistema giuridico nella quale si pone con maggiore e
più drammatica evidenza il problema della verità e delle sue connessioni con il diritto. Accade in ogni
tipo di processo, civile, penale, amministrativo o anche costituzionale, che la decisione coinvolga
l’accertamento di fatti che sono rilevanti per l’applicazione del diritto. In molti casi, anzi, il vero
problema essenziale che il giudice deve risolvere riguarda -molto più che l’interpretazione della norma
che deve applicare come regola di decisione- i fatti che hanno determinato l’oggetto della
controversia ai quali la norma deve essere applicata. Questa rilevanza dei fatti va però definita in
modo più specifico, in questi temini: nel processo i fatti determinano l’interpretazione e l’applicazione
del diritto in quanto l’accertamento della verità dei fatti è condizione necessaria per la giustizia della
decisione.1 Questa affermazione appare fondata se solo si considera che nessuna decisione può
ritenersi giusta se si fonda su un accertamento dei fatti rilevanti falso o erroneo: l’applicazione
corretta della norma di diritto presuppone che si sia verificato il fatto indicato nella protasi (o nel
"frastico") della norma (la abstrakte Tatbestand della dottrina tedenca), e che la stessa norma
individua come condizione necessaria perché si verifichino nel caso particolare gli effetti giuridici che
la stessa norma disciplina. Se nel caso particolare il fatto (la konkrete Tatbestand) che corrisponde
alla fattispecie prevista dalla norma come condizione non si è verificato, quella norma -comunque
interpretata- non può essere correttamente applicata come regola di decisione di quel caso. Come
usa dire, nessuna norma si applica correttamente ai fatti falsi o sbagliati.2

Naturalmente, l’accertamento della verità dei fatti che si sono verificati nel caso concreto costituisce
solo una delle condizioni di giustizia della decisione, che per essere giusta presuppone anche che si
sia svolto in modo corretto e legittimo il processo di cui costituisce il risultato finale, e -ovviamente-
anche che venga interpretata correttamente la norma che il giudice adotta come regola di giudizio.
Dunque di tratta di una condizione di per sè non sufficiente, ma comunque necessaria per la giustizia
della decisione: se i fatti non vengono stabiliti in modo veritiero ciò basta a far sì che la decisione sia
ingiusta, anche se il processo si è svolto correttamente e la norma di diritto è stata interpretata in
modo valido. Per così dire, nessuna delle tre condizioni indicate è in sè sufficiente a determinare la
giustizia della decisione, mentre tali condizioni sono tutte congiuntamente necessarie perché la
decisione sia giusta.3
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Se si ammette che questa concezione della decisione giudiziaria sia fondata, allora risultano per varie
ragioni inaccettabili le varie teorie che in modo più o meno diretto portano a negare o ad escludere
che nel processo giudiziario si debba o si possa accertare la verità dei fatti. Queste teorie sono
piuttosto numerose e non possono essere qui discusse in modo completo e dettagliato, ma qualche
sintetica indicazione può essere utile, se non altro per dare un’idea del panorama teorico all’interno
del quale va collocato il discorso che si sta svolgendo in queste pagine.

Anzitutto, vanno ricordate le varie concezioni filosofiche -dall’idealismo all’irrazionalismo delle specie
più diverse- che escludono in linea si principio la possibilità di una conoscenza effettiva della realtà
esterna al soggetto.4 In proposito, e negli ultimi decenni, sono state particolarmente influenti le
correnti del postmodernismo che hanno criticato in generale la possibilità di parlare sensatamente
della verità, e le dottrine del relativismo radicale -come ad esempio quella di Richard Rorty- secondo
le quali ognuno ha la sua verità, nessuno sbaglia, e quindi non ha senso parlare di verità o di errore.5
E’ evidente che se si adotta una di queste concezioni al livello della filosofia generale, risulta privo di
senso qualunque discorso che possa essere fatto a proposito della verità nell’ambito
dell’amministrazione della giustizia.

Sotto altro profilo vanno poi ricordate le concezioni secondo le quali il processo sarebbe orientato
soltanto a risolvere controversie e -poiché una controversia si può risolvere anche per mezzo di un
decisione ingiusta, illegale o fondata su un accertamento errato o falso dei fatti della causa- se ne
deriva che l’accertamento della verità non può essere collocato tra le finalità che il processo dovrebbe
conseguire.6 Una versione per certi versi estrema di questa concezione è quella in cui si afferma che
il processo non dovrebbe tendere alla scoperta della verità, perché quand’anche ciò fosse possibile
non interesserebbe a nessuno e comporterebbe inutili costi e perdite di tempo.7

Ancora, sono piuttosto numerose le opinioni secondo le quali il processo non potrebbe giungere
all’accertamento della verità -quand’anche ciò fosse in ipotesi possibile- a causa delle norme che
regolano il funzionamento del processo e che in vario modo possono limitare l’acquisizione delle fonti
di conoscenza (le prove) che occorrerebbero per scoprire la verità dei fatti.8

Infine, vanno anche ricordati quegli orientamenti che non si occupano direttamente del problema
dell’accertamento della verità dei fatti, in quanto non prendono in considerazione il contenuto e la
qualità della decisione che conclude il processo. Si tratta di prospettive teoriche di vario genere che
hanno però in comune la caratteristica di concentrare l’attenzione esclusivamente sulla funzione
legittimante che viene svolta dal rito (o dal teatro) processuale.9 Il nucleo centrale di queste
concezioni è costituito dall’idea che l’accettazione sociale delle decisioni giudiziarie è condizionata
-essenzialmente o soltanto- dagli aspetti rituali del processo, i quali invierebbero alla società
circostante messaggi positivi intorno alla possibilità che la giustizia venga davvero amministrata nei
tribunali. In queste prospettive l’eventualità che la decisione si fondi su un accertamento veritiero o
falso dei fatti della causa è del tutto irrilevante, così come è irrilevante qualunque altro elemento
contenutistico della decisione.

Come si vede da questi rapidi riferimenti, i veriphobics10 (o "nemici della verità")11 sono molti e di varie
specie, soprattutto per quando riguarda i modi di concepire il processo e le sue funzioni, ma la cosa
non deve impressionare. Tutto sommato, è molto più facile e à la page condividere qualche forma di
scetticismo più o meno giustificato che affrontare direttamente il problema della giustizia delle
decisioni giudiziarie. Questo, però, è proprio l’elemento che consente di rivolgere una critica globale
alle concezioni che si sono ora ricordate: se ad esse non interessa il problema del fondamento
fattuale della decisione giudiziaria, o esse negano che questo problema abbia senso e possa essere
affrontato sia sul piano filosofico generale, sia su quello delle concezioni della giustizia e del
processo, allora si può ben dire che esse non rivestono alcun interesse per chi si occupi del problema
di come si possono risolvere controversie per mezzo di decisioni giuste.
2. Fatti ed enunciati

Fatte queste necessarie premesse, è opportuno chiarire alcuni aspetti del problema della verità dei
fatti nel processo. Il primo aspetto da chiarire riguarda l’individuazione di ciò di cui si dovrebbe
stabilire la verità nell’ambito del processo. Si dice comunemente che questo problema riguarda i "fatti"
e non le norme, ma allora si tratta di stabilire che cosa sono i fatti di cui si parla. In proposito una
osservazione ovvia, ma molto importante, è che di regola (e salvo pochissime eccezioni non
importanti)12 i fatti non entrano nel processo nella loro materialità empirica, sicchè nessuno dei
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soggetti che partecipano al processo, e i particolare il giudice, li può percepire direttamente. La


banale ragione di ciò è che normalmente i fatti che si tratta di accertare si sono già verificati prima del
processo (spesso molto tempo prima) e comunque sono accaduti "fuori" del contesto processuale.
Nel processo i fatti entrano sotto forma di enunciati o di insiemi di enunciati che descrivono le
circostanze che si sono verificate in passato e che sono rilevanti per la decisione della controversia.
Non si ha dunque a che fare con accadimenti empirici o eventi storicamente verificatisi nella realtà
materiale, ma con prodotti linguistici che si occupano di questi eventi. Di conseguenza, parlare di
verità dei fatti nell’ambito del processo significa parlare di verità -o di falsità- degli enunciati o degli
insiemi di enunciati che descrivono i fatti rilevanti per la decisione.

In proposito è utile rilevare che di regola il problema dell’accertamento della verità riguarda due
insiemi di fatti: si tratta anzitutto dei fatti che risultano essere giuridicamente rilevanti in quanto
rientrano nella "fattispecie astratta" definita dalla norma che viene adottata come regola per la
decisione in diritto della controversia;13 si tratta inoltre dei fatti logicamente rilevanti (indizi, fonti di
presunzione semplice), che entrano nel processo in quanto possono rappresentare la premessa di
inferenze logiche dirette a confermare la verità o la falsità dei enunciati relativi ai fatti giuridicamente
rilevanti.14

Il problema della verità riguarda tutti i fatti che risultano essere giuridicamente o logicamente rilevanti.
Esso si pone certamente a proposito dei fatti giuridicamente rilevanti in quanto -come si è già
accennato- è dall’accertamento della verità dei relativi enunciati che dipende la possibilità di applicare
validamente la norma che determina la decisione, e quindi la giustizia della decisione stessa.
Tuttavia, anche gli enunciati che descrivo fatti logicamente rilevanti debbono essere stabiliti come
veri, poiché in caso contrario essi non potrebbero costituire premesse conoscitivamente valida per la
formulazione di inferenze relative alla verità o alla falsità di un enunciato relativo ad un fatto
giuridicamente rilevante.

Tutto ciò equivale a dire che nell’ambito del processo il giudice deve fondare la decisione su una
ricostruzione veritiera di tutti i fatti rilevanti della causa, ovviamente in base ad una valutazione
razionale delle prove di cui dispone per giungere alla conoscenza di questi fatti.
3. Narrazioni fattuali

Le descrizioni dei fatti che rilevano e debbono essere accertati nel processo non sono "date" o
"precostituite" ma si formano -per così dire- all’interno del processo ad opera dei soggetti che in esso
svolgono vari ruoli. Poiché di solito si tratta di insiemi ordinati di enunciati che descrivono le
circostanze di fatti più o meno complessi, articolati nel tempo e nello spazio, si può parlare di
narrazioni. I soggetti che nel processo "narrano" fatti sono diversi, e le rispettive narrazioni hanno
diversa natura e diversa funzione, anche se possono riguardare le stesse circostanze di fatto.15 Ad
esempio, nel processo civile l’attore narra i fatti sui quali fonda il diritto di cui chiede il riconoscimento.
Questa narrazione ha la caratteristica di non essere, in sé, altro che una ipotesi: chi la effettua
naturalmente la presenta come se fosse vera (si potrebbe dire che ha una pretesa di verità), ma se
essa sia davvero vera o falsa lo accerterà soltanto il giudice con la sentenza che conclude il
processo.16 Lo stesso si può dire per la narrazione dei fatti che viene fatta dal convenuto, nella misura
in cui essa è diversa da quella dell’attore. Nel processo penale le stesse considerazioni valgono per
le narrazioni effettuate dall’organo dell’accusa e dal difensore dell’imputato. Altre narrazioni vengono
compiute dai testimoni, che raccontano i fatti di cui sono a conoscenza. Anche queste narrazioni
hanno una pretesa di verità, in qualche modo rafforzata dal fatto che il testimone ha l’obbligo di dire la
verità e viene sanzionato penalmente se dice il falso, ma le sue dichiarazioni possono non
corrispondere alla verità e quindi anch’esse sono ipotetiche, e solo la sentenza finale dirà se esse
erano vere o false.17 Infine, anche il giudice, nella sentenza che conclude il processo, narra i fatti sui
cui fonda la decisione,18 ma questa narrazione ha una caratteristica fondamentale che la distingue
dalle altre narrazioni compiute dagli altri soggetti: la narrazione del giudice deve essere vera in
quanto il giudice ha l’obbligo di applicare correttamente la legge nel caso concreto e -come si è detto
più sopra- perché una norma sia applicata validamente come regola di giudizio occorre che sia stata
accertata la verità dei fatti che essa prevede come condizione per il verificarsi di determinate
conseguenze giuridiche. Dunque la narrazione del giudice non ha solo una pretesa di verità e non è
semplicemente ipotetica: il giudice deve decidere sulla base delle prove che sono state acquisite nel
processo, e quindi deve narrare nella sentenza i fatti che ha conosciuto per mezzo delle prove. Può
darsi che la narrazione del giudice coincida in tutto o in parte con quella proposta da una delle parti o
da un testimone, ma rimane comunque diversa proprio per il suo carattere di "ipotesi verificata" sulla
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base degli elementi di conoscenza che il giudice ha potuto utilizzare.19

Dire, come si è detto, che le narrazioni dei fatti non preesistono al processo, significa che i vari
soggetti che narrano i fatti in realtà costruiscono le loro narrazioni: queste, allora, sono il frutto di
attività in qualche senso "creative" poste in essere dai soggetti che le elaborano. Così, ad esempio,
l’avvocato dell’attore nel processo civile seleziona e organizza in un ordine narrativo i fatti che
servono a far apparire come fondata la domanda che propone al giudice, e il pubblico ministero
seleziona e organizza i fatti che servono a far apparire fondata l’accusa. Allo stesso modo, i difensori
del convenuto nel processo civile e dell’imputato nel processo penale elaborano narrazioni dei fatti
che possano far apparire infondate la domanda e l’accusa. A sua volta il testimone, nel rispondere
alle domande che gli vengono rivolte (eventualmente anche nel controinterrogatorio) o nel raccontare
liberamente i fatti di cui dice di essere a conoscenza, rielabora, seleziona, organizza i suoi ricordi in
modo da fornirne una narrazione possibilmente coerente.20 Infine, il giudice costruisce la sua
narrazione dei fatti tenendo conto di quali circostanze risultano provate e quali non risultano provate,
selezionando e organizzando i fatti che può considerare come accertati in una descrizione
possibilmente coerente, oppure -se le prove non hanno dato risultati sufficienti- affermando che non è
possibile costruire una narrazione veritiera dei fatti della causa. Dunque ognuno dei soggetti che
partecipano al processo costruisce la "sua" narrazione dei fatti, in maniera sostanzialmente non
diversa da come qualunque "narratore" compone una "storia" che si presenta come coerente,
credibile, e narrativamente "buona".
4. Narrazioni buone e narrazioni vere

Le teorie della narrazione, ed in particolare quelle proposte anche in anni recenti da autori come
Jerome Bruner,21 sono molto utili per comprendere quali sono le modalità e gli strumenti con cui
vengono elaborate e costruite le narrazioni. Esse sono anche molto interessanti per capire quali sono
le caratteristiche di una narrazione che si considera "buona" in quanto essa appare credibile,
persuasiva, interessante, coerente.22 In particolare, esse mostrano come una narrazione appaia tanto
più persuasiva e narrativamente efficace quanto più si fonda su stereotipi, modelli di fatti e di
accadimenti, trame e "storie tipiche" (scripts) che esistono nel bagaglio culturale dei soggetti che sono
i destinatari -il "pubblico"- delle narrazioni. In altri termini, ciò che appare più familiare o più "normale"
è ciò che fa di una narrazione una buona narrazione. In larga misura ciò che le teorie narrativistiche
dicono intorno alle narrazioni in generale vale anche per le narrazioni che vengono elaborate nel
contesto del processo: anche le narrazioni processuali, infatti, sono più o meno "buone" sotto il profilo
narrativo a seconda che siano coerenti, ben organizzate, ben raccontate, e corrispondano a criteri di
normalità sia per quanto riguarda ciò che si dice delle persone e dei loro comportamenti, sia per ciò
che riguarda la descrizione di vicende più complesse che si sono svolte nel tempo e nello spazio.

Queste teorie hanno tuttavia una caratteristica rilevante, consistente nel fatto che esse si occupano
esclusivamente della narrazione in quanto tale, e -appunto- dei requisiti che debbono sussistere
perchè una storia raccontata possa considerarsi narrativamente buona. In particolare, esse non si
occupano della eventualità che la narrazione di cui si tratta descriva eventi che si suppongono essersi
effettivamente verificati nel mondo reale. Per così dire, il mondo reale non conta per il vero
narrativista, e si potrebbe anche dire che per lui il mondo reale potrebbe non esistere, perché
-appunto- egli prende in considerazione soltanto le narrazioni e le loro caratteristiche, e non si
interessa di qualunque altra cosa che si collochi fuori dalla narrazione.23 Sotto questo profilo sarebbe
addirittura improprio parlare di narrazioni che descrivono fatti, poiché il concetto stesso di
"descrizione" presuppone che al di là dell’enunciato descrittivo vi sia "qualcos’altro" che viene
descritto (per dirla con Frege, non esisterebbe soltanto il Sinn ma anche la Bedeutung, e questa
troverebbe corrispondenza in una cosa o evento reale "esterno" all’enunciato).24 In realtà, sempre
secondo queste teorie, la narrazione "parla" di fatti, di persone e di vicende, ma non ne dà descrizioni
perché ciò che non rileva in alcun modo è proprio se questi fatti, persone e vicende si sono davvero
verificate o sono soltanto frutto dell’immaginazione dell’autore della narrazione. Si comprende allora
che in questa prospettiva non vi sia alcuna differenza tra narrazioni che si presentano come
descrittive e narrazioni che non hanno alcuna pretesa di descrivere alcunchè, come accade ad
esempio in un romanzo, in un racconto o in qualunque opera letteraria.
5. Narrazioni processuali

Come si è detto, nel processo vari soggetti costruiscono narrazioni, e talvolta accade che un soggetto
cambi in tutto o in parte la sua narrazione dei fatti se scopre che una descrizione ipotetica dei fatti
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non viene confermata, e la sostituisce con una descrizione diversa. Da questo punto di vista, il
processo può essere interpretato come un complesso gioco di narrazioni che termina soltanto con la
decisione finale formulata dal giudice. Tuttavia, il processo non è paragonabile ad una competizione
letteraria, nella quale si tratta di assegnare il premio finale alla narrazione "migliore". Come pure si è
detto più sopra, la decisione che conclude il processo può considerarsi come giusta se e solo se si
fonda su una ricostruzione vera dei fatti della causa, ed è essenzialmente questo che distingue il
processo inteso come gioco dialettico di narrazioni da un concorso letterario in cui si tratta di
scegliere una narrazione tra quelle che partecipano alla competizione.

A questo proposito sorge tuttavia un problema ulteriore, che riguarda la natura della verità che
dovrebbe essere accertata nel processo. In proposito coloro che applicano le teorie narrativistiche al
contesto del processo talora non negano che il giudice debba stabilire la verità dei fatti, ma adottano
una concezione della verità che si fonda su queste teorie. Si tratta, in sostanza, della concezione per
cui la verità di una narrazione sarebbe determinata esclusivamente dalla sua coerenza narrativa: se
una narrazione è narrativamente coerente, allora essa si può considerare come vera.25 Anche in
questa prospettiva, peraltro, non si esce dall’idea che esistano solo le narrazioni e null’altro, dato che
la verità della narrazione viene ricercata-per così dire- all’interno della narrazione stessa. In altri
termini, ciò equivale ad affermare che se una narrazione è "buona", perché presenta i requisiti di
coerenza e corrispondenza al "normale" e agli stereotipi del senso comune di cui si è parlato in
precedenza, allora essa è anche vera. Bontà e verità della narrazione finiscono quindi col coincidere.

Si tratta però di una concezione semplicistica, unilaterale e sostanzialmente inattendibile,


essenzialmente per una ragione fondamentale, che è la seguente: esistono di fatto narrazioni "buone"
che tuttavia sono descrittivamente false.26 Anzi: esistono numerosissime narrazioni "buone" che non
pretendono neppure di essere vere, dato che si presentano apertamente come opere di fantasia
creativa, come accade per i romanzi e in genere per le opere letterarie. Pare evidente che il fatto che
un romanzo sia narrativamente coerente non dimostra affatto che esso sia, per questa ragione, una
descrizione veritiera dei fatti che narra: un buon romanzo non pretende di essere "vero", pretende
solo di essere una buona narrazione.

Queste osservazioni sono così ovvie che non vi è bisogno di insistere più a lungo in proposito, ma un
punto di grande importanza va qui messo in evidenza: le concezioni radicalmente "narrativistiche" e
"coerentiste" non hanno nulla a che fare con ciò che accade nel processo. Nel processo interessa
stabilire se è accaduto nella realtà del mondo esterno che Tizio ha ucciso Caio, se davvero è
accaduto un incidente stradale in cui Tizio ha procurato dei danni all’automobile di Caio, se Tizio e
Caio hanno concluso un contratto di compravendita di una cosa particolare, e così via. In altri termini,
nel processo si compie una implicita o esplicita opzione metafisica realistica27 in funzione della quale
si ammette l’esistenza della realtà esterna alle narrazioni e ai soggetti che le costruiscono, e i fatti che
interessano ai fini della decisione sono quelli che si sono empiricamente e storicamente verificati in
questa realtà esterna. Una condanna si giustifica solo se davvero il condannato ha commesso il fatto
che gli viene imputato, non se qualcuno ha costruito una buona narrazione al riguardo,
indipendentemente dal se costui sia davvero colpevole. Per così dire, il processo guarda a ciò che è
accaduto nella realtà storica del mondo esterno, poiché è a questa realtà che la legge ricollega le
conseguenze previste dall’ordinamento, sulle quali il giudice deve pronunciare la sua decisione nel
caso concreto.

Ciò implica che la concezione della verità come mera coerenza narrativa non abbia spazio né valore
nel contesto del processo. Il processo non può fare a meno di fondarsi su una concezione realistica
della verità come corrispondenza della descrizione dei fatti alla loro realtà effettiva. In base a questa
concezione -non nuova nella storia della filosofia ed anche molto discussa, ma imprescindibile nel
contesto processuale- un enunciato o un insieme di enunciati che descrivono uno o più fatti sono veri
se questi fatti si sono realmente verificati, e sono falsi se gli stessi fatti non si sono verificati nel
mondo della realtà esterna.28

Se, come si è detto in precedenza, il problema della verità dei fatti rilevanti per la decisione si pone
soprattutto per la ricostruzione dei fatti che il giudice effettua nella decisione, tutto ciò implica che il
giudice debba costruire una narrazione dei quei fatti che risulti vera in quanto corrispondente alla
realtà ampirica degli eventi di cui parla. Ciò non esclude ovviamente che la narrazione costruita dal
giudice sia anche narrativamente buona, ma ciò non è sufficiente e neppure necessario dal punto di
vista della verità di essa. Non è sufficiente perché, come si è già detto, una buona narrazione può
essere descrittivamente falsa, mentre la narrazione del giudice dev’essere descrittivamente vera. Non
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è necessario perché può accadere che i risultati che derivano dalle prove acquisite al processo non
consentano di giungere ad una descrizione narrativamente buona (ad esempio perché è mancata la
dimostrazione di qualche fatto rilevante o i fatti che risultano provati non si compongono in una
narrazione coerente). In questo caso il compito del giudice non è di costruire ad ogni costo una
narrazione buona trascurando ciò che risulta o non risulta dalle prove, e quindi eventualmente
inventando fatti che non sono stati dimostrati ma che sarebbero necessari per la completezza e la
coerenza di una "buona" narrazione,29 ma è quello di elaborare una descrizione "vera" di ciò che ha
accertato e non ha accertato, anche se ciò implica una "cattiva qualità narrativa" della sua narrazione.
30

Dunque, in base a quanto si è detto, la narrazione dei fatti che nella decisione finale viene costruita
dal giudice non è necessariamente narrativamente vera (perché non è necessariamente "buona"), ma
deve essere epistemicamente vera, nel senso che deve fondarsi sulla conoscenza che il giudice ha
acquisito -attraverso le provedei fatti della causa. In altri termini, gli enunciati che compongono la
narrazione del giudice debbono essere tutti epistemicamente veri in quanto confermati dalle prove di
cui il giudice dispone.

Risulta quindi evidente che il processo, oltre ad essere un "gioco di narrazioni", è soprattutto una
complessa attività epistemica finalizzata al conseguimento della verità degli enunciati relativi ai fatti
rilevanti della causa. Nella stessa prospettiva si può allora dire che le prove che vengono acquisite
nel processo -ed in particolare le narrazioni fornite dai testimoni- sono strumenti epistemici (non
discorsi o artifici retorici)31 proprio in quanto è attraverso le prove che il giudice acquisisce le
informazioni e le basi conoscitive in funzione delle quali potrà giungere ad una ricostruzione veritiera
dei fatti della causa.

Essendo dunque -essenzialmente- un’attività di carattere epistemico, al processo possono essere


applicati i principi generali di razionalità del metodo conoscitivo che vengono elaborati nell’ambito
della epistemologia generale.32

In sostanza, si può dire che la prospettiva qui delineata configura il processo come un complicato
procedimento orientato verso il conseguimento della conoscenza dei fatti così come si sono verificati
nel mondo reale, mentre le terorie narrativistiche radicali tendono a ridurre l’amministrazione della
giustizia ad un gioco di parole.
6. Caratteri della verità processuale

Avendo stabilito che la verità che interessa nel processo non deriva dalla coerenza delle narrazioni
ma dalla loro corrispondenza alla realtà dei fatti e degli eventi che esse descrivono, è forse opportuno
aggiungere alcune sintetiche osservazioni -che non pretendono di affrontare in poche parole il
problema della verità sul piano filosofico- al fine di precisare meglio il significato che la verità assume
nel contesto del processo.

Anzitutto, va sottolineato che in questo contesto non si parla mai di verità "assolute", anche se talvolta
sembra che a questo tipo di verità facciano riferimento, implicitamente o esplicitamente, coloro che
negano che nell’ambito del processo si possa accertare la verità dei fatti.33 Di verità assolute parlano
ormai poche metafisiche e alcune religioni integraliste, e non se ne parla neppure nell’ambito delle
teorie della scienza, sicchè tanto meno se ne può parlare nel processo, così come non se ne può
sensatamente parlare nell’esperienza quotidiana di chi deve prendere decisioni fondandosi
sull’accertamento della verità di determinati fatti. Dunque ha senso parlare soltanto di verità relative,
ma il significato di questa qualificazione dev’essere ulteriormente specificato. Da un lato, la verità che
si può conseguire nel processo è relativa proprio in quanto non può essere assoluta, ossia perché
non coincide mai esattamente con la verità aletica o categorica. Nel processo la verità aletica
rappresenta un valore regolativo e costituisce -come usa dire- "il Nord", ossia un punto di riferimento
che può non essere mai raggiunto ma serve ad indicare la direzione verso la quale vanno orientati i
procedimenti conoscitivi che si pongono concretamente in atto.34 Da questo punto di vista la verità
che si può conseguire nel processo rappresenta in realtà una approssimazione a quella che si
potrebbe considerare come la corrispondenza perfetta degli enunciati ai fatti reali che essi
descrivono. Dall’altro lato, questa verità è relativa, e quindi il grado dell’approssimazione è maggiore
o minore, a seconda della qualità e della quantità delle informazioni su cui di volta in volta di fonda la
conoscenza dei fatti di cui si tratta. Nel contesto specifico del processo ciò significa che il grado di
approssimazione all’accertamento della corrispondenza degli enunciati ai fatti materiali che
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descrivono è relativo alla qualità e alla quantità delle prove sulle quali si fonda la ricostruzione dei fatti
posta in essere dal giudice, ed è tanto migliore quanto più si acquisiscono al processo tutte le prove
rilevanti, ossia tutte le prove che possono essere utili per l’accertamento della verità dei fatti.35 Ancora
una volta è la epistemologia generale a chiarire che la verità, nel processo come nella scienza,
dipende da un corretto impiego razionale delle conoscenze di cui si dispone in ogni singola
circostanza concreta.36

Intesa la relatività della verità in questo senso, ne rimane escluso qualsiasi riferimento alle prospettive
del relativismo radicale, secondo le quali ogni soggetto sarebbe in possesso della sua individuale
verità rispetto a qualunque fatto, con la conseguenza che nessuno sarebbe mai in errore e le varie
verità individuali non sarebbero confrontabili tra loro e non sarebbero in alcun modo controllabili o
falsificabili.37 Un ragionamento di questo tipo sarebbe facilmente ricollegabile all’idea della verità
come coerenza narrativa delle varie versioni dei fatti che emergono nel processo, poiché ogni autore
processuale di una narrazione potrebbe avere la sua verità e non sarebbe in alcun modo possibile
stabilire se una narrazione sia descrittivamente o epistemicamente vera o falsa. Appare tuttavia
evidente che il relativismo radicale non ha senso, ed in particolare non è riferibile al problema della
verità dei fatti nel contesto del processo, dato che in questo contesto -come si è detto più volte- non
interessano le opinioni soggettive e individuali dei vari protagonisti della vicenda processuale, ma
interessa "conoscere" nella maniera più oggettiva possibile che cosa è accaduto e che cosa non è
accaduto nel mondo degli eventi reali.

Il carattere relativo della verità processuale viene spesso descritto facendo riferimento al concetto di
probabilità:38 si dice, cioè, che la verità processuale, non potendo essere assoluta, è
necessariamente probabile. In particolare, poi, si richiama il concetto di probabilità quantitativa e il
relativo calcolo fondato soprattutto sul ben noto "teorema di Bayes", allo scopo di attribuire valori
numerici percentuali o decimali -da 0 a 100 o da 0 a 1- al grado di attendibilità che un enunciato di
fatto acquisirebbe sulla base delle prove che lo riguardano.39 Il problema è assai complesso e non
può essere qui discusso con l’approfondimento che meriterebbe, ma due osservazioni sintetiche
possono essere svolte. La prima osservazione è che -come è stato dimostrato- salvo rarissime
situazioni eccezionali (relative al possibile impiego probatorio di quantificazioni statistiche), il calcolo
della probabilità quantitativa non è applicabile alla valutazione delle prove, e quindi non è traducibile
numericamente il grado di approssimazione che caratterizza la verità processuale.40 La seconda
osservazione è che a proposito di questa verità è ben possibile parlare di probabilità, ma soltanto
della probabilità logica, ossia del risultato delle inferenze logiche attraverso le quali dalle informazioni
fornite dalle prove si passa a formulare conclusioni sull’attendibilità degli enunciati relativi ai fatti della
causa.41 In questo senso, la verità processuale è probabile in funzione della quantità e qualità delle
informazioni probatorie su cui si fonda, e in funzione del ragionamento attraverso il quale dalle prove
si trae la giustificazione di una conclusione su questi enunciati.

Prima di concludere il discorso, vale forse la pena di specificare che alcune altre idee diffuse intorno
alla natura della verità nell’ambito del processo sono infondate e meritano di non essere prese in
considerazione.

Una di queste idee è abbastanza comune tra gli studiosi del processo, e consiste nel ritenere che nel
processo si possa accertare soltanto una verità "processuale" o "formale", mentre la verità "reale" si
potrebbe accertare solo al di fuori del processo.42 La ragione di questa differenza consisterebbe nel
fatto che la disciplina del processo di solito contiene norme che regolano l’ammissione, l’acquisizione,
e talvolta anche la valutazione delle prove, mentre norme di questo tipo non esistono al di fuori del
processo. In proposito si può osservare che in effetti esistono norme di questo genere (molto diverse,
peraltro, nei vari ordinamenti processuali), e che talvolta alcune di queste norme possono limitare (ma
a volte favoriscono) la ricerca della verità, ma ciò non implica che ciò che si può conoscere all’interno
del processo sia una verità ontologicamente diversa da quella che si conosce in qualunque ambito di
esperienza extraprocessuale. Anche fuori del processo, infatti, nella scienza come in qualunque
ambito di conoscenza, esistono limiti e condizionamenti che si oppongono alla scoperta della pretesa
"verità reale", ed è per questa ragione che nessuno parla di verità assolute (se non, come si è detto,
in qualche metafisica o in qualche religione). Dunque il processo è un contesto in cui si svolge -come
pure si è detto- un’attività epistemica orientata -per così dire- a scoprire la stessa verità che si può
accertare fuori del processo, sicchè non esiste alcuna specifica verità "processuale" o "formale".43 La
sola osservazione che si può fare a questo proposito è che talvolta esistono norme processuali che
limitano o addirittura impediscono la ricerca della verità, ma questo è un problema che riguarda la
(cattiva) qualità di taluni sistemi processuali, e non incide sulla concezione generale della veritàPágina
che si7
Verità e processo

può (e si dovrebbe poter) accertare nell’ambito del processo.

Un’altra idea piuttosto diffusa -tra i filosofi ma anche tra i giuristi- è quella secondo cui la verità di un
enunciato è determinata dal consenso che esiste intorno a questo enunciato. Anche questa
concezione meriterebbe una discussione più ampia, ma la sua inattendibilità risulta agevolmente da
una osservazione molto banale. Se si accogliesse una teoria di questo genere, bisognerebbe
concluderne che per molti secoli è stato "vero" che la Terra era piatta e che il Sole girava intorno ad
essa, dato che -come è noto- sino a Copernico e a Galileo esisteva un generale consenso, sostenuto
anche dall’autorità della Chiesa, intorno alla configurazione tolemaica dell’universo e del sistema
solare. Non si può tuttavia sostenere ragionevolmente che il venir meno di questo consenso con la
"rivoluzione copernicana" abbia determinato un mutamento "reale" nella struttura dell’universo e del
sistema solare, i quali -come è ovvio- erano anche nella notte dei tempi costituiti così come la scienza
moderna ha rivelato e sta rivelando. Dunque il consenso -non importa di chi- non ha nulla a che
vedere con la verità epistemica di alcunchè.44

Infine, una terza idea piuttosto diffusa è quella secondo la quale sarebbe vero qualunque enunciato
sul quale si abbia certezza. Per un verso però, questa idea risulta insostenibile per le stesse ragioni,
già viste, per le quali è inattendibile la concezione del relativismo soggettivo per la quale ognuno
avrebbe la "sua" verità, ed anche per le ragioni -appena viste- per le quali il consenso anche diffuso
non dimostra la veridicità di nessun enunciato: molti milioni di soggetti sono stati a lungo "certi" (e
molti probabilmente lo sono ancora) della verità della concezione tolemaica, ma tale certezza non ne
ha affatto dimostrato la verità.45 Per altro verso, è evidente che si può essere soggettivamente certi,
per qualsiasi ragione, della verità di un enunciato che invece è clamorosamente falso in quanto non
corrisponde in alcun modo alla realtà del fatto che descrive. Ciò dipende dalla circostanza che la
certezza è in realtà uno status psicologico di credenza che può anche essere sentito in modo
particolarmente profondo, ma che non ha nulla a che vedere con la verità. Molti sono profondamente
certi dei dogmi di qualche religione, o del verificarsi dei miracoli (o della fedeltà del coniuge, o
dell’onestà di un leader politico, o di qualunque altra cosa), ma da questa certezza soggettiva e
individuale, molte volte connotata da una essenziale irrazionalità, non si può derivare alcuna
conclusione intorno alla verità di ciò di cui qualcuno è certo. Per questa ragione fondamentale la
concezione secondo la quale la decisione sui fatti della causa dovrebbe fondarsi sulla intime
conviction del giudice o del giurato introduce nel processo un fattore di irrazionalità incontrollabile a
causa della quale diventa impossibile parlare di verità o falsità della ricostruzione dei fatti che sta alla
base della decisione finale.46

La ragione fondamentale per la quale queste concezioni della verità vanno considerate come
infondate, e vanno escluse dall’analisi sulla natura della verità processuale, è che tutte -sia pure in
modi diversi e per ragioni diverse- si collocano al di fuori della prospettiva epistemica, la sola che
consente di affrontare in modo razionale, giungendo a soluzioni controllabili e giustificate, il problema
dell’accertamento della verità dei fatti nel contesto del processo.

1 Per la dimostrazione di questa affermazione cfr. Taruffo, Simplemente la verdad. El juez y la


construcción de los hechos, Madrid/Barcelona/Buenos Aires 2010 (trad.sp. di La semplice verità. Il
giudice e la costruzione dei fatti, Bari 2009), p. 132 ss.

2 Cfr. Taruffo, Simplemente… cit., p. 134.

3 Per una analisi più ampia di questo aspetto del problema cfr. Taruffo, Ideas para una teoría de la
decisión justa, in Id., Sobre las fronteras. Escritos sobre la justicia civil, Bogotá 2006 (trad.sp. di Sui
confini. Sctitti sulla giustizia civile, Bologna 2002), p. 199 ss.

4 A questo proposito cfr. più ampiamente Taruffo, La prueba de los hechos, Madrid 2002 (trad.sp. di
La prova dei fatti giuridici.Nozioni generali, Milano 1992), p. 28 ss.

5 Cfr., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, Taruffo, Simplemente… cit., p. 93 ss.

6 Per un’analisi di questa concezione, e per ulteriori riferimenti bibliografici cfr. Taruffo,
Simplemente… cit., p. 125 ss.; Id., La prueba… cit., p. 37 ss.
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Verità e processo

7 Si tratta della versione più coerente della concezione adversarial tipica del processo
nordamericano. In argomento cfr. in particolare Taruffo, Simplemente… cit., p. 127.

8 Su questi orientamenti v. in particolare Taruffo, La prueba… cit., p. 45 ss., e v. infra, par. 6, i


riferimenti al concetto di "verità processuale".

9 Nella letteratura più recente cfr. ad esempio Garapon, Bien Juger. Essay sur le rituel judiciaire,
Paris 1997; Chase, Law, Culture and Ritual. Disputing Systems in Cross-Cultural Context, New
York/London 2005.

10 Il termine veriphobia è stato coniato da Goldman, Knowledge in a Social World, Oxford 1999, rep.
2003, p. 7 ss.

11 Cfr. Lynch, La verità e i suoi nemici, Milano 2007 (trad.it. di True to Life. Why Truth Matters, 2004).

12 Si tratta solo dei casi nei quali il fatto rilevante può essere direttamente percepito dal giudice, ad
esempio attraverso una ispezione.

13 Su questi fatti e le modalità con cui vengono determinati cfr. Taruffo, La prueba… cit., p. 96 ss.

14 Su questi fatti cfr.Taruffo, La prueba… cit., p. 119 ss.

15 In argomento cfr. in particolare Di Donato, La costruzione giudiziaria del fatto. Il ruolo della
narrazione nel "processo", Milano 2008, e Taruffo, Simplemente… cit., p. 56 ss.

16 Sulla costruzione di narrazioni da parte dell’avvocato cfr.Di Donato, La costruzione… cit., p. 151
ss.; Taruffo, Simplemente… cit., p. 57 ss.

17 Sulle narrazioni dei testimoni cfr. Taruffo, Simplemente… cit., p. 63 ss.

18 Sulla narrazione costruita dal giudice cfr. Di Donato, La costruzione… cit., p. 183 ss.

19 In argomento v. più ampiamente Taruffo, Simplemente… cit., p. 65 ss.

20 Sui meccanismi psicologici che condizionano la ricostruzione dei fatti da parte dei testimoni cfr. in
particolare Mazzoni, Si può credere a un testimone? La testimonianza e le trappole della memoria,
Bologna 2003, p. 31 ss., 57 ss.

21 Cfr. Bruner, Making Stories. Law, Literature, Life, Cambridge, Mass.-London 2002; Di Donato, La
costruzione… cit., p. 23 ss., 52 ss.

22 Sul concetto e le caratteristiche della narrazione "buona" cfr. Taruffo, Simplemente… cit., p. 83 ss.
Cfr. anche Twining, Rethinking Evidence. Exploratory Essays, 2nd ed., Cambridge 2006, p. 308, 336.

23 In questo senso v. chiaramente Di Donato, La costruzione, cit., p. 24 ss., ove si nega la possibile
esistenza della realtà esterna alla narrazione, e si finisce col dire che è la narrazione a "costruire" la
realtà.

24 Nel noto esempio addotto da Frege per cui gli enunciati "Venere è la stella del mattino" e "Venere
è la stella della sera" hanno Sinne diversi ma la stessa Bedeutung, non si mette in dubbio che il
pianeta Venere esista davvero "al di là" dei due enunciati.

25 Cfr. per esempio MacCormick, Coherence in Legal Justification, in Theorie der Normen. Festgabe
für Ota Weinberger zum 65. Geburstag, W.Krawietz ed., Berlin 1984, p. 48; Jackson, Law, Fact and
Narrative Coherence, Merseyside 1988, p. 18.

26 Cfr. in particolare Peczenik, On Law and Reason, Dordrecht 1989, p. 161 ss.

27 Vale a questo proposito l’osservazione di Searle secondo il quale l’external realism non è una
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Verità e processo

concezione della verità che si possa accogliere o rifiutare, ma è un presupposto necessario per la
stessa possibilità di avere opinioni o teorie sulla realtà. Cfr. Searle, Mind, Language and Society.
Philosophy in the Real World, New York 1999, p. 32.

28 Ciò non implica l’adozione di alcun atteggiamento di realismo "ingenuo" rispetto ai rapporti tra
linguaggio e mondo. Il problema non può essere qui discusso adeguatamente, ma si può ricordare
che nella epistemologia contemporanea non mancano autorevoli teorie che ammettono l’esistenza
della realtà esterna al soggetto e la sua conoscibilità attraverso metodi razionali. Cfr. ad es. Goldman,
Knowledge… cit., p. 41 ss., 244 ss.; Haack, Evidence and Inquiry. A Pragmatist Reconstruction of
Epistemology, 2nd ed., Amherst, NY, 2009, p. 47 ss., 117 ss., 263 ss.

29 Le concezioni narrativistiche ammettono che il narratore -nel nostro caso: il giudice- inventi i fatti
non veri che gli serbono per costruire la sua narrazione: cfr. Twining, Rethinking Evidence… cit., p.
308, 336. E’ chiaro, però, che nel processo non è tollerabile alcuna situazione in cui il giudice inventa
e considera veri fatti di cui non esiste alcuna prova. Ammettere questa situazione significherebbe
distruggere alla base i principi generali su cui si fonda l’amministrazione della giustizia.

30 A questo proposito v. più ampiamente Taruffo, Simplemente… cit., p. 82 ss.

31 Il problema della natura e funzione della prova giudiziaria non può essere qui discusso in modo
adeguato. In proposito cfr. Taruffo, La prueba… cit., p. 349 ss.

32 Al riguardo v. l’ampia analisi svolta in Taruffo, Simplemente… cit., p. 155 ss.

33 Si tratta, per richiamare una figura popperiana, dell’"assolutista -o perfezionista- deluso", ossia di
colui che ipotizza che nel processo si possano scoprire verità assolute, ma poi constata che ciò non è
possibile e quindi finisce col dire che nel processo non si può scoprire nessuna verità. In proposito, e
per ulteriori riferimenti, cfr. Taruffo, La prueba… cit., p. 30, 177.

34 Sulla natura e la funzione della verità aletica cfr., anche per ulteriori riferimenti, Taruffo,
Simplemente… cit., p. 94.

35 Sul principio inclusivo di rilevanza, in base al quale tutte le prove rilevanti dovrebbero essere
ammesse, v. più ampiamente Taruffo, La prueba… cit., p. 364 ss.; Id., Simplemente… cit., p. 140 ss.

36 Cfr. in particolare Haack, Evidence and Inquiry… cit., p. 64 ss., 132 ss.

37 Per critiche decisive alla concezione relativista della verità cfr. in particolare Marconi, Per la verità.
Relativismo e filosofia, Torino 2007; Lynch, La verità… cit., p. 35 ss.

38 Per un sintetico esame di questo orientamento cfr. Taruffo, Simplemente… cit., p. 106 ss.

39 Su questo orientamento, e per riferimenti bibliografici, v. più ampiamente Ferrer Beltrán, La


valoración racional de la prueba, Madrid-Barcelona-Buenos Aires 2007, p. 98 ss.; Taruffo, La
prueba… cit., p. 190 ss.

40 In proposito v. più ampiamente Taruffo, La prueba… cit., p. 215 ss.

41 Su questo concetto di probabilità v. più ampiamente Ferrer Beltrán, La valoración, cit., p. 120 ss.;
Taruffo, La prueba… cit., p. 223 ss.

42 Su questo orientamento cfr. Ferrer Beltrán, Prueba y verdad en el derecho, Madrid/Barcelona


2002, p. 63 ss., 68 ss.; Taruffo, La prueba… cit., p. 45 ss.; Id., Simplemente… cit., p. 100.

43 V. i luoghi citati nella nota precedente.

44 In proposito v. più ampiamente Taruffo, Simplemente… cit., p.147; Goldman, Knowledge… cit., p.
12 ss.

45 Cfr. Taruffo, Simplemente… cit., p. 102.


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Verità e processo

46 Cfr. in particolare Andrés Ibáñez, Prueba y convicción judicial en el proceso penal, Buenos Aires
2009, p. 38 ss.; Taruffo, Simplemente… cit., p. 104.

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