Come imparare a dire di no senza sensi di colpa
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About this ebook
Molte persone, pur di essere apprezzate, affrontano la vita, le relazioni interpersonali, il mondo del lavoro convinte di doversi necessariamente adattare a ciò che vogliono gli altri.
Spesso sono mosse dall’idea che, per avere successo, sia necessario essere sempre educati, gentili, attraenti, disponibili e allegri, mettendo il prossimo al primo posto. Insomma, ritengono di non poter mai dire di no, e di dover assecondare a ogni costo l’opinione comune per evitare i conflitti, anteponendo così il benessere altrui al proprio equilibrio interiore.
La psicologa Jacqui Marson, nel corso della sua pluriennale carriera, ha studiato a fondo quella che lei stessa ha chiamato “la Maledizione dell’altruista”, e in questo libro ci spiega quanto è facile – grazie a pochi e semplici accorgimenti – riuscire a disinnescare il meccanismo che ci porta a compiacere costantemente l’altro e a trascurare le nostre aspettative, per cominciare ad abbracciare invece uno stile di vita più sereno e soddisfacente.
«Un libro intelligente.»
Telegraph
«La Marson offre, con un approccio calmo e rassicurante, consigli che vale la pena di applicare, per risolvere facilmente anche le situazioni più complicate.»
Marie Claire
«Uno sguardo leggero sul modo migliore per assecondare le proprie aspirazioni, imparando a dire di no e a spezzare il giogo delle aspettative altrui.»
Stylist
«Illuminante, coraggioso e divertente.»
dott. F. Jay McClellan, psicologo
«Una preziosa guida per un vantaggioso cambiamento.»
Val Sampson, consulente coniugale, autrice di Tantra: The Art of Mind-Blowing Sex
Jacqui Marson
è una stimata psicologa. Ha lavorato in diverse cliniche e ospedali di Londra. Attualmente gestisce con successo uno studio privato a Covent Garden. Dirige laboratori e corsi di formazione in comunicazione, autostima e team-building per privati e aziende in tutto il mondo. È anche una giornalista molto richiesta dai media come commentatrice su tematiche di carattere psichiatrico. È ospite fissa della BBC e di seguiti programmi radiofonici e televisivi. Scrive per le riviste «The psychologist» e «The counselling psychology review» e cura una rubrica mensile, dal titolo Fast Therapy, sul periodico «Psychologies». È membro della British Psychological Society e del Health Professions Council. Le sue credenziali professionali comprendono una laurea in Psicologia e un master in Psicoanalisi e Psicoterapia. Vive a Londra con il marito e due figli.
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Come imparare a dire di no senza sensi di colpa - Jacqui Marson
Capitolo 1
Un giorno nella vita di un altruista compulsivo
Diamo un’occhiata a una giornata ipotetica nella vita di una persona vittima della Maledizione dell’altruista, per verificare se vi immedesimate.
Al risveglio in un mondo ideale, questa persona vorrebbe prepararsi un tè, ascoltare la radio, fare la doccia, vestirsi, fare colazione e poi andare al lavoro o dedicarsi ai propri impegni personali. In un universo ideale, potrebbe sognare di indugiare in una o tutte queste attività: lasciare in infusione le foglie da tè in una magnifica teiera di porcellana, immergersi nella vasca per rilassarsi con un bagnoschiuma profumato, scegliere attentamente un abbigliamento che la farà sentire felice e sicura di sé, con un paio di scarpe in tinta, belle ma confortevoli… Ma in quel mentre, la vocina (o magari il vocione) di qualcuno la strappa alle sue fantasticherie: «Dov’è il mio golf blu?». In contemporanea, un’altra voce protesta la mancanza di latte in frigorifero, una zia anziana telefona per chiederle di fare visita alla nonna – «È sempre sola, poverina» – e un’amica le scrive un sms: ha urgente bisogno di parlare, il suo fidanzato non risponde al telefono da ventiquattro ore.
L’altruista compulsiva ha appena aperto gli occhi, e nel giro di pochi minuti non soltanto il suo sogno di una mattinata tranquilla le è apparso risibile, ma lei ha già messo da parte tutte le proprie esigenze basilari per occuparsi di quelle altrui. Probabilmente uscirà di casa senza aver fatto colazione, con un paio di scarpe troppo strette e i capelli malamente sciacquati – digiuna, agitata e trascurata, ma confortata dal pensiero di avere esaudito i desideri di tutti, e di averli resi felici. Non ha scontentato nessuno, e ha evitato musi lunghi e rimproveri da parte dei famigliari. A un livello emotivo più profondo (e probabilmente inconscio), si sente protetta e amata, perché si è presa cura di quanti la circondano. O forse semplicemente prova sollievo di non essersi messa nei guai, per avere deluso il prossimo.
Si può cambiare
Non tutti, naturalmente, siamo maledetti
. Ognuno è un caso a sé stante, con manifestazioni diverse a seconda delle situazioni; ma tutti abbiamo in comune la sensazione di venire sopraffatti dalle aspettative altrui, e in dovere di soddisfarle. Il solo pensiero di comportarci diversamente, per esempio respingendo una richiesta, ci terrorizza. In questo modo, noi stessi finiamo per creare aspettative che ci fanno sentire orrendamente in trappola, e le medesime capacità che contribuiscono a metterci in una situazione del genere sono di solito l’opposto di quelle necessarie a uscirne.
Indira, che ritroveremo al capitolo 6, si sentiva trattata dalla sua famiglia come fosse un «supermercato aperto 24 ore su 24». Le si chiedeva che, a prescindere dai suoi impegni, fosse sempre disponibile ad aprire casa all’idraulico, fissare appuntamenti dal dentista, offrire vitto, alloggio e un’ospitalità cordiale ai parenti in visita dall’estero. In quanto unica figlia nubile, Indira immaginava con orrore un futuro in cui sarebbe stata costretta a occuparsi da sola degli anziani genitori, sentendosi «degenere e ingrata» perché la prospettiva la terrorizzava, e disperando di poter sfuggire al suo destino di single, dato che, dopo una giornata spesa a disposizione dei parenti, non le restavano né le energie né il tempo per crearsi una propria vita sociale.
Come vedrete dalle storie di altri pazienti, non esiste una soluzione semplice e immediata a questo problema. In genere, pensieri, emozioni e comportamenti rispondono ad automatismi consolidati nel corso di una vita intera, spesso molto utili. Almeno fino a quando smettono di essere nostri alleati e si tramutano in nemici.
La strada verso il mutamento consiste di piccoli passi pratici – pochi alla volta –, sempre tenendo presente che impegnarci a fare qualcosa per noi stessi può spaventarci e richiede coraggio. Indira si aiutò con una metafora, cercando di visualizzarsi non più come un supermercato aperto 24 ore su 24, ma come una bottega che in certi orari poteva abbassare la saracinesca: un po’ come gli originari 7-Eleven (aperti appunto dalle sette alle undici di sera). Come orario era ancora piuttosto impegnativo, ma cercare di riconvertirsi di botto in un ufficio dalle 9 alle 5
sarebbe stato un cambiamento troppo drastico sia per Indira sia per i suoi amici e parenti.
Come spiega la consulente famigliare e scrittrice Harriet Lerner, se cerchi di cambiare troppe cose troppo in fretta, il comportamento di quanti ti circondano ti griderà: «Torna com’eri prima!», condannandoti alla sconfitta.
Come funziona la maledizione
Torniamo alla storia del mio braccio rotto per capire cosa ci dice delle dinamiche della Maledizione – come inizia, e come spesso ci accompagna per tutta la vita.
In sostanza, noi tutti siamo condizionati da strati e strati di doveri
da rispettare – potremmo definirli Regole personali
o Norme di vita
. Ciascuna viene insegnata e rafforzata da varie autorità operanti nella nostra esistenza: a partire dai genitori e dai parenti, attraverso insegnanti ed educatori per arrivare fino ai datori di lavoro e agli enti governativi, per esempio la polizia e lo Stato. Alcune sono leggi vere e proprie, la cui violazione viene sanzionata. Altre, come non giocare con i fiammiferi
o guarda a destra e a sinistra prima di attraversare la strada
, le impariamo da piccoli, e servono alla nostra tutela. Ma ne esistono anche di più subdole, spesso radicate nel nostro inconscio. Ci vengono inculcate dai genitori o da chi si occupa di noi durante l’infanzia, e raramente le esaminiamo alla luce del giorno (ovvero con i nostri occhi di adulti) per decidere se siano ancora utili alla persona che siamo diventati, e coerenti con il modo in cui vogliamo vivere la nostra vita. Studiandole con lucidità, scopriamo che alcune (o parecchie) sono rimaste ancorate a una logica dicotomica di tutto o niente
, perdendo ogni flessibilità per diventare quelle che Aaron Beck – fondatore della Terapia cognitivo comportamentale (tcc) – chiama Regole personali rigide
, e che possono essere individuate nell’uso di parole come devi
, sempre
, mai
(approfondiremo questo argomento al capitolo 5). D’ora in poi, le indicherò in maiuscoletto, per metterle in risalto.
Per esempio, nella storia del mio braccio rotto, mai fare storie era una Regola personale rigida. Per quanto mezza nascosta nel subconscio, la regola si era rivelata abbastanza potente da farmi ignorare gli intensi messaggi di dolore trasmessi dal mio corpo, costringendomi nel contempo a racimolare le forze per rassicurare gli altri («Sto bene! Sto bene!»), stamparmi un sorrisone in faccia, continuare a ballare, remare sulla canoa e non chiedere assistenza medica per dieci giorni filati.
Evidentemente le sue origini risalgono all’infanzia. Quando un bambino cade, si fa male e scoppia a piangere, può capitare che sua madre lo rimproveri: «Oh, non fare tante storie!», oppure, se il bambino stesso riesce a far finta di niente, lo lodi per essersi comportato da bravo ometto
. Come i cani di Pavlov, condizionati a salivare quando sentivano suonare la campanella anche in assenza di cibo, i bambini possono facilmente venire indotti a reiterare i comportamenti approvati (con lodi, approvazione o premi) e ad abbandonarne altri ai quali corrispondono critiche, disapprovazione o punizioni. Nell’ultimo decennio, la divulgazione delle ricerche scientifiche – in ogni forma, dalle tate
televisive ai best seller per perfetti genitori – hanno insegnato a madri, padri, maestre e babysitter a premiare i comportamenti desiderati e ignorare quelli indesiderati. Ma ai miei tempi – e ancora oggi in molte culture – i bambini vengono scherniti, umiliati o castigati per gli atteggiamenti o i comportamenti considerati indesiderabili.
Violare le regole
Con questo non voglio biasimare né i miei genitori né quelli altrui. Hanno fatto del loro meglio, mettendo in atto una variante dell’educazione a loro volta ricevuta da bambini, e dunque – consapevolmente o no – trasmettendone le regole ai propri figli. In ogni sistema famigliare esistono comportamenti e atteggiamenti privilegiati
, cioè si nutre la convinzione – a volte tramandata per generazioni – che certi modi di essere e di comportarsi siano migliori di altri.
Credo di poter affermare che nella mia famiglia essere coriacei
fosse uno di questi atteggiamenti. In base alla nostra gerarchia di valutazione dei comportamenti, uno dei miei momenti di gloria si verificò quando, a sei anni e innamorata dell’equitazione, fui disarcionata da un pony particolarmente vivace in un campo di fieno appena mietuto. Un piede mi restò incastrato nella staffa, e il pony mi trascinò per almeno dieci minuti nel campo, dove le stoppie mi graffiarono e mi ferirono la schiena. Non ricordo se piansi – presumo di sì – ma ricordo benissimo che, malgrado lo spavento, tornai subito in sella e ripresi a cavalcare. In famiglia, l’episodio viene raccontato a tutt’oggi con tacita approvazione, come una sorta di impresa eroica
. Quindi è comprensibile che io abbia interiorizzato quel comportamento come positivo, e mi sia impegnata a potenziarlo, cercando nel contempo di reprimere la bambina debole
che in un frangente analogo avrebbe cercato consolazione.
Una cosa importante da tener presente è che, per quanto queste regole interiorizzate ci costino, vale anche la pena fare un passo indietro e verificarne i benefici. Nel mio caso, da una parte potrei dire: «Guarda quella povera bambina costretta ad ignorare il dolore fisico e a dimostrarsi coraggiosa a tutti i costi!», ma d’altro canto devo anche ammettere che gran parte della mia carriera come corrispondente di guerra è stata in larga misura costruita su quell’atteggiamento. Sotto la canicola o nel freddo polare, digiuna e senz’acqua, carica di zaini pesantissimi e in prima linea, non credo di essermi mai lamentata. Al contrario, ero sempre sorridente e solare, mi occupavo di chiunque avessi accanto, sminuendo le mie difficoltà e lodando la capacità degli altri di affrontare le proprie. Quando la nostra gentilezza, generosità e sollecitudine suscita l’affetto di chi ci circonda, è importante riconoscerne il vantaggio. Ma se il prezzo diventa troppo alto – in termini di stanchezza, risentimento, rabbia repressa o sacrificio di sé – dobbiamo almeno in parte rinunciare alla sicurezza familiare di quel premio.
Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente. Per riuscirci, è necessario sviluppare la fiducia nei nuovi comportamenti prima ancora di pensare d’abbandonare quelli vecchi e collaudati – anche quando ci siamo resi conto del loro costo.
Diventare genitori tende a esacerbare ogni inclinazione a compiacere gli altri (già problematica di per sé). Tutte le qualità che finiscono per tramutarsi in una condanna – sollecitudine, abnegazione, cura degli altri e anteposizione dei loro bisogni ai nostri – sono esaltate nell’idealizzazione contemporanea del genitore perfetto (e soprattutto della mamma ideale
). Molte donne non percepiscono la propria compiacenza come una condanna finché, dopo anni spesi a occuparsi con generosità e amore dei propri figli, si accorgono che quella disponibilità viene pretesa e data per scontata.
La piacevole
giornata di Susie
Susie ha quattro figli, di età comprese tra i cinque e i tredici anni. A sei anni, Susie rimase orfana di padre, e la madre si ritrovò a crescere sei bambini da sola, lavorando giorno e notte, in tre impieghi diversi, per sbarcare il lunario. Di conseguenza, le cure materne scarseggiavano, e i piccoli dovettero imparare presto ad arrangiarsi da soli. Susie ha sempre ammirato moltissimo sua madre per l’impegno, la determinazione e il sacrificio, ma desidera dare ai suoi figli le attenzioni e l’affetto che a lei sono mancati. Per questo ha scelto di diventare una mamma a tempo pieno, rinunciando al lavoro. Beninteso, per quanto raramente riconosciuto come tale, anche quello di madre e casalinga è a sua volta un lavoro che richiede moltissimo impegno, determinazione e sacrificio. Ecco dunque una giornata nella vita di Susie: un esempio estremo, eppure tipico da molti punti di vista.
Susie si alza alle sei, porta a passeggio il cane, prepara la colazione e i pranzi al sacco, poi accompagna i bambini alle rispettive lezioni e si affretta a una riunione del comitato per la raccolta fondi della scuola. A riunione appena finita, il suo cellulare squilla. È l’agente immobiliare, per ricordarle che tra tre giorni arriveranno i nuovi inquilini nell’appartamento di sua madre: ha comprato gli armadi nuovi? Sentendosi in colpa e colta in fallo, Susie afferra cappotto e chiavi dell’auto e si precipita all’Ikea, riempie il carrello di grossi mobili da montare e si mette in fila alla cassa. Mentre aspetta per un tempo interminabile, domandandosi come riuscirà a caricare e scaricare quei pesi enormi, il suo cellulare squilla di nuovo. Questa volta si tratta di due care amiche con le quali aveva appuntamento a pranzo. La data era stata fissata mesi prima, perché le sue amiche abitano fuori città e, tra gli impegni di tutte e tre, quello era l’unico giorno disponibile. «Non me n’ero dimenticata, anzi. Proprio il giorno prima avevo notato l’appunto sull’agenda, e pensato a quanta voglia avevo di rivederle. Ma la telefonata dell’agente immobiliare mi aveva gettata nel panico, e l’appuntamento mi era completamente sfuggito di mente», mi disse in seguito, durante una seduta di terapia.
Il panico si acuì con il passare delle ore, mentre Susie si faceva in quattro per rispettare ogni impegno e compiacere tutti. Al pranzo arrivò con un’ora di ritardo, cercò di infilarsi in un parcheggio troppo stretto, e nella fretta della manovra finì a sbattere contro un taxi. La disastrosa giornata campale proseguì nel pomeriggio, con altre corse a recuperare e accompagnare i bambini, preparare la merenda, controllare i compiti, finché Susie fu costretta a mettersi a letto con i brividi e la nausea, una reazione probabilmente dovuta all’effetto ritardato dello shock, e allo sfinimento. «È stata colpa mia», mi disse, con un sorriso amaro. «Avrei dovuto dire di no».
«Secondo te, quali sono le Rigide regole personali che hanno condizionato le tue scelte?», le chiesi. Mi impegnai ad assumere il tono più comprensivo possibile. Moltissime donne di mia conoscenza si sarebbero comportate esattamente come Susie, e criticandole non facciamo che aggravare il loro senso di impotenza e di avvilimento.
Lei riconobbe come sua regola chiave obbedire sempre alle persone autorevoli, un imperativo probabilmente radicato nell’infanzia. Sua madre, troppo indaffarata, gestiva la casa come una caserma, e puniva severamente chiunque mettesse in discussione i suoi ordini. Ma Susie identificò anche un’altra, classica regola da vittima della Maledizione: aiutare gli altri, ma mai chiedere aiuto per sé. C’è una cosa che dico sempre ai miei pazienti: pensa a una persona alla quale vuoi bene e che stimi, e domandati come si comporterebbe nella stessa situazione. Susie ha un’amica australiana, Kat, una donna molto diretta e risoluta. «Cos’avrebbe fatto Kat nei tuoi panni?», le chiesi. Lei scoppiò a ridere. «Avrebbe detto all’agente di non rompere, e che avrebbe risolto la questione quando le faceva comodo, dopodiché sarebbe andata di filato a pranzo per goderselo con tutta calma. E probabilmente avrebbe chiesto a qualcuno di andare a prendere i suoi figli a scuola, così da restare più a lungo con le sue amiche, senza doversi scapicollare. Forse si sarebbe persino concessa un bicchiere di vino!».
Ma come si impara a dire no?
Per Indira e Susie, che si sentono oppresse dai bisogni e dalle aspettative altrui, la soluzione più semplice sembrerebbe imparare a dire di no più spesso. È quanto i nostri amici e critici ci consigliano regolarmente, al punto che abbiamo interiorizzato la necessità di cambiare in ciò che io chiamo i "dovrei mortificanti" (ne parlaremo più a fondo al capitolo 5). Quando Susie ammise: «Avrei dovuto dire di no», sul volto le si disegnò un sorriso amareggiato. «A cosa stai pensando?», le chiesi, durante la seduta. «Cosa significa quell’espressione sul tuo volto?».
Susie non riuscì quasi a rispondere. Alla fine disse, con un filo di voce: «Mi vergogno della mia incapacità a farmi valere. Con gli altri la butto in ridere,