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IL RAPPORTO UOMO-BOSCO

NELLA STORIA
di Donato Monaco *

La cura dei boschi ha contraddistinto i The conservation of woods has distin-


popoli con civiltà avanzata; la distruzio- guished those nations with a high grade of
ne delle selve ha, di converso, caratterizza- civilisation, while the destruction of the
to periodi di decadenza. Si può quindi forests has characterised ages of decadence.
tracciare una storia dei popoli proprio We can trace the history of nations just by
seguendo le tappe della selvicoltura. following the stages of their silvyculture. This
Questo excursus comincia con l’antica excursus starts with old Palestine where the
Palestina, che proibiva il taglio degli albe- cutting of trees was prohibited even in the
ri perfino nei territori nemici; ricorda la territories of the enemy. It reminds of the
pena di morte in India per chi violava i application of death penalty in India for
boschi sacri e la concezione religiosa della those who violated the sacred woods and of
coltura dei boschi presso Egizi, Fenici, the religiousness linked to the culture of the
Persiani; arriva poi, passando per woods with the Egyptians, Phoenicians and
Aristotele, Plinio, Ravenna e gli Ordini Persians. Through Aristotle, Pliny, Raven-
religiosi, alla Serenissima repubblica di na and the religious orders, it extends to the
Venezia e alla selvicoltura moderna, i cui Republic of Venice and modern sylviculture,
primi riferimenti risalgono in Francia, al the first examples of which go back to France
1669 con l’Ordinanza di Colbert. in 1669 with the regulations by Colbert.

I
I rapporto uomo-bosco ha sempre costituito un elemento
importante e talvolta caratterizzante nella storia dell’uomo.
L’uomo arriva sulla terra ricoperta di boschi e si nutre - conce-
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zione biblica della creazione - di frutti silvestri e di fauna selvatica.


L’interesse dell’uomo e delle tribù per l’ambiente è forte ed essen-
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* Vice Questore Aggiunto Forestale

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Il rapporto uomo-bosco nella storia

ziale più per istinto che per cultura: è un legame di sopravvivenza e via
via un fattore dell’evoluzione della specie. Per l’uomo societario, inve-
ce, l’interesse diventa man mano economico, etico-religioso, estetico,
igienico-ambientale, ecologico. Così la storia e lo sviluppo di ogni
popolo cominciano ad essere scanditi da intensi sfruttamenti di boschi,
alternati a rigorose regole di divieto di taglio a scopo riparatorio.
In altre parole, l’interesse della società per i boschi non sempre si è
manifestato con l’apprezzamento di queste risorse naturali, valorizzan-
done il complesso delle funzioni o ricercando forme di gestione valide
ad assicurarne la conservazione e lo sviluppo.
Talvolta l’errato senso della civiltà e del progresso ha portato l’uo-
mo ad uno sfruttamento eccessivo dei boschi e quindi ad un loro
depauperamento irreversibile, che si è intensificato quando l’uomo ha
voluto dominare e vincere la natura, ignorandone però le leggi che la
regolano; si è verificato quando l’incremento demografico ha determi-
nato il disboscamento per conquistare campi da coltivare e quando
l’uomo ha sottovalutato i valori della natura ed è andato alla conquista
di altri valori.
La storia dei popoli e della società evidenzia che l’amore e la cura dei
boschi hanno contraddistinto i popoli con civiltà avanzata, ad elevato
contenuto etico-religioso, mentre, viceversa, la distruzione delle selve o
il loro abbandono all’incuria hanno caratterizzato periodi di decadenza
morale ed istituzionale dei popoli, o periodi di disordine e di guerra.
In un certo senso, la storia della selvicoltura segue la storia dei popo-
li. Così, nell’antica Palestina fu promulgata la legge riportata dal
Deuteronomio (libro costituito quasi interamente dai discorsi di Mosè, il
quale espone i principi generali della vita religiosa e sociale del popolo
ebraico e delle leggi speciali che dovranno regolare la nuova società
dopo l’insediamento in Palestina), che proibiva il taglio degli alberi e dei
boschi anche nei territori nemici, salvo casi eccezionali di situazioni di
assedio.
Nell’India antica vigeva la pena di morte a carico di chi violava i
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boschi sacri. Alla base di questa legislazione vi era una concezione


mistica delle foreste, per cui il bosco era considerato un luogo sacro,
degno di rispetto e venerazione da parte dell’uomo.

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Si narra di un sacerdote della Scizia che rimproverò ad Alessandro


Magno le distruzioni di boschi che perpetrava nei suoi itinerari di con-
quiste, contestandogli la gravità dei misfatti con queste parole: «Tu che
vuoi distruggere proprio le selve, non sai che l’albero che puoi sradica-
re nel tempo di un’ora ha bisogno di secoli per crescere?».
Anche presso gli Egizi, i Fenici ed i Persiani la coltura dei boschi
aveva carattere sacro. La concezione religiosa delle foreste comportava
una gestione essenzialmente protettiva e conservativa; comunque, non
mancano nelle civiltà di questi popoli antichi esempi di vere e proprie
prescrizioni colturali per salvaguardare l’interesse economico o anche
estetico dei boschi.
I Persiani studiarono regole per il trattamento dei boschi ornamen-
tali che diedero origine ad un vera arte della coltivazione degli alberi,
come è documentato dalla costituzione dei famosi parchi e giardini
della Persia chiamati “paradisi”.
Nell’Arabia vi erano boschi e boscaglie di specie della famiglia delle
Bursaceae che venivano sottoposte ad un trattamento colturale e di resi-
nazione per la raccolta della mirra (Commiphora schimpesi) e soprattutto
dell’incenso (Boscellia cartesi) che veniva molto utilizzato nella liturgia
giudaica ed in quella pagana, per far cosa gradita alla divinità o per
allontanare i demoni o comunque purificare il luogo dell’azione sacra.
Presso questi popoli vi era un interesse per l’allevamento del
Filugello quercino (baco da seta) e furono perciò studiate regole per il
trattamento per i boschi cedui di Quercus castaneifolia.
Nella civiltà dell’antica Grecia la selvicoltura ebbe una significativa
rilevanza; la maggior parte dei boschi erano considerati sacri, apparte-
nevano alla Polis ed erano gestiti da sacerdoti con criteri protezionisti-
ci e conservativi; solo in minima parte erano privati e potevano essere
amministrati con criteri economici ed utilitaristici.
Per i boschi sacri i sacerdoti presiedevano a piccoli tagli, a potature
di rami e alla raccolta delle fronde, che venivano consumati per sacrifi-
ci e pratiche religiose. La vendita di tale materiale di risulta, fatta a
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determinate tariffe, garantiva un reddito alla classe sacerdotale ed alla


Polis.
Si legge in Aristotele che la Grecia traeva dalle foreste, sia pubbliche

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che private, uno dei maggiori sostegni alla sua economia e perciò si
aveva allora in gran pregio “l’arte di ben governarle”.
Si svilupparono studi e ricerche per migliorare e perfezionare la sel-
vicoltura e si diede alle discipline e materie, in cui articolarono la scien-
za forestale, una specifica nomenclatura, come ci indica Polluce e come
si è potuto ricavare da chiare allusione di Aristotele.
L’alsocomia o agricoltura forestale o selvicoltura si scomponeva in
tre classi:
- Ilotomia (tagliamento) riguardava il complesso delle nozioni e delle
applicazioni pratiche da adottare nel taglio dei boschi, al fine di otte-
nere i prodotti desiderati e di “ringiovanire i boschi”;
- Ilagogia (sboscamento), l’insieme delle nozioni teoriche e pratiche
relative all’arte di raccogliere e trasportare il legname per vie terre-
stri o fluviali fino ai luoghi di destinazione;
- Silurgia (tecnologia forestale), l’arte cioè di preparare i prodotti dei
boschi ed in particolare il legname, per tutti gli usi ed in conformità
alle richieste degli utenti.
I Greci, che sono stati i primi ad impostare ed a sviluppare in modo
scientifico e sistematico la scienza forestale, purtroppo sono stati anche
veri distruttori di boschi durante le azioni di guerra, perché il taglio
degli alberi (dendromein) rientrava nella strategia bellica da loro adottata.
Con i Romani, che ereditarono dai Greci tanta parte della loro civil-
tà ed anche il culto degli alberi e dei boschi, la selvicoltura ebbe un’ul-
teriore evoluzione.
Essi mantennero sempre una classificazione in boschi sacri (luci)
dedicati a divinità silvane ed in boschi profani, ma questi ultimi costi-
tuivano la maggior parte ed erano distinti in silvae ceduae (cedui) ed in sil-
vae altae (fustaie).
In particolare, l’accresciuto interesse per i boschi indusse i Romani
a migliorare la vivaistica, la tecnica dell’impianto in rapporto alla scelta
della specie ed alla sua adattabilità al terreno, le modalità di trattamen-
to dei boschi al fine di garantirne la rinnovazione naturale, la propaga-
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zione.
Gli studiosi e scrittori georgici, da Columella a Virgilio, Plinio,
Terenzio Varrone, Orazio e Tacito, hanno elevato la selvicoltura a un

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tale livello di perfezione ed hanno esaltato con tanta efficacia il valore


degli alberi e della natura che oggi per noi sarebbe già una meritoria
impresa prenderne atto ed attuare il risultato delle loro ricerche.
Del resto, molte regole dell’epoca romana vengono adottate ancora:
il consiglio di scegliere il terreno del vivaio con le stesse caratteristiche
pedologiche del terreno delle zone da rimboschire, ci è stato dato da
Plinio; la regola di raccogliere semi in località (ecotipi) simili a quelle in
cui vengono messi a dimora per vegetare, ci viene riferita da Plutarco;
quella di scegliere il seme che abbia un ottimo grado di purezza e genui-
nità è indicata da Varrone.
Virgilio fa presente che la coltura degli alberi richiede la massima
preveggenza, data la lentezza dell’accrescimento arboreo (Ge, II, 58)
«un albero a stento offre l’ombra ai tardi nepoti».
Nell’epoca romana (Varrone), si arrivò all’acquisizione di alcune
modalità nella propagazione per talea, per propaggine e per innesto, nel
trattamento dei boschi col taglio saltuario, col quale si provvedeva a
diradare il bosco ed a potare le piante, con un turno di 5 - 13 anni.
I Romani introdussero nuove specie come il cipresso proveniente
dall’Oriente, sulla base di chiare conoscenze sulle possibilità di acclima-
tazione delle specie.
Il trend della selvicoltura seguì le sorti della società e delle istituzio-
ni. Con la decadenza dell’impero si ebbe anche l’abbandono e poi lo
scempio dei boschi.
Nel lunghissimo periodo di transizione che abbraccia la decadenza e
il crollo dell’impero e l’instaurarsi del sistema feudale, tutti i boschi
subirono un processo di abbandono.
Nel Medioevo si combinarono azioni negative e qualche azione
positiva: tra le prime vi fu la concessione dei diritti di legnatico e di
pascolo nei boschi dei feudatari e fra le seconde la promulgazione di
Editti di bandita, che imponevano di “foris stare” (da cui forse il nome
di foreste) dai boschi in cui non si poteva esercitare la caccia da parte
di altri, perché “riserva” dei signori.
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Emerge ancora dalla storia che i periodi di decadenza istituzionale,


civile e culturale sono stati spesso accompagnati da distruzioni di
boschi o quanto meno dall’abbandono delle pratiche colturali.

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Il rapporto uomo-bosco nella storia

L’interesse a favore dei boschi rinasce là dove rifiorisce l’interesse


per la cultura e per l’arte: Ravenna divenne nel V-VII secolo il nuovo
centro di sviluppo e nel Ravennate si ebbero sintomi di ripresa per la
silvicoltura.
Comunque, nel Medioevo, la coltura dei boschi subì un calo di inte-
resse sul piano della buona gestione, in quanto la concessione dei dirit-
ti di legnatico e di pascolo determinò il degrado della risorsa fino a
comprometterne la rinnovabilità.
Il processo di sfruttamento continuò fino ai primi tempi dell’Evo
Moderno, con la fine dei feudalesimo e con l’incrementarsi degli scam-
bi fra i popoli.
Il sorgere ed il rapido diffondersi degli Ordini religiosi portò al
risveglio della cultura ed allo sviluppo della filosofia cristiana medioe-
vale, ridestando interesse e amore per la natura e per i boschi.
I Benedettini impiantarono la pineta di Ravenna, i Camaldolesi ed i
Vallombrosani ricostituirono ed ampliarono le foreste di Camaldoli e di
Vallombrosa, i Francescani riaffermarono con spirito nuovo i valori
etico-religiosi della natura e dei boschi.
Il periodo dei Comuni, delle Signorie e dei Principati è stato con-
traddistinto da interessi multipli e differenziati per i boschi, ma vi fu un
comune denominatore nella tendenza ad arginare le utilizzazioni abu-
sive ed inconsulte dei boschi, perché essi rappresentavano per i nuovi
organismi autonomi un notevole valore economico e sociale.
Col XVI secolo, inizia una fase repressiva degli abusi con la promul-
gazione di leggi e regolamenti in materia di boschi, in tutti gli Stati
d’Italia.
Nella Repubblica di Venezia questa tendenza ebbe inizio ancor
prima con una serie di leggi che prevedevano non solo gravi sanzioni
per i tagli abusivi, ma anche l’istituzione del catasto dei boschi ed in
particolare di quelli di rovere, nonché l’assestamento dei boschi sia per
migliorarne qualitativamente e quantitativamente la produzione legno-
sa sia per conoscere e programmare la produzione.
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Inizialmente fu il Consiglio dei Dieci a curarsi dei boschi. Quando


la Repubblica, «con l’ingrandimento del suo dominio, si aggregò pro-
vince nuove ridondanti di selve, e cioè: i boschi lungo l’Adige, i boschi

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dell’Istria e della Dalmazia; quelli della Marca Trevisana e del


Padovano; poi nel 1420 i querceti dei Friuli, i boschi della Carnia e del
Bellunese (in gran parte abetine e faggete); nel 1482 le foltissime bosca-
glie del Polesine», il Consiglio dei Dieci mantenne per sé solo la
Direzione generale ed affidò la gestione e l’amministrazione dell’im-
menso e differenziato patrimonio forestale a diversi organismi, tra cui
i rettori delle città (podestà) per quanto riguarda i boschi comunali che
erano la gran parte.
L’organizzazione forestale era per sommi capi costituita da una dire-
zione tecnica centrale e da un’articolazione orizzontale di organismi di
amministrazione locali decentrati e differenziati a seconda che trattava-
si di boschi pubblici, comunali e privati.
Il problema dell’approvvigionamento del legname e della legna assil-
lò, comunque, sempre il Gran Consiglio, perché le esigenze di legname
della Repubblica e dei cittadini aumentavano continuamente, per cui
nel 1464 fu istituito il magistrato dei Provveditori “sopra le legne ed i
boschi” che doveva controllare e coordinare gli organismi della gestio-
ne, quali i rettori delle città, e collaborare col governo della Repubblica
per una legislazione forestale, capace di riordinare, regolarizzare e svi-
luppare il settore forestale.
La prima legge forestale fu quella del 15 luglio 1470 che stabiliva la
“riserva dei roveri”, ovunque cresciuti, per gli usi dell’Arsenale e del
Magistrato delle Acque.
L’Arsenale di Venezia era il più grande d’Europa ed aveva bisogno
di ingente quantitativo di legname di rovere per le costruzioni navali:
vantava all’epoca il varo dei più moderni vascelli, anche a sole vele, di
stazza di quattromila tonnellate ed armati con cento cannoni.
Altra legge importante fu quella del 1475 che dichiarò inalienabili ed
indivisibili tutti i boschi ed i beni comunali.
Dopo l’infausta guerra con i Turchi terminata con la pace del 1501
e l’incendio dell’Arsenale scoppiato nel 1504, la Repubblica aveva gran-
dissima necessità di legname per restaurare la flotta; conseguentemen-
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te, il Consiglio dei Dieci decise di riprendere in mano completamente


le redini dell’amministrazione forestale, anche perché il magistrato dei
Provveditori non era riuscito a mettere fine al malgoverno dei Rettori.

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Il Consiglio sviluppò una intensa politica forestale che portò al rias-


setto del patrimonio forestale, al suo ampliamento con opere di rimbo-
schimento (legge 16 gennaio 1530) e ad un insieme organico ed effica-
ce di regole che fermarono gli abusi.
L’Amministrazione delle foreste raggiunse così una funzionalità
eccellente ed una capacità di controllo e di gestione tali che, si dice, non
era più possibile frodare alla Repubblica neppure una pianta e che in
caso di bisogno si era in condizioni di trovare immediatamente le loca-
lità da dove ricavare la quantità di legname necessaria a soddisfare il
fabbisogno della Repubblica.
Con la legge del 1561 (dieci anni prima della famosa battaglia di
Lepanto) fu perfezionato il catasto di boschi di rovere, furono revisio-
nati i piani di assestamento e furono assestati altri boschi importanti.
Dice Adolfo di Berenger, nella sua Archeologia forestale, a proposito
del catasto dei boschi di “roveri” pubblici, comunali e privati, che, gra-
zie ad esso, «Il Consiglio dei Dieci, stando al tavolo, poteva ben deter-
minare persino il sito da cui poter ritirare qualsiasi numero di fusti e
tolpi (pali) occorrenti al servigio della Repubblica pelle costruzioni
navali ed idrauliche, poteva stabilire quanti in complesso ne poteva uti-
lizzare senza pregiudizio della produttività d’ogni bosco; calcolarne
l’incremento futuro; e dirigerne sopra certa base il governo».
Durante il millennio della sua esistenza, la Repubblica di Venezia è
stata certamente la nazione che più di ogni altra ha sviluppato la selvi-
coltura, perché l’espansione e la difesa del suo dominio dipendevano
soprattutto dalla potenza navale e la costruzione della flotta richiedeva
materia prima legno.
Pertanto, la Repubblica diede origine a molti e diversi mezzi di natu-
ra tecnica, organizzativa e giuridica per incrementare la produzione dei
boschi per i bisogni pubblici ed anche se non tutti e non sempre riusci-
rono efficacemente a tale scopo, essi testimoniarono il primato che la
Repubblica ebbe fra gli Stati suoi contemporanei in materia di selvicol-
tura.
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Fra i più significativi provvedimenti ed innovazioni si devono indi-


care: i catasti, le leggi, le riserve, le “cariche forestali”, la razionale appli-
cazione del taglio saltuario nei boschi misti di conifere.

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Il rapporto uomo-bosco nella storia

Dell’importanza del catasto si è detto, mettendo in evidenza che


esso, formato negli anni 1537 e 1542, raggiunse successivamente un
tale perfezionamento da offrire la statistica esatta di tutti i boschi sotto
il dominio della Repubblica, distinti in boschi pubblici, boschi comuna-
li e privati, nonché di tutte le querce sparse nelle campagne.
Il catasto perfezionato, che interessava prima solo tutti i boschi di
querce, fu esteso anche ai boschi di resinose e di faggio ed era sottopo-
sto a verifica ed aggiornamento ogni 20 anni.
Il catasto della Repubblica di Venezia può considerarsi il modello
base dell’attuale catasto geometrico-particellare, perché non aveva
carattere semplicemente descrittivo, ma consentiva anche la “tassazio-
ne per piede d’albero”.
I successivi catasti dopo il crollo della Repubblica e quelli realizzati
negli altri Stati presentavano solo la descrizione dell’estensione e con-
figurazione dei boschi.
Per quanto riguarda la produzione legislativa forestale della
Repubblica, si può senz’altro dire che essa è stata copiosa ed interes-
sante, perché contiene un insieme di norme pratiche, di regolamenta-
zioni ponderate, di massime utili e di indirizzi di politica forestale.
Le leggi venete forestali non costituirono un sistema legislativo
organico, cioè non formarono un corpo di diritto, perché rispondeva-
no spesso alla logica di provvedimenti da adottare per situazioni locali
e contingenti, suggeriti dai bisogni che emergevano in tempi e luoghi
diversi: esse, comunque, testimoniano sulla sapienza del governo della
Repubblica e dell’interesse che la nazione veneziana ha avuto per dieci
secoli per i boschi.
L’istituzione di un vitale sistema delle “Riserve” non solo risponde-
va all’esigenza di una migliore coltura e di un più regolare governo
boschivo, ma nasceva dalla necessità di assicurare il soddisfacimento
dei bisogni pubblici che per la Repubblica consistevano prioritariamen-
te nel rifornimento di materia prima per la costruzione delle flotte e per
la realizzazione delle opere idrauliche.
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L’istituto della “Riserva” fu applicato a moltissimi boschi di alto


fusto comunali, per escluderli “dall’uso comunitario” - dei cittadini
della comunità municipale - e riservarli esclusivamente ai bisogni dello

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Stato. L’amministrazione delle “Riserve”, cioè dei boschi riservati, fu


assunta dallo Stato, che destinò a ciascun bosco un apposito ammini-
stratore che prese il nome di capitano forestale, che veniva eletto dal
popolo e restava in carica tutta la vita.
L’Amministratore provvedeva a gestire il bosco, faceva praticare i
tagli e spedire il legname scelto per i diversi usi all’Arsenale e
all’Autorità che doveva provvedere alle opere idrauliche, sempre per
soddisfare gli interessi ed i bisogni pubblici.
La Repubblica di Venezia morì il 16 maggio 1797, quando i Francesi
occuparono Venezia, ma il potere del Consiglio dei Dieci in campo
forestale era già decaduto verso la fine del XVII secolo.
Nel XVIII secolo si registrò un interesse allargato al popolo per le
scienze forestali, facendo restare alta la considerazione per la politica
forestale svolta dal governo della Repubblica; nel Veneto troviamo i
primi germi dell’assestamento e dell’organizzazione amministrativa
delle aziende boschive demaniali. Le altre regioni d’Italia hanno
anch’esse espresso interesse per i boschi.
In Toscana, Cosimo I dei Medici emanò leggi a carattere repressivo:
fu proibito qualsiasi taglio di boschi, per i contravventori erano previ-
ste pene severissime e persino la pena di morte per i casi di particolare
gravità. Analogamente, nello Stato Pontificio fu promulgata una legisla-
zione improntata al principio di stroncare ogni abuso a danno dei
boschi e con l’editto del Nembrini si consentiva, previa autorizzazione,
la sola raccolta della legna secca caduta naturalmente e in misura limi-
tata a quanta ne poteva portare un uomo sulla propria schiena.
Nonostante la severità delle leggi forestali in Toscana e nello Stato
Pontificio, gli abusi di taglio furono innumerevoli: secondo Dal Noce
dal 1400 al 1848 la superficie forestale della Toscana si ridusse di ben
284mila ettari.
Ciò è spiegabile perché l’iniziativa pubblica era rivolta alla tutela del
patrimonio forestale, ma l’iniziativa privata dei centri più attivi sul
piano commerciale, edilizio, manufattiero ed agricolo procedeva ai
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disboscamenti per esigenze di spazio e di sviluppo delle loro attività.


In Toscana, in Liguria, in Umbria, il paesaggio rurale della collina ed
in parte della montagna si diffuse a danno del bosco. Si affievolì l’inte-

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Il rapporto uomo-bosco nella storia

resse per i boschi e si accrebbe quello per le attività agricole.


Un ruolo importante nell’incremento del disboscamento hanno
avuto le quotizzazioni di antichi demani comunali, che divennero quin-
di di proprietà privata: il fenomeno assunse maggiore rilevanza nel
Mezzogiorno.
In quasi tutti gli Stati italiani si è tentato di porre rimedio con leggi
volte ad ostacolare il depauperamento del patrimonio forestale, ma le
crescenti esigenze di terreno agrario di una popolazione in forte
aumento e la convenienza della coltura agraria dei grandi proprietari
rendevano pressoché inefficace ogni strumento legislativo.
Il processo di estensione dei dissodamenti delle terre boscate della
collina e della montagna si sviluppò in tutto il XVI secolo e proseguì
nel XVII.
Scrisse il De Philippis: «Se non liete furono le vicende della selvicol-
tura nel campo pratico e legislativo, ancor meno lo furono in quello
scientifico», durante il Medioevo e fino al XVIII secolo.
Dopo i grandi latini Varrone, Livio, Lucrezio, Columella, Virgilio,
Seneca, Plinio, Polibio, Tacito, che hanno studiato e scritto di cose agra-
rie e di boschi, l’umanità ha registrato un vuoto quasi assoluto in mate-
ria, in cui si scorge solo la figura di Piero De Crescenzi (1230-1308) che
scrisse l’Opus ruralium commodorum dove sono riassunte tutte le cono-
scenze agrarie e forestali di Latini, Greci, Fenici ed Arabi.
In epoca rinascimentale poco importanti, anche se più originali, vi
furono alcuni scritti dovuti a Leonardo da Vinci, Giovanni della Porta,
Giovan Battista Soderini, ecc.
La selvicoltura moderna e l’assestamento forestale, intesi la prima
come arte della coltivazione dei boschi e il secondo come mezzo di
conservazione del patrimonio forestale, nacquero in Francia nel XVIII
secolo, dove la storica Ordinanza del Colbert (1669) affermò il princi-
pio dell’alto interesse pubblico connesso alla conservazione delle fore-
ste e stabilì i criteri ed i limiti da rispettare nelle utilizzazioni boschive,
per tutelare e garantire la conservazione del bosco.
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Si fece in Francia in modo più organico quello che era stato fatto
nella Repubblica di Venezia.
Dalla fine del sec. XVIII e per tutto il sec. XIX, la selvicoltura e l’as-

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sestamento si svilupparono secondo due diverse direttrici che portaro-


no all’indirizzo forestale tedesco ed all’indirizzo forestale francese.
Non preme in questa sede illustrare i contenuti tecnici e culturali dei
due indirizzi, né il livello scientifico delle due scuole, né la notevole dif-
ferenziazione dei loro principi informatori, anche se si rende opportu-
no farne cenno; invece si vuole evidenziare che in questo periodo sono
riferiti gli studi e gli scritti di selvicoltura e non sono state poche le figu-
re che hanno dominato il campo forestale soprattutto in Germania ed
in Francia.
La scienza forestale nei paesi tedeschi è nata e si è sviluppata con la
fondazione della Scuola Forestale di Tharandt (1813) per opera di
Heinrich von Cotta. L’indirizzo dato dalla Scuola alla selvicoltura tede-
sca è stato di tipo prettamente economico, per cui la scelta delle specie
da impiantare, il trattamento colturale dei boschi ed il tipo di gestione
da fare dovevano rispondere al principio economico di ottenere il mas-
simo reddito dalle utilizzazioni boschive.
Tale indirizzo era coerente con le esigenze di sviluppo della società
tedesca, che era tra le più avanzate in Europa nel processo di industria-
lizzazione. Le varie industrie richiedevano soprattutto legname da
opera e legno per cellulosa.
Conseguentemente si studiò, si programmò e si attuò un vasto inter-
vento di conversione dei cedui in alto fusto, di trasformazione di
boschi di latifoglie in boschi di resinose ed in particolare in boschi puri
di abete rosso.
Il cambiamento delle specie portò di conseguenza all’abbandono del
trattamento a taglio saltuario ed all’adozione del taglio raso con rinno-
vazione posticipata.
Quindi il bosco misto di latifoglie, che costituiva una risorsa natural-
mente rinnovabile fu trasformato in bosco monospecifico di abete
rosso, commercialmente più pregiato, ma biologicamente più povero,
che aveva bisogno di essere rinnovato artificialmente.
L’area dei cedui fu compressa e quella della fustaia quasi sempre
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monospecifica si espanse, perché capace di produrre legname da opera.


Questo tipo di indirizzo selvicolturale si diffuse anche in Austria, in
Boemia ed in altri Paesi.

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Il rapporto uomo-bosco nella storia

In Germania, fra il 1891 ed il 1903, i boschi puri di abete rosso, deri-


vanti dalla sostituzione di boschi di latifoglie e da impianti ex novo, copri-
rono ben 900mila ettari, che, quindi, si aggiunsero a quelli esistenti.
Questa monocoltura forestale su vasta scala, in contrasto con le
buone leggi ecologiche, non ha tardato a manifestare la sua fragilità
biologica e molti boschi di abete rosso sono stati distrutti da parassiti e
da altre avversità meteoriche. In pochi anni in Europa sono andati
distrutti oltre 150mila ettari di abete rosso.
Il progetto selvicolturale tedesco è uno dei primi che si sia svolto su
programmi tecnocratici finalizzati ad obiettivi economici, attuati con la
tecnologia emergente e con la logica del profitto e della specializzazio-
ne, senza curarsi dell’impatto tecnologico-industriale sulla biosfera:
pertanto non poteva non far registrare a lungo andare il danno ambien-
tale ed il fallimento, che oggi si constata in questi boschi distrutti dai
parassiti e dall’inquinamento atmosferico.
Di indirizzo completamente diverso fu la scienza forestale francese
che sviluppò una selvicoltura su basi naturalistiche, anche se in un
periodo iniziale la Scuola di Nancy, fondata da Lorenz nel 1824, fu
influenzata dalla Scuola tedesca.
Infatti anche in Francia furono realizzati vastissimi rimboschimenti
artificiali come quelli di pino marittimo nelle Lande di Guascogna per
circa un milione di ettari, che subirono successivamente notevoli
distruzioni per incendi ed attacchi parassitari.
In Italia si registra un ritardo nel campo forestale; la moderna scien-
za forestale comincia a prendere piede dopo la costituzione dell’istitu-
to forestale di Vallombrosa (1869), grazie alle opere di Di Berenger e
successivamente del Perona, del Piccoli e più di recente del Pavari, del
De Philippis, del Patrone, del Susmel.
L’indirizzo seguito dalla Scuola italiana è stato fino al 1910-15 quel-
lo tracciato dalle due scuole già citate con risultati non molto positivi,
in considerazione della varietà e complessità del nostro patrimonio
forestale che non poteva essere curato e gestito con metodologie stu-
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diate per altri boschi molto diversi sotto l’aspetto fisico, ecologico ed
economico da quelli del nostro Paese.
Successivamente l’indirizzo è diventato eclettico, nel senso che nes-

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Il rapporto uomo-bosco nella storia

sun metodo di assestamento, di governo e di trattamento colturale


veniva generalizzato, ma la scelta era sempre il risultato di uno studio
approfondito dell’ambiente fisico ed economico relativo al bosco con-
siderato.
Oggi la nostra selvicoltura, ma anche quella di quasi tutto il mondo,
ha un indirizzo ecologico-naturalistico che si può definire sintetica-
mente con la massima di Parade: «aiutare la natura, affrettare la sua
opera». L’intervento del selvicoltore non deve forzare la natura, se
vuole sempre ricavare dagli alberi utilità per i più rilevanti bisogni della
vita dell’uomo.
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