Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Setencia Itlalianas PDF
Setencia Itlalianas PDF
Danno da contatto sociale – responsabilità medica – soggettività del concepito – omessa diagnosi
Il
contatto
sociale
qualificato
si
pone
nel
nostro
ordinamento
come
momento
fattuale,
prima
ancora
che
giuridico,
in
grado
di
instaurare
una
relazione
contrattuale
fra
soggetti
a
prescindere
dalla
sussistenza
di
un
contratto
in
senso
stretto.
Con
il
termine
“contatto
sociale”
ci
si
vuole
riferire,
più
in
generale,
alle
ipotesi
di
rapporto
contrattuale
di
fatto,
ossia
a
quelle
ipotesi
in
cui
un
rapporto
nasce
sul
piano
sociale
e
nella
sua
fase
fisiologica
e
funzionale
rimane
sul
piano
del
fatto
e
in
questo
dovrebbe
esaurirsi,
ma
che,
a
fronte
di
una
patologia
nel
rapporto,
viene
portato
a
conoscenza
dell’interprete
che,
dovendolo
tradurre
sul
piano
del
diritto,
lo
qualifica
come
rapporto
di
natura
contrattuale.
In
questi
casi,
appunto,
si
parla
di
rapporti
contrattuali
di
fatto,
ossia
di
rapporti
contrattuali
senza
che,
però,
vi
sia
un
contratto
in
senso
proprio,
come
ad
esempio
nel
rapporto
che
si
instaura
tra
paziente
e
medico
che
opera
presso
una
struttura
ospedaliera
(pubblica
o
privata),
con
la
quale
ultima
soltanto
il
paziente
ha
stipulato
un
contratto
di
spedalità.
Al
riguardo,
la
giurisprudenza
è
orientata
a
favore
dell’applicabilità
ai
danni
sofferti
da
una
delle
parti
del
modello
della
responsabilità
contrattuale,
ritenendo
che
tra
le
stesse
sorga
comunque
un
rapporto
obbligatorio
da
“contatto
sociale”.
La
S.C.
ha,
infatti,
precisato
che
il
“contatto”
che
si
crea
nel
momento
in
cui
un
soggetto
(il
medico)
esegue
una
prestazione
(la
prestazione
sanitaria)
cui,
a
rigore,
non
è
contrattualmente
tenuto
nei
confronti
del
beneficiario
(il
paziente)
fa
sorgere,
in
capo
al
primo
ed
a
favore
del
secondo,
veri
e
propri
obblighi
giuridici
di
comportamento
(obblighi
di
protezione),
di
contenuto
del
tutto
analogo
rispetto
a
quelli
che
sarebbero
sorti
se
fra
le
parti
fosse
intercorso
un
contratto:
il
“contatto
sociale”
fa
sorgere
vere
e
proprie
obbligazioni
contrattuali
in
assenza
di
contratto
(Cass.
26
aprile
2010,
n.
9906;
Cass.
30
settembre
2009,
n.
20954).
La
teoria
della
responsabilità
da
contatto
nasce
in
ambito
civilistico
come
risposta
all’esigenza
di
inquadramento
sistematico
relativa
a
fattispecie
di
danno
difficilmente
collocabili,
data
la
loro
natura
“ibrida”
a
metà
strada
“tra
contratto
e
torto”
(Castronovo)
Matrice
ideale
del
contatto
sociale
qualificato
è
la
teoria
civilistica
della
responsabilità
per
inadempimento
senza
obblighi
di
prestazione,
che
abbraccia
casi
per
la
classificazione
dei
quali
non
appare
del
tutto
adeguata
né
la
figura
dell’illecito
extracontrattuale,
né
quella
dell’illecito
contrattuale:
la
prima
fa
infatti
riferimento
a
una
generica
“responsabilità
del
passante”
che
non
è
adattabile
alle
ipotesi
considerate,
mentre
la
seconda
presuppone
la
sussistenza
di
un’obbligazione
contrattuale,
che
invece
non
è
dato
rinvenire.
Né
la
violazione
del
principio
del
neminem
laedere,
né
l’inadempimento
della
prestazione
contrattuale
–
poiché,
appunto,
non
esistente
–
originano
quindi
l’obbligazione
risarcitoria.
In
questo
senso,
la
fonte
è
individuabile
nella
lesione
di
autonomi
obblighi
di
protezione,
rilevanti
anche
a
livello
normativo
in
quanto
tipizzati
dal
nostro
Legislatore
in
una
serie
di
norme
codicistiche
(ad
esempio
l’art.
2087
C.C.
che
prevede
un
obbligo
in
capo
all’imprenditore
di
adottare
tutte
le
misure
necessarie
a
tutelare
“l’integrità
fisica
e
la
personalità
morale”dei
lavoratori,
nel
compimento
della
prestazione
lavorativa).
L’espressione
“contatto
sociale
qualificato”
fa
riferimento
a
un
rapporto
socialmente
tipico
–
poiché
qualificato
dall’ordinamento
giuridico
–
in
cui,
a
prescindere
da
un
precedente
vincolo
pattizio
in
senso
stretto,
il
danneggiante
è
legato
al
danneggiato
da
una
relazione
di
fatto.
Ne
discendono
per
il
primo
un
dovere
di
protezione
di
specifici
beni
giuridici
e,
per
il
secondo,
di
conseguenza,
un
obiettivo
affidamento
nella
professionalità
dell’altro
soggetto,
proprio
in
ragione
del
fatto
che
si
tratti
di
un
rapporto
qualificato.
I
casi
per
i
quali
la
Giurisprudenza
ha
coniato
la
figura
della
responsabilità
de
qua
mostrano
chiaramente
il
tipo
di
rapporto
“fattuale”
cui
ci
si
riferisce:
si
pensi
al
“contatto”
tra
medico
e
paziente,
o
alla
responsabilità
individuata
in
capo
all’insegnante
per
lesioni
autoinflitte
dall’alunno,
che
delineano
appunto
una
relazione
sicuramente
non
contrattuale,
ma
neppure
fra
“soggetti
qualunque”,
sciolti
da
qualsiasi
legame.
Quanto
ai
riferimenti
normativi
in
materia,
ormai
pacificamente
Dottrina
e
Giurisprudenza
sono
concordi
nell’affermare
che
l’art.
1173
C.C.,
pur
non
indicando
una
nozione
dai
confini
tanto
sfumati
come
quella
di
contatto
sociale,
non
esaurisca
nella
propria
elencazione
le
possibili
fonti
di
obbligazione.
Con
l’espressione
“da
ogni
altro
atto
o
fatto
idoneo
a
produrle
in
conformità
con
l’ordinamento
giuridico”
viene
infatti
delineato
un
sistema
aperto,
che
si
caratterizza
per
l’atipicità
delle
fonti,
tra
le
quali
ben
potrebbe
annoverarsi
il
contatto
sociale.
In
definitiva,
come
dimostra
la
Giurisprudenza
civilistica
che
ha
originato
questo
peculiare
tipo
di
responsabilità,
un
rapporto
contrattuale
può
costituirsi
fra
due
soggetti
anche
in
assenza
di
loro
valide
manifestazioni
di
volontà.
Dal
contatto
sociale
qualificato
derivano
quindi
obblighi
di
tutela
di
determinati
interessi,
sorti
in
itinere
o
esposti
a
pericolo
in
ragione
dello
stesso
contatto,
tali
da
giustificare
l’affidamento
della
controparte.
a)
Equiparazione
della
struttura
sanitaria
privata
a
quella
pubblica
quanto
al
regime
della
responsabilità
civile
Riguardo
la
responsabilità
civile
della
struttura
sanitaria
nei
confronti
del
paziente,
è
irrilevante
si
tratti
di
una
casa
di
cura
privata
o
di
un
ospedale
pubblico
in
quanto,
a
livello
normativo,
sono
sostanzialmente
equivalenti
gli
obblighi
dei
due
tipi
di
struttura
verso
il
fruitore
dei
servizi,
ciò
anche
in
virtù
del
fatto
che
si
tratta
di
violazioni
che
incidono
sul
bene
della
salute,
tutelato
quale
diritto
fondamentale
dalla
Costituzione,
senza
possibilità
di
limitazioni
di
responsabilità
o
differenze
risarcitorie
a
seconda
della
diversa
natura,
pubblica
o
privata,
della
struttura
sanitaria.
b)
Inquadramento
della
responsabilità
della
struttura
sanitaria
nella
responsabilità
contrattuale
L'accettazione
del
paziente
in
ospedale,
ai
fini
del
ricovero
o
di
una
visita
ambulatoriale,
comporta
la
conclusione
di
un
contratto
atipico
a
prestazioni
corrispettive
tra
questi
e
la
casa
di
cura
od
ente
ospedaliero
con
effetti
protettivi
nei
confronti
del
terzo,
da
cui,
a
fronte
dell'obbligazione
al
pagamento
del
corrispettivo,
insorgono
a
carico
della
casa
di
cura,
accanto
a
quelli
di
tipo
lato
sensu
alberghieri,
obblighi
di
messa
a
disposizione
del
personale
medico
ausiliario,
del
personale
paramedico
e
dell'apprestamento
di
ogni
attrezzatura
necessaria,
anche
in
vista
di
eventuali
complicazioni
od
emergenze.
c)
Responsabilità
contrattuale
della
casa
di
cura
nei
confronti
del
paziente
Ai
sensi
dell'art.
1218
c.c.
la
responsabilità
della
casa
di
cura
nei
confronti
del
paziente
ha
natura
contrattuale
e
può
conseguire
sia
all'inadempimento
delle
obbligazioni
direttamente
a
carico
dell'ente
che,
ex
art.
1228
c.c.,
all'inadempimento
della
prestazione
medico
professionale
svolta
direttamente
dal
sanitario
quale
suo
ausiliario
necessario,
pur
in
assenza
di
un
rapporto
di
lavoro
subordinato,
comunque
sussistendo
un
collegamento
tra
la
prestazione
da
costui
effettuata
e
la
sua
organizzazione
aziendale.
d)
Il
risarcimento
del
danno
non
patrimoniale
da
lesione
al
diritto
alla
salute
Nella
decisione
de
qua
il
giudice
mette
in
luce
che
è
compito
del
giudicante
accertare
l'effettiva
consistenza
del
pregiudizio
a
prescindere
dal
nome
attribuitogli
–
danno
morale,
danno
biologico,
danno
da
perdita
del
rapporto
parentale
–,
individuando
quali
ripercussioni
negative
sul
valore
persona
si
siano
verificate
e
provvedendo
alla
loro
integrale
riparazione.
Egli
deve
procedere
ad
una
adeguata
personalizzazione
della
liquidazione
del
danno
biologico
valutando,
nella
loro
effettiva
consistenza,
le
sofferenze
fisiche
e
psichiche
patite
dal
soggetto
leso
onde
pervenire
al
ristoro
del
danno
nella
sua
interezza.
Con
riferimento
al
concepito,
la
giurisprudenza
riconosce
ormai
pacificamente
il
diritto
al
risarcimento
del
danno
alla
salute
e
all’integrità
fisica
eventualmente
cagionatogli
(ad
esempio
dalla
condotta
imperita
del
medico)
prima
o
durante
il
parto
(Cass.
11
maggio
2009,
n.
10741
e,
prima
ancora,
Cass.
9
maggio
2000,
n.
5881);
così
come
anche
il
diritto
al
risarcimento
del
danno
sofferto
a
seguito
dell’uccisione
del
padre
ad
opera
di
un
terzo
(per
incidente
stradale)
quando
ancora
la
gestazione
era
in
corso
(Cass.
3
maggio
2011,
n.
9700;
in
senso
contrario
parrebbe
Cass.
21
gennaio
2011,
n.
1410),
fermo
restando
il
principio
dettato
al
II
comma
dell’art.
1
c.c.,
ossia
fermo
restando
che
i
diritti
che
la
legge
riconosce
a
favore
del
concepito
sono
subordinati
all’evento
della
nascita:
potranno
essere
fatti
valere
solo
se
e
quando
avvenga
la
nascita,
altrimenti
dovranno
considerarsi
come
mai
entrati
nella
sua
sfera
giuridica.
Alla
luce
di
ciò,
si
discute
se
debba
ritenersi
che
il
concepito
abbia
una
propria
capacità
giuridica,
sia
pure
parziale
e
condizionata
(capacità
giuridica
prenatale)
o,
comunque,
una
sua
autonoma
soggettività
giuridica:
Cass.
11
maggio
2009,
n.
10741:
Il
concepito,
pur
non
avendo
una
piena
capacità
giuridica,
è
comunque
un
soggetto
di
diritto,
perché
titolare
di
molteplici
interessi
personali
riconosciuti
dall’ordinamento
sia
nazionale
che
sovranazionale,
quali
il
diritto
alla
vita,
alla
salute,
all’onore,
all’identità
personale,
a
nascere
sano,
diritti,
questi,
rispetto
ai
quali
l’avverarsi
della
“condicio
iuris”
della
nascita
è
condizione
imprescindibile
per
la
loro
azionabilità
in
giudizio
ai
fini
risarcitori.
Ne
consegue
che
la
persona
nata
con
malformazioni
congenite,
dovute
alla
colposa
somministrazione
di
farmaci
dannosi
(nella
specie
teratogeni),
alla
propria
madre,
durante
la
gestazione,
è
legittimata
a
domandare
il
risarcimento
del
danno
alla
salute
nei
confronti
del
medico
che
quei
farmaci
prescrisse
o
non
sconsigliò;
in
senso
“elusivo”,
Cass.
3
maggio
2011,
n.
9700:
la
corte,
superando
agilmente
qualsiasi
impasse
in
merito
alla
configurabilità
o
meno
della
soggettività
giuridica
in
capo
al
concepito
(quaestio
iuris
sollevata
dai
ricorrenti),
precisa,
appunto,
come
non
si
ponga
invero
alcun
problema
relativo
alla
soggettività
giuridica
di
quest’ultimo,
non
essendo
necessario
configurarla
per
affermare
il
diritto
del
nato
al
risarcimento
e
non
potendo,
d'altro
canto,
quella
soggettività
evincersi
dal
fatto
che
il
feto
è
fatto
oggetto
di
protezione
da
parte
dell'ordinamento.
Il
diritto
di
credito
è,
infatti,
vantato
dal
figlio
in
quanto
nata
orfano
del
padre,
come
tale
destinato
a
vivere
senza
la
figura
paterna).
In
tema
di
responsabilità
professionale
del
medico,
spetta
a
quest’ultimo
provare
che
non
vi
sia
stato
un
inadempimento
a
lui
imputabile
o
che
esso,
pur
esistente,
non
sia
stato
eziologicamente
rilevante
(nella
specie,
la
S.C.,
dopo
aver
ribadito
che
la
responsabilità
medica
è
responsabilità
contrattuale,
ha
espressamente
richiamato
il
principio
espresso
dalle
Sez.
Un,
con
sentenza
30
ottobre
2001,
n.
13533,
secondo
cui
il
creditore,
sia
che
agisca
per
l’adempimento,
per
la
risoluzione
o
per
il
risarcimento
del
danno,
deve
dare
la
prova
della
fonte
negoziale
o
legale
del
suo
diritto
e,
se
previsto,
del
termine
di
scadenza,
mentre
può
limitarsi
ad
allegare
l’inadempimento
della
controparte:
sarà
il
debitore
convenuto
a
dover
fornire
la
prova
del
fatto
estintivo
del
diritto,
costituito
dall’avvenuto
adempimento,
ex
art.
1218
c.c.
Responsabilità
contrattuale
della
struttura
sanitaria
–
Cass.
civ.,
sez.
III,
11
novembre
2011,
n.
23562
(in
senso
conforme,
Cass.,
Sez.
Un.,
11
gennaio
2008,
n.
577)
In
caso
di
gravi
malformazioni
fetali,
posto
che,
a)
si
assume
come
normale
e
corrispondente
a
regolarità
causale
che
la
gestante,
se
informata
correttamente
e
tempestivamente
sulla
gravità
delle
patologie
cui
va
incontro
il
nascituro,
interrompa
la
gravidanza;
b)
il
difetto
di
informazione
da
parte
del
medico
per
omessa
diagnosi
prenatale
impedisce
l’esercizio
del
diritto
all’aborto,
il
medico
che
abbia
omesso
di
diagnosticare
rilevanti
patologie
del
feto
è
responsabile
dei
danni,
patrimoniali
e
non,
che
siano
conseguenza
immediata
e
diretta
del
suo
inadempimento.
In
tema
di
responsabilità
del
medico
da
nascita
indesiderata,
allorquando
occorre
stabilire
se
la
donna
avrebbe
potuto
esercitare
il
suo
diritto
di
interrompere
la
gravidanza
ove
fosse
stata
convenientemente
informata
sulle
condizioni
del
nascituro,
non
si
deve
accertare
se
in
lei
si
sia
instaurato
un
processo
patologico
capace
di
evolvere
in
grave
pericolo
per
la
sua
salute
psichica,
ma
se
la
dovuta
informazione
sulle
condizioni
del
feto
avrebbe
potuto
determinare
durante
la
gravidanza
l'insorgere
di
un
tale
processo
patologico.
(Nella
specie
la
Suprema
Corte
ha
peraltro
confermato
la
sentenza
di
merito
che,
nel
riferirsi
alla
reazione
instauratasi
nella
madre
al
momento
della
nascita
del
figlio,
ha
espresso
il
giudizio
che
analoga
reazione
si
sarebbe
determinata
durante
la
gravidanza,
ove
la
gestante
avesse
potuto
rappresentarsi
le
conseguenze
che
sulla
vita
sua
e
del
nascituro
sarebbero
potute
derivare
dalle
malformazioni
che
il
feto
presentava.)
Salvo
il
caso
di
grave
pericolo
di
vita
per
la
donna,
dopo
il
novantesimo
giorno
di
gravidanza,
la
gestante
può
esercitare
il
diritto
all'aborto,
ai
sensi
del
combinato
disposto
degli
artt.
6
e
7
comma
terzo
legge
22
maggio
1978
n.194,
solo
in
presenza
di
due
condizioni
positive
concernenti
la
propria
salute
e
di
una
negativa,
costituita
dall'insussistenza
di
possibilità
di
vita
autonoma
per
il
feto.
Per
possibilità
di
vita
autonoma
del
feto
si
intende
quel
grado
di
maturità
del
feto
che
gli
consentirebbe,
una
volta
estratto
dal
grembo
della
madre,
di
mantenersi
in
vita
e
di
completare
il
suo
processo
di
formazione
anche
fuori
dall'ambiente
materno.
Pertanto
in
una
causa
in
cui
si
discute
se
la
donna
sia
stata
impedita
ad
interrompere
la
gravidanza
da
un
inadempimento
del
medico
ad
una
sua
obbligazione
professionale,
l'eventuale
interrogativo
concernente
la
possibilità
di
vita
autonoma
del
feto
va
risolto
avendo
riguardo
al
grado
di
maturità
raggiunto
dal
feto
nel
momento
in
cui
il
medico
ha
mancato
di
tenere
il
comportamento
che
da
lui
ci
si
doveva
attendere.
In
tema
di
responsabilità
del
medico
per
omessa
diagnosi
di
malformazioni
del
feto
e
conseguente
nascita
indesiderata,
il
risarcimento
dei
danni
che
costituiscono
conseguenza
immediata
e
diretta
dell'inadempimento
del
ginecologo
all'obbligazione
di
natura
contrattuale
gravante
su
di
lui
spetta
non
solo
alla
madre,
ma
anche
al
padre,
atteso
il
complesso
di
diritti
e
doveri
che,
secondo
l'ordinamento,
si
incentrano
sul
fatto
della
procreazione,
non
rilevando,
in
contrario,
che
sia
consentito
solo
alla
madre
(e
non
al
padre)
la
scelta
in
ordine
all'interruzione
della
gravidanza,
atteso
che,
sottratta
alla
madre
la
possibilità
di
scegliere
a
causa
dell'inesatta
prestazione
del
medico,
agli
effetti
negativi
del
comportamento
di
quest'ultimo
non
può
ritenersi
estraneo
il
padre,
che
deve
perciò
ritenersi
tra
i
soggetti
"protetti"
dal
contratto
col
medico
e
quindi
tra
coloro
rispetto
ai
quali
la
prestazione
mancata
o
inesatta
può
qualificarsi
come
inadempimento,
con
tutte
le
relative
conseguenze
sul
piano
risarcitorio.
In
tema
di
responsabilità
del
medico
per
omessa
diagnosi
di
malformazioni
del
feto
e
conseguente
nascita
indesiderata,
l'inadempimento
del
medico
rileva
in
quanto
impedisce
alla
donna
di
compiere
la
scelta
di
interrompere
la
gravidanza.
Infatti
la
legge,
in
presenza
di
determinati
presupposti,
consente
alla
donna
di
evitare
il
pregiudizio
che
da
quella
condizione
del
figlio
deriverebbe
al
proprio
stato
di
salute
e
rende
corrispondente
a
regolarità
causale
che
la
gestante
interrompa
la
gravidanza
se
informata
di
gravi
malformazioni
del
feto.
(Nella
specie
la
Suprema
Corte
ha
confermato
la
sentenza
di
merito
che
aveva
affermato
la
responsabilità
del
medico
senza
specifica
discussione
sul
nesso
di
causalità,
non
essendo
emersi
in
causa
argomenti
-‐
quali
fattori
ambientali,
culturali,
di
storia
personale
-‐
idonei
a
dimostrare
in
modo
certo
che,
pur
informata,
la
donna
avrebbe
accettato
la
continuazione
della
gravidanza,
ed
essendo
anzi
desumibile
dalla
richiesta
al
medico
di
esami
volti
a
conoscere
l'esistenza
di
anomalie
o
malformazioni
del
feto
un
comportamento
orientato,
in
caso
positivo,
a
rifiutare
la
prosecuzione
della
gravidanza).
Nella
causa
tra
la
donna
che
chiede
il
risarcimento
dei
danni
derivatile
dal
non
aver
potuto
esercitare
il
suo
diritto
ad
interrompere
la
gravidanza,
ed
il
medico
che
sostiene
l'insussistenza
del
nesso
causale
perché
la
donna
non
avrebbe
comunque
potuto
esercitarlo,
alla
donna
spetta
provare
i
fatti
costitutivi
del
diritto,
al
medico
i
fatti
idonei
ad
escluderlo.
Pertanto
non
spetta
alla
donna
provare
che
quando
è
maturato
l'inadempimento
del
medico
il
feto
non
era
ancora
pervenuto
alla
condizione
della
possibilità
di
vita
autonoma,
ma
spetta
al
medico
provare
il
contrario.
In senso contrario:
A
norma
dell'art.
6
lett.
b)
della
legge
n.
194
del
1978,
per
la
possibilità
giuridica
di
ricorrere
all'interruzione
di
gravidanza
dopo
il
novantesimo
giorno
non
è
sufficiente
la
presenza
di
anomalie
o
malformazioni
del
nascituro,
ma
è
necessario
che
tale
presenza
determini
processi
patologici
in
atto
consistenti
in
un
"grave"
pericolo
per
la
salute
fisica
o
psichica
della
madre.
Consegue
che
la
parte
che
richiede
il
risarcimento
del
danno
per
la
lesione
del
diritto
all'interruzione
della
gravidanza
in
conseguenza
della
violazione
da
parte
dei
sanitari
del
diritto
all'informazione
deve
provare
che,
quantomeno
in
termini
di
probabilità
scientifica,
la
patologia
richiesta
dall'art.
6
della
legge
necessaria
per
ricorrere
all'interruzione
di
gravidanza
si
sarebbe
manifestata
in
conseguenza
della
conoscenza
della
situazione
appresa
dall'informazione
da
parte
dei
medici.
Il
risarcimento
del
danno
per
il
mancato
esercizio
del
diritto
all'interruzione
della
gravidanza
non
consegue
automaticamente
all'inadempimento
dell'obbligo
di
esatta
informazione
che
il
sanitario
era
tenuto
ad
adempiere
in
ordine
alle
possibili
anomalie
o
malformazioni
del
nascituro,
ma
necessita
anche
della
prova
della
sussistenza
delle
condizioni
previste
dagli
artt.
6
e
7
della
legge
n.
194
del
1978
per
ricorrere
all'interruzione
di
gravidanza
(La
Corte
ha
affermato
il
principio
in
un
caso
in
cui
era
stato
richiesto
un
risarcimento
del
danno
conseguente
alla
nascita
del
figlio
affetto
da
sindrome
di
Down,
sulla
base
dell'avvenuta
violazione
del
diritto
all'informazione
da
parte
dei
sanitari
circa
i
rischi
di
possibili
anomalie
o
malformazioni
del
nascituro
e
del
diritto
all'interruzione
della
gravidanza).
Cass.
18805/2009:
ove
l'istituto
ospedaliero
autorizzi
un
chirurgo
o
un
medico
ad
operare
al
suo
interno,
mettendogli
a
disposizione
le
sue
attrezzature
e
la
sua
organizzazione,
e
con
esso
cooperi,
concludendo
con
il
paziente
un
contratto
di
degenza
e
le
prestazioni
accessorie,
esso
viene
ad
assumere
contrattualmente
rispetto
al
paziente
la
posizione
e
le
responsabilità
tipiche
dell'impresa
erogatrice
del
complesso
di
prestazioni
sanitarie.
A
nulla
rileva
che
il
paziente
sia
pervenuto
all'ospedale
attraverso
il
medico
e
per
sua
indicazione
e,
invero,
il
medico
non
avrebbe
potuto
operare
se
non
nell'ambito
dell'organizzazione
ospedaliera.
Accettandone
l'attività,
la
casa
di
cura
ha
assunto
le
conseguenze
della
responsabilità.
Cass.
2847/2010:
l'intervento
del
medico,
anche
in
funzione
diagnostica,
dà
comunque
luogo
all'instaurazione
di
un
rapporto
di
tipo
contrattuale.
Ne
consegue
che,
effettuata
la
diagnosi
in
esecuzione
del
contratto,
l'illustrazione
al
paziente
delle
conseguenze
della
terapia
costituisce
un'obbligazione
il
cui
adempimento
deve
essere
provato
dalla
parte
che
l'altra
affermi
inadempiente
e,
dunque,
dal
medico
a
fronte
dell'allegazione
dell'inadempimento
da
parte
del
paziente.
L'omessa
informazione
viola
il
diritto
all'autodeterminazione
del
paziente.
Tale
diritto
rappresenta
una
forma
di
rispetto
per
la
libertà
dell'individuo
e
un
mezzo
per
il
perseguimento
dei
suoi
migliori
interessi,
che
si
sostanzia
non
solo
nella
facoltà
di
scegliere
tra
le
diverse
possibilità
di
trattamento
medico,
ma
altresì
di
eventualmente
rifiutare
la
terapia
e
decidere
consapevolmente
di
interromperla.
Secondo
la
definizione
della
Corte
Costituzionale
(sent.
438/2008),
il
consenso
informato
si
configura
quale
vero
e
proprio
diritto
della
persona
e
trova
fondamento
nei
principi
espressi
negli
artt.
2,
13
e
32
Cost.
Ne
deriva
che
la
mancanza
di
consenso
può
assumere
rilievo
ai
fini
risarcitori
quante
volte
siano
configurabili
conseguenze
pregiudizievoli
che
siano
derivate
dalla
violazione
del
diritto
fondamentale
di
autodeterminazione
in
se
stesso
considerato.
La
diligenza
qualificata
del
medico
deve
valutarsi
secondo
il
combinato
disposto
dell'art.
1176,
comma
secondo,
c.c
e
2236
c.c.,
atteso
che
il
medico
è
un
prestatore
d'opera
intellettuale.
L'esistenza
di
“vasta
letteratura”
che
illustrava
le
conseguenze
della
terapia
ci
porta
ad
escludere
che
la
prestazione
del
medico
coinvolgesse
problematiche
tecniche
di
particolare
complessità.
Cass.
13/2010:
l'omessa
rilevazione,
da
parte
del
medico
specialista,
della
presenza
di
gravi
malformazioni
nel
feto,
e
la
correlativa
mancata
comunicazione
di
tale
dato
alla
gestante,
deve
ritenersi
circostanza
idonea
a
porsi
in
rapporto
di
causalità
con
il
mancato
esercizio,
da
parte
della
donna,
della
facoltà
di
interrompere
la
gravidanza,
in
quanto
deve
ritenersi
rispondente
ad
un
criterio
di
regolarità
causale
che
la
donna,
ove
adeguatamente
e
tempestivamente
indormata
della
presenza
di
una
malformazione
atta
ad
incidere
sulla
estrinsecazione
della
personalità
del
nascituro,
preferisca
non
portare
a
termine
la
gravidanza.
Cass.
2354/2010:
per
stabilire
se
i
danni
risarcibili
sono
conseguenza
dell'inadempimento
all'obbligo
della
completa
informazione
da
parte
del
medico,
è
necessario
che
il
giudice
del
merito
accerti
ex
ante
se
la
conoscibilità
delle
rilevanti
anomalie
e
malformazioni
del
feto
avrebbe
determinato
un
grave
pericolo
della
lesione
del
diritto
alla
salute
della
madre,
avuto
riguardo
alle
condizioni
concrete
fisiopsichiche
patologiche
della
stessa,
così
da
determinare
i
presupposti
per
attuare
la
tutela
di
tale
interesse
consentendo
alla
madre
di
interrompere
la
gravidanza.
Solo
nella
concomitanza
di
tali
condizioni
possono
essere
risarciti
i
danni
ingiusti
che
sono
derivati,
in
termini
di
causalità
adeguata,
dalla
lesione
degli
interessi
tutelati
dalla
legge
sull'interruzione
volontaria
della
gravidanza.
Cass.
2354/2010:
Al
padre,
terzo
del
contratto
intercorso
tra
la
madre
del
figlio
gravemente
malformato
ed
il
medico,
ma
obbligato
alla
pari
di
essa
nei
confronti
del
figlio,
sono
direttamente
risarcibili
i
danni
provocati
dall'inadempimento
del
medico
all'obbligo
di
informare
la
madre
sullo
stato
di
salute
del
feto
e
di
individuare
e
suggerire
tutti
gli
strumenti
diagnostici
idonei
a
tal
fine.
Gli
effetti
del
contratto
debbono
essere
individuati
avendo
riguardo
anche
alla
sua
funzione
sociale,
e
tenendo
conto
che
la
Costituzione
antepone,
anche
in
materia
contrattuale,
gli
interessi
della
persona
a
quelli
patrimoniali.
Ne
consegue
che
il
contratto
stipulato
tra
una
gestante,
una
struttura
sanitaria
ed
un
medico,
avente
ad
oggetto
la
prestazione
di
cure
finalizzate
a
garantire
il
corretto
decorso
della
gravidanza,
riverbera
per
sua
natura
effetti
protettivi
a
vantaggio
anche
del
concepito
e
del
di
lui
padre,
i
quali
in
caso
di
inadempimento,
sono
perciò
legittimati
ad
agire
per
il
risarcimento
del
danno.
Il
concepito,
pur
non
avendo
una
piena
capacità
giuridica,
è
comunque
un
soggetto
di
diritto,
perché
titolare
di
molteplici
interessi
personali
riconosciuti
dall'ordinamento
sia
nazionale
che
sovranazionale,
quali
il
diritto
alla
vita,
alla
salute,
all'onore,
all'identità
personale,
a
nascere
sano,
diritti,
questi,
rispetto
ai
quali
l'avverarsi
della
"condicio
iuris"
della
nascita
è
condizione
imprescindibile
per
la
loro
azionabilità
in
giudizio
ai
fini
risarcitori.
Ne
consegue
che
la
persona
nata
con
malformazioni
congenite,
dovute
alla
colposa
somministrazione
di
farmaci
dannosi
(nella
specie
teratogeni),
alla
propria
madre,
durante
la
gestazione,
è
legittimata
a
domandare
il
risarcimento
del
danno
alla
salute
nei
confronti
del
medico
che
quei
farmaci
prescrisse
o
non
sconsigliò.
La
gestante
alla
quale
vengano
prescritti
farmaci
potenzialmente
dannosi
per
il
concepito
vanta
un
diritto
soggettivo
perfetto
ad
essere
informata
dei
rischi
derivanti
dal
loro
uso;
la
violazione
da
parte
del
medico
curante
dell'obbligo
d'informazione
al
riguardo
costituisce
causa
non
di
nullità,
ma
di
inadempimento
del
contratto
di
prestazione
d'opera
intellettuale
e
comporta
il
risarcimento
del
danno.
La
valutazione
del
nesso
causale
in
sede
civile,
pur
ispirandosi
ai
criteri
di
cui
agli
artt.
40
e
41
cod.
pen.,
secondo
i
quali
un
evento
è
da
considerare
causato
da
un
altro
se
il
primo
non
si
sarebbe
verificato
in
assenza
del
secondo,
nonché
al
criterio
della
cosiddetta
causalità
adeguata,
sulla
base
del
quale,
all'interno
della
serie
causale,
occorre
dar
rilievo
solo
a
quegli
eventi
che
non
appaiano
-‐
ad
una
valutazione
"ex
ante"
-‐
del
tutto
inverosimili,
presenta
tuttavia
notevoli
differenze
in
relazione
al
regime
probatorio
applicabile,
stante
la
diversità
dei
valori
in
gioco
tra
responsabilità
penale
e
responsabilità
civile.
Nel
processo
civile
vige
la
regola
della
preponderanza
dell'evidenza
o
del
"più
probabile
che
non",
mentre
nel
processo
penale
vige
infatti
la
regola
della
prova
"oltre
il
ragionevole
dubbio".
Nel
caso
in
cui
ad
una
gestante
siano
stati
somministrati
senza
adeguata
informazione
farmaci
che
abbiano
provocato
malformazioni
al
concepito,
la
violazione
dell'obbligo
d'informazione
da
parte
dei
sanitari
dà
luogo
al
risarcimento
del
danno
in
favore
sia
della
gestante-‐madre
che
del
concepito,
una
volta
che
quest'ultimo
sia
venuto
ad
esistenza,
ma
solo
in
relazione
all'inosservanza
del
principio
del
c.d.
consenso
informato,
non
potendo
invece
ravvisarsi
a
carico
dei
sanitari
una
responsabilità
nei
confronti
del
concepito
perché
la
madre
non
è
stata
posta
in
condizione
di
esercitare
il
diritto
all'interruzione
volontaria
della
gravidanza,
non
essendo
configurabile
nel
nostro
ordinamento
un
diritto
"a
non
nascere
se
non
sano",
in
quanto
le
norme
che
disciplinano
l'interruzione
della
gravidanza
la
ammettono
nei
soli
casi
in
cui
la
prosecuzione
della
stessa
o
il
parto
comportino
un
grave
pericolo
per
la
salute
o
la
vita
della
donna,
legittimando
pertanto
la
sola
madre
ad
agire
per
il
risarcimento
dei
danni.
Il
danno
non
patrimoniale
da
lesione
della
salute
costituisce
una
categoria
ampia
ed
omnicomprensiva,
nella
cui
liquidazione
il
giudice
deve
tenere
conto
di
tutti
i
pregiudizi
concretamente
patiti
dalla
vittima,
ma
senza
duplicare
il
risarcimento
attraverso
l’attribuzione
di
nomi
diversi
a
pregiudizi
identici.
Ne
consegue
che
è
inammissibile,
perché
costituisce
una
duplicazione
risarcitoria,
la
congiunta
attribuzione
alla
vittima
di
lesioni
personali,
ove
derivanti
da
reato,
del
risarcimento
sia
per
il
danno
biologico,
sia
per
il
danno
morale,
inteso
quale
sofferenza
soggettiva,
il
quale
costituisce
necessariamente
una
componente
del
primo
(posto
che
qualsiasi
lesione
della
salute
implica
necessariamente
una
sofferenza
fisica
o
psichica),
come
pure
la
liquidazione
del
danno
biologico
separatamente
da
quello
c.d.
estetico,
da
quello
alla
vita
di
relazione
e
da
quello
cosiddetto
esistenziale.
La
perdita
di
una
persona
cara
implica
necessariamente
una
sofferenza
morale,
la
quale
non
costituisce
un
danno
autonomo,
ma
rappresenta
un
aspetto
–
del
quale
tenere
conto,
unitamente
a
tutte
le
altre
conseguenze,
nella
liquidazione
unitaria
ed
omnicomprensiva
–
del
danno
non
patrimoniale.
Ne
consegue
che
è
inammissibile,
costituendo
una
duplicazione
risarcitoria,
la
congiunta
attribuzione,
al
prossimo
congiunto
di
persona
deceduta
in
conseguenza
di
un
fatto
illecito
costituente
reato,
del
risarcimento
a
titolo
di
danno
da
perdita
del
rapporto
parentale,
del
danno
morale
(inteso
quale
sofferenza
soggettiva,
ma
che
in
realtà
non
costituisce
che
un
aspetto
del
più
generale
danno
non
patrimoniale).
Il
danno
non
patrimoniale
derivante
dalla
lesione
di
diritti
inviolabili
della
persona,
come
tali
costituzionalmente
garantiti,
è
risarcibile
–
sulla
base
di
una
interpretazione
costituzionalmente
orientata
dell’art.
2059
cod.
civ.
–
anche
quando
non
sussiste
un
fatto-‐reato,
né
ricorre
alcuna
delle
altre
ipotesi
in
cui
la
legge
consente
espressamente
il
ristoro
dei
pregiudizi
non
patrimoniali,
a
tre
condizioni:
(a)
che
l’interesse
leso
–
e
non
il
pregiudizio
sofferto
–
abbia
rilevanza
costituzionale
(altrimenti
si
perverrebbe
ad
una
abrogazione
per
via
interpretativa
dell’art.
2059
cod.
civ.,
giacché
qualsiasi
danno
non
patrimoniale,
per
il
fatto
stesso
di
essere
tale,
e
cioè
di
toccare
interessi
della
persona,
sarebbe
sempre
risarcibile);
(b)
che
la
lesione
dell’interesse
sia
grave,
nel
senso
che
l’offesa
superi
una
soglia
minima
di
tollerabilità
(in
quanto
il
dovere
di
solidarietà,
di
cui
all’art.
2
Cost.,
impone
a
ciascuno
di
tollerare
le
minime
intrusioni
nella
propria
sfera
personale
inevitabilmente
scaturenti
dalla
convivenza);
(c)
che
il
danno
non
sia
futile,
vale
a
dire
che
non
consista
in
meri
disagi
o
fastidi,
ovvero
nella
lesione
di
diritti
del
tutto
immaginari,
come
quello
alla
qualità
della
vita
od
alla
felicità.
Non
è
ammissibile
nel
nostro
ordinamento
l’autonoma
categoria
di
“danno
esistenziale”,
inteso
quale
pregiudizio
alle
attività
non
remunerative
della
persona,
atteso
che:
ove
in
essa
si
ricomprendano
i
pregiudizi
scaturenti
dalla
lesione
di
interessi
della
persona
di
rango
costituzionale,
ovvero
derivanti
da
fatti-‐reato,
essi
sono
già
risarcibili
ai
sensi
dell’art.
2059
cod.
civ.,
interpretato
in
modo
conforme
a
Costituzione,
con
la
conseguenza
che
la
liquidazione
di
una
ulteriore
posta
di
danno
comporterebbe
una
duplicazione
risarcitoria;
ove
nel
“danno
esistenziale”
si
intendesse
includere
pregiudizi
non
lesivi
di
diritti
inviolabili
della
persona,
tale
categoria
sarebbe
del
tutto
illegittima,
posto
che
simili
pregiudizi
sono
irrisarcibili,
in
virtù
del
divieto
di
cui
all’art.
2059
cod.
civ.
Responsabilità
medica
–
danni
alla
vita
prenatale
–
omessa
diagnosi
–
danno
da
contatto
sociale
Cass
Civ
Sez
III,
4
gennaio
2010,
n
13
La
sentenza
affronta
il
delicato
problema
relativo
alla
configurabilità
ed
alla
natura
della
responsabilità
della
clinica
in
relazione
alla
nascita
di
bambino
malformato
addebitabile
a
negligenze
di
natura
omissiva
nella
diagnosi
delle
malformazioni
nel
feto.
Nella
specie,
la
Suprema
Corte
afferma
la
violazione
della
libertà
di
autodeterminazione
della
madre
con
riferimento
alla
possibilità
dell'interruzione
della
gravidanza
e
la
dispensabilità
di
una
tutela
risarcitoria
sia
in
favore
della
madre
sia
in
favore
del
padre.
Ai
fini
della
compiuta
valutazione
del
caso
vanno
richiamati
i
principi
di
legittimità
che
disciplinano
la
responsabilità
della
struttura
sanitaria
e
del
medico
nei
confronti
del
paziente.
L’oggetto
dell’obbligazione
assunta
dalla
prima
non
è
costituito
semplicemente
dalla
prestazione
medica
dei
propri
dipendenti,
ma
da
una
più
complessa
prestazione,
definita
come
“assistenza
sanitaria”,
oggetto
di
un
contratto
atipico,
inquadrabile
nella
categoria
della
locatio
operis.
A
carico
della
struttura
sanitaria
gravano
infatti,
prestazioni
non
solo
di
diagnosi
e
cura,
ma
anche
di
tipo
organizzativo,
connesse
all’assistenza
post-‐operatorie,
alla
sicurezza
delle
attrezzature,
dei
macchinari,
alla
vigilanza
ed
alla
custodia
dei
pazienti,
oltre
prestazioni
più
propriamente
riconducibili
al
contratto
d’albergo
(cfr.
Cass
S.U.
n.
577/2008).
L’attività
del
medico
costituisce
quindi
solo
un
momento
di
una
più
complessa
prestazione
ed
il
danno
non
sempre
è
conseguenza
dell’errore
del
singolo
operatore,
ma
talvolta
anche
del
comportamento
di
più
soggetti.
Tanto
comporta,
oltre
la
responsabilità
vicaria
per
il
fatto
del
dipendente,
altra
diretta
per
la
carente
organizzazione,
che
può
riguardare
numerosi
aspetti,
quali
la
disponibilità
di
personale
qualificato
ed
in
numero
sufficiente,
la
sorveglianza
sul
coordinamento
dei
servizi,
la
garanzia
sulla
salubrità
degli
ambienti,
la
disponibilità
di
attrezzature
di
adeguato
livello
tecnologico,
la
cui
disponibilità
sia
esigibile
per
la
natura
delle
prestazioni
ivi
offerte.
Il
rapporto
fra
paziente
e
struttura
trova
quindi
fondamento
in
un
contratto
autonomo
ed
atipico,
definito
come
contratto
di
spedalità
o
contratto
di
assistenza
sanitaria,
per
il
cui
inadempimento
si
applicano
le
regole
fissate
dall’art.
1218
c.c.
(si
vedano
Cass.
s.u.
n.
9556/2002;
Cass.
n.
571/2005,
Cass.
sez.
III,
n.
1698/2006;
Cass.
sez.
III,
n.
8826/2007).
Conseguentemente
la
responsabilità
dell’ente
per
il
fatto
dei
propri
medici
ausiliari
si
fonda
sulla
previsione
dell’art.
1228
c.c.,
in
forza
del
quale
il
debitore
che
nell’adempimento
dell’obbligazione
si
avvale
dell’opera
di
terzi,
risponde
anche
dei
fatti
dolosi
o
colposi
di
costoro.
Al
riguardo
la
Cassazione
ha
peraltro
precisato
che
è
irrilevante
che
si
tratti
di
una
casa
di
cura
privata
o
di
un
ospedale
pubblico,
in
quanto
sono
sostanzialmente
equivalenti
a
livello
normativo
gli
obblighi
dei
due
tipi
di
strutture
verso
il
fruitore
dei
servizi.
In
entrambi
i
casi
le
violazioni
incidono
sul
bene
della
salute,
tutelato
quale
diritto
fondamentale
della
costituzione,
senza
possibilità
di
limitazione
di
responsabilità
o
differenze
risarcitorie
a
seconda
della
diversa
natura,
pubblica
o
privata
della
struttura
sanitaria
(cfr.
Cass.
S.U.
n.
577/2008;
Cass.
n.
4058/2005)
Ed
ancora
la
natura
della
responsabilità
della
struttura
non
muta
se
il
paziente
si
sia
rivolto
direttamente
ad
una
struttura
sanitaria
del
servizio
sanitario
nazionale
o
convenzionata
o
se
si
sia
rivolto
ad
un
medico
di
fiducia
che
ha
effettuato
l’intervento
presso
una
struttura
privata,
sempre
che
il
professionista
sia
inserito
nella
stessa,
in
rapporto
di
dipendenza
o
di
mera
convenzione,
supponendo
anche
la
seconda
forma
di
collaborazione
una
scelta
del
medico
da
parte
della
struttura,
con
assunzione
del
relativo
rischio
(cfr.
Cass.
N.
1698/2006).
Quanto
alla
responsabilità
del
medico,
da
circa
un
decennio
la
Suprema
Corte
qualifica
la
responsabilità
professionale
del
medico
di
natura
contrattuale,
pur
fondandola,
ove
manchi
il
rapporto
contrattuale
diretto,
sul
solo
contatto
sociale
(cfr.
Cass.
sez.
III,
n.
589/’99;
id.
n.
11488/2004;
id.
12362/2006;
Cass.
sez.
III,
n.
8826/2007;
Cass.
S.U.
n.
577/2008).
Il
contatto
sociale
è
infatti
la
fonte
di
un
rapporto
che
non
ha
ad
oggetto
la
protezione
del
paziente,
bensì
una
prestazione
che
si
modella
su
quella
propria
del
contratto
d’opera
professionale,
in
base
al
quale
il
medico
è
tenuto
all’esercizio
della
propria
attività
nell’ambito
dell’ente
con
il
quale
il
paziente
ha
stipulato
il
contratto,
ad
essa
ricollegando
obblighi
di
comportamento
di
varia
natura,
diretti
a
garantire
che
siano
tutelati
gli
interessi
emersi
o
esposti
a
pericolo
in
occasione
del
detto
contatto
e
in
ragione
della
prestazione
medica
da
eseguirsi.
In
sostanza,
in
assenza
di
vincolo,
il
paziente
non
può
pretendere
la
prestazione
sanitaria
dal
medico,
ma
se
il
medico
in
ogni
caso
interviene,
perché
tenuto
nei
confronti
dell’ente
ospedaliero,
l’esercizio
della
sua
attività
sanitaria
non
può
essere
differente
nel
contenuto
da
quello
che
ha
come
fonte
un
contratto
fra
paziente
e
medico.
Il
contatto
sociale
è
fonte
quindi
di
responsabilità
contrattuale
per
non
avere
il
soggetto
fatto
ciò
cui
era
tenuto.
Tale
inquadramento
ha
conseguenze
importanti
sul
piano
della
ripartizione
e
del
contenuto
dell’onere
probatorio,
nonché
sulla
disciplina
applicabile
in
tema
di
prescrizione.
Nell’ambito
della
responsabilità
professionale
del
medico
la
giurisprudenza
delle
sezioni
semplici
ha
infatti
ritenuto
che
gravi
sull’attore,
paziente
danneggiato
che
agisce
in
giudizio
deducendo
l’inesatto
adempimento
della
prestazione
sanitaria,
oltre
alla
prova
del
contratto,
anche
quella
dell’aggravamento
della
situazione
patologica
o
l’insorgenza
di
nuove
patologie,
nonché
la
prova
del
nesso
di
causalità
fra
l’azione
o
l’omissione
del
debitore
e
tale
evento
dannoso,
allegando
il
solo
inadempimento
del
sanitario,
restando
di
contro
a
carico
del
debitore
l’onere
della
prova
di
aver
tenuto
un
comportamento
diligente
e
che
l’esito
negativo
sia
stato
determinato
da
un
evento
imprevisto
ed
imprevedibile
(cfr.
Cass.
n.
12362/2006;
n.
9085/2006;
n.
22894/2005;
n.
10297/2004).
In
particolare
in
una
recente
pronuncia
a
sezioni
unite,
relativa
ad
azione
risarcitoria
per
epatite
contratta
a
seguito
di
trasfusione
di
sangue
infetto,
l’attore
aveva
provato
il
contratto
relativo
alla
prestazione
sanitaria
ed
il
danno,
ovvero
la
patologia
epatica,
ed
aveva
allegato,
quale
inadempienza
dei
convenuti,
la
trasfusione
con
sangue
infetto.
Quanto
al
nesso
di
causalità,
agli
inizi
del
2000
prevaleva
l’orientamento
della
certezza,
che
riteneva
accertato
il
rapporto
di
causalità
solo
in
presenza
di
una
legge
scientifica
che
statisticamente
prevedesse
che
nella
totalità
o
quasi
totalità
dei
casi
a
quell’antecedente
conseguisse
quell’esito
(Cass.
pen.,
sez.
IV,
1/10/1998
n.
1957).
Più
di
recente
le
Sezioni
Unite
della
Suprema
Corte
hanno
statuito,
in
tema
di
reato
omissivo,
che
non
è
sufficiente
la
probabilità
statistica
per
attribuire
la
causa
di
un
evento
ad
una
determinata
condotta,
essendo
necessario
tenere
conto
di
tutte
le
caratteristiche
del
caso
singolo
che
possono
influenzarne
l’esito
(cfr.
S.U.
n.
30328/2002).
Tale
indirizzo,
basato
sulla
probabilità
logica
e
su
soglie
elevate
di
accertamento
controfattuale,
è
stato
inizialmente
condiviso
dalla
III
Sezione
Civile
del
Supremo
Collegio,
che
ha
affermato
il
principio
secondo
il
quale
il
giudice
deve
fare
una
valutazione
globale
che
possa
consentire
di
arrivare
ad
un
giudizio
di
elevata
credibilità
razionale,
al
di
là
di
ogni
ragionevole
dubbio,
ovvero
compiere
un
giudizio
controfattuale
per
verificare
se,
da
quell’antecedente,
in
specie
la
prestazione
sanitaria
colposa,
sia
derivato
quell’esito,
sicché
nella
causalità
omissiva,
se
l’evento
non
era
comunque
evitabile,
non
si
può
ricollegare
la
condotta
all’esito
negativo
che
ne
è
sopravvenuto
(cfr.
Cass.
n.4400/2004).
Negli
ultimi
tempi
invece
la
Suprema
Corte
è
ritornata
a
valutazioni
più
probabilistiche
del
nesso
causale
in
campo
civile,
ravvisandone
la
ricorrenza
in
presenza
di
“soglie
meno
elevate
di
accertamento
controfattuale”.
In
particolare,
nella
pronuncia
n.7997
del
18/4/2005,
la
III
Sezione
Civile
della
Suprema
Corte
ha
statuito
che
la
valutazione
del
nesso
causale
“va
compiuta
secondo
criteri
a)
di
probabilità
scientifica,
ove
questi
risultino
esaustivi;
b)
di
logica,
se
non
appare
praticabile
(o
insufficientemente
praticabile)
il
ricorso
a
leggi
scientifiche
di
copertura”.
In
sostanza
l’accertamento
del
nesso
causale,
che
indica
la
relazione
oggettiva
fra
comportamento
ed
evento,
indipendentemente
da
qualunque
giudizio
di
prevedibilità
soggettiva,
rilevante
ai
fini
della
diversa
valutazione
della
colpa,
va
compiuto
secondo
giudizi
probabilistici
fondati
su
leggi
scientifiche
ed,
in
difetto,
sulla
logica
aristotelica
secondo
cui
è
probabile
quello
che
avviene
nella
maggior
parte
dei
casi.
La
sufficienza
di
soglie
meno
elevate
di
accertamento
controfattuale
è
stata
poi
ribadita
anche
dalla
pronuncia
n.
11755
del
19/5/2006
della
III
Sezione
Civile.
Sull’argomento
va
richiamata
altresì
Cass.
sez.
III,
n.
21619/2007,
che,
con
decisa
presa
di
posizione,
fondata
su
articolate
e
complesse
riflessioni,
non
solo
giuridiche,
distingue
nettamente
il
nesso
causale
in
ambito
civile,
ispirato
alla
regola
della
normalità
causale,
ovvero
al
“più
probabile
che
non”,
da
quello
in
ambito
penale,
ove
vale
il
criterio
dell’elevato
grado
di
credibilità
razionale
che
è
prossimo
alla
certezza.
La
tematica
del
nesso
causale
in
tema
di
responsabilità
civile,
segnatamente
da
condotta
omissiva,
è
stata
poi
affrontata
dalle
S.U.
con
la
sentenza
n.
576/2008
e
le
successive
n.
581
e
584/2008,
nelle
quali
è
stato
ribadito
che
nel
processo
civile
vige
la
regola
della
preponderanza
dell’evidenza
o
“del
più
probabile
che
non”.
Si
può
quindi
concludere
che
l’accertamento
del
nesso
causale
in
ambito
civile
va
compiuto
secondo
criteri
di
probabilità
scientifica
e
dunque,
in
caso
di
divergenze,
secondo
le
ipotesi
aventi
maggiore
validità
scientifica,
ed,
ove
le
stesse
non
siano
esaustive,
secondo
criteri
di
probabilità
logica,
tesa
a
chiarire
se,
probabilmente,
ovvero
secondo
quello
che
accade
nella
gran
parte
dei
casi,
l’evento
si
sarebbe
avverato
anche
se
il
comportamento
omesso
fosse
stato
posto
in
essere.
La
responsabilità
del
medico
in
ordine
al
danno
subito
dal
paziente
presuppone
la
violazione
dei
doveri
inerenti
allo
svolgimento
della
professione,
tra
cui
il
dovere
di
diligenza
da
valutarsi
in
riferimento
alla
natura
della
specifica
attività
esercitata;
tale
diligenza
non
è
quella
del
buon
padre
di
famiglia
ma
quella
del
debitore
qualificato
ai
sensi
dell'art.
1176,
secondo
comma
cod.civ.
che
comporta
il
rispetto
degli
accorgimenti
e
delle
regole
tecniche
obbiettivamente
connesse
all'esercizio
della
professione
e
ricomprende
pertanto
anche
la
perizia.
La
limitazione
di
responsabilità
alle
ipotesi
di
dolo
e
colpa
grave
di
cui
all'art.
2236,
secondo
comma
cod.civ.
non
ricorre
con
riferimento
ai
danni
causati
per
negligenza
o
imperizia
ma
soltanto
per
i
casi
implicanti
risoluzione
di
problemi
tecnici
di
particolare
difficoltà
che
trascendono
la
preparazione
media
o
non
ancora
sufficientemente
studiati
dalla
scienza
medica.
Quanto
all'onere
probatorio,
spetta
al
medico
provare
che
il
caso
era
di
particolare
difficoltà
e
al
paziente
quali
siano
state
le
modalità
di
esecuzione
inidonee
ovvero
a
questi
spetta
provare
che
l'intervento
era
di
facile
esecuzione
e
al
medico
che
l'insuccesso
non
è
dipeso
da
suo
difetto
di
diligenza.
Medico
e
prova
della
responsabilità.
Cassazione
Sez
III
Civile
n.
3520/2008
dep
14
febbraio
"
.....va
in
questa
sede
ribadito
come
sia
principio
di
diritto
del
tutto
consolidato
quello
secondo
cui,
positivamente
e
previamente
accertata
l'esistenza
di
un
nesso
di
causalità
giuridicamente
rilevante
(secondo
i
criteri
di
recente
affermati
da
questa
stessa
corte
con
la
sentenza
21619/07)
tra
la
condotta
e
l'evento
di
danno,
è
consentito
al
giudice
il
passaggio,
logicamente
e
cronologicamente
conseguente,
alla
valutazione
dell'elemento
soggettivo
dell'illecito,
e
cioè
della
sussistenza,
o
meno,
della
colpa
dell'agente
(che,
pur
in
presenza
di
un
comprovato
nesso
causale,
potrebbe
essere
autonomamente
esclusa
secondo
criteri,
storicamente
elastici,
di
prevedibilità
ed
evitabilità).
Orbene,
criteri
funzionali
all'accertamento
della
colpa
medica
-‐
la
prova
della
cui
assenza
grava,
nelle
fattispecie
di
responsabilità
contrattuale
quale
quella
di
specie,
sempre
sul
professionista/debitore
(Cass.
ss.uu.
13533/2001,
sia
pur
con
riferimento
a
vicenda
processuale
diversa
dall'inadempimento
del
medico)
-‐
risultano
essere,
in
astratto,
quelli:
a)
della
natura,
facile
o
non
facile,
dell'intervento
del
medico;
b)
del
peggioramento
o
meno
delle
condizioni
del
paziente;
c)
della
valutazione
del
grado
di
colpa
di
volta
in
volta
richiesto:
lieve,
nonché
presunta,
in
presenza
di
operazione
routinarie;
grave,
sia
pur
sotto
il
solo
profilo
della
sola
imperizia
(Corte
cost.
166/1973),
se
relativa
ad
interventi
che
trascendano
la
ordinaria
preparazione
media
ovvero
non
risultino
sufficientemente
studiati
o
sperimentati,
salvo
l'ulteriore
limite
della
particolare
diligenza
e
dell'elevato
tasso
di
specializzazione
richiesti
in
tal
caso
al
professionista;
d)
del
corretto
adempimento
tanto
dell'onere
di
informazione
-‐
con
conseguente
consenso
del
paziente
-‐,
quanto
dei
successivi
obblighi
"di
protezione"
del
paziente
stesso
attraverso
il
successivo
controllo
degli
effetti
dell'intervento."
Diritto
alla
sessualità.
Cassazione
,
sez.
III
civile,
sentenza
02.02.2007
n°
2311
Quanto
al
diritto
alla
sessualità,
occorre
ricordare
l’incipit
della
Corte
Costituzionale
(Corte
costituzionale
561/87)
che
lo
inquadra
tra
i
diritti
inviolabili
della
persona
(articolo
2),
come
modus
vivendi
essenziale
per
io
espressione
e
lo
sviluppo
della
persona.
Certamente
la
perdita
della
sessualità
costituisce
anche
danno
biologico
(la
cui
valutazione
nelle
tabelle
medico
legali
convenzionali
supera
normalmente
il
livello
della
micropermanente
e
determina
un
rilevante
ritocco
del
punteggio
finale)
consequenziale
alla
lesione
per
fatto
della
circolazione
(come
è
nel
caso
di
specie),
ma
nessuno
ormai
nega
(v:da
ultimo
Cassazione,
Sezioni
Unite
6572/06
e
13546/06)
che
la
perdita
o
la
compromissione
anche
soltanto
psichica
della
sessualità
(come
avviene
nei
casi
di
stupro
e
di
pedofilia)
costituisca
di
per
sé
un
danno
esistenziale,
la
cui
rilevanza
deve
essere
autonomamente
apprezzata
e
valutata
equitativamente
in
termini
non
patrimoniali
e
con
una
congrua
stima
dell’equivalente
economico
del
debito
di
valore.
(Cfr.
Suprema
Corte
di
Cassazione,Sezione
prima
civile,Sentenza
10
maggio
2005,
n.
9801).
La
Corte
di
cassazione,
ribaltando
le
precedenti
sentenze
dei
giudici
di
merito,
ha
stabilito
che
anche
i
danni
sessualità
vanno
risarciti
autonomamente:
tale
danni
vanno
risarciti
in
quanto
il
diritto
alla
sessualità
è
stato
riconosciuto
dalla
stessa
Corte
Costituzionale
con
la
sentenza
n.
561/09,
che
lo
ha
inquadrato
tra
i
diritti
inviolabili
della
persona
(art.
2
cost.)
e
come
modus
vivendi
essenziale
per
l'espressione
e
lo
sviluppo
della
persona.
Sentenza 19092/2009
Ancora
la
Cassazione
con
la
sentenza
n.
19092/09
ha
riconosciuto
il
diritto
al
risarcimento
dei
danni
per
il
coniuge
non
può
più
avere
rapporti
sessuali
con
l'altro
a
causa
di
un
intervento
medico
errato
Col
ricovero
della
gestante
l'ente
ospedaliero
si
obbliga
non
soltanto
a
prestare
alla
stessa
le
cure
e
le
attivita'
necessarie
al
fine
di
consentirle
il
parto,
ma
altresi'
ad
effettuare,
con
la
dovuta
diligenza
e
prudenza,
tutte
quelle
altre
prestazioni
necessarie
al
feto
(ed
al
neonato),
si'
da
garantirne
la
nascita,
evitandogli
-‐
nei
limiti
consentiti
dalla
scienza
(da
valutarsi
sotto
il
profilo
della
perizia)
-‐
qualsiasi
possibile
danno.
La
controparte
del
contratto
rimane
sempre
la
partoriente,
o,
comunque,
colui
che
lo
abbia
stipulato,
ma
il
terzo,
alla
cui
tutela
tende
quell'obbligazione
accessoria,
non
e'
piu'
il
nascituro,
bensi'
il
nato,
anche
se
le
prestazioni
debbono
essere
assolte,
in
parte,
anteriormente
alla
nascita.
E'
quindi
il
soggetto
che,
con
la
nascita,
acquista
la
capacita'
giuridica,
che
puo'
agire
per
far
valere
la
responsabilita'
contrattuale
per
l'inadempimento
delle
obbligazioni
accessorie
cui
il
contraente
sia
tenuto
in
forza
del
contratto
stipulato
col
genitore
o
con
terzi,
a
garanzia
e
protezione
di
uno
suo
specifico
interesse,
anche
se
le
prestazioni
debbano
essere
assolte,
in
parte,
anteriormente
alla
sua
nascita.
Ne'
puo'
obiettarsi
-‐
come
si
e'
fatto
-‐
che
il
feto
e'
parte
del
corpo
materno
sicche'
non
potrebbe
ipotizzarsene
una
tutela
riflessa.
L'affermazione
e',
anzitutto,
destituita
di
fondamento
giuridico,
dacche'
le
norme
prima
esaminate
dimostrano
che
trattasi,
sin
dal
concepimento,
di
una
entita'
distinta,
tutelata
anche
contro
gli
eventuali
attentati
che
provengano
dalla
stessa
madre
(aborto
al
di
fuori
delle
ipotesi
previste).
Da
quanto
si
e'
detto
risulta,
soprattutto,
che
la
tutela
riflessa
non
concerne
tanto
il
feto
quanto
il
nato
ed
il
suo
diritto
ad
essere
e
rimanere
integro,
anche
se
attraverso
le
prestazioni
da
effettuarsi
anteriormente
alla
nascita.
Sentenza
della
Cassazione
Civile
n°
11503
del
22/11/93
Sez.III.
Obbligo
informativo,
medico
e
case
di
cura.
Cass.
3847/11.
«Una
volta
inquadrato,
con
motivazione
infondatamente
censurata,
il
rapporto
intercorso
tra
paziente,
medico
e
casa
di
cura
privata
come
conseguito
ad
un
contratto
trilaterale
e
correttamente
affermato
che
"la
struttura
sanitaria
aveva
l'obbligo
di
una
compiuta
informativa
del
paziente
sui
rischi
di
eventuali
dimensioni
od
entità
del
suo
equipaggiamento
non
idonee
a
fronteggiare
particolari
situazioni
patologiche
o
devianti
-‐
sia
pure
con
una
qualificabilità
di
normalità
statistica
-‐
dalla
norma",
la
corte
d'appello
ha
più
avanti
rilevato
che
"non
interessa
alla
controparte
del
rapporto
negoziale
-‐cioè
alla
gestante
o
ai
danneggiati
per
colpa
aquiliana
quale
fosse
la
struttura
interna
dell'organizzazione
dei
danneggianti,
attesa
la
natura
delle
obbligazioni
comunque
assunte".
La
conclusione
è
corretta
in
diritto,
in
quanto
l'obbligo
informativo
circa
i
limiti
di
equipaggiamento
o
di
organizzazione
della
struttura
sanitaria
grava,
in
ipotesi
siffatte,
anche
sul
medico,
convenzionato
o
non
con
la
casa
di
cura,
dipendente
o
non
della
stessa,
che
abbia
concluso
con
la
paziente
un
contratto
di
assistenza
al
parto
(o,
con
qualunque
paziente,
di
tipo
comportante
la
possibilità
dell'instaurarsi
di
situazioni
patologiche
che
non
sia
agevole
fronteggiare)
presso
la
casa
di
cura
in
cui
era
convenuto
che
ella
si
sarebbe
ricoverata.
E
ciò
non
solo
per
la
natura
trilaterale
del
contratto,
ma
anche
in
ragione
degli
obblighi
di
protezione
che,
nei
confronti
della
paziente
e
dei
terzi
che
con
la
stessa
siano
in
particolari
relazioni,
come
l'altro
genitore
ed
il
neonato,
derivano
da
un
contratto
che
abbia
ad
oggetto
tale
tipo
di
prestazioni.
Ne
consegue
che,
in
caso
di
violazione
dell'obbligazione
di
informare,
ove
sia
sostenibile
che
il
paziente
non
si
sarebbe
avvalso
di
quella
struttura
se
fosse
stato
adeguatamente
informato
(secondo
uno
schema
analogo
a
quello
descritto,
in
tema
di
consenso
informato,
da
Cass.,
n.
2847/10),
delle
conseguenze
derivate
dalle
carenze
organizzative
o
di
equipaggiamento
della
struttura
risponde
anche
il
medico
col
quale
il
paziente
abbia
instaurato
un
rapporto
di
natura
privatistica».
Cassazione 2334/11. Carenze strutturali clinica. Responsabilità della clinica e del medico.
Cassazione
Civile,
Sez.
III,
sentenza
7
gennaio
2011,
n.
257.
Cartella
clinica.
MASSIMA:
«L’omessa
analisi
emocolturale,
con
la
conseguente
adozione
di
medicinali
rivelatisi
inefficaci,
non
può
essere
giustificata
sulla
base
di
forzature,
quali
il
carattere
improbabile
del
verificarsi
di
quel
tipo
di
infezione
(che
peraltro
il
medico
sarebbe
tenuto
a
ipotizzare,
considerata
la
gravità
delle
conseguenze
che
ne
possono
derivare
e
la
facilità
dell’adozione
dei
mezzi
di
indagine)
ed
il
generico
riferimento
all’adozione
di
un
criterio
empirico
epidemiologico,
che
non
costituisce
una
cura
o
diagnosi
alternativa,
ma
sembra
consistere
nella
mera,
oggettiva
giustificazione
del
comportamento
omissivo.
L’incompleta
redazione
della
cartella
clinica
costituisce
di
per
sé
inesatto
adempimento
per
difetto
di
diligenza
(fattispecie
relativa
ad
omessa
registrazione
dei
dati
relativi
all’evolvere
di
una
ferita
episiotomica
dalla
quale
potrebbe
aver
avuto
origine
l’infezione
che
ha
reso
necessario
protesizzare
il
collo
del
femore)».
Con
la
sentenza
n
10741
della
Sez
III
della
Suprema
Corte
del
11
maggio
2009,
vengono
affrontate,
in
linea
di
continuità
con
la
precedente
giurisprudenza
di
legittimità
in
materia,
una
serie
di
profili
inerenti
la
responsabilità
del
medico
nei
confronti
del
nascituro
e
dei
genitori
in
relazione
ad
omesse
informazioni,
nella
specie
in
relazione
alla
somministrazione
di
un
farmaco
pericoloso
(per
favorire
l'ovulazione)
e
ritenuto,
sulla
base
delle
consulenze
esperite
in
giudizio,
causa
delle
malformazioni
del
successivamente
nato.
La
Suprema
Corte
afferma,
in
primo
luogo,
che
sulla
base
di
una
serie
di
indicazioni
normative,
tra
le
quali
merita
in
particolare
specifica
sottolineatura
la
Legge
n
40/2004,
il
nascituro
è
da
intendersi
come
dotato
di
soggettività
giuridica
anche
prima
della
nascita
configurandosi
quest'ultima
come
condizione
sospensiva
di
efficacia
delle
situazioni
giuridiche
ad
esso
riferibili
(la
Suprema
Corte
coglie
ulteriori
espressioni
normative
della
soggettività
giuridica
del
nascituro
le
norme
codicistiche
in
materia
di
successione
mortis
causa
ove
si
prevede
che
il
nascituro
concepito
possa
succedere
sia
per
testamento
che
ab
intestato
e
che
il
nascituro
non
concepito
possa
succedere
per
testamento
se
figlio
di
persona
vivente
al
momento
dell'apertura
della
successione).
In
secondo
luogo
ha
affermato
che,
con
riferimento
ai
danni
indotti
da
un'omessa
informativa,
da
un'omessa
diagnosi
o
da
una
cattiva
diagnosi
medica
nei
confronti
dei
genitori,
la
tutela
risarcitoria
deve
riconoscersi
anche
al
concepito
che,
al
contrario,
non
può
vantare
un
diritto
a
non
nascere
se
non
sano.
La
linea
argomentativa
seguita
dalla
Suprema
Corte
pone
la
responsabilità
del
medico
ed
il
diritto
al
risarcimento
del
concepito
come
connessi
e
consequenziali
all'omessa
informativa
del
medico.
Ed
allora
dubbia
appare
la
soluzione
del
caso
diverso
in
cui
i
genitori
siano
stati
adeguatamente
informati
dei
rischi
dell'assunzione
di
un
determinato
farmaco
e
cinonostante
si
siano
determinati
per
l'assunzione
del
medesimo
cagionando
danni
al
nascituro.
Cassazione Civile Sez. III del 11 maggio 2009 n. 10741
Nel
caso
in
cui
ad
una
gestante
siano
stati
somministrati
senza
adeguata
informazione
farmaci
che
abbiano
provocato
malformazioni
al
concepito,
la
violazione
dell'obbligo
d'informazione
da
parte
dei
sanitari
dà
luogo
al
risarcimento
del
danno
in
favore
sia
della
gestante-‐madre
che
del
concepito,
una
volta
che
quest'ultimo
sia
venuto
ad
esistenza,
ma
solo
in
relazione
all'inosservanza
del
principio
del
c.d.
consenso
informato,
non
potendo
invece
ravvisarsi
a
carico
dei
sanitari
una
responsabilità
nei
confronti
del
concepito
perché
la
madre
non
è
stata
posta
in
condizione
di
esercitare
il
diritto
all'interruzione
volontaria
della
gravidanza,
non
essendo
configurabile
nel
nostro
ordinamento
un
diritto
"a
non
nascere
se
non
sano",
in
quanto
le
norme
che
disciplinano
l'interruzione
della
gravidanza
la
ammettono
nei
soli
casi
in
cui
la
prosecuzione
della
stessa
o
il
parto
comportino
un
grave
pericolo
per
la
salute
o
la
vita
della
donna,
legittimando
pertanto
la
sola
madre
ad
agire
per
il
risarcimento
dei
danni.
Il
nascituro
ha
il
diritto
a
nascer
sano,
in
virtù,
in
particolare,
degli
art.
2
e
32
cost.
(nonché
dell'art.
3
della
Dichiarazione
di
Diritti
fondamentali
dell'Unione
europea
che
esplicitamente
prevede
il
diritto
di
ogni
individuo
all'integrità
psico-‐fisica).
Per
tale
motivo,
sia
la
mancata
informazione,
sia
la
prescrizione
di
un
farmaco
ritenuto
teratogeno
devono
essere
ritenute
dai
giudici
come
fonti
autonomi
di
responsabilità
nei
confronti
del
nascituro,
per
la
violazione
dell'obbligo
di
non
prescrivere
farmaci
potenzialmente
lesivi
del
bene
salute.
Il
nascituro
è
terzo
protetto
dal
contratto
stipulato
dalla
madre
con
il
sanitario
e
con
la
struttura
sanitaria.
Gli
va
riconosciuta,
pertanto,
legittimazione
risarcitoria
per
i
danni
derivanti
dalla
somministrazione
di
farmaci
dannosi
per
la
sua
salute.
La
soggettività
giuridica
che,
sulla
scorta
di
una
pluralità
di
fonti
e
della
c.d.
giurisprudenza
normativa,
non
può
essergli
negata,
gli
consente,
infatti,
di
essere
titolare
del
diritto
alla
vita,
alla
salute,
all'onore,
alla
reputazione
ed
all'identità
personale.
Ritenuto
che
il
nostro
ordinamento
privatistico
tradizionale
non
costituisce
più
l'unica
fonte
di
riferimento
per
l'interprete
a
seguito
della
concreta
attuazione
dei
cc.dd.
principi
di
decodificazione
e
di
depatrimonializzazione;
ritenute,
ormai,
la
sussistenza
e
la
rilevanza
di
una
pluralità
di
fonti,
nazionali,
comunitarie
ed
internazionali;
ritenuta
la
vigenza
del
cogente
ed
irriducibile
principio
di
centralità
della
persona
umana,
portatrice
non
solo
di
interessi
patrimoniali,
ma
anche
di
inviolabili
interessi
squisitamente
personali;
ritenuta
la
funzione
nomofilattica
della
cd.
giurisprudenza
normativa,
specie
dei
giudici
di
legittimità
quale
autonoma
fonte
del
diritto;
ritenuto
che
il
concepito
nascituro
è,
già
in
quanto
tale,
soggetto
giuridico
titolare
dei
diritti
personali
fondamentali,
primo
tra
i
quali
il
diritto
alla
salute,
pur
se
azionabili,
anche
ai
fini
risarcitorii,
dopo
il
verificarsi
dell'evento
(nascita)
di
cui
all'art.
1
c.c.;
ritenuto
quanto
precede,
i
sanitari
che
abbiano,
ai
fini
dell'ovulazione,
del
concepimento
e
della
gravidanza,
somministrato
ad
una
donna,
anche
dopo
l'insorgere
di
una
gravidanza,
senza
averne
chiesto
il
consenso
informato,
un
farmaco
dalle
notorie
proprietà
effettuali
teratologiche,
devono
in
via
solidale
-‐
qualora
il
feto
sia
venuto
alla
luce
con
gravissime,
permanenti,
irreversibili
infermità
fisiopsichiche
-‐
alla
donna,
al
padre
del
minore
ed
al
minore
stesso,
terzo
destinatario
diretto
dell'attività
tecnica,
assolutamente
negligente,
spiegata
dai
medici
curanti,
un
risarcimento,
dovendosi,
altresì,
escludere,
nel
nostro
ordinamento,
il
cd.
aborto
eugenetico.