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ri 20 e 21 - 26 agosto 2010
Rassegna di giurisprudenza
Circolare SL 20 / 2010
Indice
PREMESSA
1. Nell’ ambito dell’ attività di analisi compiuta da ABI sulla disciplina della responsabilità
amministrativa degli enti prevista dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (di seguito anche "decreto" o
"decreto 231") e, in particolare, dal costante monitoraggio delle relative pronunce giurisprudenziali,
è emersa una certa intermittenza su molte questioni chiave di questo "sistema di responsabilità".
Nonostante siano passati quasi dieci anni dall’ emanazione del decreto 231, infatti, non si registra
ancora una prassi giurisprudenziale consolidata su principi ed orientamenti univoci; del resto, la
novità della disciplina e le continue integrazioni normative, hanno generato non poche criticità
interpretative, di cui la magistratura ha dovuto farsi carico per la soluzione di casi concreti.
2. Tali circostanze offrono agli interpreti ed agli operatori un panorama ricco di spunti, sia sul
versante processuale sia su quello sostanziale e organizzativo, di cui si ritiene utile dare conto
attraverso circolari che tratteranno gli snodi chiave del "sistema 231".
In questa e nella prossima circolare (Serie Legale n. 21 del 26 agosto 2010) gli argomenti sono
ordinati secondo il posizionamento delle relative norme nell’ ambito del decreto legislativo.
Per ciascun argomento, sono riportate (talvolta per rinvio) le norme fondamentali ed è proposto un
abstract che, oltre a sintetizzare lo stato della giurisprudenza, evidenzia gli aspetti interpretativi di
maggior rilievo.
Le decisioni massimate sono, poi, ordinate con due criteri: quello dell’ organo decisorio
(anticipando, quindi, le sentenze/ordinanze delle Supreme Corti) e quello cronologico, partendo
quindi dalle decisioni più recenti. Alcune decisioni sono state massimate in diverse parti della
rassegna, proprio per evidenziare e valorizzare i passaggi chiave in relazione a tutti gli aspetti per
le quali si ritenevano rilevanti.
3. Le sentenze/ordinanze ovvero i pareri citati nella presente raccolta sono tutti editi. Essi sono
rinvenibili, quindi, sulle riviste specialistiche e sui siti che offrono raccolte di giurisprudenza, tra cui
si segnala "231 ABI on-line".
Il testo dei provvedimenti può comunque essere richiesto agli Uffici dell’ Associazione, inviando
una richiesta all’ indirizzo: of@abi.it
Art.1
Soggetti
1. Il presente decreto legislativo disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi
dipendenti da reato.
(...)
Art.2
Principio di legalità
1. L’ ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua
responsabilità amministrativa (...)
Abstract
Il Decreto, sanzionando il soggetto metaindividuale in via autonoma e diretta con le forme del
processo penale, si differenzia dalle preesistenti sanzioni irrogabili agli enti, così da sancire la
morte del dogma "societas delinquere non potest". E ciò perché, ad onta del "nomen iuris", la
nuova responsabilità, nominalmente amministrativa, dissimula la sua natura sostanzialmente
penale, forse sottaciuta per non aprire delicati conflitti con i dogmi personalistici dell’ imputazione
criminale, di rango costituzionale (art. 27 Cost.).
Ciò premesso, non si rinviene, ad oggi, nella produzione della giurisprudenza, un effettivo
approfondimento sulla reale natura (penale o amministrativa) della responsabilità degli enti; la
questione, ben lungi dal rappresentare un esercizio esclusivamente sistematico, riveste cruciale
importanza per risolvere questioni aventi grande impatto operativo; si pensi, ad esempio, al riflesso
che la natura della responsabilità riveste su importanti questioni quale l’ ammissibilità o meno della
costituzione di parte civile nel procedimento a carico dell’ ente.
Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di cose non pertinenti al reato non
è applicabile, in virtù della natura sanzionatoria di tale forma di confisca, nei confronti delle
persone giuridiche per fatti di reato commessi in data anteriore all’ entrata in vigore della normativa
sulla responsabilità amministrativa dipendente da reato.
La nuova forma di responsabilità "dissimula la sua natura sostanzialmente penale; forse sottaciuta
per non aprire delicati conflitti con i dogmi personalistici dell’ imputazione criminale, di rango
costituzionale".
A prescindere dalla natura (amministrativa, penale o tertium genus) degli illeciti qualificati dalla
legge come "amministrativi dipendenti da reato", non può essere superato il dato incontrovertibile
dell’ introduzione, mediante il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, di una nuova ipotesi d’ illecito. Pertanto,
posto che l’ art. 2043 c.c. prevede che "qualunque fatto illecito" che cagioni ad altri un danno
obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno stesso, ne consegue che, a seguito del
d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, il danneggiato deve ritenersi legittimato ad adire il giudice civile
anche per ottenere dall’ ente il risarcimento dei danni che sono scaturiti dalla realizzazione degli
illeciti amministrativi ad esso riconducibili.
Posto che il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato si consuma nel
momento di effettiva ricezione, da parte del richiedente, del denaro pubblico, se il finanziamento
ottenuto della società è stato incassato in epoca anteriore all’ entrata in vigore del d.lgs. 8 giugno
2001, n. 231, non sussistono, ai sensi del combinato disposto tra gli artt. 2 del predetto decreto e 1
della legge n. 689 del 1991, i presupposti per applicare, né le sanzioni, né le misure cautelari
interdittive.
II) PRINCIPI GENERALI: PRINCIPIO DI LEGALITÀ, IRRETROATTIVITÀ
Art. 2.
Principio di legalità
1. L’ ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua
responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono
espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto.
Art. 3.
Successione di leggi
1. L’ ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto che secondo una legge posteriore non
costituisce più reato o in relazione al quale non è più prevista la responsabilità amministrativa dell’
ente, e, se vi e’ stata condanna, ne cessano l’ esecuzione e gli effetti giuridici.
2. Se la legge del tempo in cui è stato commesso l’ illecito e le successive sono diverse, si applica
quella le cui disposizioni sono più favorevoli, salvo che sia intervenuta pronuncia irrevocabile.
Art. 4.
1. Nei casi e alle condizioni previsti dagli articoli 7, 8, 9 e 10 del codice penale, gli enti aventi nel
territorio dello Stato la sede principale rispondono anche in relazione ai reati commessi all’ estero,
purché nei loro confronti non proceda lo Stato del luogo in cui e’ stato commesso il fatto.
2. Nei casi in cui la legge prevede che il colpevole sia punito a richiesta del Ministro della giustizia,
si procede contro l’ ente solo se la richiesta è formulata anche nei confronti di quest’ ultimo.
Abstract
Il sistema del Decreto replica, dal modello penalistico e da quello amministrativo, il principio di
legalità, nell’ accezione di riserva di legge, tassatività e irretroattività. Rispetto al paradigma
amministrativo, diverge la disciplina recata in tema di successione di leggi di cui all’ art. 3, che
mutua la disciplina dell’ art. 2 c.p.; ciò in ragione del fatto che, considerata l’ incisività delle nuove
sanzioni, è apparso meritevole offrire all’ ente la stessa disciplina di favore prevista nei confronti
dell’ imputato persona fisica.
Le pronunce della Cassazione citate riguardano casi nei quali l’ illecito contestato era a
consumazione prolungata (le somme erogate erano state incassate in parte prima dell’ entrata in
vigore del decreto e in parte successivamente): pur confermando la propria giurisprudenza sulla
truffa come reato a consumazione prolungata la Corte ha precisato che in questi casi non possa
procedersi alla confisca ex articolo 19 decreto (e dunque nemmeno al loro sequestro in
prevenzione) delle somme perché - appunto - acquisite prima dell’ entrata in vigore di quest’
ultimo, ostandovi, per l’ appunto, il divieto di retroattività sancito dal menzionato art. 2.
L’ articolo 2 del decreto, prevedendo che l’ ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto
costituente reato se la sua responsabilità amministrativa, in relazione a quel reato, e le relative
sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione
del fatto, deve essere interpretato come regola di irretroattività della legge penale, in virtù del
principio di legalità "nulla poena, nullum crimen sine previa lege poenali". La norma, pertanto,
anche quando nella sua parte finale parla di "commissione del fatto" fa sempre riferimento ad un
"fatto costituente reato" ed al momento della sua consumazione e non autorizza la distinzione tra
un fatto naturalisticamente inteso ed il reato di truffa.
Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di cose non pertinenti al reato non
è applicabile, in ragione della natura sanzionatoria di tale forma di confisca, nei confronti delle
persone giuridiche per fatti-reato commessi in data anteriore all’ entrata in vigore della normativa
sulla responsabilità amministrativa da reato.
Non è applicabile la confisca "per equivalente" prevista per le persone fisiche dall’ articolo 322-ter
c.p (truffa aggravata) e, per le persone giuridiche, dall’ articolo 19 del decreto, in relazione a
somme che siano state percepite anteriormente all’ entrata in vigore di dette norme; il che esclude
anche l’ operatività, in tale ipotesi, del sequestro preventivo previsto, rispettivamente, dall’ articolo
321 c.p.p. e dall’ articolo 53 del decreto (principio affermato, nella specie, in relazione al reato di
truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, pur essendosi tenuto conto,
trattandosi di erogazioni effettuate in più rate, della sua natura di reato a consumazione cosiddetta
"prolungata", iniziatasi con la percezione della prima rata, anteriormente all’ entrata in vigore delle
norme summenzionate, e conclusasi successivamente).
Sebbene il delitto di corruzione si perfezioni anche solo con l’ accettazione della promessa di
denaro, ove a tale accettazione segua l’ effettiva dazione del denaro il momento consumativo si
sposta in avanti, sino a coincidere con la dazione medesima e, pertanto, nel caso di plurimi
pagamenti, detto momento non può che protrarsi sino all’ ultimo di essi, in quanto le singole
dazioni, pur trovando la loro origine nell’ accordo iniziale, tacitamente confermano ogni volta quell’
accordo e, lungi dal costituire un post factum non punibile, integrano la fattispecie delittuosa. Non
può dunque prospettarsi violazione del principio di legalità, di cui all’ art. 2 del d.lgs. 8 giugno 2001,
n. 231 ("L’ ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua
responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono
espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto"), sol
perché l’ accordo corruttivo risale ad un’ epoca antecedente all’ emanazione del predetto decreto.
Posto che il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato si consuma nel
momento di effettiva ricezione, da parte del richiedente, del denaro pubblico, se il finanziamento
ottenuto della società è stato incassato in epoca anteriore all’ entrata in vigore del d.lgs. 8 giugno
2001, n. 231, non sussistono, ai sensi del combinato disposto tra gli artt. 2 del predetto decreto e 1
della legge n. 689 del 1991, i presupposti per applicare, né le sanzioni, né le misure cautelari
interdittive (Conferma Trib. Ivrea 7 luglio 2005).
Art. 5.
1. L’ ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).
2. L’ ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell’ interesse esclusivo
proprio o di terzi.
Art. 12.
1. La sanzione pecuniaria è ridotta della metà e non può comunque essere superiore a lire
duecento milioni se:
a) l’ autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ ente non
ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo;
(...)
Abstract
L’ art. 5 richiede, ai fini della configurazione della responsabilità dell’ ente, che il reato presupposto
sia stato commesso nell’ interesse o a vantaggio dell’ ente, precisando peraltro il secondo comma
dello stesso articolo che quest’ ultimo non risponde del medesimo se le persone fisiche hanno
agito nell’ esclusivo interesse proprio di soggetti terzi.
Sulla differenza tra "interesse" e "vantaggio" la Relazione ministeriale allo schema di decreto
legislativo attribuisce, al primo termine (interesse) una valenza soggettiva, riferita cioè alla volontà
dell’ autore materiale del reato, mentre al secondo (vantaggio), una valenza di tipo oggettivo,
riferita quindi ai risultati effettivi della condotta dell’ agente.
Il legislatore, in altri termini, ha voluto rendere punibile l’ ente anche nell’ ipotesi in cui l’ autore del
reato, pur non avendo di mira direttamente un interesse dell’ ente medesimo, ha realizzato
comunque un vantaggio in favore di questo. Sempre la Relazione suggerisce che l’ indagine sulla
sussistenza dell’ interesse sia esperita ex ante, ossia con un giudizio prognostico sul proposito
criminoso dell’ agente, mentre quella sul vantaggio deve essere necessariamente ex post,
dovendo il giudice valutare solo il risultato della condotta criminosa.
Si tratta, all’ evidenza, di una disposizione "chiave" del sistema "231" cui la giurisprudenza ha
dedicato e continua a dedicare attenzione (in particolare in tema di gruppi di società ed in tema di
reati colposi).
La giurisprudenza di legittimità sembra confermare - in linea con quanto illustrato nella Relazione
allo schema del decreto legislativo - l’ autonomia concettuale dei due termini ("interesse" e
"vantaggio"), sottolineando come il primo evochi l’ interesse prefigurato a monte come
conseguenza dell’ illecito ed il secondo il vantaggio effettivamente conseguito dalla sua
consumazione.
Appare quindi minoritario quell’ orientamento che vorrebbe i due vocaboli utilizzati dal legislatore
come termini di un’ endiadi e secondo cui, dunque, sarebbe sostanzialmente uno il criterio di
imputazione della responsabilità all’ ente e cioè l’ interesse del medesimo alla consumazione del
reato.
La sussistenza dell’ interesse (considerato dal punto di vista soggettivo) o del vantaggio
(considerato dal punto di vista oggettivo), è sufficiente all’ integrazione della responsabilità fino a
quando sussiste l’ immedesimazione organica tra dirigente apicale ed ente. Quest’ ultimo non
risponde quando il fatto è commesso dal singolo nell’ interesse esclusivo proprio o di terzi, non
riconducibile neppure parzialmente all’ interesse dell’ ente, ossia nel caso in cui non sia più
possibile configurare la suddetta immedesimazione.
Ad eccezione dell’ ipotesi ora menzionata, per non rispondere per quanto ha commesso il suo
rappresentante, l’ ente deve provare di avere adottato le misure necessarie ad impedire la
commissione di reati del tipo di quello realizzato.
Il soggetto responsabile - [cui ascrivere il reato proprio, apicale] - va individuato in base non alle
qualifiche formali, ma alle mansioni effettivamente esercitate nell’ ambito dell’ organizzazione
aziendale. Bisogna, quindi, fare riferimento al principio di effettività in base al quale si riconosce la
responsabilità penale di colui che, nell’ ambito dell’ azienda, svolge realmente e in piena
autonomia (decisionale e finanziaria) le funzioni che possono mettere in pericolo i beni tutelati dal
legislatore e sulle quali gravano pertanto gli obblighi imposti dalla norma incriminatrice.
I criteri cardine dell’ interesse o vantaggio posti dall’ art. 5 per la responsabilizzazione dell’ ente, in
relazione a reati colposi, vanno rapportati non all’ evento delittuoso, bensì alla condotta posta in
violazione di regole cautelari che hanno costituito l’ antecedente logico dell’ evento delittuoso. Da
ciò discende che solo la violazione delle regole cautelari (ovvero di tutte quelle regole, scritte o
tacite, che la società deve rispettare per tutelare la salute del lavoratore) può essere commessa
nell’ interesse dell’ ente, e cioè con l’ intento di conseguire un risparmio dei costi di gestione,
mentre l’ evento lesivo sarebbe da ascriversi all’ ente per il fatto stesso di derivare dalla violazione
di regole cautelari.
In particolare, come chiarito anche nella Relazione governativa di accompagnamento del decreto
legislativo, il presupposto del rapporto qualificato dell’ ente con la persona fisica che ha posto in
essere il reato, si fonda sulla teoria della immedesimazione organica ed è posto a salvaguardia del
principio della personalità della responsabilità penale (valevole anche per la responsabilità
amministrativa da reato).
La verifica di tale collegamento tra ente e autore del reato non sembra richiedere l’ ulteriore
accertamento della consumazione dell’ illecito penale nell’ ambito dell’ esercizio delle sue funzioni
proprie e tipiche, da parte del soggetto qualificato.
Piuttosto, come affermato dalla giurisprudenza di merito (Gip Milano, 27.4.2007), il soggetto
apicale non coinvolge nella responsabilità l’ ente, solo ove abbia agito in modo radicalmente
eterogeneo rispetto agli interessi della persona giuridica rappresentata, in modo da determinare l’
interruzione stessa del rapporto organico.
Mentre, quando la violazione degli specifici doveri funzionali del soggetto apicale è stato ritenuto
elemento costitutivo della responsabilità dell’ ente, il legislatore lo ha specificamente indicato (ciò,
ad esempio, è quanto precisa proprio l’ articolo 25-ter d.lgs. n. 231 del 2001, rispetto al reato
commesso da persone sottoposte alla vigilanza dell’ amministratore, direttore generale o
liquidatore).
Con il che, una volta stabilito che il reato sia stato obiettivamente commesso da un soggetto
apicale legato da rapporto organico all’ ente, l’ unico (fondamentale) criterio di selezione rimane
quello che il fatto sia stato realizzato a vantaggio o nell’ interesse dell’ ente. La formula "nel suo
interesse o a suo vantaggio" non esprime un’ endiadi, ma due concetti giuridicamente autonomi.
Il raffronto della lettera dei commi 1 e 2 dell’ art. 5 del decreto non lascia alcun dubbio che l’
interesse o il vantaggio, anche solo concorrente, dell’ ente (con quello individuale dell’ autore del
reato o di terzi) costituisca idoneo criterio di imputazione della responsabilità dell’ ente stesso.
Nondimeno, proprio la natura di criterio d’ imputazione della responsabilità, riconosciuto dalla
legge all’ interesse o vantaggio dell’ ente, richiede la concreta e non astratta affermazione dell’
esistenza di un tale interesse o vantaggio, da intendersi rispettivamente come potenziale o
effettiva utilità, ancorché non necessariamente di carattere patrimoniale, derivante all’ ente dalla
commissione del reato presupposto.
In tema di responsabilità amministrativa degli enti qualora l’ autore del reato presupposto sia l’
amministratore unico di una società a responsabilità limitata, non è ammissibile - al fine dell’
ascrizione della responsabilità all’ ente, ai sensi dell’ art. 5 - affermare che vi sia un’
immedesimazione totale tra l’ amministratore, autore del reato presupposto, e l’ ente, tale da
condurre a ritenere che l’ interesse o vantaggio dell’ uno sia necessariamente interesse o
vantaggio dell’ altro.
Non appare corretto aderire all’ interpretazione restrittiva del concetto di "interesse dell’ ente" in
quanto essa sposa una visione inattuale dell’ ente, concepito come una monade isolata all’ interno
del complesso sistema economico attuale, con conseguenti evidenti lacune di tutela tutte le volte in
cui l’ interesse perseguito sia ricollegabile non all’ ente di cui fa parte l’ autore del reato, ma ad una
società controllata o controllante, oppure al gruppo nel suo insieme. Più corretta, invece, appare l’
interpretazione tendente ad estendere la rilevanza del concetto di interesse fino a ricomprendervi
quella di "interesse di gruppo": appare evidente infatti che, in presenza di gruppi d’ imprese, il
perseguire l’ interesse di gruppo attraverso la commissione di un reato realizza una delle
condizioni richieste ai fini dell’ integrazione dei criteri d’ imputazione oggettiva della responsabilità.
L’ art. 5 del decreto, nel sancire che l’ ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o
a suo vantaggio, tra gli altri, da soggetti posti in posizione apicale, individua tali persone fisiche in
coloro che hanno, per l’ ente, "funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione...
nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso". Pertanto,
si osserva che la citata norma richiede - con specificazione non eludibile - che la persona fisica
eserciti la "gestione e il controllo" dell’ ente, comportando il "dominio" ovvero la "disponibilità" dell’
ente in capo a tale persona, anche se in modo non esclusivo e continuativo, ma sicuramente - al
fine di ritenere la responsabilità dell’ ente - in occasione della condotta di rilevanza penale.
Un illecito amministrativo dipendente da reato può essere addebitato ad un ente che svolga il ruolo
di controllante nell’ ambito di un gruppo di società, se risulta che tale illecito è stato commesso nell’
interesse comune del gruppo, indipendentemente dal fatto che esso ne abbia tratto diretto
vantaggio.
Integra il concetto di interesse o vantaggio dell’ ente, ai sensi dell’ art. 5 del decreto, l’ ipotesi in cui
il profitto del reato di corruzione consista nell’ incremento del valore di un bene immobile, qualora
tale bene sia stato acquistato tramite una società immobiliare controllata dalla società indagata.
Art. 6.
1. Se il reato è stato commesso dalle persone indicate nell’ articolo 5, comma 1, lettera a), l’ ente
non risponde se prova che:
a) l’ organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto,
modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
2. In relazione all’ estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di
cui alla lettera a), del comma 1, devono rispondere alle seguenti esigenze:
c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei
reati;
d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’ organismo deputato a vigilare sul
funzionamento e l’ osservanza dei modelli;
e) introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate
nel modello.
4. Negli enti di piccole dimensioni i compiti indicati nella lettera b), del comma 1, possono essere
svolti direttamente dall’ organo dirigente.
(...)
Art. 7.
1. Nel caso previsto dall’ articolo 5, comma 1, lettera b), l’ ente e’ responsabile se la commissione
del reato e’ stata resa possibile dall’ inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.
2. In ogni caso, è esclusa l’ inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l’ ente, prima
della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione,
gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
3. Il modello prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell’ organizzazione nonché al tipo
di attività svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell’ attività nel rispetto della legge e a
scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio.
a) una verifica periodica e l’ eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative
violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell’ organizzazione o nell’
attività;
b) un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel
modello.
Abstract
Nonostante il tema dei modelli organizzativi costituisca uno degli snodi chiave della disciplina sulla
responsabilità amministrativa, non è ancora possibile trarre dalla giurisprudenza un orientamento
consolidato, che possa essere utilizzato quale parametro - per enti ed Associazioni di categoria -
per la costruzione di modelli organizzativi "idonei" o per la proposizione di standard adeguati.
Ciò è dovuto a diversi fattori, primo fra tutti il fatto che la giurisprudenza sulla materia è
rappresentata in molta parte da ordinanze cautelari e poche sono ancora le sentenze di merito e di
legittimità. A ciò, poi, deve essere aggiunto l’ ulteriore dato per cui, fino a poco tempo fa, i
procedimenti a carico di enti hanno riguardato soggetti che non erano dotati, prima della
commissione del fatto, di un modello organizzativo (modello che è stato adottato, quindi, come il
decreto consente, solo nel post factum).
Ciò premesso, l’ esame della giurisprudenza di merito evidenzia una valutazione tendenzialmente
negativa sull’ idoneità dei modelli ad escludere la responsabilità dell’ ente, per vari aspetti relativi
all’ organizzazione aziendale.
Avendo riguardo a decisioni dalle quali è possibile trarre indicazioni di buone pratiche societarie
relative ai modelli, si segnala quanto segue: che il modello deve essere efficace e dinamico, tale
da seguire i cambiamenti dell’ ente cui si riferisce; che l’ efficacia di un modello organizzativo
dipende dalla sua idoneità in concreto ad elaborare meccanismi di decisione e controllo idonei ad
eliminare o ridurre significativamente l’ area di rischio di responsabilità; che la prevenzione dei reati
deve essere il risultato di una visione realistica ed economica dei fenomeni aziendali e non
esclusivamente giuridico-formale; che l’ individuazione delle attività nel cui ambito possono essere
commessi reati presuppone un’ analisi approfondita della realtà aziendale e delle possibili modalità
attuative dei reati stessi. In tale analisi dovrà necessariamente tenersi conto della storia dell’ ente;
che i modelli devono prevedere misure idonee a garantire lo svolgimento dell’ attività nel rispetto
della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio, in relazione alla natura
e alla dimensione dell’ organizzazione nonché al tipo di attività svolta; che il modello deve
consentire un’ attuale e costante mappatura dei rischi aziendali attraverso l’ individuazione delle
aree a rischio; che è importante la predisposizione di efficienti flussi informativi endosocietari.
I principi generali dettati dal decreto per la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e
delle società e, in particolare, le disposizioni relative ai modelli di organizzazione, possono essere
utilizzati al fine di accertare l’ eventuale responsabilità di una società, nel caso di false dichiarazioni
rese dai propri rappresentanti o dipendenti.
Ai sensi dell’ art. 6, la responsabilità della società per i reati commessi dai propri vertici deve
essere esclusa qualora l’ ente abbia adottato un modello organizzativo idoneo a prevenire reati
della stessa specie, di tal che essi siano da addebitare esclusivamente al comportamento di coloro
che abbiano volontariamente violato le regole interne imposte da tale modello. Nel caso oggetto di
giudizio, relativo a fatti di aggiotaggio ex art. 2637 c.c., il tribunale ha ritenuto idoneo un modello
dotato delle seguenti caratteristiche: istituzione di un organismo di vigilanza composto dal preposto
al controllo interno e responsabile dell’ internal autiding, alle dipendenze dirette del presidente del
consiglio di amministrazione e senza sottoposizione alla direzione amministrazione e controllo;
verifica annuale dei principali atti societari e della validità delle procedure di controllo;
partecipazione di più soggetti al compimento delle attività a rischio; attività di formazione periodica;
riunioni periodiche fra Collegio Sindacale e Organo di Sorveglianza per la verifica dell’ osservanza
della normativa; procedure autorizzative per l’ adozione dei comunicati stampa.
Trib. Milano 18 dicembre 2008
Nel decreto il legislatore non delinea, a carico dell’ ente, una responsabilità fondata
esclusivamente sul rischio di impresa ovvero sull’ interesse e/o vantaggio tratto dall’ ente a seguito
della commissione del reato. Infatti, il decreto aggancia il rimprovero nei confronti della persona
giuridica ad un difetto della organizzazione di impresa, rispetto ad un modello di diligenza esigibile
dall’ ente come soggetto collettivo.
Ebbene, il rilievo di tale colpa di organizzazione si estrinseca - allorquando il reato sia commesso
da soggetto apicale - nella mancanza di modelli di organizzazione e gestione, idonei a prevenire la
commissione di reati. Cioè, l’ ente non risponde del reato, se prova di avere adottato tali modelli,
corredati di organismo di controllo ad hoc e l’ onere di fornire tale dimostrazione incombe
integralmente sulla difesa.
Il Presidente ed Amministratore Delegato di una società di capitali - che abbia omesso l’ adozione
del modello di organizzazione, gestione e controllo previsto dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 -
intervenuta la sua condanna penale, in concorso con altri organi sociali, per reati di corruzione,
turbativa d’ asta e truffa, nonché la condanna della società medesima per responsabilità
amministrativa per illecito da reato, è tenuto a risarcire alla società esercente l’ azione di
responsabilità i danni da essa subiti a causa della mancata attivazione del presidio penal-
preventivo.
Va considerato come non inadeguato un modello organizzativo, in quanto: non esiste nel modello
organizzativo un’ indicazione di professionalità specifica riferita ai componenti dell’ organismo di
vigilanza; mancano elementi che provino la sussistenza dei requisiti di indipendenza; le cause di
ineleggibilità e revoca sono tali che un soggetto condannato per uno dei reati presupposto della
disciplina potrebbe rimanere in carica fino al passaggio in giudicato della sentenza.
Non può essere considerato idoneo alla prevenzione dei reati e ad escludere la responsabilità
amministrativa dell’ ente un modello di organizzazione e gestione, adottato ai sensi degli art. 6 e 7
del decreto, che non preveda strumenti idonei a identificare le aree di rischio nell’ attività della
società e a individuare gli elementi sintomatici della commissione di illeciti, quali la presenza all’
estero di conti correnti riservati, l’ utilizzazione di intermediari esteri al fine di rendere meno
agevole l’ accertamento della provenienza dei pagamenti o la periodicità dei pagamenti, in
relazione alle scadenze delle gare di appalto indette dalla società.
In punto di nomina dei membri dello stesso organo, prevedere come causa di ineleggibilità la
condanna con sentenza passata in giudicato per avere commesso uno dei reati di cui al decreto
ovvero la condanna ad una pena che importa l’ interdizione anche temporanea dai pubblici uffici
ovvero l’ interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese, può
non essere sufficiente a garantire l’ indipendenza dell’ organo: è, pertanto, necessario considerare
come causa di ineleggibilità la sentenza di condanna anche quando non ancora passata in
giudicato.
Il decreto prevede un generale obbligo di adempienza, nell’ ipotesi in cui venga scoperto, o
comunque prospettato, un reato che coinvolga un ente. Il citato decreto prevede, all’ art. 7, comma
3, che la società è tenuta a scoprire ed eliminare tempestivamente le situazioni di rischio e, ai
sensi dell’ art. 17, lett. b), che la stessa società deve altresì eliminare le proprie carenze
organizzative, adottando ed attuando modelli organizzativi idonei a prevenire i reati della specie di
quello verificatosi.
È legittima la richiesta di applicazione della misura interdittiva del divieto di contrarre con la
pubblica amministrazione nei confronti dell’ ente responsabile di non aver adeguatamente vigilato
sull’ osservanza del modello di organizzazione predisposto al fine di prevenire la commissione di
reati da parte dei propri funzionari. A nulla rileva, inoltre, la circostanza che l’ ente abbia poi attuato
meccanismi di risarcimento post factum nei confronti del diretto destinatario dell’ attività illecita,
perché resta aperto il problema del profitto conseguito in seguito alla commissione dei reati.
Ai fini dell’ applicazione delle misure cautelari previste dall’ art. 45 del decreto, al fine di escludere
il pericolo di recidiva può rilevare anche la predisposizione ex post, da parte della società, di un
modello di organizzazione e di gestione. La verifica dell’ idoneità di tale modello a prevenire la
commissione di reati della stessa specie di quello verificatosi, richiede una valutazione più rigorosa
di quella effettuata nei confronti del modello predisposto ex ante, in quanto è necessario che il
modello sia effettivamente in grado di rimuovere le carenze dell’ apparato organizzativo e
operativo dell’ ente che hanno in concreto favorito la commissione dell’ illecito.
Nel corso di un procedimento penale volto all’ accertamento dell’ illecito amministrativo è
consentito al giudice delle indagini preliminari nominare un perito per la valutazione dell’ idoneità
alla prevenzione dei reati di un modello organizzativo aziendale, adottato dalla società indagata
dopo la commissione del fatto e invocato per evitare l’ applicazione di misure cautelari interdittive.
Ai sensi dell’ art. 12 del decreto la sanzione pecuniaria emessa a carico di una società a titolo di
responsabilità amministrativa conseguente al reato di istigazione alla corruzione commesso dal
suo legale rappresentante deve essere ridotta nel caso in cui l’ ente, prima dell’ apertura del
dibattimento, abbia integralmente risarcito il danno cagionato alla pubblica amministrazione e
abbia adottato un modello organizzativo idoneo a prevenire la commissione di ulteriori reati. (Nel
caso di specie, l’ ente ha comprovato l’ adozione di modelli organizzativi idonei a prevenire la
commissione di altri reati allontanando il legale rappresentante dall’ amministrazione e dalla
rappresentanza dell’ ente).
1) Disposizioni generali
Art. 26
Delitti tentati
Le sanzioni pecuniarie ed interdittive sono ridotte da un terzo alla metà in relazione alla
commissione, nelle forme del tentativo, dei delitti indicati nel presente capo del decreto.
Art.34
Per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato, si osservano le norme di
questo capo nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del
decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.
Art. 35
All’ ente si applicano le disposizioni processuali relative all’ imputato, in quanto compatibili.
Abstrract
L’ espressa previsione di applicabilità al procedimento a carico dell’ ente delle disposizioni del
codice di procedura penale, in quanto compatibili, e l’ estensione della disciplina di garanzia
relativa all’ imputato all’ ente, ha consentito per relationem di risolvere a monte molti dubbi
interpretativi ed applicativi.
La giurisprudenza rinvenuta in argomento, pertanto, appare sostanzialmente ripetitiva del concetto
già chiaramente espresso nelle norme di cui agli artt. 34 e 35 del decreto.
La responsabilità amministrativa degli enti per i reati commessi nel loro interesse o vantaggio -
prevista dal decreto - sussiste, ai sensi dell’ art. 26, anche quando gli stessi reati vengono
consumati solo nella forma del tentativo. (Fattispecie relativa al reato "presupposto" di truffa ai
danni dello Stato).
Il diritto alla traduzione degli atti contenenti l’ accusa nella lingua nota all’ ente sottoposto a
procedimento penale nell’ ordinamento italiano, per il combinato disposto dell’ art. 143 c.p.p., e
degli artt. 34 e 35, d.lgs. n. 231/2001, è subordinato alla verifica che l’ ente stesso, pur avendo
sede centrale all’ estero o essendo stato ivi costituito, non sia nelle sue articolazioni effettivamente
in grado di comprendere la lingua italiana.
In virtù dell’ espresso richiamo - operato dagli artt. 34 e 35 del decreto alle norme del codice di
procedura penale e alle disposizioni processuali relative all’ imputato, in quanto compatibili - deve
ritenersi applicabile anche al procedimento volto all’ accertamento e all’ applicazione agli enti delle
sanzioni amministrative, il disposto dell’ art. 423, comma 1, c.p.p., in materia di modificazione dell’
imputazione.
La colpevolezza dell’ ente, quale parametro valutativo della relazione psicologica fatto-autore, può
consistere indifferentemente nella volontarietà del fatto ovvero nell’ involontarietà colpevole dello
stesso. Conseguentemente, sempre in linea ipotetica ed astratta, non può affatto escludersi che le
condotte materiali contestate alla società, rispetto ai fatti asseritamente costitutivi dell’ illecito
amministrativo della persona giuridica, implicassero una relazione soggettiva volontaristica di
natura dolosa e, quindi, potessero dirsi tra loro connesse, ai sensi dell’ art. 12, comma 1, lett. b),
c.p.p.
In virtù di quanto previsto dall’ art. 34 del decreto, secondo cui per il procedimento relativo agli
illeciti amministrativi dipendenti da reato si osservano, in quanto compatibili, le disposizioni del
codice di procedura penale, deve ritenersi che, anche in tale ambito, sussista per il giudice il
divieto di disporre una misura più grave di quella richiesta dal pubblico ministero.
Art. 1.
Soggetti
(...)
2. Le disposizioni in esso previste si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società
e associazioni anche prive di personalità giuridica.
3. Non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici
nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.
Art. 36
1. La competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ ente appartiene al giudice penale
competente per i reati dai quali gli stessi dipendono.
Art. 37
Casi di improcedibilità
1. Non si procede all’ accertamento dell’ illecito amministrativo dell’ ente quando l’ azione penale
non può’ essere iniziata o proseguita nei confronti dell’ autore del reato per la mancanza di una
condizione di procedibilità’ .
Art. 38.
1. Il procedimento per l’ illecito amministrativo dell’ ente è riunito al procedimento penale instaurato
nei confronti dell’ autore del reato da cui l’ illecito dipende.
(...)
Abstract
La Suprema Corte è intervenuta per diradare i dubbi sull’ identità dei destinatari del decreto e
quindi sull’ art. 1, precisando come la disciplina sulla responsabilità amministrativa da reato sia
"riferita unicamente agli "enti", termine che evoca l’ intero spettro dei soggetti di diritto
metaindividuali con conseguente esclusione dal novero dei destinatari degli imprenditori individuali.
Di particolare interesse le decisioni relative all’ ambito di applicazione territoriale del decreto; nulla,
infatti, è detto espressamente nelle norma del decreto, il quale si limita a prevedere, all’ art. 4 la
responsabilità degli enti italiani anche per i reati commessi all’ estero in una serie di casi ed a
condizione che lo Stato in cui sia commesso il fatto non proceda nei loro confronti. Del tutto
incerta, invece, è l’ estensione della giurisdizione italiana su base "personale" ed in particolare l’
applicabilità del decreto alle società estere.
Dalle pronunce dei giudici emerge, allo stato, una risposta postiva, nel senso che la norma del
decreto sono applicabili anche nei confronti di società straniere che, pur avendo la sede principale
all’ estero, operino in Italia tramite un’ associazione temporanea di imprese nazionali.
A fondamento dell’ applicabilità della normativa italiana si è sostenuto che le persone giuridiche
straniere, nel momento in cui operano nel nostro Paese, anche eventualmente tramite un’
associazione temporanea d’ imprese, hanno il dovere di osservare e rispettare la legge italiana,
indipendentemente dall’ esistenza o meno nel Paese di appartenenza di norme che regolino in
modo analogo la medesima materia.
Come si evince dalla ratio della normativa, le disposizioni del decreto non si applicano all’ impresa
individuale.
Non si pone un problema di giurisdizione in ordine all’ assoggettamento alle norme di cui al
decreto di un ente di diritto tedesco in Italia; sia le persone fisiche che le persone giuridiche
straniere, nel momento in cui operano in Italia, hanno semplicemente il dovere di osservare e
rispettare la legge italiana e quindi anche il d.lgs. n. 231/2001, indipendentemente dall’ esistenza o
meno nel paese di appartenenza di norme che regolino in modo analogo la medesima materia.
Dal silenzio dell’ art. 1, commi 2 e 3, e dell’ art. 4 del decreto non è dato trarre il principio di
insussistenza della giurisdizione italiana nell’ ipotesi in cui il reato, da cui dipende la responsabilità
amministrativa dell’ ente, sia stato commesso in Italia. Al contrario, il principio della sussistenza
della giurisdizione italiana si ricava dal complesso del sistema normativo del d.lgs. n. 231 del 2001,
ossia dall’ art. 34 che rimanda, quanto alla procedura, alle norme del c.p.p. e, quindi, anche all’ art.
1 che sancisce il principio generale della giurisdizione del giudice penale; e dall’ art. 36, che -
sancendo la competenza del giudice penale in ordine al reato presupposto e all’ illecito
amministrativo dell’ ente - comporta che la competenza per l’ accertamento dell’ illecito
amministrativo si radichi nel luogo di commissione del reato presupposto. Dal sistema del d.lgs. n.
231 del 2001 si ricava che, una volta sussistente il reato presupposto, il Giudice ha competenza
anche a conoscere della sussistenza o meno della responsabilità amministrativa dell’ ente.
Pertanto, nel momento in cui l’ ente estero decida di operare in Italia ha l’ onere di attivarsi e di
uniformarsi alle previsioni normative italiane. Ragionando diversamente l’ ente si attribuirebbe una
sorta di auto-esenzione dalla normativa italiana in contrasto con il principio di territorialità della
legge, in particolare con l’ art. 3 del c.p.
Nel giudizio volto ad ottenere il risarcimento del danno conseguente ad un illecito previsto dal
d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 sussiste la giurisdizione del giudice penale.
Infatti, l’ illecito amministrativo dipendente da reato è oggetto dell’ azione del Pubblico Ministero
con i poteri tipici del rito penale che giammai potrebbe avere il privato; quest’ ultimo, se volesse
provare l’ illecito dell’ ente, dovrebbe dimostrare davanti al giudice civile l’ esistenza di un reato e di
tutti gli elementi dell’ illecito amministrativo, anche quelli strettamente connessi alla vita e all’
organizzazione dell’ ente, oltre che il danno subito, con una difficoltà (se non sostanziale
impossibilità) probatoria.
Pertanto, la concentrazione in capo al giudice penale di una vera e propria giurisdizione esclusiva
(si tutela complessivamente il bene giuridico danneggiato dal fatto, a prescindere dalla
qualificazione di diritto soggettivo o d’ interesse legittimo) risponde all’ applicazione dei principi
costituzionali del diritto di difesa, del giusto processo e dell’ unità della giurisdizione, mentre
urterebbe contro tali principi la scissione obbligatoria dell’ accertamento dei danni provocati dal
medesimo fatto davanti a due giudici.
Il principio espresso dall’ art. 2495, comma 2, c.c., come modificato dal d.lgs. n. 6 del 2003, in virtù
del quale la cancellazione della società dal registro delle imprese comporta l’ estinzione della
stessa, deve intendersi riferito anche alle società di persone. Pertanto, dal momento della
cancellazione la società cessa di esistere e non può più essere evocata, neppure nel giudizio volto
all’ accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato, a nulla rilevando che il
d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 nulla disponga in proposito.
Gli artt. 36 e ss. del decreto non consentono di derogare - neppure in presenza di fatti nuovi
sopravvenuti - alla regola secondo la quale le questioni relative alla competenza territoriale
possono essere rilevate o eccepite solo entro i termini indicati nell’ art. 21 c.p.p.
Le disposizioni del codice di procedura penale e le disposizioni processuali relative all’ imputato,
che consentono la costituzione di parte civile, richiamate dagli artt. 34 e 35 del decreto appaiono
pienamente compatibili, e dunque applicabili, anche al procedimento relativo agli illeciti
amministrativi dipendenti da reato. Infatti, il legislatore del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, mediante
gli artt. 34 e 35, ha espressamente formulato un generale richiamo alle norme del codice di
procedura penale ed alla disciplina applicabile all’ imputato, all’ evidente fine di evitare una
gravosa riproposizione dell’ intera disciplina codicistica.
Art. 39.
1. L’ ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi
sia imputato del reato da cui dipende l’ illecito amministrativo.
(...)
4. Quando non compare il legale rappresentante, l’ ente costituito è rappresentato dal difensore.
5. Il domicilio delle parti private indicate nel comma 1 per ogni effetto processuale si intende eletto
presso il difensore.
Art. 40.
Difensore di ufficio
Art. 41.
Abstract
Il processo penale è sempre stato processo delle persone fisiche, essendo prevista la
partecipazione di enti collettivi solo quali parti eventuali; si pensi all’ ente quale parte civile ovvero
responsabile civile. Per rintracciare una ipotesi di partecipazione al processo penale di persona
giuridica latamente assimilabile a quella configurata dal decreto, occorre rifarsi alla posizione dell’
obbligato per il pagamento della pena pecuniaria ex art. 197 c.p., a seguito della commissione del
reato nel suo interesse.
La natura penale-amministrativa della responsabilità dell’ ente ha indotto ad estendere all’ ente, in
base all’ art. 35, le disposizioni processuali previste per l’ imputato, in modo da consentirgli di
beneficiare di ampie garanzie ed esercitare al meglio il diritto di difesa.
Non mancano, però criticità interpretative di cui la giurisprudenza si è fatta carico: una di queste
riguarda la rappresentanza dell’ ente in giudizio.
Nel giudizio in tema di responsabilità amministrativa dell’ ente da reato, accanto al difensore, vi è
anche il rappresentante dell’ ente: tale soggetto assume un ruolo intermedio, venendo allo stesso
attribuita una natura ibrida: da un lato, infatti, il rappresentante dell’ ente deve considerarsi titolare
delle garanzie spettanti all’ imputato, dall’ altra però vi sono casi nei quali lo stesso viene
equiparato al testimone. Il legislatore, non a caso, ha ritenuto di dover espressamente escludere
che il soggetto in discorso possa essere assunto quale teste nel solo caso in cui costui esercitava
il potere rappresentativo dell’ ente al momento della commissione del fatto.
Le modalità di partecipazione dell’ ente al giudizio sono indicate dall’ art. 39.
Tale presunzione deve, però essere superata laddove - come la giurisprudenza ha evidenziato - si
configuri un conflitto d’ interessi fra soggetto metaindividuale ed il rappresentante legale, ossia nel
caso in cui il rappresentante sia anche imputato del reato da cui dipende l’ illecito amministrativo
contestato all’ ente.
Su tale tema si è espressa la Corte di Cassazione, per affermare che al rappresentante legale il
quale sia imputato del reato da cui dipende l’ illecito amministrativo, è esplicitamente vietato dalla
legge di rappresentare l’ ente.
Tale divieto, secondo la Cassazione, è assoluto e operante anche nelle ipotesi in cui il
rappresentante sia soltanto indagato, posto che ha la finalità di assicurare la piena garanzia del
diritto di difesa al soggetto collettivo imputato in un procedimento penale. Da ciò consegue che
tutte le attività processuali attuate dal rappresentante "incompatibile" all’ interno del procedimento
penale che riguarda l’ ente devono essere considerate inefficaci.
L’ orientamento della Cassazione è, quindi, in linea con quanto sostenuto dalla dottrina prevalente,
secondo la quale detta incompatibilità dovrebbe sussistere anche quando alla persona fisica sia
addebitata la commissione di un reato connesso ex art. 12 c.p.p. o collegato ex art. 371 c.p.p. a
quello che fonda la responsabilità dell’ ente.
Tale soluzione, seppure certamente aderente al dato normativo, non è priva di difficoltà
applicative: l’ incompatibilità del rappresentante legale, che sia anche imputato, a rappresentare l’
ente.
Al rappresentante legale il quale sia imputato del reato da cui dipende l’ illecito amministrativo è
esplicitamente vietato dalla legge di rappresentare l’ ente. Tale divieto è assoluto ed operante
anche nelle ipotesi in cui il rappresentante sia soltanto indagato, posto che ha la finalità di
assicurare la piena garanzia del diritto di difesa al soggetto collettivo imputato in un procedimento
penale. Da ciò ne consegue che tutte le attività processuali poste in essere dal rappresentante
"incompatibile" all’ interno del procedimento penale che riguarda l’ ente devono essere considerate
inefficaci.
Detta incompatibilità, fondandosi su una presunzione iuris et de iure di conflitto di interessi, non
presenta profili di incostituzionalità.
L’ indagato non può difendere l’ ente nel processo ai sensi del d.lgs. n. 231/2001.
In tema di responsabilità amministrativa nascente da reato l’ esercizio dei diritti di difesa da parte
dell’ ente in ogni fase del procedimento a suo carico è subordinato all’ atto formale di costituzione,
ai sensi dell’ art. 39 del decreto.
L’ ente non può comparire nel procedimento di riesame se non mediante una persona fisica che lo
rappresenti e, qualora quest’ ultima sia anch’ essa incriminata per gli stessi fatti per i quali si
procede a carico dell’ ente, la legittimazione del rappresentante legale viene meno per realizzarsi
un conflitto di interesse, come stabilito dall’ art. 39 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Quanto alle formalità per la regolare costituzione dell’ ente nel procedimento di riesame e, in
particolare, alla nomina del difensore ex art. 100 c.p.p., esse devono essere applicate anche nella
fase delle indagini preliminari in quanto, l’ art. 39, comma e del decreto fa riferimento all’ intero
procedimento disciplinato nel Capo III del citato decreto, il quale ricomprende le indagini
preliminari, l’ udienza preliminare e il giudizio.
Art.34
Per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato, si osservano le norme di
questo capo nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del
decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.
Art. 35
1. All’ ente si applicano le disposizioni processuali relative all’ imputato, in quanto compatibili
Art. 54.
Sequestro conservativo
Abstract
Il decreto non contempla l’ istituto della costituzione di parte civile, né fa espresso rinvio ad alcuna
delle disposizioni del codice di procedura penale che al predetto istituto fanno riferimento.
L’ assenza di una norma specifica nel plesso della 231 ha generato un’ intermittenza
giurisprudenziale in ordine all’ ammissibilità o meno della costituzione di parte civile nel
procedimento che si svolge davanti al giudice penale per l’ accertamento dell’ illecito
amministrativo dell’ ente.
Allo stato prevale l’ orientamento che afferma la inammissibilità della costituzione di parte civile.
Tale tesi prende le mosse dalla considerazione che non esiste, nel nostro ordinamento, un
principio generale di trasferibilità nel processo penale dell’ azione civile per il risarcimento dei
danni cagionati da qualsiasi fatto illecito che il giudice penale sia competente ad accertare; esiste,
al contrario, una disposizione ad hoc, come quella dell’ art. 74 c.p.p., che in deroga ai generali
criteri di ripartizione delle competenze tra giudice penale e giudice civile, consente di trasferire nel
processo penale per l’ accertamento di fatti costituenti reato l’ azione civile nei confronti dell’ autore
del reato e di chi, a norma delle leggi civili, debba rispondere per il fatto dello stesso.
Inoltre, la pacifica diversità strutturale tra l’ illecito amministrativo di cui al decreto 231 ed il reato da
cui lo stesso dipende (i.e.: illecito amministrativo l’ uno, reato l’ altro), impedisce di ritenere
applicabile la disposizione del citato art. 74 c.p.p. al procedimento che si svolge davanti al giudice
penale per l’ accertamento dell’ illecito amministrativo; la medesima disposizione, peraltro, è
certamente insuscettibile di applicazione analogica, in virtù del suo carattere di norma eccezionale.
La formulazione di talune disposizioni di natura processuale del decreto 231, prima fra tutte quella
dell’ art. 54, in materia di sequestro conservativo, si ritiene sia chiara espressione della scelta
legislativa di escludere la possibilità di una costituzione di parte civile nel procedimento per l’
accertamento dell’ illecito amministrativo. Scelta che appare invero razionale, in un’ ottica di
sistema, dal momento che nel processo penale è già prevista un’ azione tipica, quella disciplinata
dall’ art. 83 c.p.p., avente ad oggetto danni originati dal medesimo rapporto genetico della
responsabilità invocabile a fondamento della costituzione di parte civile nei confronti dell’ ente
imputato dell’ illecito amministrativo.
Ammissibilità della costituzione di parte civile limitatamente alla persona offesa dalla condotta di
cui l’ ente è chiamato a rispondere.
Gli elementi di matrice penalistica presenti nella disciplina della responsabilità degli enti, seppur
numerosi, non offrono argomenti decisivi nel senso della ammissibilità della costituzione di parte
civile nei confronti dell’ ente chiamato a rispondere di un illecito.
In primo luogo, infatti, non mancano differenze di disciplina tra istituti analoghi. In secondo luogo,
appare insuperabile la considerazione, che spinge nell’ opposta direzione, del fatto che nessun
richiamo all’ istituto della parte civile sia presente nel testo legislativo, che - peraltro - contiene
espliciti riferimenti ad altri istituti processual-penalistici, oltre che un’ articolata disciplina di
situazioni tutte riconducibili all’ eventualità che l’ illecito dell’ ente abbia cagionato un danno
patrimoniale a terzi.
Infine, decisivo nel senso di far ritenere che il legislatore abbia consapevolmente optato per l’
inammissibilità della costituzione della parte civile nei confronti dell’ ente chiamato a rispondere di
un illecito pare il disposto dell’ art. 54 del citato decreto, che prevede che il sequestro conservativo
possa essere richiesto esclusivamente dal PM in relazione al pericolo che si disperdano le
garanzie per il pagamento della sanzione pecuniaria.
Tale norma "marca" una significativa differenza con l’ omologo istituto del processo penale, come
previsto dall’ art. 316 c.p.p., che consente che analoga richiesta sia avanzata dalla parte civile in
relazione alle obbligazioni civili derivanti da reato. Il richiamo, contenuto nel citato art. 54, al solo
quarto comma dell’ art. 316 c.p.p. e non anche al secondo comma (che prevede la possibilità
anche per la parte civile di richiedere il sequestro conservativo) ed al terzo comma (che stabilisce
che il sequestro richiesto dal PM giova anche alla parte civile) pare confermare la correttezza della
linea interpretativa qui adottata.
Si tratta di una norma che ricalca solo in parte la disciplina dell’ art. 316 c.p.p. laddove, invece, tale
disposizione processuale consente analoga richiesta anche alla parte civile in relazione alle
obbligazioni civili derivanti da reato. Orbene, che l’ art. 54 non faccia alcun riferimento alla parte
civile e non preveda alcun potere in capo a tale soggetto processuale di richiedere il sequestro
conservativo appare estremamente significativo, posto che si tratta di istituto di rilevante
importanza per garantire il soddisfacimento della pretesa civilistica prospettata da detta parte.
Peraltro, la circostanza che il legislatore abbia riscritto la disciplina del predetto istituto, ricalcando
in modo quasi pedissequo il contenuto del primo comma dell’ art. 316 c.p.p. non può indurre a
pensare che l’ omesso riferimento alla figura della parte civile possa essere considerato una mera
dimenticanza del legislatore: si tratta, invero, di una precisa ed inequivocabile scelta legislativa nel
senso di non prevedere nel procedimento in questione la presenza di tale soggetto processuale.
La ragione di tale inammissibilità deriva non soltanto dall’ assenza di disposizioni riguardanti il
soggetto danneggiato dall’ illecito dell’ ente e di un richiamo espresso a tale categoria di soggetti,
ma anche dalla circostanza che la qualificazione dell’ illecito degli enti quale illecito amministrativo
non consente l’ esperibilità di detta azione sulla base dell’ interpretazione estensiva dell’ art. 185
c.p.
È inammissibile la costituzione di parte civile nei confronti dell’ ente sottoposto a giudizio per l’
accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato per l’ incompatibilità di tale
costituzione con il sistema previsto dallo stesso decreto e in assenza di una specifica norma che
fondi un’ azione risarcitoria direttamente nei confronti dell’ ente, il quale può essere citato soltanto
come responsabile civile.
Nonostante la seria e coerente interpretazione strettamente letterale degli artt. 74 c.p.p. e 185,
comma 2, c.p., dal sistema sanzionatorio previsto dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 si deve ritenere
ammissibile, nel procedimento volto all’ accertamento della responsabilità amministrativa
dipendente da reato, la costituzione di parte civile nei confronti dell’ ente imputato.
È ammissibile la costituzione di parte civile nei confronti dell’ ente sottoposto giudizio per l’
accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato che configura un titolo
autonomo di responsabilità dell’ ente medesimo, in base ad una lettura evolutiva dell’ art. 185 c.p.,
in assenza di specifiche disposizioni contrarie previste dal medesimo decreto e di profili d’
incompatibilità con la disciplina contenuta nel codice di procedura penale.
Non è ammissibile la costituzione di parte civile direttamente nei confronti dell’ ente sottoposto ad
un procedimento volto all’ accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato. L’
ente può essere chiamato a rispondere in veste di responsabile civile per il fatto connesso al reato
commesso dai propri vertici o dai propri sottoposti, ricorrendone i presupposti e in base alla
disciplina processuale.
Nel giudizio volto all’ accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato è
inammissibile la costituzione di parte civile nei confronti dell’ ente cui sia contestato l’ illecito, in
quanto il predetto decreto, non solo non prevede espressamente l’ istituto della costituzione di
parte civile nè la parte civile tout court, ma contiene anche disposizioni che sembrano escluderne l’
applicazione. La stessa conclusione, inoltre, può trarsi dalla circostanza che il citato decreto
qualifica espressamente come "illecito amministrativo" il fatto fonte di responsabilità, anch’ essa
amministrativa, escludendo l’ applicabilità degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., che al reato ed all’ autore
dello stesso fanno riferimento.
È inammissibile che una società, indagata in un procedimento volto all’ accertamento della
responsabilità amministrativa da reato nel medesimo procedimento si costituisca parte civile nei
confronti dei soggetti il cui operato fonda, secondo la prospettazione della richiesta di rinvio a
giudizio, la responsabilità amministrativa della società stessa. La società, infatti, ove ammessa
quale parte civile, verrebbe ad assumere nell’ ambito del procedimento due vesti processuali
antitetiche, quella di responsabile amministrativo ex d.lgs. 231 del 2001 e quella di parte civile.
Il decreto in materia di responsabilità amministrativa dipendente da reato degli enti introduce una
sorta di tertium genus d’ illecito ed una forma di responsabilità, conseguente da reato, legata alle
garanzie del processo penale e che coniuga i tratti essenziali del sistema penale. In virtù di tali
principi, non è possibile inserire un’ azione civile nell’ ambito di un procedimento che ha finalità
sanzionatorie proprie ed una disciplina autonoma. Pertanto, la disciplina dell’ illecito amministrativo
da reato non prevede la possibilità giuridica per i soggetti danneggiati dal reato di costituirsi parte
civile anche nell’ ambito di questo procedimento.
Per valutare se l’ azione civile possa essere esercitata direttamente nei confronti di un ente nell’
ambito di un procedimento instauratosi, sia a carico dell’ autore del reato, sia a carico dell’ ente
stesso ex art. 36 del decreto e se, dunque, anche l’ ente abbia al riguardo una legittimazione
passiva diretta, va richiamata la disciplina generale prevista dall’ art. 185 c.p., secondo cui ogni
reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga al risarcimento il
colpevole ed i soggetti che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto da quello
commesso. Pertanto, non essendo possibile legare la responsabilità civile dell’ ente ad un giudizio
di sua colpevolezza in ordine al reato commesso nel suo interesse, ne deriva, per il suddetto
precetto normativo, che l’ ente potrà essere chiamato a rispondere del danno derivante da tale
reato, non già in via diretta, ma in qualità di responsabile civile ex art. 83 ss. c.p.p., dovendosi
configurare in capo allo stesso la responsabilità per fatto altrui prevista dall’ art. 2049 c.c.
Le disposizioni del codice di procedura penale e le disposizioni processuali relative all’ imputato,
che consentono la costituzione di parte civile, richiamate dagli artt. 34 e 35 del d.lgs. 8 giugno
2001, n. 231 appaiono pienamente compatibili, e dunque applicabili, anche al procedimento
relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato. Infatti, il legislatore del decreto, mediante gli
artt. 34 e 35, ha espressamente formulato un generale richiamo alle norme del codice di procedura
penale ed alla disciplina applicabile all’ imputato, all’ evidente fine di evitare una gravosa
riproposizione dell’ intera disciplina codicistica. Tale scelta, che appare ampiamente giustificata
dall’ esigenza di non appesantire inutilmente la disciplina di legislazione speciale, consente di
superare agevolmente gli argomenti che fanno leva (...) sull’ assenza di previsione, o mancato
espresso richiamo dell’ istituto della costituzione di parte civile e delle disposizioni concernenti la
condanna ai danni e alle spese relative all’ azione civile.
Nel giudizio volto all’ accertamento della responsabilità amministrativa di un ente, deve ritenersi
ammissibile la costituzione di parte civile nei confronti dell’ ente imputato, avuto riguardo all’ ampia
nozione di responsabilità dell’ ente dalla quale non può essere escluso l’ obbligo di restituzione ed
il risarcimento del danno previsto dall’ art 185 c.p.
Art. 55.
1. Il pubblico ministero che acquisisce la notizia dell’ illecito amministrativo dipendente da reato
commesso dall’ ente annota immediatamente, nel registro di cui all’ articolo 335 del codice di
procedura penale, gli elementi identificativi dell’ ente unitamente, ove possibile, alle generalita’ del
suo legale rappresentante nonchè il reato da cui dipende l’ illecito.
(...)
Art. 56.
1. Il pubblico ministero procede all’ accertamento dell’ illecito amministrativo negli stessi termini
previsti per le indagini preliminari relative al reato da cui dipende l’ illecito stesso.
2. Il termine per l’ accertamento dell’ illecito amministrativo a carico dell’ ente decorre dalla
annotazione prevista dall’ articolo 55.
Art. 57.
Informazione di garanzia
1. L’ informazione di garanzia inviata all’ ente deve contenere l’ invito a dichiarare ovvero eleggere
domicilio per le notificazioni nonchè l’ avvertimento che per partecipare al procedimento deve
depositare la dichiarazione di cui all’ articolo 39, comma 2.
Art. 58.
Archiviazione
1. Se non procede alla contestazione dell’ illecito amministrativo a norma dell’ articolo 59, il
pubblico ministero emette decreto motivato di archiviazione degli atti (...)
Art. 59.
1. Quando non dispone l’ archiviazione, il pubblico ministero contesta all’ ente l’ illecito
amministrativo dipendente dal reato. La contestazione dell’ illecito e’ contenuta in uno degli atti
indicati dall’ articolo 405, comma 1, del codice di procedura penale.
(...)
Art. 61.
1. Il giudice dell’ udienza preliminare pronuncia sentenza di non luogo a procedere nei casi di
estinzione o di improcedibilita’ della sanzione amministrativa, ovvero quando l’ illecito stesso non
sussiste o gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a
sostenere in giudizio la responsabilità dell’ ente. Si applicano le disposizioni dell’ articolo 426 del
codice di procedura penale.
2. Il decreto che, a seguito dell’ udienza preliminare, dispone il giudizio nei confronti dell’ ente,
contiene, a pena di nullità, la contestazione dell’ illecito amministrativo dipendente dal reato, con l’
enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto che può comportare l’ applicazione delle sanzioni
e l’ indicazione del reato da cui l’ illecito dipende e dei relativi articoli di legge e delle fonti di prova
nonchè gli elementi identificativi dell’ ente.
3. Oltre che nel caso previsto dall’ art. 125, comma 3, la sentenza e’ nulla se manca o e’
incompleto nei suoi elementi essenziali il dispositivo ovvero se manca la sottoscrizione del
giudice.".
Abstract
La procedura di accertamento della responsabilità amministrativa degli enti, per quanto riguarda le
indagini preliminari e l’ udienza preliminare, è disciplinata dagli artt. 55-61 del decreto.
Per quanto non espressamente previsto da queste disposizioni valgono, in quanto compatibili,
quelle dettate dal codice di procedura penale.
L’ obbligo d’ iscrizione codificato dall’ art. 55 ha consentito di adattare la disciplina recata dall’ art.
335 c.p.p. al procedimento in parola, al fine di riconoscere anche all’ ente le garanzie difensive
attribuite in sede di processo penale all’ indagato.
Laddove si registra considerevole distacco dal sistema processuale penalistico è con riferimento
all’ art. 59 ai sensi del quale il pubblico ministero, quando non deve procedere alla contestazione
dell’ illecito all’ ente, emette decreto motivato di archiviazione, dandone contestale comunicazione
al Procuratore generale: manca, quindi, il meccanismo del controllo giudiziale sulla scelta del PM
che diviene, così, titolare di un potere di archiviazione diretta. Il procedimento richiama, quindi,
quello di cui all’ art. 18, comma 2, della legge 689/89, relativo alla violazioni amministrative.
Altra discrasia si riscontra sull’ art. 61, considerato che - rispetto all’ art. 429 c.p.p. - non vi è
richiamo alla data, al luogo ed all’ ora di comparizione dell’ ente: la lacuna, si ritiene, vada colmata
in via interpretativa.
Tale conclusione, già opportuna prima della legge n. 479 del 1999, deve oggi ritenersi necessaria
dopo l’ introduzione dell’ art. 415-bis c.p.p. e, quindi, dopo l’ estensione all’ indagato ed al suo
difensore di tutta l’ attività di indagine ancor prima dell’ esercizio dell’ azione penale, con facoltà
per lo stesso indagato di prenderne visione ed estrarne copia.
La richiesta di rinvio a giudizio dell’ ente collettivo deve ritenersi affetta da nullità laddove non sia
preceduta dall’ avviso di conclusione delle indagini preliminari ai sensi dell’ art. 415 del c.p.p.,
nonché dall’ interrogatorio del legale rappresentante dell’ ente, il quale ne abbia fatto rituale
richiesta.
6) Procedimenti speciali
Art. 62.
Giudizio abbreviato
1. Per il giudizio abbreviato si osservano le disposizioni del titolo I del libro sesto del codice di
procedura penale, in quanto applicabili.
(...)
Art. 63.
1. L’ applicazione all’ ente della sanzione su richiesta è ammessa se il giudizio nei confronti dell’
imputato e’ definito ovvero definibile a norma dell’ articolo 444 del codice di procedura penale
nonchè in tutti i casi in cui per l’ illecito amministrativo e’ prevista la sola sanzione pecuniaria. Si
osservano le disposizioni di cui al titolo II del libro sesto del codice di procedura penale, in quanto
applicabili.
2. Nei casi in cui è applicabile la sanzione su richiesta, la riduzione di cui all’ articolo 444, comma
1, del codice di procedura penale e’ operata sulla durata della sanzione interdittiva e sull’
ammontare della sanzione pecuniaria.
3. Il giudice, se ritiene che debba essere applicata una sanzione interdittiva in via definitiva, rigetta
la richiesta.
Art. 64.
1. Il pubblico ministero, quando ritiene che si debba applicare la sola sanzione pecuniaria, può
presentare al giudice per le indagini preliminari, entro sei mesi dalla data dell’ annotazione dell’
illecito amministrativo nel registro di cui all’ articolo 55 e previa trasmissione del fascicolo, richiesta
motivata di emissione del decreto di applicazione della sanzione pecuniaria, indicandone la
misura.
2. Il pubblico ministero può chiedere l’ applicazione di una sanzione pecuniaria diminuita sino alla
metà rispetto al minimo dell’ importo applicabile.
3. Il giudice, quando non accoglie la richiesta, se non deve pronunciare sentenza di esclusione
della responsabilità dell’ ente, restituisce gli atti al pubblico ministero.
4. Si osservano le disposizioni del titolo V del libro sesto e dell’ articolo 557 del codice di procedura
penale, in quanto compatibili.
Abstract
Il tema dei procedimenti speciali - disciplinato nella sezione VI del capo III del decreto - è
argomento che non ha trovato, ad oggi, particolare riscontro nell’ approfondimento
giurisprudenziale.
In questo senso si pongono le pronunce in tema di giudizio immediato: mancano, infatti, nel
decreto norme specifiche sia sul rito direttissimo che sul giudizio immediato, circostanza che aveva
fatto ritenere a parte della dottrina che detti riti fossero stati esclusi dal procedimento a carico dell’
ente.
Di diverso avviso la giurisprudenza che ha fatto proprio l’ orientamento dottrinale - che trova
peraltro conferma anche nella Relazione al decreto - secondo cui l’ attuabilità di detti riti anche nel
procedimento a carico dell’ ente deve darsi per "scontata", fermo restando il ricorrere dei
presupposti istituzionali e la necessità di adeguarli alla peculiare situazione della responsabilità da
illecito.
Le sanzioni irrogabili alle persone giuridiche per illeciti dipendenti da reato possono essere
applicate su richiesta delle parti, oltre che nel caso in cui consistano soltanto in sanzioni
pecuniarie, anche quando il procedimento penale per il reato presupposto è definito o definibile
con sentenza di patteggiamento e, in tal caso, occorre operare la diminuente per il rito sia sulla
sanzione interdittiva temporanea che sulla sanzione pecuniaria.
La richiesta di applicazione della sanzione, formulata dall’ ente sottoposto a procedimento per l’
accertamento della responsabilità amministrativa è ammissibile se la posizione dell’ imputato è
"definibile" (come richiesto dall’ art. 63 del decreto) - sia sotto il profilo dei reati ascrittigli, sia sotto il
profilo soggettivo - ai sensi dell’ art. 444 c.p.p.
L’ applicazione della pena su richiesta delle parti, ex art. 63 del decreto può essere disposta se la
pena richiesta dall’ ente è concretamente applicabile, risultando corretto il calcolo con riferimento
alla sanzione pecuniaria, se non ricorre alcuna delle ipotesi di cui all’ art 6 del citato decreto e se -
valutata l’ obiettiva gravità del fatto, il grado di coinvolgimento e la responsabilità dell’ ente - la
sanzione pecuniaria richiesta appare equa ed efficace in funzione di tutela preventiva, anche in
considerazione delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ ente.
7) Giudizio e Impugnazioni
Art. 71.
1. Contro la sentenza che applica sanzioni amministrative diverse da quelle interdittive l’ ente può
proporre impugnazione nei casi e nei modi stabiliti per l’ imputato del reato dal quale dipende l’
illecito amministrativo.
2. Contro la sentenza che applica una o più sanzioni interdittive, l’ ente può sempre proporre
appello anche se questo non e’ ammesso per l’ imputato del reato dal quale dipende l’ illecito
amministrativo.
3. Contro la sentenza che riguarda l’ illecito amministrativo il pubblico ministero può proporre le
stesse impugnazioni consentite per il reato da cui l’ illecito amministrativo dipende.
Abstract
Così come rilevato in relazione alla giurisprudenza in materia di riti, anche in relazione al tema
delle impugnazioni, l’ attenzione delle decisioni si concentra su questioni legate all’ individuazione
della disciplina applicabile.
Nonostante, infatti, l’ intenzione del legislatore delegante fosse quella di identificare totalmente -
fatta salva la sola clausola di compatibilità - il procedimento e l’ eventuale applicazione delle
sanzioni amministrative a carico dell’ ente con quello del codice di rito, talune scelte del legislatore
delegato hanno, invece, portato alla creazione di un micro-sistema che alterna rinvii e deroghe
che, seppure talvolta opportuni, hanno generato lacune che devono essere risolte in via
interpretativa.
È ammissibile, pur in assenza di un richiamo espresso all’ art. 325 c.p.p. nell’ art. 53 del decreto il
ricorso per Cassazione contro il provvedimento reso in sede di riesame del sequestro preventivo a
fini di confisca, disposto nel corso del procedimento per l’ accertamento della responsabilità a
carico di una società cooperativa.
Come affermato dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 27 marzo 2008 n. 26654), infatti, la lettura
ragionevole e sistematica della predetta norma del d.lgs. n. 231 del 2001, impone di ritenere in
essa implicitamente richiamato l’ art. 325 c.p.p. poiché la previsione del riesame del provvedimento
di sequestro preventivo (con richiamo espresso all’ art. 322 c.p.p., che rinvia all’ art. 324 c.p.p.) e
dell’ appello avverso gli altri e diversi provvedimenti in materia (con esplicito richiamo all’ art. 322
bis c.p.p.) comporta il rinvio al complessivo sistema delle impugnazioni previsto al riguardo dal
codice di rito.
In materia di responsabilità da reato delle persone giuridiche e delle società, le ordinanze che
applicano una misura cautelare interdittiva sono impugnabili, ai sensi dell’ art. 52 del decreto solo
con l’ appello, dovendosi escludere l’ ammissibilità del ricorso immediato in Cassazione. (Nel caso
di specie, la Corte ha qualificato come appello il ricorso presentato dal Pubblico Ministero avverso
il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari aveva rigettato la richiesta di
applicazione del divieto di contrattare con la P.A., trasmettendo gli atti al giudice competente, a
norma dell’ articolo 568 comma quinto c.p.p.).
In tema di applicazione della misura cautelare dell’ interdizione della società a contrattare con la
Pa, il ricorso per Cassazione è ammesso solo contro i provvedimenti del tribunale competente e
non anche per saltum contro le ordinanze che applicano la misura cautelare. Contro quest’ ultime,
dunque, l’ impugnazione prevista dal decreto è soltanto l’ appello. Nel caso di specie, la Corte non
ha dichiarato l’ inammissibilità del ricorso presentato dal difensore della società avverso il
provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari. aveva disposto il divieto di contrattare
con la pubblica amministrazione, ma lo ha qualificato come appello, trasmettendo gli atti al giudice
competente, a norma dell’ articolo 568 comma quinto c.p.p.
V) Procedimenti di accertamento:
1) Disposizioni generali
6) Procedimenti speciali
7) Giudizio e Impugnazioni
Trib. Milano (ord.) 29 settembre 2005
Circolare SL 21 / 2010-09-07
Indice
PREMESSA
III) CONFISCA
Art. 19. Confisca
Art. 53. Sequestro preventivo
Abstract
Cass. 27 ottobre 2009, n. 42894
Cass. 17 marzo 2009, n. 13678
Cass. 7 aprile 2009, n. 14973
Cass. 18 marzo 2009, n. 11912
Cass. 8 maggio 2009, n. 19764
Cass. 11 novembre 2009, n. 42894
Cass. S.U. 27 marzo 2008, n. 26654
Cass. (ord.) 6 novembre 2008, n. 41329
Cass. 8 luglio 2008, n. 33425
Cass. 22 novembre 2006, n. 38803
Cass. 22 dicembre 2006, n. 10838
Cass. (ord.) 27 settembre 2006, n. 31988
Cass. 16 febbraio 2006, n. 9829
Cass. S.U. 25 ottobre 2005, n. 41936
Trib. Napoli (ord.) 6 ottobre 2007
Trib. Napoli (ord.) 26 giugno 2007
Trib. Milano 25 luglio 2006
Trib. Trento 5 marzo 2009
PREMESSA
1. Si fa seguito alla Circolare ABI Serie Legale n. 20 del 26 agosto 2010 - contenente una prima
rassegna delle pronunce giurisprudenziali relative al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (di seguito anche
"decreto" o "decreto 231") - per trasmettere un’ ulteriore analisi degli orientamenti emersi in tema
di responsabilità amministrativa degli enti.
2. Come nella prima circolare, anche in questa sede si analizzeranno alcune questioni chiave del
nuovo "sistema di responsabilità", ordinate secondo il posizionamento delle relative norme nell’
ambito del decreto legislativo. Per ciascun argomento sono riportate (talvolta per rinvio) le norme
fondamentali; è, poi, proposto un abstract che, oltre a sintetizzare lo stato della giurisprudenza,
evidenzia gli aspetti interpretativi di maggior rilievo.
Le decisioni massimate sono ordinate con due criteri: quello dell’ organo decisorio (anticipando,
quindi, le sentenze/ordinanze delle Supreme Corti) e quello cronologico, partendo quindi dalle
decisioni più recenti. Alcune decisioni sono state massimate in diverse parti della rassegna, proprio
per evidenziare e valorizzare i passaggi chiave, in relazione a tutti gli aspetti per le quali si
ritenevano rilevanti.
3. Le sentenze/ordinanze ovvero i pareri citati nella presente raccolta sono tutti editi. Essi sono
rinvenibili, quindi, sulle riviste specialistiche e sui siti che offrono raccolte di giurisprudenza, tra cui
si segnala "231 ABI on-line".
Il testo dei provvedimenti può comunque essere richiesto agli Uffici dell’ Associazione, inviando
una specifica richiesta all’ indirizzo: of@abi.it
Reati presupposto
Abstract
In relazione ai reati presupposto, oltre alle decisioni che sono entrate nel merito delle modalità
commissive e degli elementi costituenti fattispecie criminose estremamente complesse (si pensi,
ad esempio, alla materia della market abuse), si segnalano le decisioni in tema di tutela penale
dell’ ambiente; la giurisprudenza ha, infatti, avuto modo di chiarire che non è imputabile all’ ente la
responsabilità amministrativa per il reato di gestione non autorizzata di rifiuti, in quanto, pur
essendovi un richiamo a tale responsabilità nell’ articolo 192, comma 4, d.lgs. 3 aprile 2006, n.
152, difettano attualmente sia la tipizzazione degli illeciti che l’ indicazione delle sanzioni.
Il delitto di aggiotaggio su strumenti finanziari, di cui all’ art. 181 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58
(Testo Unico della Finanza o Tuf), e quello di manipolazione del mercato, di cui all’ art. 185 Tuf,
consistono nella divulgazione di notizie false e/o nell’ effettuazione di operazioni simulate e/o,
infine, nei c.d. "altri artifici", tutti contegni che siano concretamente idonei a provocare una
sensibile alterazione dei prezzi degli strumenti finanziari.
È vero che la dizione "altri artifici" perviene dall’ art. 501 c.p. (sull’ aggiotaggio comune, che la
introdusse in sostituzione della locuzione "mezzi fraudolenti") al fine di allargare il campo di
incriminazione. Ma l’ intento del legislatore non fu affatto quello di stabilire che nell’ aggiotaggio
anche il mezzo di per sé non illecito diventa artificioso se usato per cagionare l’ aumento o la
diminuzione dei prezzi. Infatti, stabilire che ogni attività, ancorché conforme all’ ordinamento
giuridico, sia da considerare fraudolenta se diretta al fine di alterare la normalità delle
contrattazioni nei pubblici mercati, comporterebbe una manifesta e ingiustificata contraddizione del
principio fondamentale, per cui ogni esercizio di attività considerata legittima dall’ ordinamento
giuridico non costituisce reato, ancorché possa cagionare danno ad altri. È oltremodo chiaro,
quindi, nel concetto del legislatore, che per qualificare come artificioso un mezzo, in sé non illecito,
non è sufficiente che esso sia diretto al fine di turbare il mercato, occorrendo che sia anche
obiettivamente artificioso, cioè posto in essere artificiosamente con le modalità dell’ azione tali, per
ragioni di modo, tempo e luogo, da alterare il giuoco, normale tra domanda e offerta.
Ai fini della configurazione del reato di corruzione propria, sebbene non sia necessario individuare
lo specifico atto contrario ai doveri d’ ufficio per il quale il pubblico ufficiale abbia ricevuto somme di
denaro o altre utilità non dovute, occorre che dal suo comportamento emerga comunque un
atteggiamento volto in concreto a vanificare la funzione demandatagli; solo così, infatti, può
ritenersi integrata la violazione dei doveri di fedeltà, d’ imparzialità e di perseguimento esclusivo
degli interessi pubblici posti a carico del pubblico ufficiale.
Non può essere dedotta l’ incostituzionalità del sistema sanzionatorio in tema di market abuse, per
violazione del principio del ne bis in idem. Tale sistema è compatibile con i principi costituzionali
dell’ ordinamento.
La violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro (ed in particolare gli artt. 33-
37 D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547; 3, comma 1, lettere a, b, d, g, o, p, r, s, t; 4, comma 1; 4, comma
2; 4 comma 5 lettere a, b, c, d, e, h, i, q; 4, comma 7; 12, 13, 21, 22, 34, 35, 37, 38, 43 D.L. 19
settembre 1994 n. 626; D.M. 10 marzo 1998; artt. 5 e segg. D.L. 17 agosto 1999 n. 334) è
circostanza idonea a far nascere in capo all’ ente la responsabilità per l’ illecito amministrativo di
cui all’ art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001, dipendente dal reato di omicidio colposo aggravato.
Art. 28.
Nel caso di trasformazione dell’ ente, resta ferma la responsabilità per i reati commessi
anteriormente alla data in cui la trasformazione ha avuto effetto.
Art. 29.
Nel caso di fusione, anche per incorporazione, l’ ente che ne risulta risponde dei reati dei quali
erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione.
Art. 30.
1. Nel caso di scissione parziale, resta ferma la responsabilità dell’ ente scisso per i reati
commessi anteriormente alla data in cui la scissione ha avuto effetto, salvo quanto previsto dal
comma 3.
(...)
Art. 31.
1. Se la fusione o la scissione è avvenuta prima della conclusione del giudizio, il giudice, nella
commisurazione della sanzione pecuniaria a norma dell’ articolo 11, comma 2, tiene conto delle
condizioni economiche e patrimoniali dell’ ente originariamente responsabile.
(...)
Art. 32.
Nei casi di responsabilità dell’ ente risultante dalla fusione o beneficiario della scissione per reati
commessi successivamente alla data dalla quale la fusione o la scissione ha avuto effetto, il
giudice può ritenere la reiterazione, a norma dell’ articolo 20, anche in rapporto a condanne
pronunciate nei confronti degli enti partecipanti alla fusione o dell’ ente scisso per reati commessi
anteriormente a tale data. (...)
Art. 33.
Cessione di azienda
1. Nel caso di cessione dell’ azienda nella cui attività’ è stato commesso il reato, il cessionario e’
solidalmente obbligato, salvo il beneficio della preventiva escussione dell’ ente cedente e nei limiti
del valore dell’ azienda, al pagamento della sanzione pecuniaria.
(...)
Art. 42.
L’ attenzione che il legislatore ha attribuito alla disciplina - sostanziale e "in sede processuale" -
delle vicende modificative, va rinvenuta nella finalità di impedire il rischio che gli enti possano
utilizzare le operazioni suddette per eludere la responsabilità per illeciti dipendenti da reato.
Tale scopo è stato fatto proprio dal legislatore facendo rinvio alle norme civilistiche ed in
particolare al principio secondo il quale l’ obbligazione dell’ ente per il pagamento della sanzione
pecuniaria va assimilata a qualsiasi altra obbligazione pecuniaria e quindi deve seguire le sorti del
patrimonio cui si riferisce il debito.
La giurisprudenza sul punto non è ancora significativa; da segnalare la decisione relativa alla
identificazione del fallimento con la morte del reo.
Nel caso di cessione di azienda i beni dell’ ente cessionario non possono essere sottoposti alla
confisca per equivalente del profitto del reato commesso, prima della cessione, dagli
amministratori dell’ ente cedente, atteso che, ai sensi dell’ articolo 33, l’ ente cessionario risponde
in solido con quello cedente esclusivamente del pagamento della sanzione pecuniaria comminata
per l’ illecito a quest’ ultimo addebitabile.
In base all’ art. 33 del decreto, in ipotesi di cessione di azienda, il cessionario è solidalmente
obbligato al solo pagamento della sanzione pecuniaria inflitta al cedente, con esclusione dell’
applicabilità di ogni altra sanzione.
Il fallimento della società configura un’ ipotesi in tutto assimilabile negli effetti alla morte del reo e,
pertanto, l’ illecito amministrativo dipendente da reato va dichiarato estinto, non potendosi
configurare una successione processuale della curatela rispetto alla società fallita.
Gruppi
Art. 5.
1. L’ ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).
2. L’ ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell’ interesse esclusivo
proprio o di terzi.
Abstract
Una via interpretativa diffusa è quella che fa leva su una nozione allargata di "interesse sociale",
che comprende l’ interesse di gruppo, e che, quindi, utilizza il concetto di "interesse o vantaggio"
quale indice testuale per recuperare il nesso teleologico tra azioni/soggetti nell’ ambito della
controllata e "risalita" della responsabilità verso la controllante. Non mancano ricostruzioni che si
fondano sul dato testuale dell’ art. 5 che assoggetta l’ ente a irresponsabilità per reati commessi da
coloro che esercitano "anche di fatto al gestione ed il controllo dello stesso"; si tratta, quindi, di una
ricostruzione che qualifica il reato commesso nell’ interesse della società del gruppo da un
soggetto appartenente ad altra società come attività di gestione di fatto dell’ ente nel cui interesse
il soggetto ha agito, con la conseguenza di rendere l’ ente responsabile.
Particolarmente interessante il parere reso dal Consiglio di Stato nel 2005, attesa la modernità
della ricostruzione e la volontà di non procedere per automatismi che rischiano di svilire il principio
della responsabilità personale anche in ambito societario.
Poiché la responsabilità amministrativa, prevista dal decreto è correlata all’ inidoneità dei sistemi di
organizzazione e vigilanza adottati dalla specifica società i cui vertici o dipendenti hanno
commesso il reato, e, quindi, a presupposti oggettivi riferibili ad una particolare realtà aziendale,
deve escludersi che, nel caso di reati commessi nell’ ambito di una delle società appartenenti ad
un gruppo societario, le relative sanzioni o misure cautelari siano genericamente estendibili a tutte
le società appartenenti al gruppo. Come riconosciuto anche dalla giurisprudenza penale (Corte d’
Appello di Roma, 28 marzo 1995), l’ esistenza di aggregazioni societarie non determina di per sé
un mutamento delle posizioni di garanzia, che competono solo in capo ai singoli amministratori di
ciascuna società che lo compone, dovendosi escludere che dal mero collegamento societario
derivi, in capo agli amministratori di una società del gruppo, l’ obbligo di impedire la commissione
di reati nell’ ambito di un’ altra società del medesimo (Nel caso di specie, il Consiglio ritiene
legittimo che, nel caso di gruppi societari, ove il provvedimento che irroga la misura cautelare del
divieto di contrattare con la pubblica amministrazione faccia riferimento alla sola società
capogruppo, il predetto divieto di contrattare riguardi esclusivamente quest’ ultima e non anche le
società partecipate o controllate).
Non appare corretto aderire all’ interpretazione restrittiva del concetto di "interesse dell’ ente", di
cui all’ art. 5 del decreto, in quanto essa sposa una visione inattuale dell’ ente, concepito come una
monade isolata all’ interno del complesso sistema economico attuale, con conseguenti evidenti
lacune di tutela tutte le volte in cui l’ interesse perseguito sia ricollegabile non all’ ente di cui fa
parte l’ autore del reato, ma ad una società controllata o controllante, oppure al gruppo nel suo
insieme. Più corretta, invece, appare l’ interpretazione tendente ad estendere la rilevanza del
concetto di interesse fino a ricomprendervi quella di "interesse di gruppo": appare evidente infatti
che, in presenza di gruppi d’ imprese, il perseguire l’ interesse di gruppo attraverso la commissione
di un reato realizza una delle condizioni richieste ai fini dell’ integrazione dei criteri d’ imputazione
oggettiva della responsabilità.
Dal combinato disposto degli artt. 5 e 12 del decreto, affinché possa configurarsi la responsabilità
amministrativa dell’ ente è necessario che il reato-presupposto sia stato commesso nell’ interesse
o a vantaggio dell’ ente, i quali rappresentano criteri di imputazione della responsabilità di carattere
alternativo. Nei gruppi di società si deve escludere, in virtù degli inevitabili riflessi che le condizioni
della società controllata riverberano sulla società controllante, sia che i vantaggi conseguiti dalla
controllata, in conseguenza dell’ attività della controllante, possano considerarsi conseguiti da un
terzo, sia che l’ attività di quest’ ultima possa ritenersi compiuta nell’ esclusivo interesse di un
terzo.
Ai fini dell’ applicazione di una misura cautelare interdittiva nei confronti di un ente che, in un
gruppo di società, rivesta il ruolo di controllante, la valutazione del pericolo deve essere effettuata
con riferimento alla concreta possibilità di commissione di nuovi illeciti da parte di tale ente,
desumibile dalla sua struttura amministrativa e organizzativa. Un illecito amministrativo dipendente
da reato può essere addebitato ad un ente che svolga il ruolo di controllante nell’ ambito di un
gruppo di società, se risulta che tale illecito è stato commesso nell’ interesse comune del gruppo,
indipendentemente dal fatto che esso ne abbia tratto diretto vantaggio.
.Nell’ ambito di un gruppo di società, l’ attività corruttiva posta in essere dall’ amministratore della
controllante, al fine di ottenere l’ aggiudicazione o il rinnovo di un appalto di servizi in favore di una
controllata, presuppone la responsabilità amministrativa della controllante ex art. 5 del d.lgs. 8
giugno 2001, n. 231, in quanto preordinata al soddisfacimento dell’ interesse di gruppo.
Art. 9.
Sanzioni amministrative
a) la sanzione pecuniaria;
b) le sanzioni interdittive;
c) la confisca;
Art. 10.
(...)
Art. 13.
Sanzioni interdittive
1. Le sanzioni interdittive si applicano in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste,
quando ricorre
a) l’ ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in
posizione
apicale ovvero da soggetti sottoposti all’ altrui direzione quando, in questo caso, la commissione
del reato e’ stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative;
2. Le sanzioni interdittive hanno una durata non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni.
3. Le sanzioni interdittive non si applicano nei casi previsti dall’ articolo 12, comma 1.
Abstract
L’ impianto disegnato dal legislatore si articola su un modello base, valido per tutte le ipotesi di
responsabilità, che è dato dalla sanzione pecuniaria, al quale si affianca un complesso ed assai
gravoso complesso di sanzioni interdittive applicabili dal giudice solo in relazione ai reati per i quali
sono espressamente previste, solo nei casi più gravi ed in caso di reiterazione di illeciti. Vi sono,
poi, la confisca e la pubblicazione della sentenza.
Numerose sono le decisioni in materia di sanzioni, anche se molte di esse riguardano ipotesi
cautelari (su cui oltre).
Particolare attenzione - così come in materia di responsabilità penale delle persone fisiche - viene
attribuita al post factum ed all’ insieme dei comportanti tenuti dall’ ente dopo la commissione del
fatto a livello riparatorio oltre che organizzativo (adozione tardiva del modello).
Interessante, poi, la lettura data all’ art. 13 nella parte in cui fa riferimento al "profitto di rilevante
entità": si ritiene, infatti, che la rilevante entità possa essere legittimamente dedotta dalla natura e
dal volume dell’ attività di impresa, non occorrendo che i singoli introiti che l’ ente ha conseguito
dall’ attività illecita posta in essere siano specificamente individuati, né che se ne conoscano gli
importi liquidati. Può pertanto essere ritenuto di rilevante entità il profitto della società per il fatto
della sua partecipazione a numerose gare con assegnazione di appalti pubblici avuto riguardo alle
caratteristiche e alle dimensioni dell’ azienda.
In tema di responsabilità da reato degli enti è illegittimo il provvedimento di revoca delle misure
cautelari interdittive adottato con riferimento all’ attuazione di condotte riparatorie, qualora le
medesime non abbiano contestualmente avuto ad oggetto tanto il risarcimento integrale del danno
e l’ eliminazione delle conseguenze dannose del reato, che il superamento delle carenze
organizzative mediante l’ adozione e attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire la
commissione di altri reati della stessa specie e la messa a disposizione a fini di confisca del profitto
dello stesso reato.
In tema di responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato, non è configurabile nei
confronti dell’ ente l’ attenuante del risarcimento del danno prevista dall’ art. 12, comma secondo,
lett. a), del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, qualora il risarcimento sia stato operato dalla persona
fisica imputata del reato presupposto.
L’ indulto, operando con riferimento alle pene detentive e pecuniarie, non è applicabile alle
sanzioni di cui all’ art. 9 del decreto in quanto sanzioni collegate a responsabilità di natura
amministrativa e non penale.
Le sanzioni amministrative previste a carico degli enti dal decreto non hanno carattere di specialità
rispetto alla confisca per equivalente disposta dagli artt. 322-ter e 640-quater c.p.
I gravi indizi di responsabilità dell’ ente postulano un giudizio complesso, non solo su tutta la
fattispecie della responsabilità, rispetto alla quale il giudice deve chiarire in base a quale modello d’
imputazione ha effettuato la propria valutazione, ma anche sulle condizioni alle quali è subordinata
l’ applicabilità delle sanzioni interdittive.
In tema di responsabilità amministrativa degli enti, l’ applicazione delle sanzioni interdittive previste
dall’ art.13 del decreto trova presupposto necessario nel conseguimento di un profitto di rilevante
entità il quale, in caso di truffa ai danni dello Stato per percezione di indebite prestazioni di
finanziamenti e contributi, si realizza già con l’ accreditamento delle somme erogate, rilevando
come condotta di post factum, incapace di elidere il dato storico del profitto, l’ eventuale immediato
storno delle somme sui conti personali del soggetto agente.
Il provvedimento del Giudice per le indagini preliminari, che applica ad una società la misura
interdittiva del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione ha finalità teleologiche, nel
senso di prevenire il compimento di nuovi reati dello stesso tipo da parte dei dipendenti della
società in fase di contrattazione e non già di paralizzare e congelare i contratti in corso di
esecuzione. Pertanto, il predetto divieto di contrattare non deve essere esteso anche agli appalti
eventualmente già conclusi ed aggiudicati, ma deve intendersi limitato soltanto agli eventuali nuovi
appalti ai quali la società colpita con la misura interdittiva potrebbe partecipare.
Nel giudizio volto all’ accertamento della responsabilità amministrativa di un ente se la confisca
obbligatoria disposta, avente ad oggetto il profitto del reato, non è contrappuntata da precedente
vincolo reale, quale un sequestro, le somme di denaro devono essere appresa unitamente alle
altre somme dovute, quali la sanzione pecuniaria principale.
Posto che il reato d’ indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato si consuma nel
momento di effettiva ricezione, da parte del richiedente, del denaro pubblico, se il finanziamento
ottenuto della società è stato incassato in epoca anteriore all’ entrata in vigore del decreto, non
sussistono, ai sensi del combinato disposto tra gli artt. 2 del predetto decreto e 1 della legge n. 689
del 1991, i presupposti per applicare, né le sanzioni, né le misure cautelari interdittive.
La misura interdittiva della revoca di agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi già concessi,
prevista dall’ art. 45, comma 1, del decreto, deve ritenersi applicabile anche in sede cautelare, in
virtù del chiaro ed univoco riferimento, operato dalla predetta norma, alle misure interdittive
disposte dall’ art. 9, comma 2, del decreto, tra le quali - alla lett. d) - compare espressamente la
revoca.
In caso di gravi, consistenti e attuali esigenze cautelari connesse alla commissione di reati di
corruzione e truffa aggravata nei confronti della pubblica amministrazione si possono applicare agli
enti la misura dell’ interdizione dall’ esercizio dell’ attività per la durata di un anno, prevista dall’ art.
9, comma 2, lettera a), del decreto.
Nella fattispecie concreta, tuttavia, in considerazione dell’ elevato numero di dipendenti degli enti
interessati dai reati e in considerazione del fatto che i dipendenti delle società, in qualità di guardie
giurate spesso addette alla sicurezza d’ installazioni pubbliche, svolgono un servizio di pubblica
necessità la cui interruzione potrebbe provocare un evidente grave pregiudizio alla collettività, può
disporsi, ai sensi dell’ art. 15 del decreto, la prosecuzione dell’ attività degli enti da parte di un
commissario giudiziale per un periodo di un anno.
Posto che la sanzione interdittiva prevista dall’ art. 14 del decreto è volta a prevenire la
commissione di ulteriori reati, uguali a quello già commesso, la sua applicazione deve essere
preceduta dall’ indicazione della specifica attività dell’ ente che, mediante tale sanzione, si intende
colpire.
È legittima la richiesta di applicazione della misura interdittiva del divieto di contrarre con la
pubblica amministrazione nei confronti dell’ ente responsabile di non aver adeguatamente vigilato
sull’ osservanza del modello di organizzazione predisposto al fine di prevenire la commissione di
reati da parte dei propri funzionari. A nulla rileva, inoltre, la circostanza che l’ ente abbia poi attuato
meccanismi di risarcimento post factum nei confronti del diretto destinatario dell’ attività illecita,
perché resta aperto il problema del profitto conseguito in seguito alla commissione dei reati.
Nel procedimento volto all’ accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato
di un ente, la sanzione interdittiva può essere applicata quale misura cautelare solo quando la
stessa sia almeno astrattamente applicabile come sanzione definitiva in relazione all’ illecito in
contestazione. Tale conclusione deriva dall’ applicazione, sia del principio generale di tassatività
ribadito in termini generali dall’ art. 13 del decreto, sia del criterio di proporzionalità, da valutarsi
rispetto all’ entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere applicata all’ ente.
Ai sensi dell’ art. 12 del decreto, la sanzione pecuniaria emessa a carico di una società a titolo di
responsabilità amministrativa conseguente al reato di istigazione alla corruzione commesso dal
suo legale rappresentante deve essere ridotta nel caso in cui l’ ente, prima dell’ apertura del
dibattimento, abbia integralmente risarcito il danno cagionato alla pubblica amministrazione e
abbia adottato un modello organizzativo idoneo a prevenire la commissione di ulteriori reati. (Nel
caso di specie, l’ ente ha comprovato l’ adozione di modelli organizzativi idonei a prevenire la
commissione di ulteriori reati allontanando il legale rappresentante dall’ amministrazione e dalla
rappresentanza dell’ ente).
III) CONFISCA
Art. 19.
Confisca
1. Nei confronti dell’ ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o
del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato. Sono fatti
salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede.
2. Quando non è possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la stessa può avere ad
oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato.
Art. 53.
Sequestro preventivo
Il giudice può disporre il sequestro delle cose di cui e’ consentita la confisca a norma dell’ articolo
19. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 321, commi 3, 3-bis e 3-ter, 322, 322-bis e 323
del codice di procedura penale, in quanto applicabili.
Abstract
La confisca può presentarsi, nelle leggi che la prevedono, con varia natura giuridica.
Il suo contenuto, infatti, è sempre la privazione di beni economici, ma questa può essere disposta
per diversi motivi e indirizzata a varia finalità, così da assumere, volta per volta, natura e funzione
o di pena, o di misura di sicurezza, ovvero anche di misura amministrativa.
Nel sistema del decreto essa è annoverata - anche nella species "per equivalente" - tra le sanzioni
ed è disciplinata nell’ art. 19.
Tale disposizione stabilisce che, in caso di sentenza di condanna dell’ ente alle sanzioni,
pecuniarie o interdittive, è sempre disposta la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che
per la parte che può essere restituita al danneggiato ("dal reato", anche se la disposizione non lo
dice espressamente) e "salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede".
Il comma 2 dell’ articolo 19 aggiunge, poi, che, qualora non sia possibile eseguire la confisca del
prezzo o del profitto del reato, la confisca può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre
utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato. La confisca per equivalente - così come
nel sistema di cui agli artt. 322-ter e 640-quater c.p. - essendo una forma di prelievo pubblico a
compensazione di illeciti, assumere un carattere preminentemente sanzionatorio.
Alla confisca è strettamente correlata la misura cautelare reale del sequestro preventivo che può
cadere soltanto sulle "cose di cui è consentita la confisca a norma dell’ articolo 19".
Si aggiunga che la messa a disposizione, da parte dell’ ente, ai fini della confisca (o del sequestro
preventivo), del profitto conseguito rappresenta una delle attività "riparatorie", necessariamente
concorrenti, che consentono all’ ente, se poste in essere "prima della dichiarazione di apertura del
dibattimento di primo grado" di rendere inapplicabili le sanzioni interdittive, di ottenere la revoca di
misure cautelari interdittive e di richiedere al giudice dell’ esecuzione, se poste in essere
tardivamente, la conversione della sanzione amministrativa interdittiva in sanzione pecuniaria.
Della confisca del profitto che l’ ente ha tratto dal reato è detto, poi, nell’ articolo 6, comma 5, che
la impone anche nel caso in cui l’ ente non sia stato condannato per il reato commesso da
soggetto in posizione apicale essendo riuscito a provare le circostanze "liberatorie" elencate nel
primo comma dello stesso articolo.
Come emerge dalla giurisprudenza, la confisca del profitto del reato ed il sequestro preventivo ad
essa strumentale, costituiscono uno strumento con grandi potenzialità espansive che, considerata
anche l’ assenza di garanzia analoghe a quelle ope legis assicurate nei confronti delle misure
cautelai interdittive, hanno fatto sorgere numerosi dubbi di incostituzionalità.
Il sequestro preventivo di beni di cui è consentita la confisca ai sensi dell’ art. 19 del, non deve
essere preceduto dall’ informazione di garanzia e dall’ informazione sul diritto di difesa prevista
dall’ art. 369-bis c.p.p., in quanto atto "a sorpresa", diretto alla ricerca della prova, per il quale non
è previsto il previo avviso al difensore.
L’ art. 19, comma 1, del decreto prevede che nei confronti dell’ ente è sempre disposta, con la
sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato. Ai sensi del comma 2 della
medesima disposizione, inoltre, "quando non è possibile eseguire la confisca a norma del comma
l, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al
prezzo o al profitto del reato".
I "reati" di cui si parla sono quelli commessi nell’ interesse dell’ ente e tra essi rientrano
sicuramente quelli di cui agli artt. 322-bis, 322-ter, 640-bis e 640-ter c.p. (vedi art. 24, comma 1,
del decreto).
A sua volta l’ art. 53 stabilisce che, in via cautelare, "il giudice può disporre il sequestro delle cose
di cui è consentita la confisca a norma dell’ art. 19. Si osservano le disposizioni di cui all’ art. 321
c.p.p., commi 3, 3-bis e 3-ter, art. 322 c.p.p., art. 322 bis c.p.p. e art. 323 c.p.p. in quanto
applicabili".
L’ impiego dell’ avverbio "sempre" nell’ art. 19, evidenzia l’ obbligatorietà della misura ablativa non
solo in relazione al prezzo del reato, ma anche in relazione al profitto per il quale, invece, secondo
la disciplina generale dell’ art. 240 c.p., la misura rimane facoltativa.
La possibilità di confisca "per equivalente", che fa venir meno ogni rapporto diretto tra il reato e i
beni oggetto della misura, è estesa poi espressamente, in difformità dalla previsione di cui al
comma l dell’ articolo 322-ter c.p., anche al valore equivalente "al profitto" del reato.
Per quanto concerne l’ art. 53, va rilevato che l’ istituto presenta aspetti simili e spiccate analogie
con l’ omologo istituto previsto dall’ art. 321 c.p.p. (come peraltro emerge dagli stessi richiami al
codice di rito - e non anche, si badi, all’ art. 322 ter c.p. - operati dal legislatore) e, segnatamente
con la fattispecie regolata dal comma 2 dello stesso articolo e cioè con il sequestro "delle cose di
cui è consentita la confisca".
Il carattere certamente anche "sanzionatorio" della confisca per equivalente come già stabilito in
numerosi precedenti di legittimità osta alla retroattività della sua applicazione. Tale conclusione,
oltre che conforme all’ interpretazione dell’ art. 25 della Costituzione è imposta anche dall’ art. 7,
primo comma della Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’ uomo, ratificata con legge
4.8.1955, n. 848, ai sensi del cui disposto "non può essere inflitta una pena più grave di quella che
sarebbe spettata al tempo in cui il reato è stato consumato". Tale ultimo principio è stato
riaffermato anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione europea (più conosciuta come
Carta di Nizza) all’ art. 49, cui non può essere contestato, secondo quanto affermato dalla Corte
Costituzionale sin dal 2002 (Sentenza n. 1351/2002), il "carattere espressivo di principi comuni agli
ordinamenti europei". Le disposizioni costituzionali nazionali e le indicazioni prima ricordate di
matrice sovranazionale si integrano perfettamente ed inducono ad escludere una applicazione
retroattiva della norma qui in esame.
Il sequestro preventivo funzionale alla confisca di valore ben può incidere contemporaneamente
sia sulle persone fisiche indagate per il reato di corruzione attiva sia sull’ ente societario che ha
tratto profitto dal reato; ciò in base, rispettivamente, alle disposizioni di cui all’ art. 321, comma 2,
c.p.p. in relazione all’ art 322-ter c.p. ed all’ art. 53 in relazione all’ art. 19 del decreto.
Data la convergenza di responsabilità della persona fisica e di quella giuridica e avuto riguardo all’
unicità del reato come "fatto" riferibile a entrambe, deve trovare applicazione il principio
solidaristico che informa lo schema concorsuale, con la conseguenza che il sequestro preventivo
funzionale alla confisca per equivalente può interessare indifferentemente ciascuno dei soggetti
indagati anche per l’ intera entità del profitto accertato, con il limite, però, che il vincolo cautelare d’
indisponibilità non deve essere esorbitante, nel senso che non deve eccedere, nel complesso, il
valore del detto profitto e non deve determinare ingiustificate duplicazioni, posto che dalla unicità
del reato non può che derivare l’ unicità del profitto.
Sequestrabili ai fini della confisca i finanziamenti concessi da un istituto bancario ad una società
coinvolta in affari illeciti (nel caso di specie: corruzione).
Il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’ articolo 19 si identifica con il vantaggio
economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui
questo venga consumato nell’ ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato
tale anche l’ utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’ esecuzione da parte
dell’ ente delle prestazioni che il contratto gli impone. (In motivazione la Corte ha precisato che,
nella ricostruzione della nozione di profitto oggetto di confisca, non può farsi ricorso a parametri
valutativi di tipo aziendalistico - quali ad esempio quelli del "profitto lordo" e del "profitto netto" -,
ma che, al contempo, tale nozione non può essere dilatata fino a determinare un’ irragionevole e
sostanziale duplicazione della sanzione nelle ipotesi in cui l’ ente, adempiendo al contratto, che
pure ha trovato la sua genesi nell’ illecito, pone in essere un’ attività i cui risultati economici non
possono essere posti in collegamento diretto ed immediato con il reato)".
Per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per illeciti dipendenti di reato, non
occorre fornire la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né della loro gravità, in
quanto il controllo del giudice non deve investire la concreta fondatezza dell’ accusa ma solo l’
astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determina ipotesi di reato,
né occorre che venga effettuata una valutazione circa la sussistenza del "periculum" richiesto per il
sequestro preventivo previsto dall’ art. 321, comma 1, c.p.p., essendo invece sufficiente accertare
il presupposto della confiscabilità dei beni e, in particolare, l’ esistenza di un rapporto pertinenziale
fra il bene che si intende sequestrare ed il reato per cui si procede.
Nel caso in cui venga disposta la confisca per equivalente, in relazione al reato di truffa aggravata
per il conseguimento di erogazioni pubbliche, l’ esecuzione di tale provvedimento ablatorio può
riguardare in via immediata e diretta i beni rientranti nel patrimonio personale della persona fisica
responsabile dell’ illecito, non essendo in alcun modo previsto un obbligo di previa escussione dell’
ente nel cui patrimonio sono confluiti i finanziamenti.
In caso di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, nell’ ipotesi in cui il danaro
che ne costituisce il profitto non sia stato rinvenuto nel conto corrente intestato alla società
beneficiaria, può disporsi il sequestro a fini di confisca per equivalente in danno dell’ indagato
senza che sia necessario il previo assoggettamento della società beneficiaria dell’ indebita
erogazione al sequestro ai fini della confisca prevista dagli artt. 19 e 53, d.lgs. 8 giugno 2001, n.
231. Tale sequestro non risulta incompatibile con la Decisione quadro 2005/212/GAI e può essere
disposto, senza ordine di gradualità, nei confronti di uno qualunque degli indagati, fermo restando
che il soggetto rimasto onerato dalla confisca potrà chiedere il rimborso pro quota del profitto
locupletato da ciascuno dei concorrenti.
Nel giudizio volto ad accertare la responsabilità amministrativa di un ente, dipendente dal reato di
truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche di cui all’ art. 640-bis c.p., la confisca
funzionale al sequestro non può essere disposta in danno dell’ ente beneficiario dell’ erogazione
pubblica. Infatti, nonostante quest’ ultimo non possa considerarsi "persona estranea al reato", ai
sensi dell’ art. 24 d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, nel caso in cui partecipi all’ utilizzazione dei profitti
che ne sono derivati, non è possibile ravvisare una sussidiarietà, nella confisca, della
responsabilità della persona fisica autore del reato. Il decreto 231, al contrario, configura la
responsabilità degli enti come autonoma, anche se alla base di essa si colloca il rapporto di
carattere organico sussistente con la persona fisica autore del reato, che porta quest’ ultima a
tenere una condotta illecita "nell’ interesse o a vantaggio dell’ ente".
Per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca - anche con riferimento all’ ipotesi di
responsabilità amministrativa degli enti - non occorre fornire la prova della sussistenza degli indizi
di colpevolezza, né della loro gravità, in quanto il controllo del giudice non deve investire la
concreta fondatezza dell’ accusa ma solo l’ astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un
soggetto in una determina ipotesi di reato, né occorre che venga effettuata una valutazione circa la
sussistenza del "periculum" richiesto per il sequestro preventivo previsto dall’ art. 321, comma 1,
c.p.p., essendo invece sufficiente accertare il presupposto della confiscabilità dei beni e, in
particolare, l’ esistenza di un rapporto pertinenziale fra il bene che si intende sequestrare ed il
reato per cui si procede.
La confisca per equivalente, prevista dagli artt. 322-ter e 640-quater c.p., essendo una forma di
prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti, viene ad assumere un carattere
preminentemente sanzionatorio.
Nel reato di truffa aggravata, relativa alla dissimulazione dell’ inesatta esecuzione di un contratto di
appalto, il profitto suscettibile di confisca ex art. 19, commi 1 e 2, del decreto è rappresentato dal
totale dei ricavi realizzabili dall’ aggiudicatario in conseguenza del reato, senza che alcuna
rilevanza venga attribuita ai costi contestualmente sostenuti nello svolgimento del rapporto
contrattuale.
Il profitto da assoggettare a confisca, ai sensi dell’ art. 19 del decreto, deve ritenersi tutto quanto
costituisca un beneficio aggiuntivo di tipo patrimoniale, nozione nella quale non può non farsi
rientrare anche la mancata diminuzione patrimoniale determinata dal mancato esborso di somme
per costi che si sarebbero dovuti sostenere. L’ unico temperamento è che il "profitto" deve essere
profitto da reato e, quindi, il denaro o le altre utilità debbono essere legate da un rapporto di
pertinenzialità diretta con il delitto da cui dipende l’ illecito a carico dell’ ente, con esclusione,
dunque, dei vantaggi eventuali o indiretti e delle maggiorazioni conseguenti ad attività ulteriori e
non essenziali alla commissione dell’ illecito.
La confisca per equivalente, prevista sia nel codice penale, sia in diverse leggi speciali, si
configura come sanzione penale che ha ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di cui il
colpevole ha la disponibilità, per un valore corrispondente al prezzo, al profitto o al prodotto del
reato. Prescindendo da un rapporto di pertinenzialità tra il reato e i beni confiscati e non
richiedendo come presupposto applicativo la pericolosità della cosa, la confisca per equivalente
deve essere considerata non una misura di sicurezza, ma una vera e propria pena.
IV) NOZIONE DI PROFITTO DEL REATO
Art. 9
Sanzioni amministrative
(...)
c) la confisca; (...)
Art. 13.
Sanzioni interdittive
1. Le sanzioni interdittive si applicano in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste,
quando ricorre almeno una delle seguenti condizioni:
Art. 19.
Confisca
1. Nei confronti dell’ ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o
del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato. Sono fatti
salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede.(...)
Art. 53.
Sequestro preventivo
Il giudice può disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca a norma dell’ articolo
19 (...)
Abstract
Numerose sono le decisioni che si occupano del tema, prevalentemente in connessione al tema
del sequestro preventivo (art. 53, ossia della misura cautelare di tipo patrimoniale) e della confisca
(sanzione).
Del resto, la circostanza per cui il decreto 231 prevede l’ applicazione della confisca in ogni ipotesi
in cui è pronunciata nei confronti dell’ ente una sentenza di condanna (art. 19) e considerato che il
requisito del "profitto di rilevante entità" è tra le condizioni (vincolanti) applicative delle sanzioni
interdittive di cui all’ art. 13, si comprende la centralità della questione interpretativa relativa all’
esatta individuazione di tale nozione.
In giurisprudenza appare prevalente la tesi secondo cui "il profitto" in questione non coincide con l’
utile netto, quale differenziale positivo tra ricavi e spese sostenute dall’ ente, dovendo piuttosto
essere inteso quale concetto dinamico, che arrivi a ricomprendere vantaggi economici anche non
immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell’ illecito.
Come emerge dalla lettura delle decisioni, però, sussiste una certa (talvolta "pericolosa") elasticità
del requisito in discorso, in cui la "particolare entità" è parametrata di volta in volta o al suo valore
assoluto ovvero rapportandone la consistenza alla situazione economica ed alle dimensioni dell’
ente.
Altro tema importante su cui si registra un approccio interpretativo foriero di criticità è quello della
c.d. "solidarietà passiva" in ipotesi d’ illecito plurisoggettivo.
La Corte di Cassazione, infatti, ha riproposto il principio civilistico della solidarietà anche nei
rapporti tra ente ed agente individuale, ribadendo il limite quantitativo del valore complessivo del
profitto accertato. Ciò ha portato, in alcuni procedimenti riguardanti la fraudolenta captazione di
erogazioni pubbliche da parte di una società (art- 640 bis c.p.), a giudicare legittimo il sequestro
disposto nei confronti della persona fisica concorrente con una srl, benché quest’ ultima avesse
acquisito l’ intero profitto del reato; si è altresì escluso che per disporre la confisca per equivalente
ex artt. 322 e 640 quater c.p. sui beni della persona fisica colpevole, sia indispensabile la previa
infruttuosa escussione della società beneficiaria dei contributi pubblici, in quanto tra la confisca
codicistica e quella applicabile agli enti non sussisterebbe un concorso apparente da risolvere in
base al principio di specialità di cui all’ art. 15 c.p. e pertanto neppure un rapporto di sussidiarietà.
In tema di responsabilità amministrativa nascente da reato degli enti collettivi, il profitto del reato
oggetto del sequestro preventivo funzionale alla confisca è costituito dal vantaggio economico di
diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto ed è concretamente determinato al
netto dell’ effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato dal reato.
In tema di responsabilità amministrativa nascente da reato degli enti, nel caso in cui debbano
imputarsi al profitto del reato presupposto dei crediti, ancorché liquidi ed esigibili, gli stessi non
possono costituire oggetto di un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per
equivalente, trattandosi di utilità non ancora percepite dall’ ente e non ancora sottratte al soggetto
danneggiato.
Il profitto di rilevante entità richiamato dall’ art. 13 evoca un concetto di profitto "dinamico", che è
apportato alla natura e al volume delle attività d’ impresa e ricomprende vantaggi economici anche
non immediati ma per così dire, di prospettiva, in relazione alla posizione di privilegio che l’ ente
collettivo può acquisire sul mercato in conseguenza delle condotte illecite.
Qualora debbano imputarsi al profitto del reato presupposto dei crediti, non può procedersi alla
loro confisca nella forma per equivalente, ma solo in quella diretta, atteso che altrimenti l’
espropriazione priverebbe il destinatario di un bene già nella sua disponibilità in ragione di un’
utilità invece non ancora concretamente realizzata dal medesimo.
Nel caso di illecito plurisoggettivo deve applicarsi il principio solidaristico che implica l’ imputazione
dell’ intera azione e dell’ effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e pertanto, una volta
perduta l’ individualità storica del profitto illecito, la sua confisca e il sequestro preventivo ad essa
finalizzato possono interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’ intera entità
del profitto accertato, ma l’ espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel
"quantum" l’ ammontare complessivo dello stesso.
Investite della questione, le Sezioni Unite Penali (con sentenza in data 2 luglio 2008), hanno
statuito che "deve intendersi per profitto del reato di cui al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, articoli 19 e
53 il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato, che va determinato
tenendo conto dell’ utilità eventualmente conseguita in concreto dal danneggiato".
Calando il principio fissato dalle Sezioni Unite in tema di profitto del reato, appare chiaro che, in
presenza di un contratto stipulato con la P.A. ad esecuzione pluriennale, sebbene avente causa
illegittima per essere stato il processo di formazione della volontà contrattuale della P.A. distorto e
inquinato da una vicenda di corruzione propria antecedente, il profitto che l’ ente societario o
collettivo consegue dall’ appalto criminosamente ottenuto da suoi esponenti apicali non può
globalmente omologarsi all’ intero valore del rapporto sinallagmatico (a prestazioni corrispettive) in
tal modo instaurato con l’ amministrazione. Rapporto che impone di scindere il profitto confiscabile,
quale direttamente derivato dall’ illecito penale genetico del conseguito appalto pluriennale, dal
profitto determinato dal corrispettivo di una effettiva e corretta erogazione di prestazioni comunque
svolta in favore della stessa amministrazione, prestazioni che non possono considerarsi per
immediato automatismo traslativo colorate di illiceità (per derivativa illiceità della causa remota).
Per l’ irrogazione di una misura cautelare interdittiva nei confronti di un ente, a carico del quale
sono presenti gravi indizi di responsabilità per l’ illecito dipendente da reato, la nozione di profitto di
rilevante entità ha un contenuto più ampio di quello di profitto inteso come utile netto, in quanto all’
interno di tale concetto rientrano anche vantaggi non immediati, comunque conseguiti attraverso la
realizzazione dell’ illecito.
In tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche la disposizione di cui all’ art. 13 del
decreto richiede, ai fini della configurabilità della violazione, la certezza e la rilevanza del profitto,
ma non l’ esatta quantificazione di esso, per cui la rilevante entità può essere legittimamente
dedotta dalla natura e dal volume dell’ attività di impresa, non occorrendo che i singoli introiti che l’
ente ha conseguito dall’ attività illecita posta in essere siano specificamente individuati, né che se
ne conoscano gli importi liquidati. Può, pertanto, essere ritenuto di rilevante entità il profitto della
società per il fatto della sua partecipazione a numerose gare con assegnazione di appalti pubblici
avuto riguardo alle caratteristiche e alle dimensioni dell’ azienda.
Il profitto del reato nel sequestro preventivo funzionale alla confisca, disposto ai sensi degli artt. 19
e 53 del decreto nei confronti dell’ ente collettivo, è rappresentato dal vantaggio economico di
diretta ed immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell’
effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ ambito del rapporto sinallagmatico
con l’ ente stesso.
Nel giudizio volto all’ accertamento della responsabilità amministrativa di un ente, al fine di valutare
la "rilevante entità" del profitto conseguito dall’ ente stesso, come richiesto dall’ art. 13, comma 1,
lett. a), del decreto, si può far riferimento alle modeste dimensioni della società, desumibili dall’
ammontare del capitale sociale e dalla base imponibile IRES.
Trib. Napoli (ord.) 6 ottobre 2007
Nel reato di truffa aggravata, relativa alla dissimulazione dell’ inesatta esecuzione di un contratto di
appalto, il profitto suscettibile di confisca ex dell’ art. 19, commi 1 e 2, del decreto è rappresentato
dal totale dei ricavi realizzabili dall’ aggiudicatario in conseguenza del reato, senza che alcuna
rilevanza venga attribuita ai costi contestualmente sostenuti nello svolgimento del rapporto
contrattuale.
Il sequestro per equivalente del profitto del reato può essere disposto per l’ intero importo nei
confronti di tutte le società rispetto alle quali è astrattamente ipotizzabile una responsabilità
amministrativa dipendente da reato a prescindere dall’ effettivo conseguimento di un profitto da
parte di ciascuna di esse.
Il profitto non può essere equiparato alla nozione prettamente aziendalistica di "utile netto". È
pacifico, peraltro, che nell’ interpretazione più ristretta, che lo definisce come "vantaggio di natura
patrimoniale", il concetto comprende, sia l’ incremento del patrimonio, sia il mero risparmio. Tale
definizione (puntualizzata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la Sentenza n. 29952
del 24.5.04), non lascia spazio a incertezze interpretative, perché non solo fornisce la nozione in
positivo del concetto di profitto, intendendolo come un "vantaggio di natura economica che deriva
dall’ illecito" e un "beneficio aggiunto di tipo patrimoniale" ma, a fugare ogni dubbio, esplicita
anche, in negativo, quello che profitto non è, chiarendo che lo stesso "non significa utile netto né
reddito" e che "non deve essere necessariamente conseguito da colui che ha posto in essere l’
attività delittuosa".
Il discrimine tra ciò che è confiscabile, secondo la nozione di profitto enunciata, e ciò che non lo è
va ricercato nella collegabilità diretta ed immediata del vantaggio patrimoniale all’ illecito penale,
con esclusione, quindi, di tutti gli effetti mediati e indiretti del reato stesso.
Poiché non vi è alcun dato normativo ricavabile dalla lettura sinottica del decreto in tema di
responsabilità amministrativa degli enti, per ricostruire la nozione di profitto del reato si può fare
ricorso alla generale definizione fornita nella sentenza n. 29952/2004 delle Sezioni Unite della
Cassazione secondo la quale per "profitto del reato" si deve intendere il vantaggio di natura
economica che deriva dall’ illecito. Vantaggio economico non significa "utile netto" né "reddito", ma
sta ad indicare un beneficio aggiunto di tipo patrimoniale. Deve essere tenuta ferma, però, in ogni
caso, per evitare un’ estensione indiscriminata ed una dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi
vantaggio patrimoniale, indiretto o mediato, che possa scaturire dal reato, l’ esigenza di una diretta
derivazione causale dall’ attività del reo, intesa quale stretta relazione con la condotta illecita.
Pertanto, il profitto riguardato dalla disposizione non può essere inteso in senso contabile, quale
utile netto determinato previa decurtazione dei ricavi dai costi sostenuti per l’ attività illecita.
Il profitto da assoggettare a confisca, ai sensi dell’ art. 19 deve quindi ritenersi tutto quanto
costituisca un beneficio aggiuntivo di tipo patrimoniale, nozione nella quale non può non farsi
rientrare anche la mancata diminuzione patrimoniale determinata dal mancato esborso di somme
per costi che si sarebbero dovuti sostenere. L’ unico temperamento è che il "profitto" deve essere
profitto da reato e, quindi, il denaro o le altre utilità devono essere legate da un rapporto di
pertinenzialità diretta con il delitto da cui dipende l’ illecito a carico dell’ ente, con esclusione,
dunque, dei vantaggi eventuali o indiretti e delle maggiorazioni conseguenti ad attività ulteriori e
non essenziali alla commissione dell’ illecito.
In tema di responsabilità amministrativa degli enti, l’ art. 13 del decreto richiede la certezza e la
rilevanza del profitto e non l’ esatta quantificazione di esso, per cui la rilevante entità può essere
legittimamente dedotta dalla natura e dal volume dell’ attività d’ impresa, non occorrendo che i
singoli introiti che l’ ente ha conseguito dall’ attività illecita posta in essere siano specificamente
individuati, né che se ne conoscano gli importi liquidati.
V) MISURE CAUTELARI
Cfr. artt. da 45 a 54
Art. 45.
1. Quando sussistono gravi indizi per ritenere la sussistenza della responsabilità dell’ ente per un
illecito amministrativo dipendente da reato e vi sono fondati e specifici elementi che fanno ritenere
concreto il pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede, il
pubblico ministero può richiedere l’ applicazione quale misura cautelare di una delle sanzioni
interdittive previste dall’ articolo 9, comma 2, presentando al giudice gli elementi su cui la richiesta
si fonda, compresi quelli a favore dell’ ente e le eventuali deduzioni e memorie difensive già
depositate.
2. Sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza, in cui indica anche le modalità applicative della
misura. Si osservano le disposizioni dell’ articolo 292 del codice di procedura penale.
3. In luogo della misura cautelare interdittiva, il giudice può nominare un commissario giudiziale a
norma dell’ articolo 15 per un periodo pari alla durata della misura che sarebbe stata applicata.
Abstract
Molto corposa è l’ elaborazione giurisprudenziale che ha riguardato le norme relative alle misure
cautelari: del resto, come pure sottolineato in più occasioni dalla Suprema Corte, molto stretto è il
legame che unisce il sistema sanzionatorio con quello cautelare nel procedimenti a carico dei
soggetti metaindividuali.
La centralità del tema emerge dalla stessa attenzione data dal legislatore della 231 al
"microsistema" cautelare, che è disciplinato nella sezione IV, del capo III: la parte più cospicua è
dedicata alla disciplina delle misure cautelari interdittive (artt. 45-52), mentre il regime delle cautele
di natura patrimoniale (sequestro preventivo e conservativo: artt. 53 e 54), risulta in larga parte
mutuato attraverso la tecnica del rinvio alla normativa codicistica.
L’ adattamento dei principi codicistici al procedimento a carico dell’ ente ha generato un modello
cautelare sostanzialmente "monofunzionale", nel quale l’ esigenza cautelare che giustifica il ricorso
alle misure interdittive è il solo c.d. periculum in mora.
Tale requisito, nell’ analisi fatta dalla giurisprudenza, ha trovato indici sintomatici nella natura e
nelle specifiche modalità del fatto, nella "personalità" del soggetto collettivo.
Come chiarito dalla Suprema Corte, rispetto al primo elemento, di natura oggettiva, rilevano la
gravità dell’ illecito e l’ ammontare del prodotto illecito; quanto al secondo, di carattere soggettivo,
può essere desunto dalla politica d’ impresa attuata negli anni, dagli eventuali illeciti commessi in
precedenza e soprattutto dallo stato attuale di organizzazione dell’ ente.
Come è stato osservato, quindi, risulta comunque preminente nelle concrete prassi giudiziarie, la
considerazione dell’ ethos dell’ ente e segnatamente la sua pericolosità desunta dall’ assenza di
presidi interni idonei a prevenire condotte recidivanti e di reazioni adeguate all’ illecito, una volta
scoperto. Ciò ha inevitabili ripercussioni sulla ripartizione dell’ onere probatorio perché incomberà
sulla difesa l’ efficace dimostrazione dell’ adozione di programmi preventivi conformi a parametri
legislativi, da cui poter inferire l’ esaurirsi del periculum.
Nel giudizio volto all’ accertamento della responsabilità amministrativa da reato di un ente, nel
caso in questo venga commissariato ai sensi dell’ art. 45, comma 3, del decreto, l’ acconto sul
compenso liquidato al commissario non può essere posto a carico dell’ ente medesimo fino alla
sua eventuale condanna definitiva e la relativa spesa deve nel frattempo essere anticipata dall’
erario ai sensi dell’ art. 4 del D.P.R. n. 115 del 2001, norma applicabile anche nel suddetto
procedimento.
Nel giudizio volto all’ accertamento della sussistenza delle esigenze cautelari - che costituiscono,
insieme al fumus commissi delicti, il presupposto per l’ applicazione delle misure cautelari
interdittive a carico dell’ ente, è necessario esaminare due diversi elementi: il primo, di carattere
oggettivo e relativo alle specifiche modalità e circostanze del fatto, può essere evinto dalla gravità
dell’ illecito e dalla entità del profitto; il secondo elemento, invece, di natura soggettiva, attiene alla
personalità dell’ ente e, per il suo accertamento, devono essere valutati sia la politica di impresa
attuata negli anni, sia gli eventuali illeciti commessi in precedenza sia, e soprattutto, lo stato di
organizzazione dell’ ente.
Non è consentito al giudice, nel revocare la misura cautelare interdittiva, imporre all’ ente l’
adozione coattiva di modelli organizzativi.
Il sequestro preventivo di beni di cui è consentita la confisca ex art. 19 del decreto non deve
essere preceduto, a pena di nullità, dall’ informazione sul diritto di difesa di cui all’ art. 369-bis
c.p.p., in quanto si tratta di un atto c.d. a sorpresa, diretto alla ricerca della prova, per il quale non
è previsto il previo avviso al difensore.
Consiglio di Stato (parere) 11 gennaio 2005
Ai fini dell’ individuazione del tipo di attività preclusa dalla sanzione interdittiva del "divieto di
contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico
servizio", prevista dall’ articolo 9, comma 2, lett. c), del decreto ed irrogabile, ai sensi dell’ articolo
45, comma 1, dello stesso decreto, anche quale misura cautelare, deve evidenziarsi che tale
misura cautelare, essendo preordinata a prevenire il rischio di commissione di illeciti della stessa
indole non può che riguardare la futura attività negoziale che il soggetto passivo intenda porre in
essere dopo l’ adozione del provvedimento interdittivo. Pertanto, il "divieto di contrattare" si
connota come divieto di stipulare nuovi contratti, in ciò risolvendosi l’ attività di contrattazione, e
non come divieto di portare ad esecuzione o ad ulteriore esecuzione contratti già precedentemente
perfezionati. Resta, comunque, impregiudicata la possibilità per l’ Amministrazione di procedere all’
annullamento in via di autotutela dei pregressi atti di aggiudicazione, ove ne ricorrano gli specifici
presupposti.
In materia di responsabilità da reato delle persone giuridiche e delle società, le ordinanze che
applicano una misura cautelare interdittiva sono impugnabili, ai sensi dell’ art. 52, solo con l’
appello, dovendosi escludere l’ ammissibilità del ricorso immediato in Cassazione.
In tema di sequestro preventivo, la disciplina introdotta dal decreto non differisce da quella
codicistica, essendo necessaria e sufficiente, per l’ imposizione del vincolo, la verifica della
sussistenza del fumus dell’ illecito ipotizzato e della confiscabilità della res. Pertanto, il controllo del
giudice non deve investire la concreta fondatezza dell’ accusa, ma solo delibare se il fatto attribuito
ad un soggetto sia configurabile quale fattispecie astratta di reato, ossia se sul piano astratto
sussista l’ antigiuridicità del fatto, nei termini di sommarietà e provvisorietà propri della fase delle
indagini preliminari.
Posto che il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato si consuma nel
momento di effettiva ricezione, da parte del richiedente, del denaro pubblico, se il finanziamento
ottenuto della società è stato incassato in epoca anteriore all’ entrata in vigore del d.lgs. 8 giugno
2001, n. 231, non sussistono, ai sensi del combinato disposto tra gli artt. 2 del predetto decreto e 1
della legge n. 689 del 1991, i presupposti per applicare, né le sanzioni, né le misure cautelari
interdittive.
In analogia a quanto disposto dal codice di procedura penale per le persone fisiche, possono
essere disposte misure cautelari nei confronti delle persone giuridiche, nell’ ipotesi in cui ricorrano
congiuntamente le condizioni previste dall’ art. 45, 1° comma, del decreto e rappresentate dai gravi
indizi di responsabilità dell’ ente per un illecito amministrativo dipendente da reato e dai fondati e
specifici elementi da cui desumere il concreto pericolo che vengano commessi illeciti della stessa
indole di quello per cui si procede.
La misura interdittiva della revoca di agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi già concessi,
prevista dall’ art. 45, comma 1, se disposta in sede cautelare, ha l’ effetto, non solo di inibire l’
erogazione di sovvenzioni già deliberate in favore della persona giuridica, poiché in tal modo si
limiterebbe la portata della misura cautelare ad una semplice sospensione e non in una vera e
propria revoca, ma anche di ottenere provvisoriamente la restituzione delle elargizioni
indebitamente già corrisposte. In tal senso, la predetta misura non andrebbe astrattamente a
sovrapporsi con il sequestro conservativo, previsto dall’ art. 54 del decreto, attesa la diversità dei
presupposti previsti per l’ adozione delle due misure. Invero, mediante l’ apposizione del vincolo
reale, si è inteso cautelare il pericolo di dispersione delle garanzie per il pagamento delle somme
comunque dovute all’ erario, tipicamente ricorrente in caso di difficoltà economica o di decozione
della società beneficiaria, mentre con le misure cautelari di tipo interdittivo - tra cui la revoca in
esame - si è voluto evitare che la persona giuridica torni a recidivare, commettendo nuovi illeciti
della stessa indole di quelli per cui si procede.
Ove irrogabile - ricorrendo i presupposti dell’ art. 13 del decreto - la più grave misura cautelare
interdittiva, il giudice può discrezionalmente disporne la sostituzione con la nomina del
commissario giudiziale onde recuperare una situazione di legalità organizzativa dell’ ente ed
impedire sue condotte recidivanti.
Ai fini della decisione in merito all’ applicazione della misura cautelare del divieto di pubblicizzare
beni o servizi rilevano, non soltanto le modalità e le circostanze del fatto in contestazione, ma
anche la personalità dell’ amministratore dell’ ente stesso. (Nel caso in esame, pertanto, il giudice
ha ritenuto che il numero delle condotte in contestazione sia in grado di indicare una "sistematicità"
nel delitto da parte dell’ amministratore. Il Tribunale, inoltre, ha ritenuto che tale circostanza sia
elemento sufficiente per l’ applicazione della misura cautelare richiesta dal pubblico ministero; tale
conclusione, peraltro, risulterebbe confermata dal fatto che l’ amministratore abbia svolto, anche in
passato, un’ illecita attività commerciale nello stesso settore di attività in cui opera la società
sottoposta a procedimento penale).
Ai fini dell’ applicazione di una misura cautelare interdittiva per un illecito amministrativo
dipendente da reato, il giudizio di gravità indiziaria formulato nel procedimento contro la persona
fisica indagata per il reato-presupposto preclude, in nome dei principi del c.d. giudicato cautelare,
la possibilità di rivalutare, rispetto all’ ente, gli elementi relativi al verificarsi del fatto e alla sua
riferibilità soggettiva.
Ai fini dell’ applicazione di una misura cautelare interdittiva nei confronti di un ente che, in un
gruppo di società, rivesta il ruolo di controllante, la valutazione del pericolo deve essere effettuata
con riferimento alla concreta possibilità di commissione di nuovi illeciti da parte di tale ente,
desumibile dalla sua struttura amministrativa e organizzativa.
La sospensione prevista dall’ art. 49 del decreto deve intendersi riferita alla misura cautelare
interdittiva già disposta dal giudice e non al procedimento di applicazione della stessa da parte del
giudice.
È legittima la richiesta di applicazione della misura interdittiva del divieto di contrarre con la
pubblica amministrazione nei confronti dell’ ente responsabile di non aver adeguatamente vigilato
sull’ osservanza del modello di organizzazione predisposto al fine di prevenire la commissione di
reati da parte dei propri funzionari. A nulla rileva, inoltre, la circostanza che l’ ente abbia poi attuato
meccanismi di risarcimento post factum nei confronti del diretto destinatario dell’ attività illecita,
perché resta aperto il problema del profitto conseguito in seguito alla commissione dei reati.
Il giudice per le indagini preliminari, al quale sia richiesta l’ applicazione di una misura cautelare
interdittiva nei confronti di un ente, non è vincolato dal contenuto della decisione adottata in sede
cautelare nei confronti dell’ amministratore dello stesso ente, indagato quale autore di uno dei
reati-presupposto di cui al decreto.
Nel procedimento volto all’ accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato
di un ente, la sanzione interdittiva può essere applicata quale misura cautelare, solo quando la
stessa sia almeno astrattamente applicabile come sanzione definitiva in relazione all’ illecito in
contestazione. Tale conclusione deriva dall’ applicazione, sia del principio generale di tassatività
ribadito in termini generali dall’ art. 13 del decreto, sia del criterio di proporzionalità, da valutarsi
rispetto all’ entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere applicata all’ ente.
Ai fini dell’ applicazione delle misure cautelari previste dall’ art. 45 del decreto, al fine di escludere
il pericolo di recidiva può rilevare anche la predisposizione ex post, da parte della società, di un
modello di organizzazione e di gestione. La verifica dell’ idoneità di tale modello a prevenire la
commissione di reati della stessa specie di quello verificatosi, richiede una valutazione più rigorosa
di quella effettuata nei confronti del modello predisposto ex ante, in quanto è necessario che il
modello sia effettivamente in grado di rimuovere le carenze dell’ apparato organizzativo e
operativo dell’ ente che hanno in concreto favorito la commissione dell’ illecito.
VI) VARIE
E’ configurabile una responsabilità civile (con conseguente risarcimento dei danni) a carico degli
amministratori di un ente (responsabile per la violazione della normativa 231) i quali non abbiano
predisposto un adeguato modello organizzativo prima della commissione del reato presupposto.
Reati presupposto
Gruppi
III) Confisca
V) Misure cautelari
VI) Varie