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/QUATTORDICI
POESIE/
A mia sorella
Filamentosi adii da corpo a corpi sparsi e soli in quell'attimo di buio che ci investe e ci cancella, noi gi mezzo lisi sbavati fogli, se di vento un filo adagia presagi di odorose e morte foglie sul nostro pallore che tutto avvampa. L'eco di ogni tua parola come forbice recide di palpebre congiunte come mani in preghiera i punti di sutura. E s'alza polverosa la bruma. Ricade.
II
Si aprono i cuori arresi come ance a un solo fiato greve. Qui contemplando il vuoto, di te dense reminiscenze da ciascuno si dipartono se dette, se ascoltate lo riempiono. Verr il tempo di intingere la penna nell'incavo degli occhi. Ma non ora. Non ora che ad un palmo da essi non si vedon che parvenze. L'iride galleggia a pena: bruna certezza su conche di vetro fuso.
III
Fosse almeno silenzio del giorno offeso, del giorno umiliato che in albe non si schiude e qui si chiude in prolungati crepuscoli di ottobre e stelle morte da pi lustri. Silenzio oltremondano o sovrumane grida. Non il bruso di caduca parola che forma assume e arresa si deforma in prima vocale allungata che manco al palato combacia o alla lingua: s'eleva Sisifo tracima, inane crolla in un lungo sospiro.
IV
Un mio ritratto nervo indurisce il mio ritratto in fieri quando l'attesa labirintica disbroglia aggrovigliate matasse di volti contriti e lunghi fili ne dipana tra curve di madidi muri, tra ponti levatoi a picco oscillanti sul vuoto. Noi materia liquida che brezza poca notturna increspa, noi sangue caldo e nervi qui rappresi, dentro fiacchi barlumi serbiamo l'eco vicaria di un grido.
Fra silenzi di seta, che se un palpito scuotesse uno solo deserti fitti e mari, dei loro discontinui fiotti sentirei il velluto del rimbombo, caldo al tatto, all'udito intatto suono in dolce morsa avvolger me e quel lembo di terra in cui nascesti.
VI
Diafani meriggi soccombendo a schiere spingono gi dai parapetti notti svelte comete senza premeditati fini . Tra stasi di linee di fuga freddate in un gesto, qui nulla pesa pi del grigio nulla che a dozzine schioccando ore liete in un lampo ci inghiotte.
VII
Prime crepe del giorno e l'ocra di soppiatto dall'autobus che fila inconsistenti trame di palpiti e di sguardi, si scopre generoso diario a cielo aperto su cui finestre e balconi ora deserti aspergono di ruggine i loro segreti.
VIII
Noi non ci realizziamo mai. Siamo due abissi: un pozzo che fissa il Cielo. Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine.
Lascia le quattro care mura barcollanti al buio che fuori scolora i prismi sghembi dell'artificio. Lascia il solito conclave della materia abiotica dattorno balbettare a stento il giorno solo, il giorno in cui siamo. Lascia che impeti di pioggia impudica senza tregua si attardino invano a colmare l'orbo pozzo abissale, l'orante orbo corpo.
IX
L'abbondanza di umori dissacrando le fresche catacombe sotto la frusta epidermide si inoltra pei cuniculi pi bui, laddove in solitario giubilo si auscultano i presagi di grida dalle ampie fontanelle.
Greve l'ora che in cicli di nascite e di morti si avvita. Rinasce la pena rimuore e terrena e furtiva, indolenti apre gli occhi suoi d'albume scarlatto e in mia vece magro percorre il dorso del paesaggio. Quando di tra inafferrabili schiume tra cieche bave li chiude d'un tratto nulla posso potei mai? .
XI
Cumuli di carbone sopra l'ardesia immacolata di un cielo largo di sale d'argento. Qui liquefatta preme l'imbevibile aria il corpo nostro, latente. E risa dense d'ombra in preda ad un bagliore cupo son tacita, dismesica armonia.
XII
Per quanto io agiti le braccia ed alzi la mia flebile voce che si scorda e sforzi compia per me immani, a pena smuovo quest'aria impia e viscosa che aperta da un lauto saluto si rinserra inalterabile sostanza senza capo n coda. Non sprigiona alcuno effetto papillon (potesse almeno) la larva intabarrata, e non precorre e non causa.
XIII
Da tergo hanno sottratto al bargiglio la voce e stinto le chiome dell'alba. Han limato le asperit dattorno, ben colmato le conche ed asciugato i pi reconditi palati le pi dolci pupille, lasciando freschi semi di ginestra tra le orme ingravidati e le formiche.
XIV
Lieve incurvandosi dalla radura la pi pudica frattura di luce si abbandona alla gloria fugace di un quinto capriccio sulle esili dita dei pini.
Fausto Urru
24 ottobre 2011 15 febbraio 2012