Sei sulla pagina 1di 9

Infelice storia del marchio

Tra
l’avere e
l’essere
Tra L’avere e l’essere
Infelice storia del marchio.

L’accesso alle “cose del mondo”1, cosi


come la nostra stessa presenza tra di esse,
implica un’incessante attività di rimando tra
ciò che gestalticamente percepiamo ed il loro
intimo significato. Tipo di attività, quella della
significazione2, che ricade nei territori dove
la semiotica affonda le sue radici, ma che,
nonostante la vasta letteratura di riferimento,
non può non farci riflettere sull’aspetto più
“popolare” della faccenda: il contenuto magico-
simbolico delle “cose del mondo”. Non è
un caso infatti che nel passato, all’attività
dell’artigiano e dell’artista e per estensione
a quella del designer oggi (nell’accezione
Munariana!), venissero attribuiti poteri
miracolosi, legati proprio a quella capacità
di effettuare una continua mediazione tra gli
elementisimbolici, il conscio e l’inconscio,
il visibile e l’invisibile.Carl Gustav Jung parla
di questa necessità tutta umana di procedere
per costruzione di elementi simbolici,
proprio perché numerosi sono i concetti che
“oltrepassano l’orizzonte della comprensione
umana”3 , concetti indefinibili. Pare che i sogni
rappresentino il terreno fertile dove andare
a ricercare i risultati di questa propensione
tutta umana alla creazione di simboli, (a patto
di intendere i sogni come degli archivi di
frammenti percettivi non consci della realtà). Ma
cos’è un simbolo4? La semiotica riserverebbe
il termine simbolo a tutte quelle manifestazioni
che non esauriscono il loro senso in un
abbinamento codificato tra un significante e
un significato (come avviene per i segni), ma
che piuttosto rimandano ad una “nebulosa di
contenuto”5 (Umberto Eco), che in una qualche
maniera inesauribile e sempre disponibile
a ulteriori saturazioni6. Potenzialmente il
cosmo intero è un simbolo, ma molto più
semplicemente simboli possono essere oggetti
naturali (piante, animali, fuoco, acqua...),
oggetti artificiali (casa, aerei, navi...) figure
geometriche, la lingua parlata, la scrittura, le
immagini, tutte cose che attraverso un uso
comune o intenzionale denotano concetti o
meglio nebulose di concetti.
Un’importante caratteristica dei simboli è quella
di non perdere l’efficacia simbolica i
n funzione del livello di rappresentazione.
I simboli conservano la propria validità sia se
rappresentati (o realizzati) in maniera figurativa
(pensiamo alle immagini o alle illustrazioni)
sia se graficamente e materialmente ridotti
al loro scheletro strutturale7. Se però dalla
“nebuolosa di concetti”, estraiamo delle entità
che presentano un alto livello di codifica ed un
basso livello di entropia concettuale, possiamo
iniziare a parlare di segni7.
I segni sono entità che esistono sotto forma di
abbinamento codificato tra un significante e un
significato, dove il primo sta per forma visiva
ed espressiva, ed il secondo per contenuto.
Alcuni segni, furono adoperati sin dalle loro
origini per individuare la proprietà di oggetti,
animali, ahimè persone.
Tutto ebbe inizio con la marchiatura del
bestiame e si affermo successivamente con
l’accesso al libero mercato delle merci di
scambio. Fu allora che alcuni di questi segni-
simboli si trasformarono in marchi.
La funzione principale del marchio almeno
all’epoca delle Esposizioni Universali8, era
quella di permettere agli operatori (produttori,
consumatori, etc...) una rapida ed efficace
differenziazione dei prodotti immessi
nel mercato, che già da allora iniziavano
ad accusare gli effetti collaterali delle
operazioni industriali di standardizzazione e
di globalizzazione. L’attività di marchiatura dei
prodotti, manifestava in maniera tangibile quello
che molto semplicemente era il concetto di
proprietà (appartenenza).
Con la normalizzazione del mercato, il marchio
da semplice elemento atto a contraddistinguere
la proprietà e l’origine dei prodotti, si trasformò
in un sintetico estratto visivo-concettuale
dei valori dell’azienda.
Gli oggetti ormai sempre più indifferenziati
iniziarono ad essere caricati, da parte delle
aziende prima e dei consumatori poi, di valori
intangibili e paradossalmente il marchio attorno
agli anni ’50 ne divenne definitivamente un
estratto tangibile.
A mio avviso la questione si risolve tutta
lì, nel cambiamento del paradigma di
rappresentazione dei valori. Era quella (e lo
è stata fino ad almeno i primi anni novanta)
quella che Zygmut Bauman definisce “società
dei corpi solidi”9. La società solida, nonostante
le distopie Orweliane10 e del modello del
Panopticon11Bentham/Focault
o ancor più della rassicurante dicotomia
proposta da Erich Fromm12 “Avere o Essere”,
era basata sul reciproco scambio di valori, sulla
costruzione di legami.
Questi, obbedendo alle leggi naturali chimico-
fisiche permisero agli atomi strutturali
della sociètà (gli individui) di cristallizarsi
secondo alcune strutture in maniera solo
apparentemente stabile e definitiva.
I legami da costruire e mantener solidi nel
tempo erano di diversa natura e possiamo tra
tuttti annoverare la famiglia, gli amici, il lavoro,
la comunità, la politica, lo spazio!

Spostando l’ambito d’analisi alla disciplina


grafica stricto sensu, possiamo ricordare
come gli anni ‘50 erano gli anni in cui all’interno
di alcuni studi grafici americani13 si iniziava
a parlare per la prima volta in maniera
organizzata delle questioni oggi ampiamente
discusse e diffuse della corporate identity
o immagine coordinata.
Concetti come durabilità, efficacia, stabilità,
facilità d’uso e ancora un ragionato controllo
degli oramai noti punti di contatto aziendali14
(henrion-Wally Ollins) erano i capisaldi su
cui costruire un buon progetto di immagine
coordinata.
Il marchio era il risultato di questa visione
olistica del progetto (e della vita) e doveva
perfettamente rispondere al compito preposto
con il suo farsi segno, la sua sinteticità,
economia ed ecologia visiva.
La società solida venne da lì a poco rinominata
nella società dei consumi15 e questo avvenne
con la stessa facilità e velocità con cui si può
rinominare una cartella del proprio sistema
operativo. Tra tutte le funzioni del marchio
sopracitate, una divenne irreversibilmente la più
importante: far vendere i prodotti, associare
i valori aziendali a stili di vita preconfezionati,
mero incremento del consumo di specifici beni.
Tuttavia nonostante le sollecitazioni strutturali
la società solida o meglio la neo società
dei consumi continuava a reggere. Questa
transitoria stabilità, che può dirsi essere durata
quasi cinquant’anni ha permesso ad alcuni
teorici e cito per tutti Giovanni Anceschi16 di
teorizzare attorno le modalità di approccio
progettuale adoperate nei diversi casi di
corporate identity che si svilupparono.
Per questa ragione è possibile seguendo le
indicazioni di Anceschi, collocare virtualmente
i diversi esempi reali e concreti di corporate
lungo un asse immaginario ai cui estremi sono
posti, due diversi poli di attrazione. Attorno
al primo polo, denominato anche polo soft17,
è possibile collocare tutti quei casi dove la
centralità del progetto è affidata al marchio
e alla figura del progettista o dei progettisti
coordinatori delle attività aziendali.
Il polo opposto, il polo hard18 è invece
caratterizzato da tutti quei casi, dove la
centralità del progetto è affidata ad uno
strumento di controllo quale
il manual19. Il progetto complessivo è previsto
e codificato all’interno del manual in ogni
dettaglio e in maniera quasi maniacale. Ma
quando la società solida inizio a fondere e solo
apparentemente per fornire del nuovo spazio
necessario alla costruzione di una società
ancora più solida, la prima cosa ad essere
spazzata via furono proprio i legami,
“i controllori” sparirono, la società si trasformo
in un’insieme di macro-molecola prive di legami
stabili proprio come la struttura dei fluidi.
La società si trasformò in una serie di individui
atomizzati che ricercano continuamente
soluzioni collettive a problemi individuali.
I legami sono considerati all’interno della
società liquida20, quella in cui oggi viviamo,
come un fardello di cui disfarsi.
Tutto deve assumere connotazioni di natura
volatile, flessibile, ed infine è necessario
liberarsi definitivamente delle catene dello
spazio. Nella modernità liquida quella che è
stata l’ultima funzione preposta del marchio:
“l’obiettivo vendite” è scomparsa.
La società dei consumi è implosa
su se stessa, si è trasformata nella “Società
del consumo dei consumi”. Il nuovo sistema
regolatore non è più basato sul desiderio
(oggetto di culto dei behavioristi21) ma bensì
sul capriccio, che proprio quanto tale non è
gestibile, indirizzabile e controllabile.
Il nuovo obiettivo comunitario non è più il
consumo dei prodotti, ma il consumo22.
Non importa cosa come e quando consumare
l’importante è consumare. E se l’obiettivo
comune è il consumo indifferenziato, il
marchio canonico, cosi come l’abbiamo
sempre conosciuto, in una qualche maniera
continuerebbe a tracciare differenze.
Per questa ragione il marchio vive a mio avviso
quest’ultima trasformazione che lo vede
rinascere in qualcosa di nuovo, cangiante,
fluido, effimero,
un contenitore da riempire e svuotare
incessantemente.
I nuovi marchi “tridimensionali” (l’ultima
frontiera) sono contenitori vuoti, sono puri
significanti, che mediano le relazioni umane non
più utilizzando gli oggetti, ma direttamente se
stessi, il marchio tridimensionale è feticcio di se
stesso.
Oltre agli aspetti socio-semiotici della questione,
un’altra causa di questa repentina e crescente
opera di tridimensionalizzazione dei marchi può
essere sicuramente ricercata nello sviluppo
tecnologico dei mezzi di stampa e desktop
publishing.
Stiamo vivendo in pieno gli sviluppi della
stampa digitale, della recente fusione Adobe-
Macromedia, della comparsa dei motori di
renderizzazione volumentri (DMM22), ed è
facile constatare che come il più insignificante
apparecchio elettronico possiede almeno un
monitor lcd a 65.000 colori.
Può avere ancora senso parlare di
riproducibilità del marchio23?
I marchi tridimensionali sino ad oggi realizzati,
possono grossomodo distribuirsi all’interno di
due categorie eidetiche-grafiche relativamente
omogee. Nella prima possiamo includere tutti i
marchi che vengono rappresentati con effetti di
renderizzazione di tipo metallico, nella seconda
quelli che vengono rappresentati con effetti
di tipo plastico. Nonostante questa banale e
probabilmente inutile (ai fini della trattazione)
classificazione è facile constatare come in
entrambi i casi abbondino riflessi, ombre,
gradienti, effetti prospettici iperealistici. La
percezione complessiva di questi nuovi artefatti,
tende contemporaneamente all’uniformita e
all’uniformazione, l’impressione è di trovarsi di
fronte le varianti cromatiche di un’unico e solo
marchio.Le applicazioni multimediali (tv, web,
game,wap...) prevedono rotazioni, bagliori,
luccichii e la famosa “zuppa digitale” (Polano)
ha dato vita ad una indiscriminata fusione tra
le applicazioni digitali e cartacee o per dirla
come piace tanto ai pubblicitari on line e below
the line! Siamo arrivati al rimescolamento24
dei diversi ambiti della comunicazione visiva
(pubblicità, grafica, information design) e
non solo, siamo al rimescolamento delle
competenze professionali, ormai si banchetta
tutti insieme, siamo alle coppie di fatto ma
come dire votiamo ancora contro.
È dunque ipotizzabile la fine del marchio cosi
come lo abbiamo sempre conosciuto?
Ed ancora i grafici e i professionisti della
comunicazione dovranno reagire o accodarsi
a questo fenomeno di estetizzazione e di
svuotamento pneumatico concettuale.
È teorizzabile che il segno sia rientrato nella
nebulosa, che il marchio sia ritornato ad essere
simbolo, bloccato in un limbo tra “l’avere e
l’essere”.
Forse l’ambito verso cui gli addetti della
comunicazione visiva dovranno orientare i
propri sforzi, le proprie riflessioni non è più
quello che oggi conosciamo, siamo oltre i sogni
di Carson25 di
The End of Print, forse sono cambiate le quinte
del teatro ma gli attori continuano recitare
le vecchie parti.
Bigliografia essenziale

Adrian Frutiger, Segni e simboli,


Stampa alternativa, Roma, 1998

Bruno Munari, Artista e designer,


Editori Laterza, Roma1971

Bruno Munari, Design e comunicazione visiva,


Editori Laterza, Roma1972

Carl Gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli,

Daniele Baroni, Il manuale del design grafico,


Longanesi & C., Milano 2003

Daniele Baroni, Maurizio Vitta, Storia del design grafico, Longanesi & C., Milano

Eric Fromm, Avere o Essere,


Arnoldo Mondadori Editote, Milano, 1989

F.H.K. Henrion, Alan Parkin, Design coordination and corporate image, Studio
Vista-Reinhold Publishing Corporation, Londra/NewYork 1967

Francesco E. Guida, Comunicazione coordinata per i beni culturali: 4 progetti


italiani,
Valentino Editor, Casamicciola Terme, 2003

George Orwell, 1984,


Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1989

Giampaolo Fabris, La pubblicità teoria e prassi,


Franco Angeli, Milano 1994

Giancarlo Iliprandi, Giorgio Lorenzi, Jacopo Pavesi, Dal Marchio alla brand image,
Lupetti, Milano 2005

Gianfranco Marrone, Corpi Sociali,


Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2001

Gianfranco Marrone, La società degli oggetti, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino


2001

Giovanni Anceschi, Monogrammi e figure, La casa Usher, Firenze 1988

Mario Piazza, Progettare il marchio, identità del Gai, Gai edizioni,Torino, 2001

Maurice Merlau Ponty, L’occhio e lo spirito,

Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano 2004

Sergio Polano, Pierpaolo Vetta, Abecedario, Electa, Milano 2002

Vanni Codeluppi, Lo spettacolo della merce, Bompiani, Milano 2000

Zygmut Bauman, Modernità Liquida, Editori Laterza, Roma, 2002

Zygmut Bauman, La società sotto assedio, Editori Laterza, Roma, 2005

Potrebbero piacerti anche