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S II U ) J

DI IDINI DI ITRATURA DI PUBBLICANINIONE


E DI BELLE ARTI.

AN NO PRIMO -

FIRENZE
SCRITTI INEDITI

Una lettera di Andre Lancia, e due favole di Esopo.

AVVERTIMENTO

Come torn carissimo a nostri lettori il saggio che noi


demmo nel primo quaderno dell'Etruria, di quell'antico com
mento alla Divina Commedia, cos speriamo che non ab
bian a tornar loro men cari i due scritti del secolo XIV
che in questo secondo stabilimmo di dar fuori. Il primo
quella lettera di Andrea Lancia fatta a nome di Lucillo,
della quale parl il Visconte De Batimes nel ricordato primo
quaderno; e sulla quale non accade aggiunger qui pi parole,
bastando che si dica al lettore come ne fu da me levata copia
dal codice magliabechiano, e fattone riscontro sul codice lau
renziano. L'altro scritto sono due favole di Esopo volgarizzate
in ottava rima, e copiate da un cotal Lionardo Sarto, guelfo,
nel Secolo XIV; le quali son custodite nella libreria riccardiana
tra molti altri frammenti. Chi sia l'autore di esso volgarizza
mento (dico volgarizzamento e dovrei dir parafrasi larghissima
e sentenziosa) non c' verun argomento da inferirlo. Che
non quel Lionardo Sarto par certa, perch tante sono le
stroppiature e le bessaggini di quella copia, com'e' vedr il
lettore, che altro che un ignorante supinissimo non pota scri
verle: e par certa dall'altra parte che l'autore fu valen
tuomo, e non versificatore ma poeta, cotanto leggiadra
quella lingua, cotanto vivaci quelle immagini, gravi quelle
sentenze, spedito e nobile quel verseggiare. Le quali doti
104

risplendono anche di tra 'l pattume onde ha lordato essi


versi il copiatore; e quelle ottave che ci son di nette, sono
e parranno a tutti (o ch'io m'inganno), secondo quel tempo,
maravigliose. Io come io, considerato che la prima ottava
quasi copia di una della Teseide: che altre ottave sono
similissime a due altre dello stesso poema ( n gli autori
sdegnano alle volte di ricopiarsi): che c' qua e l un ot
taveggiare al modo della stessa Tiseide e del Ninfale: che ci
sono molte desinenze di voci e di verbi simili a quelle che
nelle cose poetiche usava il Boccaccio: che, siccome il Boc
caccio faceva tanto volentieri, cos in queste favole ci sono
parlari e versi interi tolti alla Divina Commedia; io, dico,
mi son messo in capo che le nostre favole possano esser cosa
del Boccaccio. Ma non sono presuntuoso di volere che la
mia congiettura abbia a far forza appresso veruno; n vi
affermo sopra un minimo che. Questo mi basta, che agli
intendenti paiano cosa non indegna di veder luce, ed abbia
no per essi quel sapore che hanno per me.
Finisco dicendo che ho levato copia esattissima della
copia del Sarto guelfo, lasciandone anche tale quale la gra
fia, in servigio de Lessigrafisti e di chi studia alla storia
della lingua. Molti versi malamente stroppiati si potevano
agevolmente raddirizzare, ma le mani nel testo non ce lo ho
volute mettere, e solo nelle note ho posto il raddirizzamento
che mi pare secondo ragione.

P. FANFANI.
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Questa una pistola fatta in persona di Lucillo per alcuno citta


dino di Firenze chiamato ser Andrea Lancia, per la quale signi
fica che Seneca non diffini la questione de l'ebbriaco sofficiente
mente. La quale pistola ne le ottantatre pistole, e a carte. . . .

Seneca, Lucillo salute. Io desiderava di sapere come tu t'avi


conservato sano, imperci che pi tempi eran passati ch'io non era
certificato di tuo stato: tu comprendesti ch'io domandasse non solo
quello che facevi il die, ma quello che tu operavi ciascuno momento
d'esso. Sono contento che, a mia uttilit e di quelli che sono a ve
nire, tu abbi scritto cos distintamente li principii, el mezzo e la fine
del die, e quelli de la notte, la quale quasi senza dormire passi. Ben
conosco che (tutto che l'etade gi matura dovesse ritardare moltis
sime cose, per che insieme colla vecchiezza il calore del sangue si
mitiga, e quindi pi mollemente s'adopera) (1), che l'animo dalli suoi
primi anni innato alle fatiche, e insieme col corpo accostumato agli
affanni, seguita la virtude la quale l'ha sempre tratto a s. Ma tuttavia
innestasti alcune cose, le quali a me paiono non chiare, ovvero non
da s fortificate, s come usato se di volere che le tue cose per s
medesime, quasi perpetue, si difendano. Io non dubitai che il di tutto,
e grandissima parte de la notte, tu menassi senza sonno, e che la
tua vita fosse contenta di piccolissime cose, e solo di quelle che ba
stano a la natura; ch l'altre non ti bisognano e tu nolle desideri;
e che al tuo corpo di continuo esercizio, acci che per ozio non
divenga da s strano, n si tolga dall'uso delle fatiche. E non cer
cava io de la fermezza del tuo animo, come le cose e li stropicci fa
miliari nol turbano (2), n pensava che la notte ti ricevesse in letto
prima che tu avessi rivedute l'opere del passato die e antivedute
quelle del seguente, per ch'io t'ho per savio, e cos se tenuto;
ma io mi maraviglio che tu, ricercando quello che l'altro d davanti
non avi perfettamente tratto a fine, traesti d'esso intrigati argo
menti. A la perfine pari consentire che all'uomo che alcuna volta si
gravi di vino si possa connettere il secreto dell'amico, e che possa
essere savio l'uomo che si lascia sopraprendere al vino. E per que
(1) Questo s'adopra che mancava nel codice magliabechiano, lo ab
biam supplito col laurenziano; e dato cos un po' di lunne a questo perio
do, che, senza, era cieco del tutto.
(2) Non cercava io de la fermezza del tuo animo come le cose e li
stropicci familiari nol turbano. Nota stropicci per faccende occupazioni; e
nota in questo periodo un altro di quei costrutti onde parlai nel primo qua
derno dell'Etruria, pag. 47, nota 5.
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106

sto, o non avete sentito il vero Zenone, o altro avete sentito e al


tro scritto. Dicoti che non mi pare che s'appartenga a savio, non
che gravarsi di vino, ma ancora di prenderne non sobbriamente ;
ch se 'l vino, secondo che tu medesimo di', preso stemperatamente
genera moltissimi difetti, dunque non pu stare col savio, che dee
essere d'ogni colpa netto. Dir io colui savio e temperato che si
mette sotto la signoria del vino? E se il vino, secondo che tu di ,
manifestatore de secreti, dunque come star celato in uomo savio?
Se ti ricorda di quello di Cicilia che fu adomandato quello ch'egli
ava perduto ne la presa di Seracusa, con ci sia cosa che fosse
solo e vto (1), rispose, e dirittamente, che neuna cosa; per ch'era
savio, e 'l savio ha sempre le cose sue appo s. Dunque non ha il
savio bisognio di cose di fuori da s, se non quanto bisognio a sua
vita: ci che prende da indi in su non prende come savio, ma come
dimestico de'vizii. Per che mi pare che tu non riprendi bene Ze
none, ch per qualunque modo egli intende l'uomo essere ebbro, o
sempre o per intervalli, egli intende non essere savio; e al non sa
vio non si dovrebbero commettere i segreti, per che i segreti per
lo pi si commettono a uomo savio che consiglio hae in s. E non
mi pare che vaglia l'aultorit d'alquanti, li quali tu mettesti ne la tua
lettera, per che la singularit d'alcuno non rompe la generale re
gola di tutti; e Zenone intende non per alquanti, ma per li pi par
lare. Ben veggio che tu isgridi la ebbrietade e al tutto la riprovi: e
certo ella tale che, se non in quanto tu la detesti e vituperi come
singolare sozissimo vizio, ella non era degna di essere mentovata,
per che al postutto non viene co la natura, come alcuni vizii: non
d di s diletto, poi che comincia a essere ebbriet, ma pena e
tormento. E per il tuo sermone l'abbia posta e rilegata in perpetuo
sbandimento; e adducasi negli uomini la sobbrietade e temperanza,
siccome ornamento e necessaria vesta de'mortali.
Finita la pistola fatta in persona di Lucillo per ser Andrea
Lancia.

(1) Vto. Privo di avere. Cantabit vacuus coram latrone viator.

o &o-
I S O PO FAVOL A RIO

O somo Idio che co ragion governi (1)


Il cielo e la terra continuamente;
E ogni cosa con ordini eterni (2)
Volgi gli occhi vera maest presente,
E con giustitia il mondo governi,
Fa tu ch'io possa effectuosamente (3)
Del buono Isopo uno esempro disporre
Co rime tali potermi apporre. (4)

2.

E tu, famoso e riverendo Isopo,


Di cui la fama penetra e riluce (5)
Quanto del primo stato prima e dopo, (6)
Perch il ben viver desti fuora e 'n luce,
Or te invoco; ch m'acade ad opo (7)
Gli alti tuoi asempri ch'a virt perduce, (8)
I qua ti piacque in figura arecare
Con bello stile e fructevol parlare.
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Or dunche sia mia guida e testimone (9)


S che di mio dover non passi il segno,
Acci ch'io possa con chiare ragione
Seguir l'efetto perch a dire vegno,
Sempre elegendo tua correzione,
Ch sai da s non varrebbe il mio 'ngegno
Agli uditor dispor la veritade,
S la nasconde ella lunga etade. (10)

4.

E priego voi, signor, con umil core (11)


Ch'ascoltiate questa favola antica,
Che solo rimat' per vostro amore.
Di me l'afano sia e la fatica,
Di voi 'l diletto e d'Isopo l'onore
Perch tratta dalla sua robrica (12)
E permutata di versi in gramatica
Volgarizzata per rima e per pratica. (13)

5.

Signori, i penso che non vi sia nuovo (14)


Come durabil non c' creatura
Rationale, e questo apruovo
Per lo buono autor che cel mostra in figura
Cu fu Isopo, e per molti altri il truovo
Di cui la fama eternalmente dura (15)
Non muta forma e no cangia sembiante
In questa cieca vita e mondo errante.
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E ci no dico senz' altra cagione,


Com'udirete appresso racontare
Quel che intervenne a rigido leone
Il qual giamai no si cred invecchiare.
E simile interviene a mante persone: (16)
O quanto questo stolto imaginare
Di ciascun che durar si crede in vita
Contro la legie eterna stabilita !
7.

Nel suo felice tempo giovanile (17)


A molte fiere egli ava dispiaciuto
E fuori ogni altra tena vile: (18)
Da tucti fu riverito e temuto:
Animoso altero e signorile (19)
Nel suo prospero egli adivenuto. (20)
Trionfando nello animo magno (21)
Sanza seco voler pari o compagno.

8.

L'alta ferocit e fortezza (22)


Era cagion del posseduto onore.
Quell'acquistat'ava per la prodezza
Che reg nelle membra e nel suo cuore. (23)
Ma poi che fu percosso da vecchiezza,
El grande ardire e 'l suo sommo valore
Gli venne meno, s che venne a tale
Che pi e non pota far n ben n male.
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- - - - - - - - - - - del soperchio il tocca (24)


Venir men gli faca i sentimenti,
Ed all'orribile e paurosa boccha
A uno a uno usciron tucti e denti.
Alquanto solo di questo se ne scocca
E logorati i duri unghion pungenti;
Timido, tristo, fredo a modo che ghiaccio
Dimora nel suo misero covaccio.

10.

La gravit del tempo l'ha s offeso


Che dal predetto luogo non partia;
Addolorato e lasso giace steso:
Per non poter levarsi, divenia
D'ira focoso e s di crudo ciesso, (25)
Perch non pota far quel che volia.
Onde che ciascun onore si contrista (26)
Forte mancando del vedere la vista.

11.

Or la volante fama ch' veloce


Vie pi che altra cosa con su ale,
Volando, sparge del lion la voce, (27)
S che notizia a ciascuno animale
Come vecchiezza e miseria gli nuoce;
Onde col toro l'asino e cinghiale,
Lor disponendo dell'antica ingiuria
Di vendicarsi, mossonsi con furia.
1 11

12.

Sanza voler pigliare altro rispetto (28)


Il proprio giorno l'andorno assalire,
E il loro mal volere missono a effetto;
E 'l furioso porco pien d'ardire,
Da rabbia acerbia stimulato e stretto,
Prima nol vide che cominci a dire:
Tu mi fedisti tenendomi a schifo.
E colle dure sanne e fiero grifo

13.

Gli corse adosso, e nel petto il percosse.


Venne due volte, tanto a dir presume,
L'animal fiero batendo le gote
Rubeste e carche di focosa schiuma.
Dal grave asalto atar gi non si puote.
Onde che s rodendo si consuma
Veggendosi dall'animale affrangere.
Solo per sua vendetta egli era a frangere. (29)

14.

Non con men furia il toro . . . . . . . . . . (30)


Fiero mughiando, co l'acute corna,
Fra le due spalle feroce il percosse:
Pi d'una volta adosso gli ritorna
La dura pelle maculando e l'osse.
L' animo altero del lione si scorna:
A quel ch'er'avenuto non pensava,
N il futuro caso imaginava.
1 12

15.

L'asino pigro divenuto ardito


Disposto al tutto vendicar su onte,
L dov'era il lione se n' ito
E l'opre sue ricevute contra (31)
Nel preterito tempo, al ferito (32)
Col duro pi nell'onorata fronte
S violento e dispettoso calcio
Che pi piegossi che per vento salcio.

16.

Or dorme l'alta fama e onorata


La quale auta nel mondo cotanto,
E la potente forza ridotata
E 'l grande ardire che nel mondo vanto;
E la fiera destrezza consumata:
Sol m' rimaso lagrime con pianto,
E misera vecchiezza carcha d'anni
E infinite doglie con affanni. (33)

17.

Ben m'era questo grave a sostenere


D'aver perduto dimino e lo stato,
L'onor, la forza, l'ardire e 'l potere,
Per lo quale io era nel mondo onorato;
Ma pi m' suto duro delle fiere
L'aspre fedite e l'esser molestato;
E pi ognora con dolore m'assale
Perch gli vinsi, e mi vinchono aguale.
1 13

18.

Cos l'alta fortuna speculante


Con mutabile modo fa venire
D'alto in basso, e cos il somigliante
Di basso in alto chi vuol fa venire;
E per l'asempro ch'avete davante
Chiarifica l'efetto del mio dire.
Or tema questo caso chiunche offende
Se d'infiniti amici risprendente.

19.

- - - - - - - - ch'avete udito (34)


- - - - - - -

Nella presente favola si specchi.


E tu che se sulla rota salito
Del triunfo mondano, apri gli orecchi,
Procurando cos facto partito
Che ti provvegga, e fa che t'apparecchi
Seguir virt nel vivere dubioso,
Perch ne l'altra vita abia riposo.
114

seco ND o Isoro

20.

Dica Isopo ch'essendo un giorno il cane


Per la foresta, e molto era affamato, (35)
E per la fame un gran lamento fane, (36)
Infra s stesso s si fu pensato
Di chiedere alla pecora un pane.
A muoverle quistione tosto fu andato:
Disse: dammi uno pane ch'io ti prestai:
Ella rispuose: a me nol desti mai.

21.

Or come di di no, il can gridava,


Ch tel prestai ch'eri amalata forte?
E fortemente s la minacciava:
Se no mel rendi io n'andr alla corte
La pecorella di paur tremava,
Come colei che semprice era forte.
E 'l can tosto alla corte se n'andava,
La pecorella al giudice accusava.
115

22.

semplice pecora fu richiesta;


Immantenente alla corte n'ande:
E come il can la vide, non fe resta (37)
Subitamente il giudice chiame:
Ecco colei che il pan mi chiese in presta,
Io gliel prestai, ancor nollo rie.
Per Dio vi priego mel facciate dare,
Ch pi con lei no mi voglio impacciare.

23.

- - - il giudice tu i contra lui . . .


- - - - -

- - quello pane tu non l'hai renduto.


- - - -

Ed ella gli rispuose il me che sane:


In verit ch'io non l'ho mai auto.
Dica il cane allor con falsitane:

Sotto un ulivo ov'era assai letame,


Io tel prestai che morivi di fame.

24.

Dica il giudice al can: fatti in costne :


La pecorella presso a s chiame:
Deh ! dimmi il ver, prestotti questo pane?
Ella giurava, e s dica di noe.
El giudice s si volgeva al cane:
Se non hai prove io la prosciogliere.
Dica il can : fate non vada altrove,
Ed io merr qui tosto le mie prove. (38)
11 6

25.

Partissi il cane e non sa che si fare,


E per lo campo si giva pensando:
Due testimoni mi convien trovare:
E del nibio si viene ramentando.
Il can nell'aria si cominci a gridare (39)
E videl presso a s che gia volando,
Il cane prestamente lo chiame,
E 'l nibio presto e ratto a lui n'ande.

26,

E come a lui fu fatto prossimano,


El can con grand'amor s 'l salute; (40)
De po 'l saluto gli dicea pian piano:
Deh ! saine nulla che m' intervenuto?
Post' ho richiamo al giudice sovrano
Come la pecorella ha da me auto
Un pane in presta: ella dice di noe;
I' perdo il piato se prove non hoe.

27.

Ond'io ti priego, nibio, in cortesia


Ch'a questo fatto mi sia testimone
Co che vuoi che sia (sic)
Come bisogna al giudice dirone
Per c' d'altro, e questo saldo fia:
E poi con lui s si consiglione.
Se l lupo mi servisse ora al presente
Del piato mio ne sarei vincente.
117

28.

Prestamente il lupo anno trovato


E tutto quanto il fatto gli contaro.
Disse: ho caro m'abiate amaestrato.
Dica il cane: non dite il contraro;
Al pan ch'io le prestai vi siate stati:
E la fatica che voi durerete
Sopra di me, non ve la perderete.

29.

s'anco il piato non ha da pagare


Certanamente abiate colla al canto (41
La lana sua le converr levare:
E siate certo ch'io le far tanto
Che morta tosto la vedrete cascare.
Il lupo e 'l nibio, facendo gran canto:
Andianne tosto senza pi indugiare,
f Che lo facciamo sanza dimorare,

30.

Alla corte n'andorno i frodolenti,


E 'l cane tosto il giudice chiame:
Ecco costor che v'erano presenti.
Quello rettor tosto gli domande:
Ditemi il ver, parete buone genti,
Giurate qui come quel pane ande (42)
E ciascun giura, e no gli par fatica:
No ci maravigliam ch'ella disdica.
118

31.

Pi sopra questo fatto non passate, (43)


Ciascun dicea, il cane s ha ragione.
Che prest un pane per certo abiate,
Non vel diremmo per niuna cagione.
E il giudice alla pecora: ora andate,
Rendigli il pane, e non far pi quistione:
Prima ch' i parta tu l'abbia accordato.
Sotto gran pena gliel' ha comandato.

32.

La pecorella ch' perduto il piato


E niente non ha di che pagare:
Egli era un freddo crudo e dispietato
La lana sua le convien levare:
Vendlla tanto un pane ha comperato:
Rendllo al cane senza pi indugiare.
Il freddo grande addosso s l'ntre
Che 'n pochi giorni morta si chasce.

33.

E cos avviene a ciascun uom del mondo:


Qual pi d'un altro abbia pi potere
Quel che pu meno messo nel profondo
E tolto gli la vita choll'avere.
Chi peggio fa tenuto pi giocondo,
E 'l tradimento chiamato savere.
Deh ! lascia far, ch quando Dio vorre,
A luogo e a tempo ognun ne paghere.
FINIs. DEo GRATIAs.
Queste due favole furono scritte per mano di Lionardo
di Bartolomeo sarto in Firenze, mano propria, Guelfo.
IN Ce T E

(1) Ecco l'ottava 35 del Libro XI della Teseide.

O Giove pio, che con ragion governi


La terra e 'l cielo, e doni parimente
A ciascheduna cosa ordini eterni,
Volgi gli occhi ver me e sii presente
E con giustizia il mio voler discerni,
Il qual ora si fa consenziente
A quel del mio signor: nel che io sono
Peccator priego che mi dia perdono.

(2) Forse dee dire E ad ogni cosa..... Volgi gli occhi ec.
(3) Effettuosamente, con effetto, con buon effetto.
(4) Forse: Con rime tali da potermi apporre; cio da poter dare nel
segno.
(5) Ecco Dante: O anima cortese mantovana Di cui la fama ancor
nel mondo dura. E il Boccaccio quando gli veniva il bello, danteggiava vo
lentieri.
(6) Verso guasto certamente.
(7) M'acade ad opo. Mi accade ad uopo, cio mi viene occasione di
usare, di giovarmi de'tuoi esempi ec.
(8) Esempi che a virt perduce. Che guidano alla virt. Per i Gram
matici antichi, e per quasi tutti i moderni, qui c' enallage, e il singolare
sta per il plurale. Il Nannucci e'direbbe che perduce troncatura di per
duceno terza persona plurale. Il Gherardini, che le sillessi del verbo es
sere le battezza per ellissi e le riempie a dovere, non so come farebbe per
questo verbo qui e per tanti altri. Gli esempi son molti, e d'ogni secolo,
appresso tutti i grammatici.
(9) Nota robustezza che ha la presente ottava. Di questa e dell'an
tecedente vedi una somiglianza nella 35, e 36 del canto XII della Tesei
de. Testimone sta nel primo verso per assistente; cio, dice, sii mia
guida e non ti dipartire da me.
(10) Il verso guasto. Forse diceva: S la nasconde e cela ec.
(11) E questa ottava pure bella e leggiadra se niuna ce n'.
(12) Dalla sua rubrica. I titoli dei componimenti e gl'indici dei
rmedesimi si scrivevano spesso di rubrica: qui, presa la parte per il tutto,
rubrica sta per libro, opera.
120
(13) E permutata ec. Ci dice che da versi latini fu mutata in prosa
latina (ch tanto sonava allora grammatica, quanto lingua latina) e poi di
prosa latina la volt egli in rima volgare.
(14) Il terzo verso di questa ottava manca di due sillabe, e non saprei
qual potesse essere la parola mancante; il quarto soverchia di una sillaba,
ed aperto che in vece di Per lo sar stato scritto dall'autore Pel.
(15) Di cui la fama eternalmente dura. Ecco Dante da capo: ed il
Boccaccio, quando ben gli veniva, usava le proprie parole di Dante, e i
veri suoi, e le immagini sue.
(16) Mante persone. Molte persone. Dal provenzale mant, mans.
(17) Pongasi mente quanto nobile la presente ottava.
(18) Il verso mancante di un che s: E forse sar stato scritto cos,
fuor che s, ogni altra tenea vile.
(19) Dall'essere la prepotenza e l'orgoglio vizio troppo comune a'signori
usurparono i nostri antichi le parole signoria, signorevole, e signorile per
orgoglio, prepotenza, orgoglioso, prepotente o simili. Cos nel Petr. Uom.
ill. Cur Dent. si legge: Quanto egli fosse signorevole contro a cittadini
e agli compagni non solamente il mostrava quella crudelt contro a Quinto
Fabio, ma di molte asprezze quella terribile, che ec. E nelle VV. SS. PP.
Quando il prelato troppo signoreggevole e con alterezza e autorit co
manda a suoi sudditi, vede Iddio ec.
(20) Nel suo prospero. Nel suo prospero stato, nella sua prosperit.
comune nella lingua italiana, come in altre, questo porre i concreti per
gli astratti. -

(21) Trionfando. Qui trionfare sta per gonfiarsi di superbia.


(22) Il verso stava per avventura cos: L'alta ferocit e la fortezza, o
gran fortezza. -

(23) Che reg nelle membra ec. Recare riferito a qualit fisica o mo
rale, per possederla, averla, mi par nuovo, e strano.
(24) Qui ed in altri luoghi, dove si vedr punteggiato invece di scritto,
la carta del testo mangiata del tutto, o la lettera morta affatto. Ottava
bellissima, se non in quanto il verso Alquanto solo di questo se ne scocca
oscuro, e certamente erroneo. Nel verso sesto poi non dovr dire a modo
che ghiaccio, ma s a mo' che ghiaccio.
(25) S di crudo ciesso. Non saprei, neppur per indovinatico, come
s'avesse a dir questo verso.
(26) Ciascun onore si contrista. Non c' dubbio ch' e' s'ha a leggere:
ciascun'ore si contrista.
(27) Del lion la voce. La notizia dello stato in che era il lione.
(28) Senza voler pigliare altro rispetto
Il proprio giorno l'andorno assalire
Senza aver rispetto ad altro, senz'altro pensare, l'andarono ad assalire
quel giorno stesso. Nota l'uso di quell'adiettivo proprio per istesso, e la
proposizione a tolta all'infinito assalire: modi che sono ambidue d'uso con
tinuo appresso gli antichi, e su quali ritorneremo.
(29) Solo per sua vendetta egli era a frangere
Verso di senso oscuro, e forse e senza forse sciupato dal copiatore.
(30) Non con men furia il toro. . . . .
121

Par, quasi certamente, che il verso dovesse finire con allor si mosse;
ma la carta qui mangiata.
(31) Ricevute contra. Non so far congettura del come s'avesse a star
questo verso.
(32) Nel preterito tempo, al ferito. Forse dova dire: nel preterito tempo,
die' al ferito.
(33) Bella ottava, e le due seguenti; se non in quanto turba la bellezza
della 18.a, quel suo ultimo verso spropositato.
(34) Forse: Or ciascuno di voi che avete udito. Bella ottava !
(35) Essendo per la foresta......, ed era affamato. Questo accozzo
di gerundio con pendente era comunissimo agli antichi. Vedine assegnata
la ragione in uno scritto del P. Sorio nel N. 8. de'Ricordi filologici.
(36) Fane per fa, e molti simili, son frequenti per le cose poetiche
antiche, e massimamente del Boccaccio.
(37) Non fe resta. Non rest: non mise tempo in mezzo.
(38) Merr. Mener. I futuri si contraevano quasi sempre da'nostri
antichi, e se ne trova degli stranissimi. N solo i futuri, ma anche altre voci
di verbo.
(39) A gridare, forse guardare.
(40) S 'l salute. Qui, certo per isbaglio del sarto copiatore, non c'
neppur la rima. Il verso finiva senza fallo con la voce saluto; e forse: gli
fe'il saluto.
g
(41) Colla al canto. Questo tale strafalcione che le congetture non
ri
ci possono.
(42) Come quel pane ande. Nota modo riciso, e calzante: come chi
dicesse: giurate come and la faccenda di quella prestanza di pane.
a
(43) Sopra questo fatto non passate. Non indugiate pi a far giustizia.
Passar sopra a una cosa vale dissimularla, non ne tenere stretto conto, o
simili.

-a-e-o-

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