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Lettere che hanno cambiato il mondo
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Lettere che hanno cambiato il mondo

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About this ebook

Da Nelson Mandela a Martin Luther King,
da Bertrand Russell a George Orwell

In un’epoca in cui tendiamo spesso a dare per scontate le libertà di cui godiamo ogni giorno, questa raccolta di lettere rappresenta l’occasione per riflettere sull’importanza di prendere posizione sui temi che ci stanno a cuore. Attraverso la potenza delle parole scritte, infatti, ci si rende conto di quanto un singolo individuo possa fare la differenza per cambiare davvero il mondo. E anche se spesso affrontiamo con cinismo e disillusione le sfide del nostro tempo, dobbiamo resistere alla tentazione di credere di non contare nulla. Basta leggere le parole di George Orwell sui totalitarismi, di Martin Luther King, di Nelson Mandela e di Antonio Gramsci dal carcere, di Albert Camus sulle ragioni per opporsi alle guerre, di Bertrand Russell sull’importanza della pace e di Emmeline Pankhurst su quella del voto alle donne per guardare all’oggi con gli occhi di chi crede che sia un dovere lottare per un mondo migliore.

Una raccolta di straordinari testi scritti da chi ha lottato per cambiare il mondo

«Visionari, idealisti e cittadini comuni riuniti in un’antologia straordinaria. In un momento di instabilità politica, questa raccolta ci ricorda l’importanza di farsi sentire.»
The Guardian

«Abbiamo imparato, talvolta pagando un prezzo molto alto, che la libertà non è mai concessa volontariamente dagli oppressori; sono gli oppressi che devono esigerla.»
Martin Luther King

«Penso […] che la nostra causa sia la migliore, ma dobbiamo continuare a renderla ancora migliore, il che comporta una costante critica.»
George Orwell

«Combattiamo per la sfumatura che distingue lo spirito di sacrificio dal misticismo, l’energia dalla violenza, la forza dalla crudeltà, per la sfumatura ancora più lieve che separa il falso dal vero e l’uomo in cui speriamo dagli dèi cialtroni che voi riverite.» 
Albert Camus

Travis Elborough
Collabora con l’«Observer» e il «Guardian». I suoi articoli sono apparsi, tra gli altri, sulle pagine del «Times», del «Sunday Times» e del magazine «BBC History». È cresciuto a Worthing, nel Sussex, ed è autore di libri di successo. Vive a Londra.
LanguageItaliano
Release dateOct 7, 2019
ISBN9788822737762
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    Lettere che hanno cambiato il mondo - Travis Elborough

    1

    Lettera di William Wilberforce

    a Thomas Jefferson sulla schiavitù, 1808

    Anche se oggi sembra impensabile, all’epoca della nascita di William Wilberforce nel 1759, la schiavitù e il traffico di esseri umani, soprattutto dall’Africa alle Americhe e ai Caraibi, erano considerati dai più fenomeni naturali e ordinari. La storia era dalla sua parte: la schiavitù veniva praticata sin dalle primissime civiltà, come gli antichi greci, pionieri della democrazia. Ancora più terribile è il fatto che a oggi non sia ancora scomparsa. Ma nella Gran Bretagna della seconda metà del

    xviii

    secolo, abolizionisti come Thomas Clarkson, Granville Sharp, l’ex schiavo africano Olaudah Equiano e William Allen, un quacchero che rinunciò allo zucchero (uno dei prodotti principali del lavoro degli schiavi) per più di quarant’anni, cominciarono una campagna per abolire la schiavitù, adducendo motivi morali e religiosi.

    Wilberforce era il figlio di un ricco mercante, e fu deputato della Camera dei Comuni per la sua città natale, Hull. Prima di trovare la fede nel 1784, aveva condotto una vita piuttosto dissoluta; tuttavia, a seguito della sua conversione al cristianesimo evangelico rinunciò ai suoi vizi e diventò uno dei principali sostenitori del riformismo sociale. Convinto dalla sua fede che la schiavitù fosse un peccato per il quale la Gran Bretagna dovesse pentirsi o essere dannata, Wilberforce dedicò i successivi vent’anni della sua vita a fare pressioni sul governo affinché abolisse il commercio di schiavi e liberasse gli africani venduti come fossero oggetti. Dopo molti tentativi falliti, nel 1807 riuscì finalmente a far approvare una mozione che avrebbe messo fine alla tratta di esseri umani in Gran Bretagna. Ciò nonostante, ci sarebbero voluti altri ventisei anni prima che la schiavitù venisse dichiarata illegale.

    In questo periodo, Wilberforce e gli altri abolizionisti continuarono a fare pressione per ottenere l’emancipazione di tutti gli schiavi. Wilberforce fu un membro fondatore dell’Istituto Africano, un’organizzazione guidata dal duca di Gloucester che, usando le parole di uno storico, «fu alla testa del movimento nazionale contro la schiavitù per tutto il decennio successivo». Una delle principali preoccupazioni era assicurarsi che la legge in vigore venisse rispettata.

    Sebbene il commercio degli schiavi fosse stato abolito, inizialmente la pena per aver infranto la legge non era molto severa, e i britannici non riuscivano ad applicarla con rigore. La marina militare non poteva abbordare navi negriere britanniche sospette che battevano bandiera straniera. L’America era un problema non da poco: sebbene il Congresso degli Stati Uniti avesse proibito la tratta degli schiavi africani nel 1808, non molto tempo dopo la Gran Bretagna, il commercio interno veniva portato avanti senza sosta. A causa della domanda di lavoro, in particolar modo nel Sud della nazione, spesso si chiudeva un occhio sugli schiavi ottenuti per vie illegali. Nel dicembre del 1810, il presidente Madison confessò al Congresso che i cittadini americani erano ancora «determinanti nel portare avanti un traffico di schiavi africani, violando allo stesso modo le leggi dell’umanità e quelle del proprio Paese».

    Fu per questo motivo che, pochi anni prima, Wilberforce aveva scritto personalmente all’allora presidente americano Thomas Jefferson, nella speranza di raggiungere un accordo anglo-americano sui diritti di intervento reciproco, «permettendo a ogni Paese di prendere possesso delle navi negriere dell’altro», per cercare di arginare il commercio. Purtroppo, un simile accordo non fu mai raggiunto.

    In Gran Bretagna, lo Slavery Abolition Act, che abolì la schiavitù nelle colonie britanniche e liberò più di 800.000 schiavi nei Caraibi, in Sudafrica e in Canada, ricevette finalmente l’approvazione del re il 28 agosto 1833, quasi un mese dopo la morte di Wilberforce, che però era riuscito almeno a vedere la legge superare la terza lettura parlamentare.

    Nel 1860, negli Stati Uniti c’erano quasi quattro milioni di schiavi, la maggior parte dei quali abitava negli Stati meridionali. L’emancipazione completa sarebbe arrivata soltanto cinque anni più tardi, al termine della cruenta guerra di secessione americana.

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    East Bourn, Sussex, 5 sett. 1808

    Signore,

    in qualità di presidente della commissione generale dell’Istituto Africano, e per ordine di tale ente, ho l’onore di portare alla Vostra attenzione una questione d’altissimo rilievo per i grandi obiettivi che si propone; obiettivi che riguardano il lato umano e buono d’ogni Paese, e la condotta del governo e del popolo americani è tale da indurre l’Istituto a sperare di ottenere negli Stati Uniti un’approvazione almeno tanto ampia quanto quella ricevuta in Gran Bretagna. L’Istituto Africano ha altresì un motivo particolare di credere che in Voi, signore, gli sforzi d’una società volta alla diffusione della civiltà e della felicità in Africa troveranno tutto l’incoraggiamento e il supporto che la Vostra alta posizione vi consente, giustamente, di dare.

    Dacché il fondamento di tutte le speranze dalle quali è nata la nostra associazione, e dalle quali è animata, è la cessazione della tratta degli schiavi – quell’imponente ostacolo che in passato si è contrapposto a ogni sforzo di migliorare lo stato della società in Africa –, è naturalmente diventato uno dei nostri obiettivi principali assicurare il mantenimento di questo felice fondamento, vigilando sull’applicazione delle regole grazie a cui quell’odioso commercio era stato abolito, dato che potremmo vederle infrante, se ciò fosse possibile, per via d’una crudele avarizia. In tal senso sono stati adottati alcuni provvedimenti, e poiché il governo britannico ha soddisfatto le speranze dell’Istituto attraverso la fondazione di un tribunale del vice-ammiragliato col potere di far rispettare l’Abolition Act in Sierra Leone in Africa, e attraverso altre misure preliminari, confidiamo con una certa sicurezza che il commercio di contrabbando non annulli in misura significativa l’intenzione del nostro corpo legislativo, almeno per quanto riguarda la condotta dei soggetti britannici che agiscono apertamente sotto i colori di questo Paese.

    Ma siamo rammaricati nell’apprendere che sulla costa sopravvento dell’Africa è già stato avviato un commercio di schiavi di contrabbando, a opera di uomini che si definiscono americani e che navigano sotto la bandiera e con l’approvazione degli Stati Uniti. Nel mese di marzo di quest’anno, due navi con tale rotta furono catturate sulla summenzionata costa dal capitano Parker della sloop of war britannica […] e indagate, giacché si presume che fossero contrabbandieri britannici che battevano bandiera americana per coprire le proprie azioni illegali. I nomi delle navi, e persino dello Stato a cui professano d’appartenere, sono ancora ignoti, ma è stato affermato che entrambe appartenessero agli Stati Uniti, ed entrambe erano cariche di africani trasportati come schiavi, con l’intenzione di ridurli in schiavitù nelle Indie Occidentali, contrariamente a quanto stabilisce la legge americana. Sono stati trattenuti e portati in Sierra Leone; ma poiché la commissione che formava il tribunale di vice-ammiragliato in quella colonia non era ancora arrivata, non fu possibile intraprendere azioni legali contro di loro. Nel frattempo, era necessario far sbarcare gli africani prigionieri, circa 165 in totale, in Sierra Leone; e considerato che nessuna forma di schiavitù è permessa nella suddetta colonia, è impensabile che il governatore potesse ordinare di tenerli prigionieri finché non si fosse venuti a conoscenza del risultato di un’azione legale in Inghilterra, né che potesse permettere che venissero trasportati come schiavi, soprattutto perché non poteva non sapere che avevano diritto, in virtù sia della legge americana sia di quella britannica, alla loro libertà. In queste circostanze, il governatore ha ritenuto più giusto permettere che venissero trattati così come disposto dal nostro Abolition Act in caso di condanna [dei proprietari] per averli acquistati o avuti come premio di guerra o attraverso il commercio illecito. Furono nominati apprendisti e affidati come negri liberi a persone oneste della colonia, sotto la cui guida avrebbero potuto imparare a lavorare per sostentarsi, alla scadenza di un periodo stabilito. In merito alle navi, è stato necessario venderle in Sierra Leone, e i proventi della vendita saranno senza dubbio utilizzati per supportare un’eventuale azione legale qui nell’ammiragliato; perché è probabile che un’azione legale venga avviata nel nostro tribunale dell’ammiragliato non appena i documenti arriveranno in Inghilterra. Non essendo ancora arrivati, né il capitano Parker né i documenti connessi alla transazione, sebbene siano entrambi per strada, avremmo dovuto aspettare fino al loro ritorno, ma abbiamo pensato che fosse meglio non ritardare questa comunicazione, in parte considerando il fatto che non è tanto per gli interessi del capitano Parker che adesso ho l’onore di rivolgermi a Voi, quanto piuttosto per quelli delle sventurate vittime che ha salvato, e ancor più per quelli delle infinite persone di cui non siamo nemmeno a conoscenza e il cui destino dipende anche dalle decisione che Voi potreste prendere su questo caso particolare. Ma, a ogni modo […], mi trovo costretto a non poter ammettere alcun ritardo, a causa di questa riflessione: se noi ci fermassimo, il commercio degli schiavi continuerebbe a portare avanti le proprie devastazioni senza controllo o interruzione, e aumenterebbe soltanto la […] probabilità che non potremo più sopportare che esse vengano praticate impunemente.

    Vi importuniamo con tali dettagli perché, sfortunatamente, è possibile che non si tratti degli unici casi di tali abusi sulla costa africana, ma piuttosto di esempi d’una pratica estesa e fatale per le speranze di quel Paese, a meno che non venga efficacemente stroncata.

    Tale pratica è ancora più riprovevole in quanto si è manifestata proprio quando il commercio degli schiavi negli altri Paesi è stroncato dagli effetti della guerra, in concomitanza con l’improvvisa, e quasi totale, interruzione della domanda di schiavi che potrebbe rappresentare un felice cambiamento delle abitudini e delle opinioni dei poveri Africani. Sulla costa sopravvento, verso la quale, soprattutto, vengono indirizzati gli sforzi dell’Istituto, e in un momento in cui la Sierra Leone sta offrendo sicurezza e incoraggiamento a un commercio e a un’industria leciti, l’esistenza di questo contrabbando di schiavi è particolarmente riprovevole; perché là i portoghesi, gli unici a non avere, per scelta o necessità, interrotto il traffico sulla costa dell’Africa in generale, hanno un solo insediamento; e sono disposti, com’è da credere, ad astenersi dalla tratta sull’intera area di quella grande porzione del continente africano. Tuttavia, portando avanti la tratta degli schiavi, i mali, grandi o piccoli, che saranno inflitti al continente africano dagli americani e che causano grandi sofferenze, sebbene proibiti per legge, non saranno in proporzione soltanto alla tratta effettiva portata avanti da cittadini americani e con fondi americani. È ovvio che il pericolo d’un grande contrabbando di schiavi portato avanti da soggetti britannici e con fondi britannici aumenterà significativamente se potranno servirsi in tutta sicurezza della bandiera americana, perché a causa dell’uguaglianza di linguaggio e aspetto, della somiglianza nella struttura delle navi e di altri fattori, potranno usare senza alcun problema tale travestimento. Allo stesso tempo, queste stesse circostanze rendono il proseguimento del commercio da parte degli americani particolarmente dannoso per le impressioni che è auspicabile infondere nelle menti degli ignoranti nativi. Scambieranno i popoli dei due Paesi l’uno con l’altro, e faranno molta fatica a credere che gli inglesi abbiano seriamente abbandonato il commercio se vedono l’America portarlo avanti.

    Ma è superfluo aggiungere altre argomentazioni per dimostrare che la cessazione di questi vergognosi abusi della bandiera americana sia non soltanto auspicabile, ma indispensabilmente necessaria per i princìpi giusti e positivi che hanno sostenuto le leggi per abolire la tratta degli schiavi. L’unica domanda che dovrete porvi, ne siamo certi, sarà quanto essa potrà essere efficacemente stroncata. Forse non ci si può aspettare che l’America mantenga navi da guerra sulla costa africana per tale scopo, o che invii incrociatori nelle Indie Occidentali per intercettare questi contrabbandieri nel loro avvicinamento al mercato straniero. Ma se questi contrabbandieri dovessero essere completamente esenti dal rischio di cattura, non vi è forse motivo di temere che questo commercio, che adesso, in aggiunta a tutti gli altri mali, implica anche la colpa morale della pirateria, possa continuare a essere portato avanti in misura sempre maggiore, e che le persone in esso coinvolte possano ridere delle leggi proibitorie del loro Paese? Consentitemi, pertanto, di presentare alla vostra attenzione la ragionevolezza di alcune misure da adottare negli Stati Uniti per la soppressione della parte americana di questo commercio di contrabbando e di suggerirvi in questo senso l’adozione di accordi che permetterebbero alle navi da guerra britanniche di diventare utili strumenti per realizzare gli obiettivi della legge americana, facendo in modo che anche le navi da guerra americane abbiano una simile facoltà nel caso di trasgressori britannici.

    Per com’è adesso la legge, vi è da temere che gli ufficiali che compiono una simile cattura, sebbene non possano trattare i prigionieri africani come se ne fossero proprietari, possano essere autorizzati a risponderne come se lo fossero; perché pare che i tribunali britannici abbiano restituito carichi di schiavi reclamati dagli americani, sebbene fossero trasportati contrariamente alla legge del proprio Paese, che proibiva la tratta di schiavi all’estero; e anche se adesso la situazione è alquanto diversa, dacché le leggi di entrambi i Paesi hanno proibito il trasferimento di schiavi dall’Africa in qualsiasi direzione, e li hanno dichiarati, in caso di contrabbando, un carico con diritto alla propria libertà, vi è motivo di temere che gli stessi tribunali li restituirebbero comunque a un richiedente americano, dietro prova della sua proprietà, basandosi sul principio che un tribunale non può applicare la legge interna di un Paese straniero, né basarsi direttamente su di essa.

    La commissione dell’Istituto Africano, avendo ricevuto le informazioni dei casi menzionati, essendo impaziente di salvare 165 uomini, donne e bambini dal ridiventare prigionieri illegalmente, e dall’essere portati via dalla Sierra Leone come schiavi, ed essendo inoltre desiderosa d’accertarsi fino a che punto gli africani in generale, quando vittime d’un commercio illegale, hanno diritto, secondo la legge delle nazioni, a essere protetti, ha sottoposto il caso agli avvocati della Corona, i dottori Arnold e Lawrence, e al signor Stephen, per conto non solo degli africani catturati su quelle navi americane, ma anche per conto di chi li ha fatti prigionieri, la cui opinione viene qui acclusa.

    Vedrete che nell’eventualità di un’azione legale da parte dei proprietari americani per imporre un’aggiudicazione delle navi e dei rispettivi carichi, questi gentiluomini consigliano una rivendicazione della libertà per i prigionieri come esperimento adatto in questo nuovo caso affinché venga sottoposto a giudizio; ma mi dispiace aggiungere che nella consultazione, sebbene ci fossero alcune opinioni divergenti sull’argomento, il giudizio predominante era che la rivendicazione non avrebbe avuto successo; perché gli africani trovati in possesso dei richiedenti americani dovrebbero essere riconsegnati a loro senza riferimento alla questione della proprietà derivante da una legge del loro stesso Paese, che un tribunale non ha il potere di sottoporre a giudizio.

    È stato altresì ritenuto giusto che nel caso d’una sentenza di restituzione, il tribunale dell’Ammiragliato dovesse, tramite i propri procedimenti, imporre il ritorno degli africani in cattività, e il loro trasferimento dalla Sierra Leone alla custodia dei richiedenti o dei loro agenti.

    Affinché Voi abbiate davanti tutte le considerazioni legali che influiscono su questa nuova e interessantissima questione, accludo una copia delle osservazioni presentate al consiglio.

    Con tali prospettive nei casi specifici che sono sorti e nel timore che qualunque conseguenza negativa subita da chi li ha fatti prigionieri darebbe, da qui in avanti, l’impunità a tutti i trafficanti di schiavi che opereranno fingendosi americani, la commissione dell’Istituto Africano ha ritenuto un dovere immediato fare appello al governo d’America raccomandato dal consiglio, e che secondo il comitato è la risorsa più appropriata.

    Possa io concedermi la piacevole speranza che non sia lontano il giorno in cui il Vostro governo e il nostro, nel perseguimento del parere saggio e generoso presente nell’ultimo trattato non ratificato, procederanno a trovare un’intesa per far applicare le loro leggi per l’abolizione della tratta degli schiavi. Riguardo a tale argomento, sono sicuro che non ci siano state, né ci saranno mai, divergenze di opinioni, e apprendo con piacere dai documenti resi pubblici di recente che all’articolo a cui si allude non siano state mosse obiezioni.

    Ma di sicuro la definizione di un punto così interessante per l’umanità non dovrebbe attendere l’adeguamento lento e forse difficile di tutti i vari interessi da soddisfare nella stipula di un trattato commerciale fra le due nazioni; e poiché sfortunatamente in questo momento esistono alcune divergenze che hanno impedito la conclusione d’un trattato, la speranza è che, per il bene di tutti gli sventurati africani il cui destino è sospeso a causa delle circostanze qui menzionate, ma ancora di più per il bene di tutte le migliaia di prigionieri sconosciuti che potrebbero rimanere vittima di questo stesso commercio illegale prima della definizione d’un trattato, e soprattutto in base alla considerazione del danno irreparabile a cui sarà esposto il grande ideale di civiltà in Africa, se tali abusi non saranno immediatamente tenuti sotto controllo, il governo americano si frapporrà benevolmente tra i prigionieri africani e qualunque cittadino degli Stati Uniti o persona che possa rivendicarli come schiavi. Ma è bene inoltre concederci la speranza che un patto fra i nostri due Paesi, volto al nobile scopo di porre fine alle devastazioni del flagello forse più distruttivo che abbia mai colpito il genere umano, non soltanto incoraggi altri Stati ad accettarne la sua soppressione, ma spinga anche alla definizione di accordi simili con altri Paesi, finché tutte le nazioni civilizzate della Terra non si siano unite in questa nobile intesa.

    Un grande storico moderno, il dottor Robertson, ci assicura che fu proprio grazie a un patto di simile natura, definito fra un certo numero di diversi Stati indipendenti, che nell’oscurità e anarchia del Medioevo, le devastazioni della guerra privata furono arrestate in un’ampia zona dell’Europa per quasi tre secoli, duranti i quali l’ordine politico, il rispetto per le leggi, oltre all’amministrazione equa della giustizia, compirono notevoli progressi. Di sicuro non potremmo seguire un antecedente migliore! Di sicuro non esiste un’occasione più adatta per ricorrere a una simile misura, e vi è da sperare che la sua adozione abbia ora in Africa le stesse felici conseguenze che produsse in passato in Europa.

    Non sta comunque a me, signor presidente, pretendere di mostrare ciò che potrebbe addirsi meglio alla dignità e liberalità del governo americano riguardo alle navi. Ma confidiamo nel fatto che non si dimentichi, di colui che le ha catturate compiendo un atto contrario alla Legge, che tramite quello stesso atto ha liberato 165 esseri umani, che il governo americano potrebbe sentirsi obbligato a proteggere dall’esilio e dalla schiavitù permanente; e che per questo motivo non ci sarà alcun desiderio di sottoporlo a una qualsiasi conseguenza penale.

    Rimandiamo questi casi e la questione in generale alle considerazioni umane e liberali del Vostro governo.

    Ho l’onore, signor presidente, di essere, con grande rispetto, il Vostro più ubbidiente e umile servo.

    w wilberforce

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    Relazione di Elizabeth Fry

    sulle prigioni, 1817

    Elizabeth Fry, pioniera della filantropia per i tardo-vittoriani e riconosciuta dopo la morte per la sua devozione, probabilmente non si dimenticò mai che nel 1682 un suo antenato quacchero era finito in prigione per le sue credenze religiose. Con un’appassionata crociata, riuscì a portare all’attenzione del mondo il deplorevole stato in cui versavano le prigioni, e in particolare il disumano trattamento nei confronti delle detenute. Come ha scritto la sua biografa June Rose, ricordandoci del suo straordinario radicalismo, la Fry «s’intrufolò nella vita pubblica, in un settore esclusivamente maschile, quando tale idea era impensabile».

    La sua causa non era molto condivisa in un’epoca in cui una bambina di nove anni poteva essere – come accadde in un episodio documentato – condannata a morte per aver rubato due centesimi di vernice. Secondo i registri giudiziari dell’epoca, un’altra giovane donna con un bambino di poche settimane fu impiccata per aver rubato un pezzo di stoffa da appena cinque scellini.

    Elizabeth Fry nacque a Norwich nel 1780 da una ricca famiglia di banchieri quaccheri, e aveva partecipato a numerosi atti caritatevoli prima di lasciarsi convincere da Stephen Grellet, un quacchero franco-americano, a visitare le donne della prigione di Newgate nel 1814; Grellet era rimasto inorridito dalle scene di degrado a cui aveva assistito in quella famigerata prigione londinese. La Fry, dopo aver raccolto indumenti per le detenute e i relativi figli, con qualche difficoltà riuscì a convincere il governatore a permettere a lei e ad Anna Buxton, una parente quacchera, di entrare negli alloggi femminili; e, assecondando i timori del governatore, la Fry accettò di non portarsi dietro il suo orologio.

    Si ritrovarono davanti a qualcosa di simile al Bedlam (famigerato manicomio di Londra), con due stanze che ospitavano quasi trecento donne di tutte le età – dalle più giovani alle più anziane e fragili – vestite di stracci; alcune erano state condannate a morte, altre attendevano ancora un processo. Se ne stavano tutto il tempo a battibeccare e a imprecare, e le poche che avevano dei soldi evidentemente si avvalevano dei liquori disponibili in prigione. La vista che più commosse la Fry fu quella di due detenute che strapparono i vestiti a un bambino morto per darli a uno vivo.

    A causa della morte della figlia di soli cinque anni, e di una serie di problemi famigliari, passarono tre anni fra le prime visite della Fry a Newgate e la fondazione, nell’aprile del 1817, dell’Association for the Improvement of the Female Prisoners in Newgate (Associazione per lo sviluppo delle detenute di Newgate). Meno di un anno dopo l’inizio della campagna, fu nominata una commissione della Camera dei Comuni per valutare le condizioni delle prigioni britanniche, e la Fry fu convocata per offrire prove in merito e le proprie opinioni sul problema. L’inchiesta portò a un miglioramento delle condizioni fisiche delle detenute. La lettera che segue risale alla fase precedente, quando la Fry stava per aprire una scuola femminile all’interno della prigione.

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    Relazione di Elizabeth Fry, 4 marzo 1817

    Sono appena tornata da una visita infinitamente triste a Newgate, dove mi sono recata su richiesta di Elizabeth Fricker [condannata per furto] prima della sua esecuzione prevista per domattina alle otto. L’ho trovata precipitosa, angosciata e tormentata. Aveva le mani fredde e coperte di qualcosa di simile al sudore premorte, e il corpo attraversato da un tremore generale. Le donne che erano con lei hanno detto che prima del nostro arrivo si comportava in modo così strano che pensavano sarebbe stato necessario chiamare un uomo per tenerla a bada. Tuttavia, dopo aver passato parecchio tempo con lei, il suo animo turbato si è calmato. […]

    Oltre a questa povera donna, ci sono anche sei uomini che attendono l’impiccagione, uno dei quali ha una moglie sul punto di partorire, anch’ella condannata, e sei bambini piccoli. Da quando è arrivato il terribile verdetto, il marito è praticamente impazzito dall’orrore. Non riuscivano a contenerlo nemmeno con la camicia di forza, e aveva appena morso il secondino; l’ho visto uscire con la mano sanguinante mentre passavo davanti alla cella. Ho sentito che un altro uomo, istruito e cresciuto in maniera degna, stava facendo tutto il possibile per temprarsi, attraverso l’incredulità, cercando di convincersi che le verità religiose non erano che frottole. In questa impresa sembra aver avuto fin troppo successo con non pochi dei suoi compagni di sofferenze. Ha implorato di avere una bottiglia di vino, senza dubbio per sperare d’annegare, tramite l’inebriamento, la propria miseria e i timori che ne sarebbero sorti. Non ho chiesto altro, avevo visto e sentito abbastanza.

    3

    Lettera di Richard Oastler

    al «Leeds Mercury»

    sul lavoro minorile, 1830

    Richard Oastler diventò l’amministratore di Fixby Hall, una tenuta vicino a Huddersfield di proprietà di Thomas Thornhill, in seguito alla morte del padre nel 1820. Era un conservatore di natura; per lui, «l’altare, il trono e la casa» erano i tre pilastri della società britannica, ed era turbato dai cambiamenti portati dalla rivoluzione industriale, che aveva allontanato i lavoratori dalla terra per spingerli nelle fabbriche e sostituito le arti tradizionali con la produzione di massa meccanicizzata. La trasformazione della Gran Bretagna, che da prevalentemente rurale e agricola diventò un Paese urbano e industriale, fu straordinariamente rapida e priva di qualsiasi regolamentazione. Non vi erano pianificazioni o leggi sull’occupazione, sulla salute e la sicurezza dei lavoratori, e le condizioni nelle fabbriche che si moltiplicavano sui campi un tempo verdi erano spesso spaventose e non di rado causa di morte. Non vi era limite al numero di ore lavorative o all’età degli impiegati. Per questo, bambini e bambine di cinque anni potevano faticare fino a sedici ore al giorno, e spesso venivano trattati brutalmente. Incidenti fatali e raccapriccianti erano all’ordine del giorno, causati in particolar modo dalla stanchezza.

    Fu proprio questo il problema che Oastler cercò di sollevare inviando, nel 1830, questa lettera ai redattori del «Leeds Mercury». L’aspra critica delle condizioni nelle fabbriche, seguita da una serie di manifestazioni pubbliche in tutto lo Yorkshire in cui Oastler stesso si rivolse alle folle, costrinsero il governo

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