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di Dario de Judicibus
Potrebbe iniziare così il tormentone 2009 dell’hit parade delle tecnologie più
desiderate del momento nel mondo imprenditoriale. Mi riferisco al web 2.0,
questo misterioso oggetto del desiderio di cui tutti parlano ma dal quale pochi,
al momento, hanno saputo trarre beneficio. Il problema è che prima di riuscire
a utilizzare in modo profittevole qualcosa, bisognerebbe conoscere bene “che
cosa” quel qualcosa possa realmente dare e perché ma, soprattutto, di cosa
stiamo realmente parlando.
In genere, la prima cosa che viene in mente quando si parla di web 2.0 sono i
blog. In seconda battuta Wikipedia e, a seguire, i social network più gettonati
del momento: MySpace, Facebook, LinkedIn, per menzionarne alcuni. Altri poi
determinano se un sito è web 2.0 dalla grafica che utilizza: se vengono
utilizzati effetti speciali con trasparenze, riflessi e amenità varie, se sono
utilizzati colori sgargianti e caratteri dallo stile moderno e futuristico, allora
siamo sicuramente in un sito web 2.0. Chi invece ha approfondito più l’aspetto
tecnologico, vi parlerà di mashup, di AJAX, di REST, di RSS Feed e altre mille
sigle e termini dal caratteristico sapore informatico, di quelli che piacciono
tanto agli addetti ai lavori.
Sotto un certo punto di vista è tutto vero, ma se vi aspettate che tutto ciò vi
permetta di capire come utilizzare il web 2.0 per fare business, allora ho paura
che avrete una cocente delusione. Il punto è che il web 2.0 non è una
tecnologia, anche se poi di fatto si basa su determinate tecnologie facilitanti e
soprattutto su un modo specifico di usarle. Dietro ad esse tuttavia, gli
ingredienti sono sempre gli stessi: un po’ di spazio disco (tanto, se i contenuti
sono anche di natura multimediale), un po’ di capacità di elaborazione (tanta,
se volete gestire molti servizi contemporaneamente), un bel cocktail di
software capace di interoperare utilizzando standard aperti e protocolli più o
meno consolidati. Nulla di fantascientifico, insomma.
Per quanto possa sembrare assurdo, la chiave di volta del web era
semplicemente la possibilità di collegare fra loro due contenuti in modo
monodirezionale, ovvero senza bisogno che gli autori di entrambi i testi si
mettessero d’accordo. I collegamenti ipertestuali, infatti, erano già conosciuti
da tempo ma erano bidirezionali e richiedevano di operare su entrambi i
contenuti che si volevano collegare fra loro. Inoltre i precursori del web erano
proprietari e quindi soggetti a restrizioni in termini di diritti e licenze. Il web
invece fu reso disponibile a chiunque senza limitazioni nel 1993 dal CERN e
questo fu sicuramente uno dei fattori chiave del suo successo. Integrando
Internet con un semplice meccanismo che permettesse a chiunque di collegarsi
a un altro contenuto dal proprio e aggiungendo in seguito un’interfaccia per
poter navigare facilmente da un contenuto all’altro, ovvero un browser, Tim
diede inizio alla una nuova era dell’informazione globale.
Protagonismo e reputazione
Abbiamo detto che il web 2.0 è un fenomeno sociale, un fenomeno che spinge
persone che non si conoscono fisicamente a interagire fra loro creando di fatto,
in modo naturale e inconsapevole quanto cosciente e volontario, contenuti.
Sono contenuti gli articoli di Wikipedia in cui individui di tutto il mondo
collaborano in un sistema debolmente moderato e ai limiti di una sorta di
anarchia sostenibile per produrre materiale che ha una qualità impensabile per
il modo in cui viene prodotto, dimostrando così il vero potere dell’intelligenza
collettiva; sono contenuti le sequele infinite di messaggi e repliche, battute e
controbattute semiserie che vengono prodotte ogni giorno in reti sociali come
Facebook o nelle miriadi di sistemi di messaggistica esistenti in rete. Alcuni
sono effimeri, altri lasciano una traccia più duratura in Rete, altri ancora si
propagano come veri e propri tsunami attraverso un processo di replicazione
che spesso degenera in un meccanismo autoreferenziale ai limiti della psicosi.
E naturalmente sono contenuti i curricula di LinkedIn, i video di YouTube, le
recensioni di Shelfari. Si potrebbe andare avanti così per ore, ma non avrebbe
senso, anche perché questo non è un articolo di sociologia, ma inteso a dare
un’indicazione chiara alle imprese su come trarre vantaggio dal web 2.0. Ma
quella è la conclusione, l’obiettivo. Per raggiungere un obiettivo bisogna
conoscere i fondamentali: non si manda una freccia al centro di un bersaglio se
non si sa usare un arco.
Cosa c’è quindi alle spalle del web 2.0? Quali sono i fattori di stimolo che
portano le persone ad utilizzare la Rete in questo modo? Diciamo che è una
coincidenza, ma quel “2” dopo la parola web contiene in sé la risposta,
sebbene nasca semplicemente dalla nomenclatura che in informatica identifica
i rilasci delle varie applicazioni con una sequenza numerica.
Protagonismo: questo sono io, questo è quello che so fare, che faccio,
addirittura che sto facendo. E siamo arrivati a Facebook. Poi l’estetica, la
grafica accattivante, la geolocalizzazione tramite mappe e cartine di ogni tipo,
ma questa è la crosta. Importante, non sia mai, ma solo la crosta. Sotto la
crosta il cuore è quello caldo di chi ha una passione, un interesse, uno scopo.
Sia esso trovare amici o qualcuno con cui passare la serata e magari
qualcos’altro, sia quello di lavorare insieme per un obiettivo comune, fare
volontariato, migliorare il mondo. È web 2.0 GalaxyZoo, dove persone che di
astronomia sanno, alcuni molto poco, altri decisamente tanto pur essendo per
lo più dilettanti, lavorano insieme per classificare le galassie “catturate” dal
progetto Sloan Digital Sky Survey. Nessuna grafica accattivante in quel sito,
nessun gadget speciale o colori esplosivi, sebbene le foto da sole fanno
decisamente sognare mondi lontani e saghe alla Star Trek; un sito decisamente
old-style nell’aspetto, eppure uno dei migliori esempi, assieme a Wikipedia, del
valore che si può creare in Rete facendo leva sul desiderio di collaborare, di
fare qualcosa insieme.
Mentre leggete queste righe, provate a pensare già come tutti questi concetti
vi possano suonare familiari all’interno di un’azienda. Teneteli presenti:
metteteli da parte. Ci serviranno.
Inoltre realizzare il web 2.0 all’interno dell’azienda è una cosa, realizzarlo fra
l’azienda e il mondo esterno un’altra. Nel primo caso sono comunque in un
ambiente controllato nel quale sto creando coscientemente delle crepe mirate
ad ottenere comunque un vantaggio in termini di capitalizzazione
dell’intelligenza collettiva, nel secondo mi espongo verso un mondo che non
conosco e che non controllo e quindi devo farlo a partire da altri presupposti, il
più importante dei quali è forse quello che afferma che in ogni caso «c’è più
competenza fuori dalla mia azienda che al mio interno», anche se sono leader
di mercato.
E questa è la parte facile della partita. Il gioco diventa serio quando ci si porrà il
problema di usare il web 2.0 verso l’esterno, con i propri clienti, i fornitori, la
società in genere, e quindi, visto dal punto di vista aziendale, il mercato. Allora
sarà necessario costruire prima un business case molto robusto, capire bene i
meccanismi sociali che poi sono quelli che in fondo già conosciamo, se
conosciamo gli esseri umani, e solo dopo porsi il problema di come realizzarlo.
In fondo nelle aziende questo modo di ragionare esiste già: chi fa marketing,
chi si occupa di pubblicità, non ragiona solo in termini di qualità del prodotto
promozionale, sia esso una brochure o uno spot televisivo; ragiona in termini di
psicologia delle masse, di leve psicologiche, di fattori sociali. Ebbene, chi si
occuperà di web 2.0 dovrà fare lo stesso.
Come posso sostenere la mia immagine attraverso le reti sociali? Quali rischi
corro e qual è il modo corretto di fare blogging in rete per presentare i miei
prodotti? Come posso sfruttare i contenuti prodotti dai miei stessi clienti per
migliorare la mia offerta? Come posso legare le carte fedeltà al ranking che
hanno i clienti fidelizzati all’interno della comunità virtuale? Queste sono solo
alcune delle domande alle quali bisogna essere in grado di rispondere se si
vuole utilizzare seriamente questi strumenti. Quali servizi offrire e quali
tecnologie utilizzare, è di conseguenza. Come realizzare il sito, poi, come
vestirlo, diventa un di cui.