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il lavoro culturale ISSN 2384-9274

La volont di negare, II. Norme di genere e stereotipi di


genere
lavoroculturale.org /la-volonta-di-negare-ii/

Federico Zappino e Deborah 28/4/2017


Ardilli Federico Zappino e Deborah Ardilli proseguono la loro riflessione su
teoria del gender e panico eterosessuale iniziata qui.

Please, open the curtains.

Sarah Kane, 4.48 Psychosis

La negazione, daltronde, costituisce sempre il tentativo

di deviare da qualcosa di particolarmente ostinato.

Judith Butler, Lalleanza dei corpi

una verit universalmente riconosciuta che un uomo scapolo e ricco debba essere in cerca di una moglie,
recita con ironica magniloquenza la voce narrante di Orgoglio e pregiudizio. Si tratta di un enunciato che
sintetizza in modo fedele ed efficace la norma che lo svolgimento del romanzo si incarica poi di confermare Mr.
Darcy trova in effetti Elizabeth Bennet, e la sposa. Eppure, la provocatoria pertinenza sociale esemplificata
dallincipit austeniano avrebbe oggi scarse possibilit di sopravvivere allo zelo censorio a cui la denuncia degli
stereotipi di genere ci ha ormai abituate. Non vero che tutti gli scapoli ricchi sono in cerca di una moglie!
Esistono gli scapoli che sono in cerca di un marito, ad esempio, gli scapoli poliamoristi, gli scapoli asessuali, e in
ogni caso pieno di scapoli poveri, e che non hanno alcuna intenzione di sposarsi!: questa lobiezione che
possiamo attenderci da chi, scambiando per descrittive proposizioni il cui obiettivo mira invece a essere
normativo, ne rigetta il contenuto in nome di registrazioni pi accurate della variet del reale. Simili obiezioni,
tuttavia, mancano puntualmente il bersaglio. Se la lotta agli stereotipi di genere, intesi come rappresentazioni
caricaturali, distorte o riduttive di ci che nella realt pi complesso, plurale o articolato, sostituisce una lotta
pi radicale contro le norme di genere spesso fedelmente riprodotte da ci che viene definito stereotipo, allora
la lotta agli stereotipi diventa ancillare al consolidamento delle norme di genere stesse. Lobiettivo di questo
articolo consiste nella critica della lotta agli stereotipi di genere: consideriamo questa lotta un serio ostacolo a
una pi ampia e precisa lotta contro le norme di genere e la matrice da cui tali norme dipendono, che la
matrice eterosessuale.

Un buon esempio dei limiti della lotta contro gli stereotipi ci offerto dalla recente diffusione delle immagini
promozionali per il vertice G7 di Taormina. Tra queste, una ha suscitato particolare indignazione: si tratta
dellimmagine inserita nellapplicazione mobile destinata ai giornalisti stranieri che associa senza mediazione la
Sicilia allo sguardo predatorio di un ragazzo con la coppola e con la sigaretta tra le labbra indirizzato a una
ragazza che, col sorriso malizioso e la coda dellocchio rivolta al pretendente, si rifugia sotto un parasole. Se c
uno stereotipo che questa rappresentazione di corteggiamento alla luce del sole (in senso letterale e figurato) tra
un uomo e una donna cisgenere veicola, che la norma eterosessuale sia una peculiarit di Taormina. Altri

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stereotipi ci sembra, francamente, di non vederne. Certo: non tutte le ragazze e non tutti i ragazzi cisgenere ed
eterosessuali indossano cappelli, o fumano, o si corteggiano in mezzo alla strada ad esempio, talvolta capita
che le persone eterocis non dimostrino in pubblico i propri sentimenti, per una precisa scelta di rifiutare il
privilegio loro accordato dallorganizzazione eteronormata dello spazio pubblico. Daltronde, potrebbero mai le
persone eterocis rinunciare liberamente al proprio diritto di apparizione se la facolt di esercitare quel diritto
non fosse loro preliminarmente garantita dalle norme differenziali che regolano laccesso allo spazio
equivocamente definito pubblico (cfr. Judith Butler, Lalleanza dei corpi, 2017)? Il fatto che alcune persone
eterocis scelgano di non ostentare i propri sentimenti in pubblico, non costituisce forse lindicatore pi eloquente
dellesistenza delle norme di discrezione e delle misure di prudenza imposte a chi non pu mostrarsi
pubblicamente senza incorrere in una qualche forma di sanzione pi o meno interiorizzata, pi o meno grave,
e spesso molto grave? Di solito, nessun militare interviene a interrompere un uomo e una donna eterocis che si
baciano allangolo di una piazza, com successo invece qualche giorno fa a due ragazze di Napoli ed solo
lultimo caso di una lunghissima serie. Con ci non intendiamo affatto negare che lintento iper-rappresentativo
dellimmagine promozionale del G7 di Taormina non fallisca, se valutato in base a criteri di stretta
quantificazione numerica. Quello che ci preme sottolineare, piuttosto, che la ricognizione della realt sociale
del genere effettuata in base a criteri di stretta quantificazione numerica pecca di astrazione: questi desideri di
censimento restano infatti ciechi alla differenza tra maggioranze egemoni e minoranze subalterne, nonch alla
differenza che esiste tra la norma e la totalit. Si pu forse sensatamente sostenere che la raffigurazione del
desiderio di essere riconosciuti come veri uomini e vere donne, gli uni destinati alle altre, sia stereotipata? Si
pu forse sensatamente sostenere che si tratti di uno stereotipo che falsifica la norma sociale, o che pregiudica
lintelligenza del suo funzionamento?

Presidenza del Consiglio dei ministri, G7 di Taormina (2017)

Un altro esempio, al riguardo, pu essere eloquente. Alcuni giorni fa, la candidata alle elezioni bavaresi del
2018, Ilse Aigner, si lamentata, dalle colonne del quotidiano tedesco Spiegel, del pregiudizio stigmatizzante
di cui sono vittime le donne single: stata messa in giro la voce che io sia lesbica, il che completamente
assurdo e mi fa arrabbiare. Non lo sono!. Nellordine discorsivo dominante, il pregiudizio opera in modo simile

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allo stereotipo. Anche in questo caso si tratta di una rappresentazione sommaria, non suffragata fattualmente, o
addirittura scientificamente, e potenzialmente offensiva. Se lesempio in questione eloquente, perch mostra
in modo efficace che la lotta ai pregiudizi non necessariamente prevede la rimozione, e nemmeno la
relativizzazione, della norma egemonica dal campo delle rappresentazioni socialmente appropriate. Al contrario:
la norma deve essere esplicitamente evocata per scongiurare il rischio che una modalit non del tutto conforme
a essa di impersonare il genere (essere donne candidate alle elezioni e senza marito da presentare,
eventualmente, agli altri capi di stato e di governo e loro consorti) venga fraintesa con uninfrazione giudicata,
neanche troppo velatamente, disonorevole per quanto siamo anche pronte a scommettere che la candidata in
questione si dichiari anti-omolesbotransfobica, come molti altri leader politici, da Theresa May ad Angela Merkel
a Matteo Renzi. Ci significa dunque che la lotta al pregiudizio mira a contrastare il senso comune (tutte le
donne single non possono che essere lesbiche) attraverso laffermazione di una verit fattuale che necessita di
agganciarsi proprio al senso comune per potersi affermare (dire che tutte le donne single non possono che
essere lesbiche un insulto). linsulto alla verit di fatto custodita dal caso particolare o il rischio di passare
attraverso unidentificazione comunemente ritenuta proibita a suscitare inquietudine, o panico, e a motivare la
necessit di denunciare lo stereotipo? Se la seconda ipotesi ci sembra cogliere nel segno, perch non
cessiamo di verificarne la consistenza ogniqualvolta la lotta agli stereotipi, o ai pregiudizi, prende a oggetto il
mondo dellinfanzia e, pi in generale, il terreno della riproduzione sociale, delleducazione, della
socializzazione. Quante volte siamo state testimoni di unilluminata disponibilit a una versione da rotocalco del
gender trouble, consistente nel concedere ai maschi di giocare con le bambole e alle bambine di travestirsi da
Zorro, a carnevale, con la giustificazione che nessuno di questi sconfinamenti potrebbe, o dovrebbe, seriamente
compromettere la destinazione eterosessuale e lacquisizione della giusta identit sociale, ossia dellidentit
cisgenere? E che dire, sempre a proposito di versioni banalizzate del gender trouble, di quella riabilitazione
strategica della vulnerabilit affidata alla valorizzazione delle lacrime sacre del maschio eterosessuale? Resta
sempre poco chiaro, in effetti, in che senso la legittimazione di livelli straordinariamente alti di
autocommiserazione eterosessuale maschile opportunamente sottolineati a suo tempo da Eve Kosofsky
Sedgwick, in Stanze private (2011; ed. or. 1990) dovrebbe costituire un assalto mortale alla norma. Ci
perfettamente chiara, in compenso, la clamorosa mistificazione legata alla decostruzione dello stereotipo
maschile: essa contribuisce infatti ad alimentare la falsa impressione di un posizionamento simmetrico rispetto
alle norme di genere. Se, come suggeriscono i tanti appelli alla maschilit fragile, le costrizioni di genere
pesano indistintamente su tutt*, se ne nessuno beneficia di oggettive posizioni di privilegio, che senso avrebbe
continuare a far riferimento alla divisione tra dominanti e dominat*, tra egemoni e subaltern*? Che senso
avrebbe politicizzare quella divisione inscritta nella struttura dei rapporti sociali? O forse la lotta agli stereotipi
serve precisamente a spoliticizzarla e, di conseguenza, a rafforzarne la necessit?

Per come la osserviamo, la fallacia insita nella diffusa disponibilit a considerare la denuncia degli stereotipi la
via maestra della critica delle norme di genere si articola in due momenti: la mancata denaturalizzazione della
norma eterosessuale e il misconoscimento della funzione oggettivamente svolta dallideologia. Come abbiamo
visto, se c qualcosa da imputare alla circolazione degli stereotipi di genere, non si tratta della riproduzione
arbitraria di credenze cognitivamente errate, o moralmente biasimabili, o storicamente residuali. Tutto ci,
infatti, impedisce di cogliere la funzione di razionalizzazione e legittimazione che gli stereotipi svolgono al
servizio dei rapporti materiali normali di dominio.

La nostra posizione che occorra soffermarsi con pi precisione sulle ipoteche idealistiche e naturalistiche le
prime figlie delle seconde che gravano sulla lotta agli stereotipi. In primo luogo, per questa lotta
fondamentale (continuare a) dissociare sesso e genere. Di conseguenza, resta del tutto sorda ai passi compiuti
dal pensiero femminista e da quello queer, spesso in modi convergenti, per pensare lintelligibilit della
materialit sessualmente qualificata dei corpi come risultato dellorganizzazione sociale; a quelli per intendere il
genere come rapporto sociale antagonistico tra un polo subalterno e un polo egemone; e a quelli per nominare,
di conseguenza, il versante sacrificale, come labbiamo definito altrove, della norma eterosessuale, che
distribuisce in maniera differenziale privilegi e costi della soggettivazione di genere.

La lotta contro gli stereotipi necessita di prendere le mosse dalla ripartizione del quadrante umano tra una
sfera materiale a dominante biologica, circoscritta discorsivamente (senza che ci si avveda della contraddizione
in atto) come luogo pre-sociale della divisione binaria e complementare maschio/femmina, e una sfera a

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dominante culturale entro cui si svolge il processo sociale di acquisizione dellidentit e di codificazione
normativa dei ruoli sessuali. Da tale schema discende che alla differenza sessuale spettano i tratti di costanza
e inemendabilit associati alla natura, mentre al genere competono quelli di variabilit e flessibilit associati
alla cultura. In questottica, il genere come cultura viene a configurarsi come lo spazio ideale degli infiniti
modi di interpretare la mascolinit e la femminilit. Il genere come cultura diventa dunque la sovrastruttura di
nessuna struttura sociale, bens di una differenza sessuale tirata fuori dalla storia e dalla politica, lasciandosi alla
spalle la materialit dei rapporti di dominio determinati proprio dalla storia e dalla politica della differenza
sessuale. Che cosa significa, dopotutto, ascrivere la materialit del sesso allordine pre-sociale della differenza
biologica, se non tenere in vita il presupposto di una sessualit naturalmente eterosessuale e naturalmente
riproduttiva? E che cosa significa attribuire alla cultura il compito di separare ci che si presume naturalmente
unito, se non cancellare la politica necessaria a costruire quella differenza gerarchica e complementare, e a
consolidarne lapparente naturalezza? Non per caso, Gayle Rubin o Adrienne Rich hanno parlato di
eterosessualit obbligatoria e Monique Wittig delleterosessualit come di un regime politico. Soltanto in seno
a questa scissione tra sesso e genere, il genere come cultura pu indurci a pensare che donne e uomini
esistano come libere fluttuazioni antropologiche, come percezioni individuali e identit, indipendentemente
dalla gerarchia sociale regolata dalla matrice eterosessuale che subordina il primo gruppo al secondo e
mette fuori gioco, o include in modo condizionale e diseguale, le soggettivit non cisgenere e non
eterosessuali.

Questa scissione, che con un doppio movimento forclude e rinsalda la matrice eterosessuale, non potrebbe
imporsi con successo se a sostenerla non intervenisse una diffusa riluttanza a leggere, nelle differenze, le
disuguaglianze (cfr. Federico Zappino, Matrice eterosessuale e critica del discorso post-genere , in Effimera,
19 novembre 2016). Per quanto difficile possa essere, riteniamo che occorra abbandonare lidea che
pronunciare la parola differenze possa svolgere una funzione taumaturgica sulle gerarchie. Al contrario, si
tratta di un eufemismo che, volontariamente o meno, costruisce unapparente simmetria tra posizioni di genere
gerarchiche, occultandole. E, ci permettiamo di aggiungere, dovremmo definitivamente riconoscere nei tanti
propositi pedagogici di educazione alle differenze un afflato reazionario, forse inconsapevole, ma fatto tuttavia
passare per rivoluzionario. A quali altre differenze dovremmo educarci, ci chiediamo? Non siamo gi
sufficientemente educati al regime binario ed eterosessuale dei generi? Quanto dobbiamo aspettare, ancora,
per una dis-educazione alle differenze di genere? Evidentemente non abbastanza chiaro che le
diseguaglianze e le gerarchie di genere si devono proprio al lavoro di differenziazione incessantemente svolto
dalla matrice eterosessuale. Ma ora che questo diventi pi chiaro: non c nulla di trasformativo in unazione
pedagogica che insegna a rispettare lesistenza fenomenica di differenze di genere evitando rispettosamente di
auspicare la sovversione di ci che le produce, in modi che sono e restano indisgiungibili dalle diseguaglianze.
Che cosa dovremmo trovare di desiderabile in un progetto che educa allesistenza fenomenica di persone queer
e trans, proprio nel luogo in cui quelle persone, di norma, non saranno mai le loro insegnanti? Con quale
ingenuit se di ingenuit si tratta si pu pensare che progetti formativi annunciati come rivoluzionari possano
rientrare nei piani di offerta formativa delle istituzioni che attivamente ri-producono le gerarchie di genere (cfr.
Marcella Farioli, A cosa servono le donne nella scuola italiana? , in Nazione Indiana, 14 febbraio 2016)?
Quando per esempio leggiamo, in relazione al recente caso della docente trans e precaria allontanata da una
scuola di Vicenza, che solo lattuazione di politiche capaci di tener conto delle differenze pu mettere fine alle
discriminazioni, come pu passare inosservato che lallontanamento in questione scattato non per un difetto,
ma per un eccesso di attenzione a differenze ben determinate?

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Richard Lam (Getty), Vancouver Riot Kiss (2011)

Il rischio sempre in agguato, ovviamente, che le minoranze di genere e sessuali inizino a invocare come
panacea di tutti i mali la cosiddetta neutralit dello stato di diritto liberaldemocratico, ossia quel principio per cui
la legge dovrebbe essere cieca di fronte alle differenze, al fine di garantire imparzialit e giustizia. Principio
giuridico condivisibile, idealmente, ma del tutto inutile, alla prova dei fatti, a modificare anche solo di una virgola i
rapporti di forza di un ordine sociale di cui la legge sempre il prodotto in cui le differenze sono in realt
gerarchie. Dobbiamo sforzarci di trovare, pertanto, un modo di risolvere questa aporia affinch la lotta contro le
gerarchie e le diseguaglianze di genere indotte della matrice eterosessuale non si risolva n nella lotta contro gli
stereotipi e nelleducazione alle differenze, n nella legittimazione dei presupposti venduti come infallibili e
necessari e in realt conniventi con le gerarchie dellideologia liberale e, di conseguenza, di quella neo-
liberale. Daltronde, ci sarebbe da chiedersi quanto sia debitrice proprio di questa ideologia per la quale il
rapporto sociale un contratto volontariamente stipulato tra soggetti presuntamente uguali e liberi ci che la
critica della lotta agli stereotipi che abbiamo qui delineato ci autorizza a definire nei termini di nominalismo
radicale: ossia, la polverizzazione dei processi materiali di categorizzazione e riproduzione delle gerarchie di
genere e sessuali in una miriade di casi particolari, di singolarit ritenute per definizione inclassificabili in
quanto esposte a un grado di indeterminazione, o complessit, sufficientemente ampio e flessibile
whatever da permettere allimmediatezza delle interazioni personali di trionfare sulla corposa mediazione
esercitata dalle matrici di produzione e riproduzione, non solo ideologica, delleterosessualit.

Infatti, la scommessa su margini di manovra e di autonomia individuale talmente ampi da indurre a rigettare con
sospetto, e a liquidare come schematizzazione grossolana, ogni riferimento alla preminenza della mediazione
della norma urta frontalmente contro alcuni dati di esperienza. Ad esempio, come spiegare il fatto che, a dispetto
di una evoluzione delle norme culturali di genere tale da consentire una maggiore partecipazione delle donne
al mercato del lavoro remunerato (tralasciamo qui a quali condizioni), il peso dei compiti di riproduzione in
contesti di coabitazione eterosessuale pesi ancora sproporzionatamente sulle loro spalle e consenta di
individuare nel gruppo sociale degli uomini il primo beneficiario di questa estorsione di lavoro (come sostiene
tuttoggi Christine Delphy, Pour une thorie gnrale de lexploitation, 2015, in part. pp. 19-63)? Come spiegare
il perdurare di questo differenziale di potere allinterno di una relazione che non ha lapparenza della costrizione,
ma che anzi si presenta e si legittima come accordo volontario tra persone libere e uguali? E, se volessimo fare
altri esempi, come spiegare il fatto che lo stupro continui a essere tale in quanto esercitato dal gruppo sociale
degli uomini contro quello delle donne, o che le persone queer o trans siano esposte a livelli spropositati di
violenza esplicita ed epistemica, psichica e corporea, pubblica e privata? A tali domande, i militanti della lotta

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contro gli stereotipi risponderebbero forse facendo notare che esistono, e senzaltro esistono, casi di
coabitazione eterosessuale in cui i compiti di riproduzione sono svolti interamente dagli uomini, o casi di
molestia o violenza, non solo sessuale, agita dalle donne o dalle persone queer e trans a tutto danno degli
uomini eterosessuali. E forse ci farebbero notare che esistono anche casi di violenza perpetrata dai neri sui
bianchi, o dai poveri contro i ricchi. E che dire della violenza che vige allinterno delle coppie lesbiche, autentico
trend del momento? E perch non menzionare quei casi in cui i detenuti manicomiali rincorrevano con molta
violenza, minacciando talvolta di ucciderli gli psichiatri che volevano legarli ai letti con le cinghie di
contenzione? La violenza un fenomeno di questo mondo, certo. Tuttavia, essendo questo mondo, cos com,
strutturato da differenziali di potere ben specifici, che sono essi stessi violenti, non ci sorprende che le
minoranze la riproducano, o che reagiscano con la violenza alla violenza esperita. Vi sono ottime
argomentazioni filosofiche da avanzare contro la riproduzione della violenza da parte delle minoranze, e in
favore della nonviolenza. Il fiato da dare a tali argomentazioni, tuttavia, dovrebbe essere quello che resta di
quello speso per gridare senza mezzi termini la violenza quotidiana e normale differenzialmente subita dalle
minoranze. In alternativa, si sta dando fiato alla tutela di uno status quo violento, al quale i destinatari della
violenza dovrebbero reagire in maniera nonviolenta. Definiamo questa posizione difesa del privilegio.

Abbiamo illustrato le conseguenze contro-intuitive dovute alla propensione a descrivere e a squalificare come
distorsione ogni forma di mera rappresentazione della norma. La radicalizzazione della denuncia dello
stereotipo o del pregiudizio spinta fino al punto di definire irrealt la spazializzazione delleteronormativit, a
cui la rappresentazione si riferisce, segna forse il punto di massima condensazione idealistica di uno stile di
indagine critica che nega lesistenza di ci che ne legittimerebbe lesistenza, pur di tener ferma la pi
irrinunciabile delle sue premesse: la forza inerte del pregiudizio, dello stereotipo del bias, dellignoranza, del
retaggio, e potremmo continuare con altri quasi-sinonimi come unica motivazione idonea a spiegare la
mancata coincidenza tra lidealit di ci che si suppone che sia e la realt di ci che .

Robert Doisneau, Le baiser de lhotel de ville (1950). Nel novembre del 2015 limmagine assurta a emblema della resistenza
parigina contro il terrorismo islamico.

Se non difficile cogliere il vizio che anima la pretesa di assegnare allo stereotipo o al pregiudizio di genere
funzioni esplicative pi onerose di quelle che possa effettivamente sostenere, pi raro, invece, vedere

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lattenzione generale soffermarsi sul dubbio privilegio di cui beneficia il genere, rispetto ad altri dispositivi di
potere, in quanto oggetto di critica. In effetti, non abbiamo difficolt a immaginare lalone di ridicolo da cui
saremmo comprensibilmente sommerse qualora sostenessimo che la subalternit economica e sociale dei
lavoratori salariati e a maggior ragione di quelli non salariati, nelle odierne forme di neoschiavismo dipenda
dalla persistenza di stereotipi di classe da sradicare con una rispettosa e stucchevole iniziativa pedagogica
indirizzata allattenzione di chi, magari addirittura inconsapevolmente, detiene le leve dello sfruttamento. In altre
parole: non abbiamo difficolt a immaginare che saremmo coperte di ridicolo qualora ci azzardassimo a dire che
la relazione tra lo sfruttato e lo sfruttatore naturale e necessaria, e che, di conseguenza, tutto ci che
possiamo sperare che lo sfruttatore attenui la sorda e cieca brutalit della natura e della necessit con la
gentilezza e lempatia nei confronti dello sfruttato, e che trovi un modo alternativo o minoritario di essere un buon
sfruttatore. Sappiamo bene che non esiste alcun correttivo a questa relazione al di fuori della sua sovversione.
Quello che invece fatichiamo a capire per quale motivo la stessa reazione non investa il discorso relativo agli
stereotipi di genere, dal momento che si fonda sulla stessa, identica, fallacia.

Si tratta di un problema molto serio, se pensato in chiave di alleanze e di intersezionalit delle lotte. Infatti, la
rinuncia a pensare il genere come rapporto antagonistico di forza costituisce spesso la cifra di posizionamenti
politico-economici anti-capitalistici in grado di contemplare la questione del genere esclusivamente in forza di un
correttivo liberale (un paradossale comu-liberalismo), anzich di un posizionamento politico-economico anti-
eteronormativo. E c una differenza tra le due cose. Per i posizionamenti comu-liberali, lunico beneficiario
delloppressione delle donne e delle soggettivit non eterosessuali e non cisgenere che si tratti di sfruttamento
del lavoro riproduttivo, di inclusione differenziale e condizionale, o di esclusione violenta , resta il capitalismo,
in tutte le sue versioni pi o meno contemporanee: nessuna contraddizione percepita in seno al sistema
eterosessuale del genere. Questo discorso permette dunque di dimenticare o di aggirare che il punto non
quello di far rientrare nella lotta anticapitalistica, e spesso con forti mal di pancia, la lotta per una generica libert
delle donne e delle persone non eterosessuali e non cisgenere di essere ci che vogliono e di fare ci che
vogliono, o di essere libere dalla violenza, ma quello di sovvertire il sistema stesso di ri-produzione
eterosessuale del genere che accorda ad alcuni il privilegio di scegliere se lottare o meno per la libert altrui, a
favore dellinclusione altrui, o contro lesposizione alla violenza altrui. proprio da quel privilegio, infatti, che
dipende labiezione altrui. Il privilegio tale in quanto dipende dallabiezione di altri, e fuori da questa
dipendenza che non solo relazionale, ma innanzitutto di una relazionalit gerarchica non ci sarebbe
alcun privilegio, n alcuna abiezione. L dove il sistema eterosessuale del genere cessa di costituire un asse
autonomo di produzione di privilegi e abiezioni, tanto culturali quanto materiali ed economici, la violenza di
genere declassata o a effetto collaterale di altri dispositivi di potere, in modalit che negano la specifica realt
delloppressione, o, appunto, a un insieme residuale di stereotipi e pregiudizi individuali, da combattere.

Come si spiega questa propensione a ridurre i conflitti che contano quelli veramente degni di sollecitare
tutto il nostro impegno intellettuale e militante ad antagonismi sociali tra gruppi rivali di maschi eterosessuali?
Sar forse che di tutte le relazioni sociali contrassegnate dal dominio, dallo sfruttamento e dallabiezione, quella
regolata dalla norma eterosessuale lunica che, a dispetto di volenterose dichiarazioni di intenti, stenta a
denaturalizzarsi? Sar che a reggere le fila della denuncia degli stereotipi si trovano proprio quanti, per
scongiurare il conflitto, preferiscono distogliere lo sguardo dal proprio coinvolgimento nella norma e nel privilegio
eterosessuale? Quale che sia la risposta, non si tratta di un problema inedito se gi alla fine degli anni Settanta
Christine Delphy poteva osservare che lincapacit di pensare il genere rimanda a un insieme di
rappresentazioni confuse che ruotano tutte intorno alla credenza nella necessit di relazioni ravvicinate e
permanenti tra la maggior parte delle donne e la maggior parte degli uomini in ogni momento, cosa che rende un
conflitto strutturale, semplicemente disfunzionale, e dunque impensabile (cfr. Un fminisme matrialiste est
possible, in Ead., Lennemi principal 2. Penser le genre, 2001, trad. nostra).

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