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06 Febbraio 2017

Del 6 febbraio 2017 Del 6 febbraio 2017


Estratto da pag. 1/25 Estratto da pag. 1/25

Illusioni elettorali a sinistra

di Paolo Mieli Colpisce che entrambi gli schieramenti, centrodestra e centrosinistra, ritengano sia venuto il
momento per riproporre le primarie. Quelli di destra non le hanno mai fatte e, per loro, potrebbe essere una
bella esperienza, pur se realizzata fuori tempo massimo. Ma a sinistra sanno di cosa si tratta. Qui lUlivo si
present nel 1996 come un soggetto unitario contrapposto al Polo delle Libert e le primarie, dieci anni dopo,
servivano ad indicare il candidato della coalizione alla guida del governo. Adesso, in assenza del ballottaggio,
ben difficile che un qualsiasi sistema elettorale possa produrre una maggioranza parlamentare
autosufficiente. E quindi avr un senso solo simbolico designare in anticipo il capo del governo. Anche se tutti
quelli del Pd restassero nel partito madre e riuscissero a portare dalla loro qualche gruppo confinante, appare
assai ambizioso ritenere che quel partito o coalizione possa ambire a conquistare il 40%. Potrebbe
legittimamente provarci e forse tra due o tre tornate elettorali anche riuscirci. Ma al momento quelli usciti dalle
primarie sarebbero solo candidati di bandiera. Stesso discorso vale per il centrodestra, per la Destra da sola e
per i Cinque Stelle. Diversa, dicevamo, sarebbe stata la situazione con una qualunque forma di ballottaggio, un
sistema che per, prima ancora che dalla Corte costituzionale, stato abbandonato per strada da tutti coloro
che per un trentennio ne avevano fatto la loro bandiera.

stato sufficiente che i pentastellati prevalessero nei ballottaggi alle elezioni comunali perch schiere di
politici e studiosi che fino al giorno prima unanimi ne avevano esaltato le virt, smettessero anche di parlarne.
E non stato, ammettiamolo, uno spettacolo edificante.

Senza ballottaggio, i sistemi elettorali pi o meno si equivarranno dal momento che, nellItalia tripolare,
finiranno per avere, pi o meno tutti, effetti proporzionali. La trattativa per produrre un sistema nuovo di zecca
o per armonizzare ci che passato attraverso il setaccio della Consulta rischia cos di essere (o di apparire,
che in politica la stessa cosa) un espediente volto esclusivamente a guadagnare tempo. Ed difficile
immaginare che per dieci mesi si resti a fischiettare discutendo di vantaggi e svantaggi di questo o quel metodo
delezione dei parlamentari (cosa che del resto si sta facendo da unabbondante trentina danni). Perci se si
desidera che la legislatura duri fino allinizio del 2018, le si devono dare traguardi realistici, credibili e
ambiziosi in campi diversi da quello delle tecniche di voto. Altrimenti la vittoria delle forze antisistema, gi
probabile se si votasse a giugno, potrebbe, tra un anno, essere travolgente.

Quanto alle alleanze preelettorali, ne verranno escogitate di stravaganti per allargare ognuno il proprio bacino
e trainare piccoli partiti che rischierebbero altrimenti di infrangersi sulla soglia di sbarramento: coalizioni
tattiche, oltremodo friabili, destinate a dissolversi un attimo dopo lingresso in Parlamento come accadde per il
patto tra Veltroni e Di Pietro nel 2008 e poi nuovamente, nel 2013, per quello tra Bersani e Vendola. Per non
parlare dellaltro altrettanto caduco, nello stesso 2013 tra Pdl, Lega e Fratelli dItalia. andata cos
nellultimo decennio e adesso probabilmente andr peggio dal momento che le alleanze vere, quelle destinate a
dar vita al governo non verranno sottoposte agli elettori e si potranno fare solo in Parlamento, sulla base di
alchimie in partenza inimmaginabili. Per giungere infine a qualcosa che con molta buona volont
ribattezzeremo Grande Coalizione ma che, lo si pu stabilire fin dora, tale non sar. Grandi Coalizioni
possono dirsi solo quelle imperniate sui due pi consistenti partiti rivali che stabiliscono tra loro una tregua in
vista di un successivo ritorno alla competizione. Non possono essere definite tali ( e non solo questione di
nomi) quelle che danno vita ad un governo che si regge su poco pi del 50% dei parlamentari e che, per giunta,
potrebbe essere costretto a lasciare allopposizione il partito di maggioranza relativa: esperimento inedito e, si
presume, tuttaltro che stabilizzante.

Oggi sembra che si sia dimenticato cosa accadeva prima degli anni Novanta, quando non erano gli elettori a
decidere chi dovesse governare. Le maggioranze si facevano e si disfacevano in Parlamento ricorrendo a
modalit che, con il passar del tempo, produssero nellelettorato un effetto straniante. Ma quello era ci che da
noi era sempre capitato fin dal 1861 quando nacque lo Stato italiano. LItalia stato lultimo Paese
democratico in cui si data lalternanza per via elettorale, senza passaggi parlamentari intermedi (come quello
che si ebbe a met anni Novanta con il governo presieduto da Lamberto Dini). Lultimo. Qui, a partire dal
1861 fu solo nel 2001 che una maggioranza (in quel caso di centrosinistra) venuta fuori cinque anni prima
dalle urne, cedette il passo ad una (di centrodestra), in seguito al responso delle stesse urne. Poi la cosa si
ripet nel 2006 e nel 2008 ma gi nel 2013 il sistema entr in crisi e i governi ripresero ad esser fatti in
Parlamento senza un decisivo contributo degli elettori. Probabilmente questo accadde perch avevamo scelto
di non andare al voto nel 2011 quando la legislatura era gi in evidente agonia e conseguenza di questa scelta
fu nel 2013 la valanga per il movimento Cinque Stelle. Adesso, indipendentemente da quando si andr al voto,
probabile che la prossima legislatura non sar tra le pi stabili nella storia dellItalia repubblicana. E non da
escludere che successivamente saremo chiamati a tornare alle urne in tempi brevi, come accaduto
recentemente in Grecia e in Spagna.

In questa prospettiva bizzarro che, a sinistra, sia stato resuscitato lUlivo. Forse lo si fatto perch
limmagine della creatura di Romano Prodi evoca successi e unit. Gi, lunit. Nel Novecento i gruppi che
venivano espulsi o si scindevano dal Partito socialista presero labitudine di inserire nella loro denominazione
il termine unit ad occultare il fatto che la loro comparsa sulla scena annunciava la divisione della sinistra in
ulteriori tronconi. Per primi, nellottobre del 22, si definirono Partito socialista unitario i compagni di
Filippo Turati e Giacomo Matteotti espulsi dal Psi nei giorni della marcia su Roma. Nel 48 si chiamarono
Unit socialista le due formazioni ex Psi guidate da Giuseppe Saragat e da Ivan Matteo Lombardo che
avevano rifiutato la scelta frontista alle elezioni del 18 aprile. Nel 49, pretesero di darsi nuovamente il nome
di Partito socialista unitario i seguaci di Giuseppe Romita e Giuseppe Faravelli fuorusciti dal Psi. Si
autoproclamarono invece Partito socialista di unit proletaria coloro che, nel 64, con Tullio Vecchietti e
Lucio Libertini, abbandonarono il Psi al momento dell ingresso nel primo governo di centrosinistra organico.
E per la terza volta vollero denominarsi Partito socialista unitario quelli che, guidati da Mauro Ferri (ma
regista delloperazione fu Giuseppe Saragat, allepoca Presidente della Repubblica) nel luglio del 1969
ruppero con il Partito socialista unificato e provocarono la caduta del governo guidato da Mariano Rumor.
Unit, unit, unit: ogni volta che lasciavano il partito madre quei grandi della sinistra storica si definivano
unitari. Ed un segnale interessante che queste nuove formazioni della sinistra prendano labitudine di
proclamarsi uliviste. Pur se improbabile che, in virt di questo cambio di denominazione, gli scissionisti
del nuovo millennio abbiano prospettive di successo maggiori di quelli che nel secolo scorso si dicevano
unitari.
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Estratto da pag.1/21 Estratto da pag.1/21

Il rischio dellItalia a due velocit

MASSIMO GIANNINI IL MINISTRO del Tesoro Padoan che a Palazzo Madama parla di Europa a unaula
mestamente vuota, dove bivaccano annoiati tredici senatori, fotografa la miserabile ipocrisia della politica
tricolore. Sempre pronta allo strepito usa-e-getta da studio televisivo, mai capace di elaborare un pensiero
lungo in una sede istituzionale. Il futuro dellUe sar il tema dominante delle prossime campagne elettorali.
IN OLANDA, in Francia, in Germania e anche in Italia (che si voti a giugno o nel 2018). DallEuropa che
verr dipenderanno le vite di noi cittadini che la abitiamo. La crescita e il lavoro, il welfare e le tasse. Ma nel
Paese, al di l delle schermaglie tattiche e delle sparate strumentali, manca la percezione della posta in gioco.
Il Fronte Popolare anti-sistema ha un programma drammaticamente chiaro. Truppe grilliste e destre
sovraniste gridano s alle piccole patrie, no alla moneta unica. Come Grillo e Salvini, ora anche Marine Le
Pen infiamma il suo popolo evocando Trump, e propone una pericolosa saldatura culturale tra la deriva
nazionalista europea e la pretesa anti-globalista americana. Cosa rispondono le forze progressiste e riformiste?
Poche idee, molto confuse.
Angela Merkel ha finalmente capito che lattendismo non una politica. La proposta di unEuropa a due
velocit apre uno scenario inedito, ma tuttaltro che irrealistico. Le due velocit esistono da sempre, nei fatti e
nei numeri. Dai tempi di Maastricht (febbraio 1992) lEuropa del Nord, trainata dalla Germania, viagga in
business class, mentre lEuropa del Sud, il famoso Club Med, viaggia low-cost.
Il modello esplicitato dalla Cancelliera di ferro rende strutturale questa differenza. LEuropa va avanti con le
geometrie variabili, con chi ci sta e soprattutto con chi ce la fa. E qui si apre la grande questione, che ci
riguarda pi da vicino. Lentusiasmo con il quale il premier Gentiloni salito sul carro della Merkel
comprensibile. LItalia, Paese fondatore, vuole restare nel gruppo di testa.
Ma la proposta della Cancelliera implica un cambio di passo politico, istituzionale ed economico, che lItalia
in questo momento non sembra in grado di garantire. Veniamo da due anni di scontro permanente con la
Commissione di Bruxelles, abbiamo beneficiato di 19 miliardi di flessibilit, abbiamo appena sforato i vincoli
di deficit per 3,4 miliardi e tuttora pende su di noi il rischio di una procedura di infrazione. Abbiamo una
crescita allo 0,8% (quattro volte meno della media Ue), e un debito al 134% del Pil (due volte il parametro dei
Trattati). Abbiamo una produttivit cresciuta del 4% dal 2000 ad oggi (contro il 19,2% della Germania e il
25,2% della Francia). Nelle condizioni date, lItalia non sta nel blocco dei paesi che corrono, ma nel gruppone
di quelli che arrancano. A meno che non sia pronta ad assumere impegni ancora pi stringenti. Siamo pronti a
farlo, o anche solo a discuterne?
Grillo e Salvini, i pifferai magici che ascoltano leco di Trump, sanno che musica suonare, e come farsi seguire
da cittadini-elettori esausti da un ventennio di sacrifici e di austerit. Sfasciamo questa Europa, torniamo alla
liretta, che metteva al riparo le famiglie a suon di aste dei Bot e le imprese a colpi di svalutazioni competitive.
I partiti responsabili, di fronte a questa bolla narrativa, che altro racconto sanno proporre? Lunione
monetaria, da sola, pericolosamente zoppa (come diceva Ciampi). Il Patto di stabilit, fatto solo di vincoli
numerici, maledettamente stupido (come diceva Prodi).
Ma c qualcuno, a partire dal Pd, che spiega perch leuro va comunque difeso, visto che allItalietta
dellinflazione e dei tassi di interesse a due cifre servito come il pane? C qualcuno che racconta come e
perch, invece di fare lEuropa a due velocit, indispensabile riscrivere i Trattati, e prevedere che il tetto del
deficit va portato a quota zero per la parte corrente, lasciando il 3% per finanziare la sola spesa per
investimenti? Trump introduce i dazi per difendere loccupazione: qual il modello europeo, a parte i mini-
jobs tedeschi o i voucher italiani? Trump smonta la riforma sanitaria di Obama: qual il modello europeo,
oltre ai tagli lineari al Welfare?
Domande senza risposta. Implicherebbero una visione, che al momento le classi dirigenti di questo Paese
(non solo lestablishment politico, ma anche quello imprenditoriale) non sembrano avere. Le domina la
confusione e la paura. Noi e lEuropa, noi e leuro. Questa sar la faglia che attraverser il prossimo voto.
Bisogner trovare risposte serie e credibili. Anche a chi, come il ministro tedesco Schaeuble, lancia lattacco
frontale a Mario Draghi, contestando la politica monetaria troppo accomodante della Bce, che non fa pi
linteresse della Germania.
Una linea che stringe un Paese come il nostro in una morsa. Che succederebbe al nostro debito pubblico, alle
nostre banche e ai nostri portafogli se la Bce rialzasse i tassi di interesse, o chiudesse anzitempo i rubinetti del
Quantitative easing? Sarebbe un passo verso labisso. Ma servirebbe qualcuno che spiegasse a Schaeuble
che senza lombrello di Draghi il tasso di crescita nelleurozona tra il 2011 e il 2016 sarebbe stato inferiore del
5,6% (con un 10,4 in Germania, 7,4 in Italia, 5,9 in Francia). Il totale degli occupati sarebbe stato
inferiore di 6,6 milioni di persone (mentre i disoccupati sarebbero stati 5,6 milioni in pi). E il debito pubblico
sarebbe stato pari a 10.572 miliardi (quasi 1.000 miliardi in pi di quello attuale).
Di tutto questo, nel Belpaese, non si parla. Siamo fermi alla post-verit di Renzi e alle fake- news della Raggi.
Un tempo eravamo tutti euro-entusiasti. Ora siamo divisi, tra euro-combattenti in piazza ed euro-indifferenti
nel Palazzo. Chiunque vinca, sar un disastro.

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