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Di la colpa dell'arretratezza del Mezzogiorno IV: Parte IV e ultima
Di la colpa dell'arretratezza del Mezzogiorno IV: Parte IV e ultima
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Di la colpa dell'arretratezza del Mezzogiorno IV: Parte IV e ultima

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Volume conclusivo della tetralogia sulla storia italiana. Qui si analizza il periodo dalla I Guerra Mondiale ai primi anni 60.
LanguageItaliano
Release dateSep 17, 2021
ISBN9791220848480
Di la colpa dell'arretratezza del Mezzogiorno IV: Parte IV e ultima

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    Di la colpa dell'arretratezza del Mezzogiorno IV - Concetta M.A. Malcangi

    CONCETTA M. A. MALCANGI

    DI CHI LA COLPA DELL’ARRETRATEZZA DEL MEZZOGIORNO?

    PARTE IV E ULTIMA

    Nec futura ergo nec praeterita nec praesentia nec praetereuntia tempora

    metimur et metimur tamen tempora

    Sant’Agostino, Confessionum, XI, 27, 34

    N.B. causa un virus che, scompaginando l’impostazione originale prevista con note a piè pagina, ha costretto l’autore a raccogliere separatamente testo e note, quando le note hanno un riferimento alla pagina (quella originale), questo riferimento risulta errato e pertanto va trascurato. E, di questo, mi scuso, con l’ipotetico lettore

    CAPITOLO I

    L’ITALIA NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

    1. il lento evolversi dell’Italia nel secolo XIX

    Dal Congresso di Vienna l’Italia esce, come del resto il resto dell’Europa, restaurata. Però se tutti i Sovrani, recuperato il proprio (1), son felici, non tutti i sudditi, lo sono. Quel Regno, già di Sicilia, felice sotto il suo Ferdinando III - Re di Napoli con il numerale IV - non riesce ad accettare quel Ferdinando, il medesimo, ma Re con il numerale I del Regno delle Due Sicilie. L’esser Regno, è ciò che, ancor oggi, la Sicilia pretende. Pure la Lombardia, Stato per secoli indipendente e, prima delle guerre napoleoniche, già felice Granducato con gli Asburgo, anche se Imperatori (2), pur inizialmente non proprio ribelle - tra Francesi (3) ed Austriaci, mille volte i secondi - malamente accetta quell’incorporazione nello Stato Asburgico che il nome di Regno Lombardo-Veneto non riesce a nascondere. Quanto alla già Repubblica di San Marco - che il Generale Bonaparte occupa, depreda, e a Campoformio vende all’Austria - come può accettare che, in un regime di restaurazioni, la restaurazione manchi proprio alla Serenissima? Ecco come, e perché, questo Regno del Lombardo Veneto, diverrà presto spina nel fianco all’Austria.

    Restaurati i Monarchi sul proprio trono, non restaurano, i Monarchi, i vecchi ordinamenti; ed anche laddove "…i codici napoleonici vennero aboliti furono sostituiti con legislazioni simili o riformiste, ma in generale (soprattutto nel Regno di Napoli) si preferì molto italianamente dare nuova forma alla stessa sostanza…" (4). Una modernizzazione, questa, che consente a Popoli e Sovrani di vivere relativamente in pace per qualche anno; in verità non molti, se già nel ’20 le agitazioni inducono il I Ferdinando - primo fra i Sovrani d’Italia - a concedere, sulla falsariga della spagnola, la Costituzione. Pure Carlo Alberto, al momento dei moti reggente per Re Carlo Felice in visita a Modena (5), sentendosi liberale concede una costituzione che però - mettendo nei guai coloro che gli avevano creduto - subito ritira nel timore di perdere la successione (6). Una successione che la sua presenza in campo, alla battaglia del Trocadero - il 31 agosto del ’23 - gli assicura tranquilla. E tranquilli, o quasi, seguono gli anni sino al ’31 che vede in Modena - calma nel ‘20/21 - quel moto dai risvolti poco chiari che forse trova in Francia la spiegazione (7). Un moto che finisce con l’esecuzione del Menotti, e la fuga del Misley - che negli anni precedenti girava per l’Europa e per l’Italia con passaporto diplomatico del ducato, tessendo quella trama che doveva portare al potenziamento del Ducato (8). Un potenziamento che, forse e senza forse, il mutamento avvenuto in Francia il 2 agosto (9) blocca. L’ordine di abbandonare l’azione, che il Menotti non ascolta, porta al suo arresto ed alla condanna. Ma quel cambio a Parigi, che blocca i piani nel modenese, agita pure Parma e Legazioni, laddove - a richiesta del Signore - l’Austria ristabilisce l’ordine.

    Ma ecco arrivare il ’48. L’abdicazione in Francia di Luigi Filippo (10) e l’avvento della Repubblica; la crisi economica generale che fa seguito a due anni di carestia e che - salvo Russia, Inghilterra e Spagna - coinvolge l’intera Europa, coinvolge pesantemente l’Austria che, al problema sociale e alle rivendicazioni indipendentistiche, vede unirsi la penosa questione interna alla Casa regnante; una questione che, risolta nel dicembre di questo stesso anno vedrà sul trono, rinunciatario il padre (11), Francesco Giuseppe.

    Tuttavia non risolti i problemi interni all’Impero ed appena sedati i disordini del 13 marzo a Vienna, il 18 (12) iniziano, a Milano, le cinque giornate; il 23 insorge Venezia e il giorno successivo Carlo Alberto all’Austria dichiara guerra. Inizia così, nell’euforia Sabauda, la prima guerra d’indipendenza che, impegnata l’antagonista sul fronte interno dell’Impero, si apre con successo ma rapidamente si arena il 27 luglio, a Custoza. L’armistizio di Salasco, sottoscritto il 9 agosto e disdetto il 12 marzo dell’anno seguente, interrompe le azioni sino al giorno 20, giorno in cui l’esercito sardo riprende l’attività.

    Costretto a cedere il comando dell’azione militare al Generale polacco Wojciech Chrzanowski, Carlo Alberto conserva per sé il comando morale dell’azione. Malgrado il cambio al vertice, due soli giorni trascorrono ed il 22 marzo 1849, alla Bicocca si chiude infelicemente la prima guerra d’indipendenza e termina, con abdicazione ed esilio, il Regno di un Sovrano ottimo amministratore in pace (13), ma in guerra generale inetto con nostalgici velleitarismi Napoleonici (14). L’armistizio di Vignale del giorno 24 e la successiva pace di Milano, sottoscritta il 6 agosto da un Re, alla casa d’Austria legato da stretti vincoli di parentela e affinità, chiude, al meglio, il contenzioso. L’altro, e più sofferto contenzioso, quello con Venezia, si chiuderà a distanza di sedici giorni, il 22; liberi di andarsene quanti lo volessero.

    Ma nel tempo in cui Piemonte ed Austria si contendevano la Lombardia; a Venezia si lottava e Ferdinando II di Borbone, calmava la Sicilia, a Roma, il 15 novembre del ’48, veniva assassinato Pellegrino Rossi, fautore, con il Rosmini di quella Confederazione degli Stati Italiani, cui si opponeva il Piemonte Albertino, propenso ad una Federazione con Stato guida il Regno di Sardegna. I disordini che seguono al misfatto, e portano il Pontefice in fuga a Gaeta ospite di Ferdinando II, daranno vita a quella Repubblica Romana (il Mazzini vi troverà fama e gli Eroi, la morte) alla quale, malgrado l’intervento di Garibaldi, porrà fine l’esercito francese.

    E mentre in Francia nasce il secondo Impero, grazie all’acume di Camillo Benso Conte (15) di Cavour, che abilmente si destreggia fra Crimea, Imperatori e calessi, il Regno di Sardegna si avvia ad acquistar prestigio internazionale. E così, dal Cavour presi accordi a Plombiers, viene indotta l’Austria, per non poter da meno, a dichiarare, il 27 aprile del ’59, quella guerra che, nella Storia d’Italia, rimane come la II d’indipendenza. Più fortunata della I, è però meno proficua del vagheggiato. Se una serie di battaglie vittoriose permette l’acquisto della Lombardia, i Prussiani minacciosi sul Reno, bloccano Napoleone costretto dagli eventi a curare gli interessi propri prima degli altrui. Le azioni si fermano quindi, d’improvviso, il 6 luglio di questo 1859 con l’armistizio firmato a Villafranca il giorno 11 e confermato dalla pace di Zurigo il successivo 10 novembre. A seguito del trattato, l’Austria, che tratta solo con la Francia, alla medesima cede la Lombardia che il Regno di Sardegna riceverà quindi da Napoleone III; con la Francia il Piemonte si sdebiterà cedendole - con qualche ritardo e qualche discussione, perchè nei patti era compreso pure il Veneto - il 24 marzo del ’60 la Savoia e Nizza. Quella serie di moti insurrezionali che nascono a strascico della guerra, spontanei alcuni, meno spontanei altri, attraverso una serie di plebisciti eufemisticamente regolari, portano Toscana, Emilia e Romagna - già inglobati i ducati di Modena e Parma - all’annessione al regno di Sardegna.

    Ma intanto, il 22 maggio di questo stesso anno, morto a Caserta non ancora cinquantenne e a seguito di un ascesso inguinale (16) Ferdinando II, al trono, in un momento tanto difficile gli succede il figlio Francesco, II del suo nome. Ingiustamente denigrato dai testi di storia - nella esatta misura in cui viene osannato Vittorio Emanuele II, sua antitesi fisica e morale - la sua vera colpa consiste nella totale assenza di quel pelo sullo stomaco, che abbondava, e alto, nell’avversario. Colpa, questa, tanto più grave in quanto si univa alle risorse monetarie - sovrabbondanti nelle banche del suo Regno (17) - di cui urgentemente necessitava l’avversario. Se a tutto ciò aggiungiamo la presenza nel genovese, di un Garibaldi, reduce agitato alla ricerca d ’occupazione, il quadro è completo. Così nasce l’impresa dei Mille; che l’impresa nasca proprio nella sua mente e in quella del suo entourage, è certo; ma che il buon esito della partenza da Quarto sia unicamente ascrivibile all’abilità sua e dei suoi collaboratori, è folle pensarlo. Quel che comunque rimane certo è che, qualcuno, a Torino, chiudendo gli occhi, lo ha lasciato partire, con l’evidente intenzione di appoggiarlo, se del caso, o fermarlo al momento opportuno. Il che, sostanzialmente, è poi avvenuto anche se, ritengo, il pensiero del Cavour si fermasse all’Isola che, come Regno, si era già spontaneamente offerta ad Alberto Amedeo (18) Duca di Genova che, al tempo, l’offerta aveva prudentemente declinato ed ormai viaggiava sereno nel mondo dei più (19). Ma se, a Torino, qualcuno agevolava la partenza, altri, se pur con motivi differenti, a Marsala agevolano l’arrivo.

    Le navi inglesi, che frapponendosi fra le garibaldine e le borboniche alle borboniche impediscono l’azione, agevolano lo sbarco; e così, grazie al duplice aiuto - determinato da interessi pur contrastanti, ma al momento coincidenti (20) - l’attracco si conclude felicemente. E felicemente segue nell’Isola, ove a lui si uniscono le bande dei derelitti illusi di divenir padroni delle terre che coltivavano; fantastico sogno che Nino Bixio a Bronte e Stefano Türr, nell’agro Irpino, spengono presto: con fucilazioni il primo e a cannonate il secondo (21). E mentre - decretata da Garibaldi la coscrizione obbligatoria, e riunitasi al suo esercito la massa degli indipendisti siciliani - i Mille divenivano migliaia, la diserzione degli alti gradi dell’esercito borbonico (22) provoca quello sbandamento della truppa che, spesso fedele, si va raccogliendo in bande che daranno vita alla figura del Brigante ed al fenomeno del brigantaggio che, nato politico a sostegno del legittimo Sovrano, nel tempo, ormai definitivamente unita la Penisola, morta la speranza di restaurazione e, a casa ed invecchiati gli idealisti, lascerà in campo solo i briganti.

    La marcia segue rapida pure in continente e - partito il giorno 6 Francesco per Gaeta, ove fedele lo segue l’esercito (23) - il 7 Garibaldi raggiunge in treno Napoli accompagnato nell’ultimo tratto dai rappresentanti del governo traditore ed accolto alla stazione da quel Liborio Romano - già ministro degli Interni con Francesco - che qualcuno ha benevolmente definito, uomo per tutte le stagioni; Carlo Poerio abbietto, Costantino Nigra furbesco, i borbonici traditore ed i liberali voltagabbana. Quanto a Garibaldi, trascorso qualche tempo a Napoli ed iniziato a pro’ dei proseliti, il saccheggio delle banche del Regno, riprende il suo cammino verso Roma. I violenti scontri fra Garibaldini ed esercito Borbonico che si susseguono dal 26 settembre al 2 ottobre nella valle del Volturno; il successivo ingresso nel Regno delle truppe sarde al seguito di un Re fellone che il giorno 12 varca armato il Tronto (24), riducono i difensori in Gaeta a lottare …nel proprio paese senza molti mezzi pecuniari e di offesa contro gente, la quale impossessatasi di quelli che nella capitale avevansi lasciati n’era bene fornita…

    (25). E mentre il giorno 26, nei pressi di Teano, Vittorio Emanuele tagliava a Garibaldi la via verso Roma, Francesco ritira le proprie truppe in Gaeta. Il 27 ottobre, alla foce del Garigliano si presenta la flotta sarda alla quale le navi francesi, presenti in rada dal giorno 16, impediscono l’ingresso. La protezione, durerà sino al 19 gennaio giorno in cui la flotta amica si ritira e, con il ritiro della barriera protettiva, vengono anche a mancare i rifornimenti. Ciò malgrado Gaeta resiste e resisterà pure alla terribile esplosione del 3 febbraio in cui, colpita e saltata in aria la polveriera Cittadella, il fuoco si comunica al magazzino dei proiettili, dando vita ad un disastroso spettacolo pirotecnico. Il giorno 13 la devastante esplosione dell’ultima polveriera di cui nulla rimane, porta, inevitabilmente alla capitolazione (26).

    Francesco e la Regina si ritirano a Roma accompagnati da tre Generali. Prigionieri di guerra, assieme ad undicimila uomini di truppa, gli altri. Senza risorse e senza più speranze, Messina e Civitella del Tronto, si arrenderanno: Messina il 13 marzo e Civitella il successivo giorno 20.

    Fatta bene, o fatta male che sia, all’inizio del 1861, l’Italia è comunque Stato. Nata grazie a Garibaldi - che forse l’avrebbe voluta repubblicana ma che, visti gli appetiti Sabaudi, accetta come inevitabile lo stato di fatto (27), l’Italia è fatta; si devono, però fare gli Italiani. E, per fare gli Italiani (solo nel ventennio, qualcuno ci penserà) uguali ai Piemontesi, i Piemontesi unificano la legislazione, estendendo al Mezzogiorno quella Sarda, come se, l’uniformità delle leggi ivi compresa la fiscale (28), dovesse di per sé, uniformar le genti. Quanto poi al successivo provvedimento adottato per far cassa - vendita della manomorta Borbonica e Vaticana - acquistati in massa, i latifondi, con denaro del nord e rivenduti a latifondisti e ricchi proprietari del sud, mentre arricchisce il nord, al sud toglie, ai ricchi, mezzi monetari e maggiormente impoverisce i poveri che, grazie al retaggio feudale della manomorta, campavano. Fatta l’Italia, e comunque non fatti gli Italiani, l’Italia la si doveva completare. Si arriva così alla guerra delle sette settimane - 14 giugno 23 agosto ’66 - che, alleata l’Italia alla Prussia, sui libri di storia abbiamo conosciuto come terza guerra d’indipendenza. Sconfitta dall’Austria a Custoza (29) il 24 giugno, e poi a Lissa il 20 luglio, ma sconfitta la nemica Austria dall’alleata Prussia, l’Italia riceve in regalo, sempre per il tramite del mediatore Napoleone III, il Veneto. Saranno poi gli ormai di prassi plebisciti - più o meno regolari che fossero - a convalidare un passaggio che, dalle urne esce plebiscitario, ma che in concreto, farà spesso rimpiangere le migliori regole del passato. E così, mangiando il carciofo foglia a foglia come si usa in Piemonte - e religiosamente faceva mia madre, piemontese - il 20 settembre del ’70, inviando i bersaglieri alla breccia di Porta Pia, Vittorio Emanuele regala a se stesso il Quirinale e all’Italia Roma capitale. Da questo momento, e sino al 1915, pur tra scandali bancari e velleità colonialistiche di Crispi prima e Giolitti poi, l’Italia, quantomeno una metà dello Stivale - la superiore - conoscerà intenso sviluppo. E mentre, connessi con lo sviluppo, nell’una e nell’altra parte dello Stivale nascono i primi moti e le prime associazioni operaie e con esse, Giolitti imperante, le prime norme, in Italia, a tutela di lavoratori, minori, anziani ed invalidi; mentre nasce l’Associazione Nazionalistica Italiana; mentre D’Annunzio torna attivo e brillante dall’ esilio parigino e Mussolini inizia il salto di carriera, morto Umberto I per mano dell’anarchico Bresci, inizia il lungo regno di Vittorio Emanuele III. Sovrano colto, riservato, parco nelle abitudini di vita; quanto ad incertezze di campo, rimane a lungo ondivago, nei primi anni del secolo, fra l’alleanza già stretta e da lui stesso rinnovata con la Triplice e quella con l’Intesa che alla fine prevarrà. A sua scusante l’essere un Re costituzionale; un Re, quindi, che lascia le decisioni al Governo.

    2. l’inizio della prima guerra mondiale: 28 luglio 1914-24 maggio 1915

    Uno dei fenomeni più salienti, della fine del XX secolo, è il crescere, apparentemente irresistibile, del movimento pacifista in Europa e negli Stati Uniti. Ma nel tempo stesso in cui congressi e conferenze pacifiste d’importanza sempre crescente si susseguivano, industrie, eserciti e diplomazie, preparavano la guerra. E mentre penne famose si spendevano per la pace; mentre per la pace manifestava la II Internazionale e, alla Conferenza de La Haye - 18 maggio/29 luglio ’99 - convocata da Nicola II (30), di pace si discuteva; mentre, "…il corrispondente dello Standard a Berlino, in un telegramma del 10 aprile di quell’anno, diceva che Guglielmo era l’ homo novus e che, meditando sui futuri destini del suo Impero, avea acquistata la convinzione che l’avvenire della Germania […] era nello sviluppo dei lavori pacifici (31) e nel progresso della civiltà…" (32); e mentre questo si scriveva e di questo si parlava, sotto sotto, si preparava la guerra (33). La …potenza militare era considerata la suprema garanzia di ogni ingiustificabile pretesa, così ogni Governo, che intendeva far prevalere le proprie vedute, cercava di accrescere incessantemente le proprie forze militari, colla ferma fidanza che potendo disporre di milizie meglio agguerrite e di flotta più potente si era più sicuri di essere più rispettati e di potere avere sempre ragione… (34). Ma se, in linea di principio, il discorso non è solo accettabile, ma ragionevole -

    si vis pacem, dicevano i latini, para bellum - ragionevole non è più quando diventa strumento destinato, nonchè atto, ad imporre il proprio incontrastato dominio economico e finanziario; il che, se con la nascita esplicita delle pan-regioni, diverrà palese nel II dopoguerra, lo troviamo comunque già in fieri al deflagrare del primo conflitto. "…C’est cette ère d’industrialisation, située essentiellement en Europe, qui aurait conduit MacKinder à definir le heartland comme épicentre géostratégique […] Pour MacKinder, le pire à redouter serait l’alliance entre l’Allemagne et la Russie, deux puissances continentales situées dans le heartland et qui, par leur union politique, pourraient ainsi, à terme, dominer le monde, puisqu’elles contrôleraient alors l’ile mondiale, largement étendue et dotée de ressources considérables (35). Leurs capacités défensives en seraient démultipliées, et, leur masse continentale homogène atteignant les océans, elles pourraient également entreprendre une offensive maritime rivalisant avec la puissance britannique, voire l’anéantissant. Car pour MacKinder (36), qui distingue la puissance maritime de la puissance continentale, celui qui parvient à détenir les deux devient inéluctablement le maître du monde (37). Passando ora, dal mondo delle potenze marittime, a quello più modesto dei Balcani, lo troviamo in agitazione. Sconfitto, nel maggio del ’13, l’Impero Ottomano da Bulgaria, Serbia (38) e Grecia occasionalmente alleate; spartite le spoglie e trascorsi meno di tre mesi, l’invasione dell’Albania …da parte serba (settembre 1913) viene fatta rientrare dall’intervento congiunto di Austria e Italia…" (39) se non proprio amiche, quantomeno sodali nella difesa dell’interesse comune (40).

    E mentre Puccini, di ritorno dal viaggio negli Stati Uniti, introduce nella sua musica, quei salti di tono tipici del jazz; mentre in Europa si va gradatamente diffondendo quel nuovo, alienante metodo di lavoro nato negli State nelle officine Ford e conosciuto come catena di montaggio (41); mentre già nell’autunno del ’13, l’incontrollabilità della situazione Balcanica, fa presagire tempesta in Italia, il futuro Duce comprende che …il socialismo doveva mutare volto e intendere il fatto rivoluzionario in termini (e in alleanze) nuovi. Mussolini non sapeva quale via imboccare per adeguarsi a questi nuovi tempi, ma incominciava a rendersi conto che anche il rivoluzionarismo classico sul piano pratico non era più adeguato, che poteva servire solo ad attivizzare le masse, a farle uscire dall’apatia riformistica nella quale sopravvivevano, ma difficilmente avrebbe potuto portarle al potere… (42). Sembra probabile che questa sia l’occasione in cui Mussolini si allontana dai socialisti, due settimane prima di Sarajevo - e proprio a partire da quella settimana rossa (43) che non pianifica ma sostiene pur senza …parole d’ordine irrimediabili, preoccupato solo che lo spirito rivoluzionario delle masse non rimanesse frustrato… (44).

    Ma ecco, il 28 giugno, arrivar Sarajevo. Un Sarajevo provocato irresponsabilmente dallo stesso Francesco Ferdinando (45) o da chi, per esso, sceglie, decide e pubblicizza, giorno, luogo e percorso.

    Scelto male il giorno, San Vito, festa nazionale Serba; scelto peggio il luogo: Sarajevo, capitale di un’agitata Bosnia; ed infine comunicato in anticipo il percorso. La visita inizia male; una bomba lanciata contro l’auto dell’arciduca, cadendo fra questa e la successiva, causa feriti solo su quella.

    Malgrado ciò il programma non viene modificato e prosegue sino a quando vi mette fine Gavrilo Princip (46), con i tre colpi di pistola che maggiormente uniscono Arciduca e Consorte. Per Francesco Giuseppe, Francesco Ferdinando, era soltanto il legittimo successore; successore accettato ma non gradito; e non lo nasconde, l’Imperatore, se, ad attentato avvenuto e parlando con la figlia, pur con il pensiero agli orfani (47), accenna ad un peso da cui si sente sollevato (48); più gradito gli è il nuovo erede, Carlo. Se un qualche senso potesse avere il ragionar in astratto su quel che poteva essere ma non è stato nel mondo Nazionalista d’allora, ritengo Francesco Ferdinando avrebbe meglio navigato di Carlo. Forse.

    Sarajevo, riguardo all’Italia, non configura "…l’attivazione delle clausole di intervento militare a fianco della Germania e dell’Austria-Ungheria previste dal trattato della Triplice Alleanza (il cosiddetto casus foederis). Oggi sappiamo, sulla scorta della memorialistica e dei documenti dell’epoca, che dietro questa ragione formale di carattere giuridico, certamente legittima, a spingere Salandra e di San Giuliano alla scelta iniziale della neutralità vi erano state anche valutazioni di carattere politico legate non soltanto allo scenario internazionale, ma anche a quello interno italiano […] all’interno delle Forze Armate e inevitabilmente anche sui giornali era andata sorgendo la domanda se nella scelta di dichiarare la neutralità non avesse avuto un peso decisivo la consapevolezza di uno stato di impreparazione militare - soprattutto del Regio Esercito - ad affrontare la prova della guerra generale europea, qualunque fosse stata la scelta di campo che l’Italia avesse deciso di compiere tra gli schieramenti dei contendenti…" (49). Va poi aggiunto che un’Italia ondivaga, già legata dall’appena rinnovato patto della Triplice Alleanza stava firmando a Londra il patto della Triplice Intesa. Se però l’Italia è ondivaga, non è l’unica; anche la Russia, pur schierata con Francia ed Inghilterra sembra essere giunta alla decisione con animo lacerato; se è vero, infatti, che anche il Ministro della Guerra russo aveva simpatie filogermaniche, e l’idea di una intesa dei tre imperatori per la difesa del principio monarchico, aveva impressionato lo Zar, all’alleanza con Francia ed Inghilterra spingevano, alla fine vittoriosi, il Ministro degli Affari Esteri, l’Ambasciatore a Parigi (50) e, in seno alla Corte, il Gran-duca Nicola (51) e la moglie Anastasia, panslavista accesa (52).

    Al di là, comunque, dell’attentato, nella tarda estate del ’14 tutta l’Europa è in tensione: e se la Francia repubblicana scalpita perchè rivuole quell’Alsazia-Lorena perduta dalla Francia del II Impero; se la Prussia ha fretta di mettere a tacere la Francia, per dedicarsi alla Russia che a sua volta, e da sempre, mira al controllo delle popolazioni slave, senza Sarajevo, che ne dà ragione, la guerra sarebbe comunque deflagrata, perché la voleva, e nel proprio interesse, l’Inghilterra. Se Albione non aveva, come la Germania progetti di espansione, né progetti revanscisti come la Francia, nell’armarsi congiunto di tutti i Paesi, vedeva messa in pericolo la propria Autorità. In origine potenza protrettrice di uno statu quo che l’evolversi rapido dello sviluppo all’interno dell’Europa, metteva in pericolo, il problema che le si presenta è come difendere quello statu quo tuttavia a lei favorevole (53). Quindi l’Inghilterra vuole la guerra, non meno e forse più della Germania, della Francia e dell’Austria stessa ove, se la guerra vuole il Governo, l’Imperatore (54), costituzionalmente firmando, solo l’accetta come ineluttabile.

    Del fatto che il Governo Austriaco proprio la guerra voglia, sono prove tangibili: l’ultimatum, i cui dieci punti, per la Serbia indigesti, si riteneva non venissero accettati; il fatto che la guerra venga dichiarata malgrado inaccettato rimanga, e in parte, solo un punto, il sesto (55); e il fatto che la guerra venga dichiarata proprio il 28 luglio. Non prima: il 28 luglio, sono ormai trascorsi i tre giorni necessari a tutti i soldati per raggiungere i reparti dopo la scadenza del congedo generale tradizionalmente concesso a tutti i militari di truppa, in gran parte figli di contadini, per consentire il raccolto agricolo. Non dopo: tornate le truppe ai loro reparti, inutile attendere: la guerra, può iniziare. Alla dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia, nell’agosto seguono a ruota: quella della Germania alla Russia, alla Francia e al Belgio; dell’Inghilterra alla Germania prima ed all’Austria poi; del Giappone alla Germania ed infine - mientras tanto - dell’Austria alla Russia. Contro l’Austria e la Germania vedremo entrare in campo pure il Montenegro (56). Un modo per l’Intesa di spingere un’Italia tuttavia neutrale, e tuttavia incerta, alla scelta di campo (57)? Quanto all’Austria, sembra che, a determinare la risolutezza del Governo ad entrare in guerra, siano, oltre alla …fiducia nell’aiuto militare tedesco, l’impazienza dei militari, le pressioni dei circoli aristocratici che scorgevano l’opportunità di rinforzare il governo in senso autoritario, infine, lo scarso coordinamento tra le parti dell’élite politica austriaca, una struttura sovraestesa e parcellizzata, che non riuscì a vagliare scrupolosamente le informazioni in suo possesso… (58). Qui di seguito, riepilogate in sintesi, le vicende della guerra prima dell’entrata in campo dell’Italia che, il 26 aprile del 15 - tuttavia vigente il trattato della Triplice Alleanza rinnovato nel ’12 per sei anni - firma a Londra, l’adesione alla Triplice Intesa ed il 23 maggio dichiarerà guerra all’Austria-Ungheria; ma non alla Germania. Una Germania spesso accusata, sebbene a torto, di avere, se non dichiarato, quantomeno provocato la …guerra europea per imporre l’egemonia germanica sul continente… (59).

    In un’Europa che discuteva di pace mentre pensava ad armarsi, …Francesco Giuseppe […] era probabilmente tra i pochi a non volere la guerra dopo l’omicidio di Sarajevo. Nella sua lunga vita di guerre ne aveva combattute e perse tante e non aveva molta voglia di trascinare il suo Paese in un’avventura dai rischi incalcolabili… (60). Oltre a ciò, già nel 1913, Joseph Redlich, aveva avvertito il suo governo su quella che era ormai un’opinione diffusa in Inghilterra ove, considerando l’Austria un paese satellite della Germania, si preconizzava apertamente il suo smembramento (61) "…Redlich puisait probablement ses informations dans les milieux de l’intelligentsia universitaire, où la propagande du grande spécialiste de l’Europe centrale, Seton-Watson (62), proslave fervent, avait déjà commencé, avant la guerre, è emporter des convictions. En tout cas, c’est dans ce texte du Pr. Redlich que j’ai trouvé, pour la première fois mentionné à l’Ouest, le projet de de l’Autriche, qui, dans la littérature et la presse des autres pays de l’Entente ne se répandra largement qu’à partir de 1917…" (62).

    Resta poi un dubbio: nell’entrare subito in guerra, a fianco dell’Austria, il Kaiser aveva in animo di "…accelerare l’ escalation di violenza che avrebbe potuto portare a un conflitto bellico in grado di assicurare alla Germania la leadership continentale? O aveva solo in animo di non deludere l’Austria, l’unico suo importante alleato rimastole al fianco, senza aver previsto quello che sarebbe accaduto di lì a poco?..."(63). La domanda rimane senza risposta? Non direi. Entrambe le ipotesi, rimangono valide.

    E passando ora alla rapida visione dei fatti di una guerra all’Italia tuttavia estranea, osserviamo: La Germania, attraversando un Belgio neutrale - cui però, per buona creanza, chiede un negato passaggio (64) - invade la Francia. Niente scandalo, nei piani francesi, prevista identica manovra (65). Che, del fatto, però, ci si scandalizzi in Italia, se non osceno mi sembra comico. Come si forma il Regno d’Italia?

    Con un Re di Sardegna che, senza dichiarazione di guerra varca, armato, i confini del territorio di altro Sovrano, tuttavia presenti, alle Corti, i rispettivi Ambasciatori. E poco cale che a Torino il diplomatico del Borbone fosse un ingenuo, svagato, e, sotto ogni aspetto, proprio vecchio Signore d’altri tempi; quel che cale è che, Francesco, perdendo Regno e sostanze, dalla vicenda esce con Onore; quell’Onore che l’omologo, ni sabe como se come, argutamente direbbero in America latina. Comunque, nata bene o nata male, l’Italia è nata. Ed è quel che conta. Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior, cantava ai miei bei tempi Fabrizio De André.

    Non scandalizziamoci dunque per il piano Schliffen-Moltke (66) che fallisce a causa dell’imprevista resistenza dell’esercito Belga; allungando i tempi (67), consente ai Franco-Inglesi di bloccare sulla Marna il nemico nel tempo medesimo in cui, sul fronte Russo, iniziava il ripiegamento dell’Armata Austriaca. "…Ce qui perdit finalement les Allemands […] est qu’ils ne tinrent pas compte du conseil de Clausewitz: les plans militaires qui ne laisssent pas une place à l’imprévu peuvent mener au désastre (68). In tal contesto, normale l’Italia si domandi …in qual modo condursi nella nuova situazione internazionale, che era sorta […] L’alleanza italiana con gli Imperi centrali sussisteva, come abbiamo veduto, al modo stesso con cui la pace durava in Europa, per forza di inerzia: stava in piedi come una facciata dietro la quale non ci sia più la casa. Ciò era tanto evidente e tanto noto che si trovava stampato non solo in opuscoli politici di pubblicisti, ma in manuali di storia […] Per esempio, nel dodicesimo volume della Cambridge Modern History, pubblicato nel 1910, si poteva leggere, a proposito della Triplice alleanza: <È dubbio fino a qual segno la Germania e l’Austria possano contare sulla cooperazione cordiale dell’Italia in caso di guerra: nella questione del Marocco l’Italia si dimostrò più favorevole alla Francia che alla Germania; il popolo italiano sente che i suoi interessi nei Balcani non sono stati abbastanza rispettati dall’Austria nella sua recente annessione della Bosnia-Erzegovina, e nella Triplice non vi è una unica e comune politica generale, come quella che stringe Germania e Austria>. E chi non avesse voluto starsene al giudizio di uno storico inglese, poteva aprire un manuale tedesco, la Weltgeschichte der Neuzeit dello Schäfer, nella cui quinta edizione, pubblicata nel 1912, era detto: …" (69).

    È però un fatto che allo scoppio delle ostilità l’ANI - Associazione Nazionalisti Italiani - si schieri, naturalmente, dalla parte …dell’Austria e della Germania. Dopo una riunione della giunta esecutiva del 26 luglio 1914 (70), fu emesso un comunicato nel quale si sosteneva che l’Italia non poteva restare neutrale nella guerra ormai imminente e che era necessario evitare , cioè preoccuparsi delle terre irredente… (71). Sono di questa opinione: Federzoni, Forges Davanzati, Maffeo Pantaleoni, Alfredo Rocco, Vittorio Cian (72) e, fra loro, anche il triestino Ruggero Fauro.

    Tener fede alla Triplice era doveroso e utile in quanto pareva …le rivendicazioni territoriali italiane non dovessero limitarsi alle terre irredente, ma dovessero indirizzarsi anche verso il Mediterraneo, dove i nemici da affrontare erano la Francia e il Regno Unito… (73). Cambieranno posizione, i nazionalisti, quando si renderanno conto che, …l’unica motivazione sentita dall’opinione pubblica, o almeno da una sua parte, era la conquista di Trieste e Trento… (74). Malgrado ciò, la scelta definitiva di campo, non risultava facile perché "…l’Italia era stata per lunghi anni legata alla Germania, senza litigi e amarezze e con molte reciproche manifestazioni di deferenza e cortesia (e pure grandi vantaggi, ndr, (75)), e pareva duro abbandonare l’antica alleata nel suo grave pericolo; e, d’altra parte, verso la Francia era ancora fresco il ricordo di quel che era accaduto durante la guerra libica […] e del tono arrogante con cui il Poincaré ne aveva discorso alla Camera francese. L’indugio avrebbe permesso anche di scegliere, per l’entrata in guerra, il momento prevedibilmente migliore a renderla più efficace e risolutiva […] Se, movendo da questo tracciato ideale […] si passa a considerare l’azione degli uomini di stato italiani nei dieci mesi che corsero tra lo scoppio della guerra e la partecipazione dell’Italia, si vede che essi vi si attennero esattamente. La neutralità fu dichiarata il 2 agosto, tra la dichiarazione di guerra della Germania alla Russia che fu del 1° e alla Francia che fu del 3, e appoggiata al testo del trattato della Triplice, che stabiliva il casus foederis solo per una guerra difensiva, non provocata dagli Imperi centrali […] Solo qualcuno di quegli uomini di stato, che allora non apparteneva al governo, il Sonnino, dubitò del partito che si era scelto, ed ebbe il pensiero che ci si dovesse unire all’azione delle alleate, dicendo che le cambiali bisogna pagarle […] Ma l’altro e principale uomo di stato italiano, che era anch’esso fuori del governo, il Giolitti, approvò e convalidò col suo avviso la dichiarata neutralità. Parve anche, nei primi giorni, che tale neutralità volesse essere benevola verso le alleate…" (76). Ma quelle richieste di compensi territoriali in cambio della neutralità, avanzate dall’Italia ed in parte accettate, con la comprensibile esclusione di Trieste, porto vitale per l’Austria, rendevano - a buon intenditor - palese la caratteristica solo temporanea della neutralità. Il porre tali "…richieste ed entrare nei relativi negoziati, significava […] togliere alla neutralità il carattere di assoluta e definitiva, e disporsi ad appigliarsi eventualmente all’alternativa della guerra, che era nell’implicito dilemma… (77). E per forza d’inerzia la forte maggioranza irredentista, della minoranza italiana che voleva la guerra, porterà, nel maggio del ’15, un’Italia inizialmente incerta e forse persino maggiormente orientata per gli Imperi centrali, nel blocco dell’Intesa (7 ). Si udiranno …parole d’ordine, per altro comuni a tutte le componenti favorevoli all’ingresso dell’Italia nel conflitto: dalla virtù morale della guerra, sicura artefice di un nuovo ordine nazionale, solidale e gerarchico, alla rigenerazione morale del popolo italiano, alla necessità di una più energica politica di potenza… (79). E mentre i nazionalisti, senza difficoltà, cambiavan di campo in casa e fuori casa, passando da pacifisti a interventisti; da austrofili a francofili (80); mentre il D’Annunzio inviava …dalla Francia le sue Canzoni della gesta d’Oltremare, assai fredde esercitazioni metriche, non ostante il lusso dei vocaboli e delle immagini, in esaltazione dell’impresa e degli eroi dell’impresa…"

    (81); mentre il 9 agosto del ’14, ossia tre giorni prima della dichiarazione di guerra della Gran Bretagna all’Austria, a Londra si teneva un cordiale, amichevole colloquio fra il Re (82) e l’Ambasciatore Austriaco (83); mentre l’occupazione del Belgio più faticosa del previsto, ritardando la marcia tedesca, dava alla Francia il tempo di preparare la resistenza, la battaglia della Marna - 5/14 settembre ’14 - annullando …la speranza germanica, […] di liquidare la Francia in sei settimane per poi volgere di concerto con l’Austria contro la Russia… (84), spingeva decisamente l’Italia nel campo dell’Intesa. E mentre questo avveniva, e già erano iniziati gli scontri fra Austriaci e Russi, Lenin, nel tentativo di orientare il socialismo russo e quello europeo, lanciava …la parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile, auspicando la disfatta militare della monarchia zarista e degli altri stati monarchici e capitalistici, che avrebbe reso possibile la vittoria del popolo russo sullo zarismo stesso e la lotta del proletariato per la sua emancipazione… (85).

    3. dall’entrata in campo dell’Italia a Caporetto: 24 maggio 1915-24 ottobre 1917

    Firmato, il 26 aprile del 1915 a Londra, il Patto dell’intesa e denunciato il 4 maggio il Trattato della Triplice, il 24 l’Italia entra in una guerra già decisa dal settembre precendente (86) e senza fraintendimenti indirettamente confermata il successivo 7 gennaio (87); una guerra comunque …non desiderata, salvo che da una irruente minoranza, intimidente e seduttiva. Una guerra alla fine imposta dall’alto sia pure nel rispetto formale della legalità… (89), riservandosi semmai sino all’ultimo, la scelta di campo. A parte l’esser pendente, e tuttavia valido sino al 1918 (90), il trattato della Triplice, alla Germania – a cui non dichiara guerra – l’Italia era e rimarrà legata da forti interessi economici, anche durante il conflitto, perché il …nuovo impero tedesco era il principale sostenitore finanziario del sistema economico italiano, povero di capitali…(91). Non per nulla, nel luglio del ’14, nel comunicare agli Imperatori alleati, la neutralità italiana, Vittorio Emanuele usa toni amichevoli (92); ma è una scelta, la neutralità, che comunque accende commenti malevoli in Europa ed in particolare a Londra ove Churchill (93) esprime sull’Italia – con la quale però si tratterà a breve – un giudizio, diffuso nel governo inglese, che definir feroce sarebbe benevolo (94).

    Chiusi finalmente i dubbi su belligeranza e scelta di campo, l’una e l’altra vengono decise, sulla piazza, da "…una minoranza nel paese; e una ristrettissima minoranza fuori delle grandi città. Presa dall’entusiasmo, aveva alla testa D’Annunzio accorso di Francia, Mussolini, uscito dalla sua redazione; aveva i suoi inni e i suoi gridi; aveva la sua formula: . Rivoluzione contro chi?

    Contro l’ordine costituito, chiaro. Contro il re, intanto, se per qualche scrupolo avesse preso sul serio le dimissioni di Salandra. Contro il Parlamento, se avesse votato a favore di un ministero diverso da quello di Salandra. Contro i deputati, più che mai da quando si dimostravano alieni alla guerra.

    Contro il suffragio universale, il corpo elettorale, di cui i deputati erano i mandatari. Contro tutto quel po’ d’abitudine alla legalità costituzionale che a poco a poco, faticosamente, soprattutto negli ultimi quindici anni, l’Italia aveva preso. Contro Giolitti, per riassumere tutto in un nome solo…" (95).

    Ed ecco come, valutate le diverse ipotesi e la disponibilità degli eventuali alleati ad offerte pure extranazionalistiche (96), pur rimanendo esclusa Fiume (97), contro la volontà della maggioranza del Paese e del Parlamento, il 23 maggio 1915, l’Italia - alleata con la Francia che amica vera non è, e non le è mai stata e con Albione che la disprezza (98) - entra in guerra contro l’Austria, pur mantenendo, con gli Imperi Centrali, ed in particolare con la Germania, cui non dichiara guerra, i contatti. Posizione strana e ambigua quella in cui l’Italia viene a trovarsi; perchè essendo la Germania, alleata dell’Austria, le truppe tedesche (99) affiancate alle austriache, inevitabilmente si scontreranno con le non nemiche italiane.

    Strano conflitto, quello che vede nazioni nemiche che, si fanno guerra ma fanno pure affari; e nazioni non in guerra fra di loro, che in battaglia si scontrano; strano conflitto quello che, nato da una crisi regionale, in poco tempo si trasforma in conflitto europeo (100) e diventa subito, mondiale, globale e totale (101).

    Ben strano conflitto è quello che vede l’alta finanza dei Rothschild fare affari su due fronti, finanziando, diretta-indirettamente amici e nemici. E se Édouard Rothschild, finanzia la Francia facendo pure affari (102), la sede Rothschild di Vienna, finanzia la Germania alla quale, però proprio la sede francese vende, importanti materie prime (103). E mentre i Rohtschild facevano affari con tutti gli Stati tranne l’Italia, scarsa di garanzie, l’Italia rapidamente passava dall’irredentismo di facciata e di piazza alle aspirazioni di controllo dell’Adriatico, evidenti nel telegramma del 21 marzo inviato dal Sonnino ai suoi ambasciatori a Londra; un telegramma in cui la rinuncia a Fiume risulta esplicita e sottoscritta (104). Il Governo di un’Italia ormai unita, ormai Stato ed ormai Potenza, comincia a pensar in grande; in fondo il dominio dell’Adriatico, vale più dell’irredenta, italiana, Fiume; e non potendo pretendere l’uno e l’altra, meglio chieder l’uno piuttosto che l’altra.

    Ma all’inizio di aprile, nel tempo dunque in cui l’Italia, a Londra, ancora sta trattando e "… l’offensiva russa raggiunge su di una fronte sempre più ampia il crinale dei Carpazi per poi precipitare verso la pianura ungherese, Cadorna emana le Varianti alle direttive del 1° settembre ’14, miranti soprattutto all’occupazione, da parte delle forze di copertura, d’importanti posizioni in territorio nemico quale più sicura garanzia dell’inviolabilità del territorio nazionale e necessaria premessa all’ulteriore sviluppo delle operazioni verso il cuore della monarchia asburgica. Il piano del generalissimo contempla l’irruzione dell’esercito italiano oltre l’Isonzo… (105). Ed ecco l’ennesima conferma; tutto era già deciso dal settembre del ‘14; solo serviva tempo per i preparativi bloccati da Francia ed Inghilterra cui faceva comodo non, l’alleanza con un’Italia che disprezzavano (106), quanto il fatto che l’Italia non si schierasse con l’altro fronte. Ed ecco come, spinta da una minoranza del Popolo e del Parlamento, ma voluta dal Re e dal Sonnino l’Italia entra in guerra il 24 maggio; con un esercito tuttavia non pronto ed un piano d’azione previsto in base all’avanzata dell’esercito russo il quale, all’inizio del maggio, tra il 2 e il 4, subisce, a Gorlice, in Galizia, quella grave sconfitta che se porta all’abbandono russo non solo della Galizia, ma pure della Polonia, frustra il piano italiano (107). Un piano italiano che però, in origine, e al tempo di un Governo tuttavia Giolitti (108) era ben differente se Cadorna, ormai esonerato dopo il disastro di Caporetto, il 18 gennaio del ’18, dirà: …" (109). E così come Cadorna, alla medesima Alleanza pensava a suo tempo anche il Generale Pollio se, nell’aprile del ’14 - tuttavia in fieri Sarajevo e guerra - affermava al Maggiore Kleist, che metterebbe volentieri a disposizione dell’armata italiana sul Reno, in appoggio ai tedeschi …molto di più che tre corpi… (110). Desideri insoddisfatti e riminiscenze a parte, nell’aprile del ’14, già al Governo Salandra, sembra chiaro che, pensando alla guerra, tedeschi ed italiani si considerino tuttavia alleati. Quantomeno nell’esercito e quantomeno negli alti gradi. Ciò malgrado, disdetto il trattato pendente con l’Alleanza sino al dicembre 1918, il 24 maggio del ‘15 l’Italia scende in campo a fianco dell’Intesa e contro l’Austria-Ungheria; al momento, non la Germania.

    Dichiarata la guerra il giorno 23, il ventiquattro maggio l’esercito marciava; ma l’Italia che tanto aveva tergiversato per entrare in guerra, alla fine sceglie o, per meglio dire, si vede costretta a scegliere (111) il momento meno favorevole. Infatti sul fronte est, la Prussia Orientale, l’antico Feudo dell’ Ordine Teutonico (e la mente torna allo Stupor Mundi) passata l’iniziativa in mano ai tedeschi, i Russi stavano ormai ripiegando. Un cinquantenne brillante stratega, il generale Erich Ludendorff (112) - giunto al seguito dell’anziano von Hindenburg (113) richiamato in servizio in sostituzione del destituito Prittwitz (114) - compreso che …i punti deboli del nemico erano la lentezza dei movimenti e la mancanza di collegamenti… (115), giuocando d’astuzia, e audacia, circonda, sulle colline di Tannenberg (116) l’armata avversaria e la distrugge. Suicida, Alexander Vassilievic Samsonov, comandante le truppe russe; verrà ritrovato fra i suoi soldati con un colpo alla tempia e la rivoltella in mano. Nella vicenda, non si può comunque escludere l’interferenza dello spionaggio tedesco; la corrente favorevole all’alleanza con la Germania era forte alla corte dello Zar (117) e, se pur perdente, tuttavia sopravviveva. E il passo che segue potrebbe provare l’illazione: "…Nous étions en route de Marienburg pour Tannenberg, lorsque nous reçûmes un radio ennemi capté qui nous donnait un aperçu très clair des mesures ennemies pour les jours suivants. L’armée du Narew avançait échelonnée vers la gauche, avec le IIem C.A. par Ortelsburg sur Bischofsburg, qui pouvait être atteint ou dépassé le 26…" (118).

    Con l’arrivo della primavera, l’attività riprende su tutti i fronti e l’entrata in campo dell’Italia, che il riuscito sbarco delle truppe inglesi ai Dardanelli aveva, se non indotto, quantomeno sollecitato a firmare - in vista dell’allettante compenso che a spese della Turchia (119), andava ad aggiungersi alle aggregazioni pattuite a spese dell’Austria-Ungheria (120) - diventa imprescindibile. A "…spese della Turchia le sarebbe stata concessa una sostanziosa ; avrebbe poi ottenuto compensi coloniali in Nordafrica, nonché il porto adriatico di Valona e l’isola di Saseno, appartenenti all’Albania.

    Ma perché queste prospettive si realizzassero, occorreva, tanto per i russi quanto per gli italiani, che gli Alleati riportassero la vittoria nella penisola di Gallipoli (121)…" (122). Però l’impresa, organizzata da Churchill e pur iniziata bene con un riuscito sbarco, si trascina per mesi ed infine fallisce (123).

    Speranze ed obiettivi a parte, l’esercito, il 24 maggio, è in marcia verso l’Isonzo; al suo comando, il Generalissimo Luigi Cadorna. …Secondo l’ultimo bollettino di guerra, che tre anni e mezzo più tardi consacrò la vittoria italiana, le nostre forze sarebbero state numericamente inferiori a quelle nemiche…

    (124). Il che, però, non è sempre vero; quel che rimarrà evidente sul fronte italiano, è la deficienza dell’artiglieria; scarse le mitragliatrici che si stavano rivelando arma vincente; scarsi i fucili e di modello arretrato; scarse le rivoltelle che gli ufficiali si vedevano costretti a comprare; scarsi persino gli elmetti - due per plotone - e regalo dei Francesi (125). Malgrado ciò, "…contagiato dai giovani ufficiali di complemento, quasi tutti interventisti, l’entusiasmo aveva guadagnato anche la truppa. Digiuni […] di esperienza di guerra, questi coscritti se la immaginavano come l’avevano sempre rappresentata le oleografie risorgimentali e le tavole del pittore Beltrame sulla Domenica del Corriere (126). Peccato la guerra fosse un’altra cosa; e peccato che neppure Sonnino e Salandra lo sapessero; pensavano forse di esser giunti nel paese dei Balocchi e di potersi arricchire a spese altrui rapidamente e con i loro pochi spiccioli. Nello stendere il patto di Londra, infatti, Sonnino e Salandra non si erano curati di inserire aiuti militari ed in denaro (127), perché erano seriamente convinti fosse questione di pochi mesi. Nessun accordo, inoltre, fra Governo e Stato Maggiore dell’esercito e quest’ultimo …prepara il suo piano di guerra, ignorando le intenzioni e gli obiettivi precisi che si sta ponendo il governo. Non conosce neppure i tempi dell’intervento. Il governo, da parte sua, agisce senza valutare seriamente le possibilità e le capacità militari a disposizione coltivando l’illusione di una guerra breve…" (128).

    Svanita, dopo la ritirata dell’esercito russo, la speranza di una rapida conclusione delle operazioni militari, Cadorna (129), generale formatosi in quartiere, e non sul campo (130), emana, il 16 maggio, il seguente ordine del giorno: "…<È intendimento di questo comando d’avanzare al più presto colla 2a e 3a armata sull’Isonzo, ed assicurarsi sbocchi offensivi ad est di detta linea>. Ma al tempo stesso il generalissimo prescrive che la 2° armata, la quale dovrebbe procedere su Caporetto, e successivamente occupare la dorsale di Monte Nero, Sleme, e Mrzli, si tenga in grado di ; non solo, ma nella lettera accompagnatoria è detto che il < balzo offensivo> dovrà essere eseguito < dietro ordine esplicito>, perché la situazione del nemico potrebbe essere tale da sconsigliare questo primo balzo fin quando la radunata non sia condotta a termine (131). Se le idee non sono proprio confuse, quantomeno dimostrano un’incertezza di fondo; quell’incertezza di cui il Governo, non è certo immune, se …si verificarono subito le deficienze nell’azione e coordinazione degli organi di governo delegati alla politica estera, alla guerra, ai trasporti, al Tesoro… (132). Non va inoltre dimenticato che l’esercito italiano era il più modesto fra gli Europei, perché, dalla Triplice Alleanza garantito dagli attacchi della Francia,…aveva assunto una disposizione rigorosamente difensiva sul confine orientale, mentre era attrezzato ad una doppia azione difensiva e offensiva (con l’invio di un’armata sul Reno) contro la Francia. La conseguenza è che nell’agosto del 1914, allo scoppio della guerra, l’esercito italiano non è in grado di muovere subito un’offensiva contro l’Austria-Ungheria, ma ha bisogno di una riconversione che creerà grossi problemi tecnici e politici…" (133). Il I° luglio del ’14 - due giorni da Sarajevo - scomparso improvvisamente il Generale Pollio, in un clima di totale scoordinamento con il Governo, lo Stato Maggiore dell’esercito si prepara alla guerra, ignorando …le intenzioni e gli obiettivi precisi che si sta ponendo il governo. Non conosce neppure i tempi dell’intervento. Il governo, da parte sua, agisce senza valutare seriamente le possibilità e le capacità militari a disposizione coltivando l’illusione di una guerra breve. È la peggiore delle situazioni per iniziare la guerra… (134). E neppure è un dettaglio che l’Italia dichiari guerra all’Austria ma non alla Germania …giocando sino all’ultimo la carta di un rapporto particolare positivo con l’impero tedesco distinto dal rapporto negativo con l’Austria-Ungheria… (135). Rapporto che viene opportunisticamente accettato perché, sul piano economico e commerciale, pure conveniente alla Germania. Ma, infine, mi domando, perché invece di mantenere un comodo e proficuo neutralismo, l’Italia entra in guerra? Perché dopo averne discusso per dieci mesi, alla fine decide il grande passo, malgrado la …metà del paese, a dir poco, avrebbe preferito la pace, cioè la conservazione delle neutralità… (136)? Perché al Governo, al posto di Giolitti c’è ora Salandra; perché per Battisti (137), bisogna cogliere l’attimo fuggente; perché Prezzolini è del medesimo parere e perché c’è Mussolini che dal Popolo d’Italia arringa il suo Popolo, in un articolo trascinante il cui …pezzo di apertura conclude così: (138). Ed ecco come è perché l’Italia compie il grande passo verso una guerra che Giolitti - ormai fuori dal Governo - tenta in ogni modo di evitare non solo perché inaccettabile il rovesciamento delle alleanze, ma pure perché la guerra sarà lunga e non sarà possibile combattere l’Austria senza scontrarsi con la Germania (139); il che, essendo inevitabile, concretamente avverrà. Anche Sonnino ritiene la guerra non possa esser breve e che "…bisognerebbe entrarci il più tardi possibile; ma che non sia troppo tardi […] Ed è attento a (140), in tal modo illudendosi di evitare l’inevitabile scontro con la Germania, violento a Caporetto ove diverse sono le divisioni germaniche presenti (141). Giolitti (e con lui una grande maggioranza di politici e diplomatici italiani) pur rimanendo avverso alla guerra, riteneva utile un eventuale intervento, ma solo alla fine, solo nel caso in cui l’Austria fosse già caduta; un intervento, quindi, solo in fase terminale e per salvaguardare, occupandole, le terre italiane. In tal caso, e solo in tal caso, non sarebbe stato tradimento (142). È questo il clima in cui Sonnino sceglie il campo; perché …al di là delle più generose concessioni territoriali ( roba altrui, ndr) consente (l’Intesa, ndr), ciò che veramente gli sta a cuore: il predominio militare italiano nell’Adriatico (143). È questo il clima in cui Cadorna prepara l’intervento italiano. Quanto all’esercito al suo comando, dopo l’esito deludente delle prime offensive del ’15, viene rafforzato dai nuovi arruolamenti. Nell’inverno ‘15/’16 assieme alle reclute del ’96, vengono richiamate le classi anziane e rivisti gli esoneri. Breve e poco curato è l’addestramento, consistente in qualche marcia e qualche colpo sparato al poligono. Tuttavia peggiore, il discorso per quanto riguarda gli ufficiali; tra l’agosto del ‘14 e la fine del ’18, ne vengono creati 147.000 dopo un addestramento sommario di tre o quattro mesi. Quanto agli ufficiali effettivi, promossi a comandi di maggiore responsabilità, nei ranghi vengono sostituiti dalle nuove leve impreparate; pur coraggiosi e responsabili, non sempre sono in grado di supplire alle carenze di scuola (144); (145). E mentre, sul fronte occidentale i nemici si guatavano dalle opposte trincee senza che nulla di concretamente nuovo avvenisse, sul fronte italiano, si attuava il piano previsto da Cadorna. Un piano che presenta però …una contraddizione di fondo: lo schema, concepito originariamante con uno spirito risolutamente offensivo, nel corso della sua messa a punto operativa si carica di comportamenti e cautele schiettamente difensivistiche che ne alterano la sostanza…" (146) e, abbinato a comportamenti non sempre specchiati di sottoposti, porterà al disastro. Dichiarata la guerra, l’esercito varca il confine verso l’Isonzo - molto meno difeso, il settore, rispetto al fronte Trentino (147) - e mentre gli Austriaci ripiegano attraverso la pianura assestandosi nei territori più elevati alla destra del fiume, gli Italiani, occupano Caporetto e poi, fatto progressi nelle Alpi Giulie, fermano l’azione (148). Il 23 giugno, nei pressi di Gorizia, il primo dei molteplici inutili scontri rimasti nella Storia con il nome di battaglie dell’Isonzo; battaglie che - morti e feriti a parte - non cambiano sostanzialmente le posizioni degli eserciti, sia nel ’15 che nel ’16 (149) anno in cui, nel giugno, sono gli Austriaci ad effettuare, in Trentino, quella spedizione punitiva - die Strafexpedition - contro l’alleato traditore che porta alle dimissioni del governo Salandra ed alla nomina di Paolo Boselli (150).

    A pochi giorni dalla nona battaglia dell’Isonzo, all’età di 86 anni, e dopo 68 anni di regno, si spegne Francesco Giuseppe. Imperatore ingiustamente denigrato, benevolo, θάνατος gli risparmia la visione del disfacimento, sotto la spinta nazionalistica, del secolare Impero Asburgico. Gli succede il filius fratris Carlo, I e ultimo del suo nome (151) e di un glorioso Regno, positivamente multietnico attraverso i secoli.

    Il nuovo anno, il 1917, di battaglie dell’Isonzo, ne vedrà altre tre. L’ultima, meglio conosciuta come battaglia di Caporetto - o più sinteticamente Caporetto, termine divenuto sinonimo letterario di sconfitta - è preceduta dalla battaglia della Bainsizza ove, vittoria a parte, si palesano i prodromi della disfatta.

    Prima di entrare, con la Bainsizza, nella tragedia di Caporetto, ritengo indispensabile, affinchè ognuno si prenda solo le colpe che merita - diamo a ciascuno il suo - un rapido excursus sulla conflittualità, all’epoca molto accesa, interna all’esercito italiano fra gli ufficiali subalterni e, in particolare, quelli di fanteria (152), e gli altri ranghi del comando. È un fatto che "…le promozioni ai gradi superiori erano divenute un privilegio accessibile solo a una casta di prescelti, perlopiù provenienti dalle e in possesso dell’ambitissimo diploma della Scuola di guerra. È vero che a quest’ultima si veniva ammessi attraverso un concorso aperto a ogni ufficiale che ne facesse domanda, e che quasi i due terzi degli ammessi proveniva (per regolamento) dalla fanteria o dalla cavalleria, ma c’erano allievi e allievi.

    Per chi proveniva dall’Accademia di Torino, era elementare superare il concorso e molto più facile risultare tra i primi classificati nella graduatoria finale, posizione che dava accesso al selezionatissimo corpo di Stato Maggiore (poco più di 150 elementi in tutto), anticamera obbligatoria per aspirare alla promozione a generale: , commentava salacemente l’allora tenenente Eugenio De Rossi […] che alla Scuola di guerra avrebbe poi anche insegnato, rimarcando la distanza abissale che separava la casta degli ex cadetti dell’Accademia (gli ) dagli altri frequentanti […] Senza speranza di successo professionale e con l’unica prospettiva di una modesta pensione dopo il congedo, la massa degli ufficiali di reggimento si trovava di fatto davanti a due opzioni: la rassegnazione a uno stile di vita miserabile, molto lontano dallo stereotipo dell’ufficiale da salotto, brillante e cavalleresco, e la protesta. Molti , il nomignolo spregiativo che indicava propriamente i quadri delle armi a piedi, scelsero la prima strada […] In queste condizioni, ipotizzare che potesse esistere realmente uno stile di vita e un codice ideologico comune per l’insieme del corpo ufficiali italiano è poco più che una speculazione priva di costrutto, benchè il mito di una comunità in uniforme, culturalmente e moralmente coesa, non cessi di trarre in inganno anche gli storici dell’ultima generazione; non solo non esisteva una , ma tra le diverse comunità che formavano l’insieme dei professionisti della guerra le distanze (e i rancori) erano tali da escludere ogni omogeneità culturale…" (153). In tale situazione di base, gli arruolamenti frettolosi effettuati prima dell’inizio delle operazioni (154), ci offrono la visione di un esercito raffazzonato nella truppa e negli Ufficiali inferiori. Quanto poi alla gerarchia di comando, che nello Stato Maggiore e con uffici diversi, gravitava attorno a Luigi Cadorna, era formato dai Generali Armando Diaz, Gaetano Giardino (155), Luigi Capello, Pietro Badoglio, Pietro Frugoni, Roberto Brusati (156), Carlo Ruelle e Arturo Vacca Maggiolini, all’epoca solo Colonnello. Quale fosse il clima; e quali le conoscenze del comando, riguardo ai luoghi delle operazioni, risulta chiaro da un passo del Diario del colonnello Vacca in cui vediamo Frugoni rivolgersi ad un collega "…Ruelle, ci dica lei un po’ di topografia>. Il comandante del VI corpo indica esattamente il Sabotino, poi indicando il Podgora dice che erano le falde ultime del Sabotino; e chiama Podgora il Monte Fortin, isolato nella pianura a una dozzina di chilometri a sud-ovest, e infine chiama Monte Fortin la collina isolata di Medea, altri sei chilometri più a occidente. …" (157). Se questo è ciò che passa il convento rispetto a conoscenze e irresponsabilità degli alti comandi, lo Stato Maggiore, un ordine chiuso e privilegiato, possiamo immaginare quale potesse essere la situazione nei gradi inferiori, dopo gli avanzamenti dovuti all’ingresso dei nuovi ufficiali di affrettata preparazione (158) e quale, in conseguenza, dovesse essere lo spirito delle truppe (159).

    Quanto allo spirito che aleggiava nell’alto comando non era certo esente da gelosie e risentimenti; la proposta, a suo tempo avanzata da Giardino con l’appoggio di Frugoni (160) e bocciata da Cadorna, della promozione al grado superiore (161) del Tenente Colonnello Badoglio - indubbiamente alle spalle una carriera di tutto rispetto, ma già titolare di numerosi avanzamenti - non rimane di certo del tutto estranea alla triste vicenda di Caporetto che il vecchio (162) Generale Cadorna paga per colpe sue e, più colpevoli, non sue. Queste le premesse; questa la situazione negli alti gradi del Comando e nella truppa, alla fine dell’agosto 1917, al momento dell’undicesima battaglia dell’Isonzo altrimenti detta battaglia della Bainsizza. Una battaglia inutile: …senza posizioni decisive da conquistare, dietro una linea di colline ce n’era un’altra, tutto si riduceva a infliggere grandi perdite agli austriaci contenendo le proprie. Per questo era utile realizzare una sorpresa tattica attaccando dove gli austriaci meno se l’aspettavano, perché ciò consentiva un progresso iniziale con perdite limitate. Una sorpresa non era possibile sul Carso, quindi l’attenzione di Cadorna torna a posarsi sul terreno a nord di Gorizia, in particolare sull’altopiano della Bainsizza… (163) anche se, in sé …non costituiva un obiettivo degno di interesse, la sua conquista avrebbe permesso di proseguire l’offensiva a nord per far cadere la testa di ponte di Tolmino, oppure a sud e, oltre Gorizia… (164); permetteva inoltre di aggirare le posizioni austriache sul Carso. Come tante altre, è una battaglia di logoramento in cui trovano …conferma sia l’incapacità di Cadorna di tenere in pugno le operazioni, sia l’insufficiente organizzazione della battaglia offensiva…

    (165); e sia, infine, l’insubordinazione agli ordini del Capo, dei Generali fra i quali, quantomeno molti, se non la maggioranza, hacian lo que le daba la gana, come efficacemente si direbbe nel mondo di lingua spagnola. Nel corso della battaglia della Bainsizza, il 19 agosto all’Isonzo, ed in seguito il 4 settembre sul San Gabriele, si vedono in campo, con successo, gli Arditi (166), vincente intuizione di Capello.

    Ma intanto, mentre quella trattativa di pace promessa al suo Popolo dall’Imperatore Carlo (167), e rimasta nella Storia come l’affaire Sisto (168), vanamente si trascinava; mentre a Torino si acquietavano le acque dopo i moti popolari dell’agosto (169) nati in concomitanza con la battaglia della Bainsizza (170); mentre la Francia, tornata in trincea, piangeva le inutili vittime dell’ Offensiva Nivelle (171); mentre in Russia, la rivoluzione d’ottobre (172) cambiava la Storia del Paese ed alleggeriva la guerra agli Imperi Centrali (173); mentre, sul fronte nemico, il Generale Krafft metteva a punto un geniale piano d’attacco (174) in Italia Cadorna - …accentratore, tetragono alle critiche e ai punti di vista altrui, irremovibile nelle proprie certezze e convinto della propria infallibilità… (175), preparava la nuova offensiva. Ma conosceva i piani del nemico? come li conosceva? in che modo ne veniva a conoscenza?

    "…Cadorna era informato attraverso l’Ufficio informazione che raccoglieva le notizie dalle diverse fonti d’informazione, e l’Ufficio situazioni cui spettava di vagliarle; in questo modo ciò che era il compito più elevato del generalissimo, la parte divina della guerra, per dirla con Napoleone, della guerra che è sempre sostanzialmente arte e quindi intuito, gli veniva tolto e burocratizzato negli uffici. La guerra, ha scritto Clausewitz, è il regno dell’incertezza e del pericolo, e si svolge tra le incognite e il rischio, e in essa si rivelano veramente le qualità del capo: divinare le intenzioni del nemico, far fronte alle situazioni improvvise e imprevedute. E non basta la logica e il calcolo, perché la guerra, per dirla sempre col Clausewitz, è solcata in ogni senso da motivi d’indole morale che sfuggono a qualsiasi calcolo matematico. Ora dunque, o il capo si affidava ai referti dell’Ufficio situazioni, o […] si abbandonava alla propria logica, o, e, al proprio presunto intuito […] Di fatto Cadorna non controllava affatto tale ufficio, e solo finiva coll’interpretazione dei dati, secondo la sua opinione personale: Così era avvenuto

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