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PRATICHE

Lavoro con lo scotch


di Marco Bruschi

Quel giorno presi la strada perché ne sentivo il bisogno. C’era il sole e


non faceva freddo. Mi incamminai alla cieca perché non sapevo ancora
niente del centro e dei suoi negozi. Ero appena arrivato in quella città
inglese, ero solo all’inizio del mio Erasmus. Poco male, anzi, meglio così.
Non avevo voglia di pensare, e così andai e basta. Me la presi con calma,
perché tanto nessuno mi veniva dietro. Era tutto lì, davanti ai miei occhi,
dovevo solo prenderlo. Quelle casette fatte di mattoncini rossi, con quelle
finestre grandi e luminose, mi davano energia. Sorridevo sprezzante
a tutte le insegne che vedevo e mi sentivo come un bimbo che deve solo
scegliere la caramella dal sacchetto di carta. Mi fermai davanti a una
vetrina e sorrisi al mio riflesso. Avevo gli occhi pieni di speranza.

Marco Bruschi (Carrara,


1986) è laureato in
How are you?
Informatica Umanistica. Ormai era gennaio, e mi sentivo ambizioso. Era l’anno nuovo e fra i propositi c’era
Collabora con riviste quello di trovare un lavoro migliore, e anche di mangiare di più e meglio, perché
letterarie e culturali. quando ero tornato a casa per Natale la mamma mi aveva trovato dimagrito. Appena
Recensisce libri, spettacoli
teatrali, film. Scrive storie e fui di nuovo in Inghilterra spesi cinquanta quid in generi alimentari e mi comprai una
racconti. wok. Ero soddisfatto. Quando lo dissi a Charlène lei sorrise.
È un fervido lettore, spesso Durante il primo semestre avevo distribuito curriculum, avevo cercato su internet,
si innamora delle parole ed è
costantemente alla ricerca di chiesto in giro, lanciato dadi e monete con la speranza che il caso mi desse una mano.
qualcosa. Non era andata come speravo. Le mie aspettative si erano infrante sul muro della crisi
bruschima@gmail.com che aveva colpito il mondo intero e a quanto pareva era arrivata anche su quest’isola.
Ero riuscito a trovare solo un lavoro attaccato con lo scotch. Si trattava di un servizio
di catering dove la paga era da schifo.
Ogni volta che il tipo mi chiamava per dirmi se ero libero il giorno seguente mi chie-
deva: “How are you Marco?”, “come stai?” – ma suonava tanto come un ‘non me ne
frega niente’. La cosa era reciproca. Dopo tutto era un rapporto di lavoro, e mi sarebbe
anche potuto andar bene, se non fosse che le cose erano terribilmente poco serie. Non
c’erano orari regolari e più volte ero stato chiamato alle nove di mattina per lavorare
due ore dopo, magari in un posto chissà dove, che mi toccava prendere uno o due au-
tobus per arrivarci, fare un turno di quattro ore e tornare a casa. A volte era più lungo
il viaggio del turno. Ma queste cose si fanno se ti servono un po’ di sterline per la spesa
o per uscire la sera. E se non sei riuscito a trovare di meglio.
A parte la paga e gli orari da schifo, e che non ti davano nemmeno una pagnotta dopo
il servizio, quel lavoro non era stato tanto male, perché mi aveva fatto vedere posti che
altrimenti non avrei mai potuto scoprire. Una volta sono capitato a fare servizio in
questo centro pieno di creativi che ideavano vestiti per una marca inglese abbastanza
famosa. L’edificio era splendido, c’era anche un ruscelletto che
passava nel mezzo e sicuramente contribuiva a stimolare tutte
quelle menti floride. Io avrei voluto sbirciare in giro ma le ve-
trate con le nuove collezioni erano tutte coperte da pesanti drap-
pi, perché non si sa mai, con in giro tutte queste spie aziendali.
Comunque sia la mia curiosità l’ebbe vinta: finsi di perdermi
mentre cercavo il bagno ed entrai in due o tre di quegli stanzoni
misteriosi. Erano pieni di vestiti. Chissà cosa mi ero aspettato.
Una volta lavorammo in un castello. Ricordo solo che faceva un
freddo cane e che dovemmo trasportare dei tavoloni su e giù per
quelle cavolo di scale gelate. Non ne potevo più. Dopo un po’

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iniziai a capire che quan- ster United e io mi vedevo già a servire in una sala tutta
do il manager alzava la elegante e magari avrei potuto anche incontrare da vicino
testa in cerca di qualcuno qualche giocatore e chissà, farmi fare un autografo, o far-
era arrivato il momen- mi regalare il pallone del match, o farmi regalare il pal-
to giusto di nascondersi lone del match autografato da tutti quanti! Non accadde
dietro un angolo o avvol- nulla di tutto questo. Purtroppo.
gersi in una tenda. Nel Già solo arrivare sul posto fu un incubo, perché il tizio
salone principale, dove che guidava la nostra macchina venne a prenderci in
tutti quanti gli invitati ritardo e durante il tragitto sbagliò strada tre volte. Ci
erano impegnati a ride- mettemmo due ore e mezzo. Allo stadio c’era il manager
re e ingozzarsi, c’era una meravigliosa esposizione di ad aspettarci sulla soglia di una porta laterale. Appena
armature e armi. Spade, spadine e spadoni. All’inizio entrai mi chiese come stavo e mi gettò in mano una fel-
ero rimasto a bocca aperta. A metà serata avevo voglia pa nera con su scritto Coca-Cola. Sono tutt’ora convinto
di impugnarne una e staccare di netto la testa che mi sorrise malignamente mentre mi rispondeva che
a chiunque mi avesse spedito per l’ennesima quella sera avrei lavorato nel baracchino degli snack. Il
volta nella cella frigorifera. lavoro non era nemmeno difficile, dovevi solo cercare di
Lì non si parlava, sembrava non ci fossero rap- capire cosa ti chiedevano i clienti e se per caso
porti umani. Quando i piatti erano pronti li riuscivi ad afferrarlo gli porgevi la loro bibita o
prendevi e li portavi ai tavoli; ed era sempre schiacciavi il pulsante dell’acqua calda e il caffè
meglio non contraddire mai, in nessun possi- solubile faceva il resto. Il problema vero era il
bile modo, lo chef o i suoi aiutanti. A un certo freddo. Le strade, fuori, erano coperte di neve,
punto si creava una specie di cameratismo as- e queste postazioni erano esposte a correnti
sieme agli altri camerieri, perché la gente che d’aria assassine. Quelli che lavoravano con me
mangiava seduta al tavolo diventava un nemi- lo sapevano già, è per quello che indossavano
co da affrontare. Se si aggiunge che spesso quel due paia di calzini e tre o quattro felpe. Io mi
nemico era formato da grassi inglesi ubriachi aspettavo di servire in una sala lussuosa e am-
che cantavano cori, la situazione forse è spie- piamente riscaldata, e avevo addosso solo una
gata più chiaramente. Alla fine del turno ci camicia e quella dannata felpa nera. Con su
guardavamo come soldati che hanno porta- scritto Coca-Cola. A nessuno era passato per
to a termine una missione importante, e come i la testa di informarmi prima.
soldati avevamo negli occhi la stanchezza e una punta di Dopo un po’ il gelo ebbe il sopravvento e smisi di pen-
tristezza. sare di abbracciare la vetrina riscaldata dei sandwich.
Entrai in una specie di stato ipotermico e cominciai a
Il matrimonio indiano sfornare caffè, cioccolate calde e tè quasi a caso. Quando
Il turno che ricordo con più piacere è quello del matri- il match iniziò mi risvegliai dall’intorpidimento perché
monio indiano. Per arrivare a quel posto dovetti cammi- la gente smise di arrivare: erano tutti sulle tribune. Non
nare un’ora seguendo le indicazioni di Google Maps che c’era praticamente niente da fare fino all’intervallo, così
mi ero appuntato su un improbabile post-it, sbagliare mi presi la mia rivincita e i giocatori li andai a vedere lo
strada almeno due volte e chiedere informazioni a un stesso. Con aria non curante mi affacciavo dalle scali-
cocchiere con tanto di cilindro che guidava una carrozza nate, e quando i due steward mi buttavano un occhio,
per i turisti. Chiesi al cocchiere perché ero sicuro che le un po’ indecisi sul da farsi, io spazzolavo la mia scritta
strade le conosceva tutte, e infatti. Prima di arrivare non Coca-Cola, il mio pass per girare tutto lo stadio. Alla fine
sapevo mica che sarebbe stato un matrimonio, né che era mi vidi mezza partita e rischiai un assideramento. Mi
indiano. Era pieno di colori. Le sedie avevano tutte un cacciarono cinque volte, ma tanto c’era sempre una nuo-
drappo bianco e un fiocco rosa, c’era una statua di ghiac- va scalinata sorvegliata da persone diverse che mi con-
cio, un cigno, con intorno un tavolo pieno di composizio- cedeva altri cinque, dieci minuti. Telefonai anche a un
ni floreali e di frutta esotica. E poi le donne. Indossavano mio amico per fargli sentire il tifo. Quando staccammo e
tutte una sari, quell’indumento lungo lungo che si av- incontrai di nuovo il mio manager che mi chiese “Come
volge intorno alla vita, copre una delle spalle e ha sempre va?”, avrei voluto rispondergli: “Tua sorella”.
colori sgargianti. La vista della sala metteva allegria; non
fosse stato per il lavoro sarebbe stato perfetto. A pensarci Con lo scotch
bene anche le sedie facevano Ma tutto ciò era passato. Il cambiamento era nell’aria;
un bel po’ schifo. nel bene e nel male. Anche nel male, perché le per-
La volta che mi fece dire sone che non avevano richiesto di restare un anno
“Basta” fu quando andam- cominciavano a doversene andare. Quasi tutti aveva-
mo allo stadio. La partita era no fatto domanda per il prolungamento, ma alla fine
Aston Villa contro Manche- solo in pochi lo avevano ottenuto. Una di queste era

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vano da schifo. Mi insegnarono che ai clienti si dove-
va chiedere se per caso gradissero qualche contorno
con la pasta, che so io, magari dell’insalata, o meglio
ancora delle patatine fritte. Come no. Poi c’era la soli-
ta storia del sorridere continuamente che ti rifilavano
dappertutto e io avevo in mente un posto ben preciso
dove infilarla a mia volta. Intanto avevo la netta per-
cezione che gli occhi della grassona-acida-repressa mi
bucassero da parte a parte colmi di odio. Cominciai a
girarmi di scatto per coglierla sul fatto, ma lei non mi
Charlène, e io ero felice. Charlène era una mia vici- guardava per niente. Era furba.
na di casa, era francese, piccolina piccolina ma con gli Poi c’era la storia del computer. Ogni cameriere aveva
occhi grandi, e quando rideva sembrava che qualcuno la sua sezione con i suoi tavoli e possedeva una tes-
aprisse improvvisamente una finestra che dava su una sera magnetica. Quando qualcuno ordinava qualcosa
giornata piena di sole. Eravamo diventati buoni amici. lui doveva correre a questo schermo, toccarlo un po’
Bevevamo insieme il tè, andavamo a certi buffet al ri- qua e un po’ là ed ecco che gli ordini arrivavano diret-
storante cinese da scorticarti lo stomaco, qualche volta tamente dove sarebbero dovuti arrivare. La comanda
ci fumavamo una sigaretta, ma soprattutto ridevamo del cibo in cucina e quella dei drink al bar. Era molto
tanto. Fui il primo a cui disse che finalmente aveva efficiente, ma mi faceva rimpiangere il vecchio, e in
saputo di aver ottenuto il prolungamento per tutto qualche modo romantico, foglietto scritto a mano, con
l’anno e lei fu la prima a cui dissi che la mia ricerca tutte le abbreviazioni del caso per prendere gli ordini
aveva dato dei frutti: avevo un turno di prova in un più velocemente.
ristorante italiano. Dopo un po’ mi dissero che potevo tornare a casa.
Mentre mi cambiavo non sapevo bene cosa sarebbe
Spaghetti e insalata successo. Ero convinto che sarei stato licenziato in
Lì il curriculum l’avevo portato per caso. Ci lavorava tronco. Invece quando uscii la manager mi fece entra-
una mia amica e parlando era saltato fuori che cerca- re nel suo ufficio e mi chiese se potevo lavora-
vano qualcuno, così avevo deciso di provare. Avevo re la settimana successiva in questo, questo
parlato con uno dei due manager, che era stato e questo giorno. Dissi di sì. Mi ero sbagliato
molto gentile e mi aveva detto lì su due piedi sul suo conto, in realtà era molto simpatica;
di tornare due giorni dopo per una prova. sarà stata solo una giornata pesante. Portai a
Quando lo dissi a Charlène lei sorrise. casa grembiule e cappello perché da quel mo-
Due giorni dopo arrivai là con quindici minuti mento in poi sarebbero stati i miei personali.
di anticipo per farmi bello. Cercai con gli occhi il Mentre li piegavo accuratamente e li riponevo
manager dell’altra volta ma non lo trovai. Al suo po- nell’armadio mi sentii come se mi avessero
sto mi avvicinò una donna molto cortese e sorridente, tolto un peso dalle spalle. Avrei ottenuto il
che si rivelò essere l’altro manager, e si rivelò essere lavoro, ormai era fatta.
italiana. Il patriottismo mi gonfiò il petto. Mi die-
de da indossare un grembiule e un cappello, Il grembiule nella borsa
mi indicò la staff-room e disse: “Ti vedo fra Quella sera andammo tutti insieme in di-
cinque minuti”. Lì per lì decisi di attribuire scoteca. Bevvi un po’ troppo e ballai tantis-
il brusco tono che usò a una giornata pesante. simo, perché me lo meritavo proprio. Mentre
Ammirai allo specchio il mio completo da lavoro, mi tornavo a casa pensai che ero felice di come si stavano
misi il cappello sulla tre quarti e ammiccai al mio ri- mettendo le cose. Contai i mesi che mi restavano da
flesso. Ero bellissimo. passare in Inghilterra e pensai a tutte le cose belle che
Era un incubo. Non potevo fare un movimento qual- avrei potuto fare assieme ai miei amici grazie ai soldi
siasi senza sentire il fiato di quella acida-grassona-re- che avrei guadagnato lavorando.
pressa sul collo. Credevo che le cose stessero andando Il giorno prefissato tornai al ristorante con l’unifor-
abbastanza bene, ma evidentemente lei non era dello me e una camicia da lavoro nuova nuova nella borsa.
stesso parere. Trovava da dire sul modo in cui portavo Quando la mia meravigliosa e squisitamente simpa-
i piatti, pulivo i tavoli, disponevo i bicchieri sui vas- tica manager mi vide, fece una faccia strana. “Dave
soi. Alla fine cominciai a sbagliare le cose sul serio, non ti ha avvertito, Marco?” Dave era l’altro manager.
perché le volevo fare troppo bene. Odiavo tutti quelli “Non abbiamo bisogno di te oggi”.
che entravano e si sedevano e anche tutti quelli che si Dave non mi aveva avvertito, e quando lei aggiunse
alzavano, perché significava che dovevo correre a pu- “Mi dispiace” non mi sembrò proprio convintissima.
lire e risistemare il tavolo. Sembrava che questi non Prima di uscire le dissi: “Ci vediamo domani”, e lei
facessero altro che mangiare a tutte le ore. E mangia- inclinò la testa, quella repressa-acida-grassa testa, e

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mi disse di no, che mi avrebbe- pub; che non ci sarebbe stata molta gente, ma solo gli
ro richiamato loro, perché vedi, amici più fidati. Che le avremmo offerto da bere e lei
stiamo provando altre persone avrebbe scelto whiskey con ghiaccio; che io quella roba
e poi praticamente assumere- riuscivo a berla a stento. Che sarebbe stato triste il pen-
mo quella che va meglio. Poi mi siero delle sedie attorno a me che si svuotavano lenta-
guardò negli occhi e aggiunse: mente. Che l’avrei fatta salire con i sui piedi sopra i miei,
“Hai capito?”. Avevo capito. e l’avrei fatta ballare come si fa coi bimbi. Che poi sarem-
Mentre camminavo verso casa mo andati a casa e avremmo aspettato insieme il taxi del-
mi trovai a pensare a quanto le le cinque del mattino che l’avrebbe portata all’aeroporto.
cose qui fossero così tremen- Avrei voluto dirle che sarebbe andato tutto bene. Che
damente veloci. C’entrava solo avrebbe piovuto leggermente, ma quella non era affatto
marginalmente col discorso del una novità. Che le avrei offerto la nostra ultima sigaretta
ristorante. Era qualcosa di più e ce la saremmo fumata in silenzio. Che l’avrei aiutata a
ampio. Era come se una vita in- portare i bagagli fino alla macchina, giù nel parcheggio.
tera, un pezzo della tua vita, al- Che poi quelle stesse valigie ci avrebbero guardate piene
meno, fosse compressa nell’arco di comprensione, attraverso la portiera aperta, mentre ci
di pochi mesi. Strizzata. Cono- salutavamo. Che avrei scoperto cosa significa dire addio,
scevi persone, facevi esperienze, e mi avrebbe fatto paura.
provavi lavori occasionali, sa-
pendo che poi alla fine del semestre saresti tornato co-
munque in Italia, al mondo che avevi conosciuto fino
ad adesso. Al mondo vero. Quella spremuta di pensie-
ri mi mise addosso qualcosa di simile alla confusione,
o alla malinconia. Ero anche triste, perché sapevo che
non avrei ottenuto il posto. Poi però un pensiero de-
liziosamente maligno si insinuò nella mia testa. Già
alla porta ridacchiavo fra me, ma non fui precipitoso:
aspettai. Perché la vendetta è un piatto che va gustato
freddo. Finalmente arrivò l’ora di cena e io aprii la mia
borsa. Quella sera cucinai indossando il grembiule del
ristorante: il mio trofeo di guerra.
Che di lì a poco avrei trovato un lavoro in un ristorante
Farewell dove gli ordini si prendevano ancora sui foglietti di carta,
Quella sera c’era una festa di addio. Alcuni ragazzi italia- dove c’era un clima amichevole, che ti spingeva a dare
ni avevano finito il loro Erasmus e dovevano tornarsene il meglio di te perché non eri solo un numero, o qualcu-
a casa. Non li conoscevo benissimo, ma mi dispiacque no da controllare di sbieco. Dove durante il turno potevi
comunque molto per loro. Si misero anche a piangere, e bere Coca-Cola o quello che ti pareva e non solo fottuta
io mi chiesi se l’avrei fatto anch’io, alla fine del semestre. acqua del rubinetto; dove ti offrivano la cena o il pranzo
Io non dovevo dire addii importanti per il momento e ciò alla fine di ogni servizio. Avrei voluto dirle che mi sareb-
mi faceva tirare un sospiro di sollievo. be mancata, che non sarebbe stata uno di quegli appunti
A metà della festa trovai Charlène seduta in un angolo e che cadevano dalla parete perché attaccati troppo velo-
i suoi occhi grandi mi dissero subito che c’era qualcosa cemente. Che avrei voluto farci ancora delle foto stupide
che non andava. assieme, o cucinare le crepes. Che quando ci saremmo
“Hai visto la mia mail?”. salutati io le avrei detto che non doveva versare nemme-
Non l’avevo vista. no una lacrima e lei avrebbe ribattuto che non era triste,
“Devo partire. La mia università ha cambiato idea. Se ma felice, perché aveva conosciuto persone stupende,
resto non mi riconosceranno gli esami e finirei per per- e mi avrebbe fatto gonfiare il cuore annoverandomi fra
dere l’anno”. di esse. Che quando il taxi sarebbe partito per portarla
E quando devi partire, chiesi incredulo, spiazzato. via io l’avrei guardato allontanarsi, immobile sotto una
“Dopodomani”. pioggia che improvvisamente sarebbe diventata salata.
Un pezzo di vita talmente strizzato da sembrare finto. Avrei voluto dirle che le volevo bene.
Esperienze vissute talmente di corsa da darti soltanto il Ma non mi uscì nemmeno una parola, e allora lei per
tempo di attaccarle con lo scotch sulla parete, sperando spezzare il silenzio mi chiese:
che rimangano lì, almeno per un po’, per poterle guar- “Come è andata a lavoro?”.
darle di nuovo un giorno. “Ho rubato un grembiule”.
Fra di noi scese un silenzio pieno di cose da dire. Per E l’adorai, perché nonostante tutto rise, e fece entrare
esempio che due sere dopo saremmo andati insieme al il sole.

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