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Il sole risplendeva debolmente, offuscato dalla cortina di nubi grigiazzurre che oscuravano il
giorno conducendolo dolcemente verso la sera. Da oltre il finestrino della macchina, boschi
e foreste si susseguivano incessanti, intervallati da ampie distese verdeggianti o da piccoli
gruppi di abitazioni. Sebastian osservava affascinato il paesaggio in movimento sotto i suoi
occhi, dominato dalla selvaggia bellezza della natura che lentamente si stava risvegliando
dopo il sonno dell’inverno, riprendendo possesso della terra. Anch’egli aveva bisogno di
riprendere il controllo della sua vita, allontanandosi dalla città, rumoroso e affollato
ammasso di costruzioni, per cercare rifugio dal baratro della sofferenza in cui stava
lentamente sprofondando. Era triste, infinitamente triste perché sentiva di non appartenere
all’esistenza che conduceva. Stanco del vano affaccendarsi di ogni giorno, solo tra la gente,
una folla di persone senza nome e senza volto, voleva solo andarsene, abbandonare tutto e
tutti e dimenticare quella vita che sembrava avergli voltato le spalle. Così era partito, senza
una meta precisa, senza sapere se e quando sarebbe tornato. La sola certezza che possedeva
era il desiderio di ritrovare la serenità che aveva perduto, e tornare a sorridere, in un luogo
dove poter vivere in pace.
Il sole stava ormai tramontando quando raggiunse il mare, ed il cielo era ancora coperto di
nubi, cariche di promesse di pioggia che non avrebbero tardato a mantenere. Dopo non
molto tempo, infatti, una leggera pioggia cominciò a cadere, mentre la strada che Sebastian
stava percorrendo si addentrava in un fitto bosco, facendosi meno agevole e inerpicandosi
in una serie infinita di pericolose curve sulle montagne che sembravano sorgere
direttamente dalle acque, tanto ad esse erano vicine. Gli ultimi barlumi del giorno morente
non riuscivano ad oltrepassare la folta barriera che gli alberi formavano ed egli avvertiva una
vaga inquietudine lungo quel percorso che appariva ai suoi occhi così oscuro e minaccioso,
ma, allo stesso tempo, sentiva di esserne attratto. Non sapeva dove lo avrebbe condotto e
forse proprio questo lo affascinava. Procedeva veloce, premendo sull’acceleratore, verso la
notte calata sulla foresta.

Il primo rombo di tuono lo colse di sorpresa, facendolo sobbalzare, poi altri ne seguirono,
accompagnati da lampi. Gli alberi cominciarono a diradarsi, rivelando la fine del bosco.
Sebastian si sentì sollevato quando al loro posto si aprì un’ampia distesa erbosa. Il sentiero
correva ora a pochi metri dalla scogliera a picco sul mare, sulla quale alte onde schiumose si
infrangevano in infinite gocce argentee, come cercando di raggiungere chi si trovava in
cima. Al muggito del mare rispondevano i sibili furiosi del vento, che rendevano difficoltoso

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mantenere il controllo dell’automobile. Un brivido gli corse lungo la schiena al pensiero che
la natura in collera con l’uomo si stesse scatenando in quel luogo, scagliando contro di esso
la sua forza distruttiva. Ma presto la rabbia prese il posto del timore quando si rese conto che
la strada era terminata. Imprecando si guardò intorno, per cercare un riparo dove
trascorrere la notte, dal momento che il sentiero era ormai impraticabile per via della
pioggia e non avrebbe potuto tornare indietro fino a quando la tempesta non si fosse
calmata. Ma non riuscì a vedere niente, la fitta pioggia diminuiva notevolmente la visibilità,
inoltre era buio e anche se ci fosse stata un’abitazione, sicuramente non l’avrebbe vista.
Maledicendosi per aver dato ascolto al proprio istinto che lo aveva condotto in quel luogo
sperduto, e che lo avrebbe costretto a rimanere in macchina fino al giorno seguente, tornò a
guardare di fronte a sé. In quel momento la luce di un lampo illuminò a giorno l’intero
paesaggio circostante e ciò che vide lo lasciò esterrefatto.

L’antica cattedrale era illuminata a tratti dai lampi che squarciavano il cielo nero, rivelando
l’imponenza delle mura di pietra scura terminanti in guglie decorate che parevano dita
accusatorie puntate verso l’alto. I doccioni, arcani guardiani della costruzione, creature
imprigionate nella pietra, sogghignavano sinistramente ad ogni bagliore, come attendendo
di essere risvegliati dal loro sonno secolare per spiegare le grandi ali e librarsi nella notte.
Forse, un giorno, sarebbe accaduto. Nel cimitero dietro la cattedrale, alberi nodosi e spogli
crescevano tra le lapidi, custodi immortali di quelle tombe, erano pronti a difenderle,
tendendo i rami contorti verso i sentieri che si snodavano tra di esse per afferrare incauti
visitatori.
Sebastian scese lentamente dalla macchina, incurante della pioggia e dimentico dell’ira che
lo aveva colto pochi attimi prima, deciso ad avvicinarsi alla scura meraviglia di fredda pietra
che si stagliava in lontananza contro il cielo livido. Mai in tutta la sua vita aveva potuto
godere di un simile spettacolo, terribile ed affascinante alla stesso tempo, si sentiva come se
fosse stato trasportato tra le pagine di un romanzo gotico e s’interrogava su quali misteri si
celassero nell’isolamento di quelle mura. S’incamminò, diretto alla cancellata che
circondava il terreno intorno alla cattedrale ed al cimitero, attraversando un impervio
sentiero seminascosto dal prato bagnato e fangoso. Poi iniziò a correre e quando la
raggiunse, spinse con forza il pesante cancello di ferro battuto, decorato con fregi di foggia
gotica, e si avventurò per uno stretto viottolo lastricato. Lo percorse con lentezza, insensibile
al vento e alla pioggia che aveva ormai completamente inzuppato i suoi abiti, con timore

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quasi reverenziale, in assoluta contemplazione del gigante di pietra che si ergeva cupo e
maestoso davanti ai suoi occhi. Si fermò, prima di salire la scalinata antistante alla porta
principale, e guardò verso l’alto, verso le guglie della costruzione che lo dominava con la sua
imponente mole, verso il rosone che, simile ad un occhio spalancato sulla tempesta, lo
osservava, facendolo sentire piccolo, infinitamente piccolo e fragile. Gli pareva di poter
udire distintamente il battito del cuore della cattedrale, come di un essere umano,
echeggiare nelle esplosioni dei tuoni e penetrare nel suo corpo. Salì gli scalini e quando
poggiò la mano sul legno del portale, fu scosso da un leggero tremore. Spinse la porta per
entrare e, trovandola chiusa, si appoggiò ad essa con tutto il peso del suo corpo senza però
riuscire a smuoverla. Bussò allora su uno dei battenti, nonostante la consapevolezza che
nessuno dall’altra parte sarebbe giunto ad aprirgli, non riusciva a decidersi a tornare alla
macchina, come se in quel luogo, potesse trovare ciò che cercava. Inaspettatamente udì un
rumore, provenire da oltre la porta sbarrata, come il suono di passi che si avvicinavano.
Pensò fosse solo un’allucinazione, prodotta dal suo desiderio di poter varcare quella soglia,
eppure continuava a sentirlo, regolare, cadenzato, giungere dalle profondità della cattedrale
ed avanzare verso di lui…
La pioggia seguitava a cadere dalle nubi addensatesi in quell’oscuro angolo di cielo. Simili a
lacrime grosse gocce d’acqua colavano lungo i muri e allo stesso modo scorrevano sul capo
di Sebastian, incollandogli i lunghi capelli al viso e offuscandogli la vista. Rabbrividendo si
accasciò contro la porta, aggrappandosi ad essa come fosse la sua unica salvezza e poggiò la
fronte sul suo braccio ripiegato. Tutta la tristezza di quel luogo e di quel momento si riversò
su di lui mentre un pianto silenzioso sgorgava dal suo cuore, e una calda lacrima gli rigava il
volto, unendosi a quelle versate dal cielo. Quella tristezza era la sua tristezza, la solitudine
della cattedrale era la sua, solo tra gli uomini, e quella tempesta, la furia del cielo e delle
acque, era ciò che lo scuoteva nell’animo, la sua inquietudine ed il suo tormento, ciò per cui
non gli era concessa la pace che bramava e che lo aveva spinto ad allontanarsi dal mondo in
cui viveva e a rinnegare l’illusione di brevi istanti di felicità…
Poi un rumore, breve, di un chiavistello che veniva girato, lo riscosse e Sebastian rialzò il
capo. Il pesante portale si aprì lentamente, del solo spazio necessario a permettere l’accesso.
Per qualche istante egli rimase immobile, terrorizzato ma irresistibilmente attratto da quel
varco che lo invitava ad entrare, ma poi, muovendosi con lentezza, oltrepassò la soglia.

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L’interno della cattedrale era immerso nell’oscurità, fatta eccezione per i bagliori dei lampi,
che penetravano dai vetri del rosone e delle alte finestre ad arco, e per la luce fioca di alcune
candele.
“Benvenuto.” Disse una voce femminile proveniente da un punto imprecisato di quello
spazio smisurato. Sebastian ebbe un sussulto, si guardò intorno per scoprire a chi
appartenesse, ma la sola cosa che riuscì a vedere fu una figura indistinta avvolta nell’ombra.
“Ti prego, avvicinati, e richiudi la porta.” Continuò la voce. Egli obbedì, muovendo poi
alcuni passi in direzione della donna di cui non poteva distinguere le sembianze, mentre
sentiva nel petti accelerare i battiti del cuore. Avrebbe voluto parlare, ringraziarla per averlo
fatto entrare, ma ogni parola pareva perdersi nel vuoto prima di poter essere emessa. Tacque
e continuò ad avanzare, trasportato, a ritroso attraverso il tempo della memoria, nella
desolazione di una miserevole ed effimera esistenza da cui, burattinaio di se stesso, era
fuggito invano, tra maschere e paraventi a celarne la vanità.

Il cuore e la mente dilaniati in un vorticoso crescendo di esplosioni, cadde in ginocchio. E


pianse. Era il pianto dello Spirito, mille volte ucciso dal violento e incessante fragore della
superficialità del mondo, era il lamento di chi è costretto a rinascere nella consapevolezza di
una nuova morte.
La donna lo raggiunse, si chinò, inginocchiandosi al suo fianco e gli prese le mani, tenendole
tra le proprie.
“Lascia che io mi prenda cura di te.” Poi dolcemente lo strinse tra le braccia, cullandolo e
sussurrandogli parole di conforto. Sebastian sentiva la propria sofferenza, da tempo
inseparabile compagna, farsi più lontana e il suo animo, avvolto tra le spire delle parole di
quella sconosciuta, rialzare un poco il capo dall’abisso in cui era sprofondato.

Forse anche il pallido riflesso di se stesso che egli era, nello specchio in frantumi della sua
vita, avrebbe potuto un giorno riassumere i propri contorni?

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C’era una volta, in un tempo lontano, molti e molti secoli or sono e in un luogo sperduto
nella memoria, in cui Re e Regine governavano la terra, e koboldi e fate e silfìdi popolavano
boschi, foreste e corsi d’acqua… e prodi cavalieri percorrevano quelle terre in cerca di
donzelle prigioniere di feroci draghi per trarle in salvo dalle fauci che attendevano di
divorarle; un tempo in cui le forze del soprannaturale non erano considerate semplice
superstizione, e streghe e stregoni non erano costretti a celare il loro potere…
C’era dunque una volta un giovane Principe, bello, gentile, forte, astuto e abile con la spada,
come si conviene ad ogni futuro re. Egli, nonostante fosse amato da tutti i sudditi del Regno,
sentiva nel profondo dell’animo una grande inquietudine che andava crescendo di giorno in
giorno, provandolo sia nel fisico che nello spirito. La causa del suo tormento era una
fanciulla che al calar della notte appariva nei suoi sogni invocando il suo aiuto.
…Ella pareva un angelo, incantevole e risplendente come la diafana luna che nell’oscurità
porta in dono agli uomini il suo chiarore, lacrime le rigavano le gote e un sussurro usciva
lieve dalle sue labbra come un’incessante supplica… E i suoi occhi… profondi laghi colmi di
dolore, erano gli occhi più tristi che il principe avesse mai veduto e lo attendevano,
chiamandolo affinché egli giungesse ad immergersi nei loro abissi…
Notte dopo notte, il sogno si ripeteva, identico, oscuro ed impenetrabile come la prima
volta, e l’originaria convinzione del giovane che non fosse null’altro che un parto della sua
mente, andava lentamente affievolendosi, lasciando spazio alla certezza della reale esistenza
della fanciulla, a miglia di distanza o forse in un luogo prossimo alla sua dimora. Chiudendo
gli occhi poteva vedere il suo pallido volto, provato da ignota sofferenza, con lo sguardo
talora abbassato a fissare le mani dalle lunghe dita sottili, strette convulsamente in grembo.
L’esile corpo era scosso da singhiozzi che parevano doverlo spezzare, e intorno a lei il solo
suono che il Principe ricordava era quello del pianto che, incessante come il gorgoglio di un
ruscello, risuonava nella sua memoria senza dargli pace. Sentiva che lui solo avrebbe potuto
asciugare quelle lacrime, ma in che modo giungere a lei?
Così, con la mente rivolta alla fanciulla, trascorreva il suo tempo e, immerso in questi
pensieri, si ritrovò un giorno, mentre cavalcava senza meta tra le piccole case del villaggio,
dove abitava la sua vecchia Nutrice, colei che lo aveva accudito e amato durante l’infanzia
facendogli da madre e che aveva in ogni occasione avuto per lui dolci parole di conforto.
Forse come allora lei avrebbe saputo aiutarlo! Certo che fosse stato il destino a condurlo
innanzi a quella porta, si decise a farsi avanti. Smontò da cavallo, bussò, e subito venne
accolto dallo sguardo sorpreso ed emozionato della donna che, dopo pochi attimi di
smarrimento, lo invitò ad entrare e a sedersi accanto al fuoco che ardeva nella sua modesta
dimora.
“Cara Nutrice - le disse dopo averla abbracciata, dando sfogo a tutto il dolore che ormai da
troppo tempo gli divorava l’animo - il mio cuore non riesce più a sorreggere il peso
dell'enorme sofferenza che ogni notte provo nel vedere le lacrime scorrere sul viso di quella
fanciulla mentre disperatamente invoca il mio aiuto. Ella mi attende! Odo la sua voce che
tra i singhiozzi mi chiama e sento che devo andare da lei! Il suo pianto ferisce il mio cuore
come la punta acuminata di una freccia e il desiderio di trovarla per poterla alfine liberare
dal suo incessante tormento mi consuma lentamente. So che ella vive da qualche parte, ma
dove? Parlate Nutrice, abbiate per me, ve ne prego, buoni consigli come spesso ne avete
avuti, e ve ne sarò grato sino alla fine dei miei giorni!”
La donna prestò grande attenzione alle parole del Principe e rifletté a lungo prima di dargli
una risposta. In tutta la sua lunga vita non le era mai accaduto nulla di simile, e nemmeno lo
aveva sentito raccontare da altri.
“Se tu bambino, lascia ti prego che io ti chiami così ancora una volta, come un tempo… -
sospirò carezzandogli i capelli - Se tu possiedi la certezza che la fanciulla dei tuoi sogni esista

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realmente e che ti stia aspettando, allora parti, non indugiare oltre! Segui il tuo cuore! Esso
guiderà il tuo cammino.”
Il Principe rimase colpito dalla grande saggezza della sua anziana Nutrice. “Vi ringrazio per le
vostre parole, cara Nutrice, sapevo che avreste prestato ascolto ai miei vaneggiamenti e che
avreste cercato di aiutarmi”
Dopo che ebbe parlato con la donna, il Principe si recò a Palazzo per comunicare al Re, suo
padre, e alla Regina, sua madre, la decisione che aveva preso di intraprendere un viaggio.
Raccontò loro della misteriosa fanciulla, come aveva fatto precedentemente con la Nutrice,
e disse che il suo destino era quello di partire I Sovrani a malincuore gli diedero la loro
benedizione: la Regina lo abbracciò, baciandolo su entrambe le guance, ed il Re gli consegnò
la sua spada. Dopo di che il giovane si accomiatò e si preparò a partire, ma, mentre
attraversava il cortile per oltrepassare le mura difensive, trovò lì radunati tutti gli abitanti del
Castello: servitori, stallieri, cuochi, dame con le loro ancelle, nobili e cavalieri… tutta la corte
era lì per lui, per porgergli i propri omaggi, e tra di essi scorse anche la sua Nutrice. Le si
avvicinò e smontò da cavallo per salutarla e ringraziarla nuovamente.
“Che Dio ti accompagni e ti sia guida nel tuo cammino, Principe, e che noi tutti possiamo
rivederti presto al fianco della tua amata fanciulla. - disse la donna, con il volto bagnato dalle
lacrime. - Addio, figliolo caro, e fai attenzione alle insidie che un lungo viaggio può celare.
Attenderò il tuo ritorno pregando nostro Signore affinché ti protegga e le mie preghiere ti
seguiranno ovunque.”
Il Principe le prese una mano tra le proprie e la strinse con calore, poi la portò alle labbra e
sfiorò con un bacio leggero il dorso di quella mano, segnata dallo scorrere del tempo, che
nel passato tante volte gli aveva carezzato i capelli e lo aveva consolato asciugando le
lacrime dal suo visetto di bambino. “Grazie.” Mormorò poi, lasciandola ricadere dolcemente.
Senza aggiungere altro, rimontò sul suo cavallo e lentamente si allontanò. In quel momento
la folla di persone che fino a quell’istante aveva osservato un rispettoso silenzio, proruppe in
grida di incoraggiamento: le dame agitando i loro fazzoletti candidi e gli uomini urlando
saluti e benedizioni. Accompagnato da questa manifestazione di affetto, il Principe oltrepassò
le mura che cingevano il Castello e, dirigendosi verso il confine orientale del Regno, diede
così inizio al viaggio che lo avrebbe condotto dalla donna che ancora non conosceva ma
che già infiammava il suo cuore.
Attraversò vaste pianure, guadò fiumi, cavalcò per giorni e giorni, con la sola compagnia del
suo cavallo, senza trovare traccia di ciò che lo aveva spinto ad intraprendere quella ricerca.
Ma egli non si lasciava dissuadere e proseguiva, spingendosi ancora oltre, verso oriente,
dove incontrò le foreste, oscure ed affascinanti, così diverse dai familiari e rassicuranti
paesaggi della sua terra.
Gli alberi incombevano minacciosi sul sentiero che andava percorrendo, come a volergli
sbarrare il cammino, ma il Principe non si perdeva d’animo e si faceva largo tra l’intrico
della vegetazione, a volte servendosi della propria spada per aprirsi un varco. Spronava il
suo destriero, inoltrandosi nel cuore di ogni foresta, per poi attraversarla ed incontrarne
subito dopo un’altra. Poi, un giorno, dopo aver cavalcato per molte settimane, giunse in una
valle tra alte cime montuose, e davanti ai suoi occhi si aprì la distesa di alberi più tetra e
spaventosa che egli avesse mai visto. La luce del sole non riusciva ad oltrepassare i folti rami,
solo a tratti sottili lame di luce riuscivano ad insinuarsi tra di essi, ma subito svanivano,
ricacciate dall’oscurità. Il solo rumore che si udiva era il latrato dei lupi che accompagnava il
Principe da quando si era inoltrato in quelle terre ed a cui si era ormai assuefatto. Ma quel
giorno il canto dei figli della notte era diverso, più tetro, ancor più lugubre, e triste, come un
lamento funebre che gli faceva correre lunghi brividi sotto la cotta che indossava.

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Aveva ormai perso le speranza di trovarla, misteriosa creatura, e stava per prendere la
decisione di rimettersi sulla via del ritorno, quando, dal cuore della foresta, udì un suono, un
suono che non riconobbe immediatamente ma che gli toccò l’anima.
Si fermò, impietrito ed in attesa, poi lo udì nuovamente… e lo riconobbe. Come poteva
averlo dimenticato? Lo aveva udito così spesso… eppure…
… No, non era possibile, non poteva essere reale, erano le settimane di viaggio, la
disillusione e la fatica a provocargli quell’allucinazione. Fece voltare il suo cavallo, con il
proposito di ignorare ciò che le sue orecchie credevano di udire, e gli fece muovere i primi
passi nella direzione di casa. Ma, mentre tentava di condurlo al di fuori della foresta, percepì
una forza che lo tratteneva dall’allontanarsi: sottili catene lo costringevano a restare,
imprigionando il suo cuore nel pianto che echeggiava tra quegli alberi secolari,
accompagnato dalla voce dei lupi che levavano in lontananza profondi ululati.
… Vi prego… non abbandonatemi…
Il Principe ebbe un sussulto. Aveva udito la sua voce, la voce della sua amata che ancora una
volta lo pregava di aiutarlo. Non poteva fingere di non udire e rinunciare a lei dopo aver
cavalcato per giorni e giorni ed essersi spinto a così tante leghe di distanza dalle sue terre.
Mise da parte ogni dubbio ed insicurezza e fece voltare nuovamente il suo destriero,
riprendendo il sentiero che aveva abbandonato, nella direzione da cui credeva provenire il
suono della voce della fanciulla che presto, si disse, avrebbe potuto finalmente incontrare.
… Vi prego… vi prego… vi prego…
Continuava a risuonare nella sua mente. Il Principe spronava il suo cavallo per giungere a lei
al più presto, facendosi largo tra la vegetazione a colpi di spada quando l’intrico dei rami
non permetteva di procedere, incurante dei lupi e delle insidie che avrebbero potuto celarsi
in quei luoghi a lui sconosciuti.
… Non abbandonatemi…
Il pensiero che fra breve l’avrebbe veduta lo rendeva folle ed egli non cessava di avanzare,
inoltrandosi impetuosamente nell’oscurità. Poi, inaspettatamente, intravide in lontananza
una luce e cavalcò verso quella luce che pareva indicargli il cammino, fioca dapprima,
null’altro che un tenue bagliore, ma poteva vederla crescere di intensità a mano a mano che
le si avvicinava. Ed egli proseguiva la sua sfrenata corsa, fino a quando quella luce non lo
accecò. Allora chiuse gli occhi e, tirando verso di sé le briglie del suo cavallo, lo fece
arrestare bruscamente. Una volta fermo, li riaprì ma gli occorsero alcuni istanti per abituarsi
al chiarore, dopo che per molto tempo aveva cavalcato nel buio. Quando tornò a vedere,
pensò di essere uscito dalla foresta ma poi, guardandosi attorno capì di trovarsi in una
radura circolare, proprio nel cuore di essa. E il suo stupore fu ancor maggiore quando, al
centro dello spazio che si apriva davanti ai suoi occhi, vide che una torre di pietra vi si
ergeva come un obelisco.
Spronò il suo destriero e proseguì verso la costruzione per studiarla: era sormontata da
un’alta merlatura, poteva essere una torre di guardia, eppure pareva essere disabitata. Ma,
mentre questo pensiero gli attraversava la mente, udì nuovamente il suono del pianto,
questa volta più vicino. Si guardò intorno, poi guardò la torre. Proveniva da essa!
Finalmente, pensò, il suo viaggio era giunto al termine e tra pochi istanti avrebbe liberato la
misteriosa fanciulla dalla sua prigione e l’avrebbe condotta con sé nel suo Castello! Come
era grande la sua gioia in quel momento!
Nei pressi della torre si fermò in cerca di una via d’accesso. Il pesante portale di ferro era
sbarrato e non si vedevano altre aperture ma, girandovi attorno, il Principe vide poi, nella
parte più alta, una piccola finestra. La fissò a lungo per decidere il da farsi e poté così
scorgere, al di là di essa, l’ombra di una figura umana che pareva stare seduta immobile con
il capo chino. Era lei! Sì! Era lei! Non poteva essere altrimenti!

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“Chi siete, Madonna? - Non poté trattenersi dall’esclamare - Vi prego lasciate che io vi veda!
Oso sperare di potervi essere d’aiuto!”
A queste parole la figura all’interno della torre parve riscuotersi, ebbe un piccolo sussulto,
ma non si mostrò, anzi sembrò ritrarsi ancor di più nell’ombra, intimorita. Dopo un tempo
che al Principe parve interminabile, ella rispose e le sue parole giunsero come il soffio lieve
del vento: “Nessuno al mondo è in grado di aiutarmi. Io sono colei che nessuno conosce e
che nessuno può liberare.”
“Non rifiutatemi! - la pregò il giovane - Ho viaggiato a lungo per giungere fino a voi,
abbandonando tutto ciò che di più caro avevo! Vi ho veduta in sogno e il vostro tormento è
divenuto il mio. Ho udito il vostro pianto riecheggiare nella foresta ed esso mi ha condotto in
questo luogo Ora sono qui, per voi sola! Per porre fine alla vostra prigionia e condurvi
lontano, nelle mie terre. Ditemi solo che lo volete ed io lo farò.”
“Voi! Siete voi! - Esclamò la fanciulla, dopo aver ascoltato il racconto del Principe - Avete
prestato ascolto alle mie preghiere!” E, avvicinandosi alla finestra, uscì dall’ombra in cui,
pochi istanti prima, si era rifugiata per sottrarsi alla sua vista. Quando egli poté finalmente
vedere il volto che tante volte gli era apparso in sogno, fu trafitto dal suo splendore…ella
pareva veramente un angelo, una creatura celeste strappata alla sua dimora presso Dio.
Smontò da cavallo e si avvicinò alla torre. Dal momento che l’unica entrata era sbarrata,
cercò degli appigli che avrebbero potuto reggere il suo peso se avesse tentato di scalarla, e
notò che le grosse pietre squadrate con cui era stata costruita avevano una superficie
irregolare sulla quale non sarebbe stato difficile arrampicarsi. Così, liberatosi della sua
armatura e della spada, iniziò la salita verso la finestra dove la fanciulla lo attendeva e da cui
lo stava ora osservando. La scalata sembrava non avere mai termine, ma il Principe
procedeva veloce, sostenendosi alle sporgenze della pietra e giunto in cima, poté così
entrare nella stanza in cui la sua fanciulla era rinchiusa, passando, non senza fatica,
attraverso la piccola apertura.
Ella si era ritratta nuovamente per permettergli il passaggio ma poi, lentamente, si fece
avanti di qualche passo, lasciando che la luce proveniente dalla finestra la illuminasse. La
sua pelle era candida, diafana, le sue labbra rosse e i lunghi capelli scuri incorniciavano
dolcemente il suo viso angelico. Aveva grandi occhi, verdi come le profondità della foresta, e
lo guardava, guardava lui, lui che l’avrebbe presto tratta in salvo…
“Mio salvatore! - disse in un sussurro - Siete qui per me!” E, muovendosi come se i suoi piedi
non toccassero il suolo, gli fu davanti. Poi riprese a parlare: “Da troppo a lungo mi trovo
rinchiusa in questa torre, in solitudine…” Ma non poté proseguire oltre perché il pianto le
spezzò la voce. Il Principe allora la prese tra le braccia per confortarla ed ella poggiò il capo
sulla sua spalla. “Non piangete, mia amata, e non preoccupatevi oltre, d’ora in avanti
provvederò io a voi e soddisferò ogni vostro bisogno. Il mio cuore è vostro! Darei la vita per
la vostra salvezza! La mia anima, il mio corpo e il mio sangue sono per voi!”
Udendo queste parole la fanciulla sollevò lievemente il capo e depositò un bacio leggero
sulla gola del giovane che ancora la stringeva. Poi si scostò, lo guardò negli occhi e le sue
labbra di porpora si schiusero in un risolino argenteo, mentre le braccia sottili si sollevavano
per circondargli teneramente il collo. Il Principe pensò che lo avrebbe baciato ma,
stranamente, le labbra rosse della fanciulla evitarono le sue ed egli, agghiacciato dallo
stupore, vide quelle labbra arricciarsi in un ghigno sinistro e scoprire due lunghe zanne
aguzze. Trionfante ella chinò il capo su di lui ed affondò i denti alla base del collo del
giovane, cominciando a succhiare avidamente.
Il Principe sentì la durezza dei canini affilati penetrargli nella carne, una fitta di dolore
insolitamente piacevole… poi, per lui non ci fu null’altro che l’oscurità…
Quando si fu saziata, gettò il corpo ormai senza vita nel grande camino in un angolo della
stanza e si mise a sedere nell’ombra, accanto alla piccola finestra. Passò il dorso della mano

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dalle lunghe dita sottili sulle labbra, ripulendole dal sangue rimasto e lo leccò,
assaporandone ogni goccia. Infine, ricominciò a piangere ed a singhiozzare così tristemente
da spezzare il cuore…
… al di là della finestra, in lontananza, si poteva udire, provenire dalla foresta, il rumore
degli zoccoli di un cavallo che lentamente si avvicinava…

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Le lanterne danzavano illuminando di bagliori rossastri le strade della città, un drago dalle
scaglie in fiamme che sinuoso serpeggiava tra le basse case di legno. Le porte scorrevoli delle
botteghe erano aperte a mostrare cibi e mercanzie che, nella risalita al tempio, i partecipanti
al Daimonji avrebbero pagato con le monete guadagnate durante l'anno...
Onorare i morti. Ringraziare gli spiriti degli antenati che la città aveva festeggiato per tre
interi giorni, senza sosta, pulendo le tombe, innalzando altari e danzando alla luna in quelle
lunghe notti d'estate calde e afose.
Keishi alzò gli occhi al cielo nero punteggiato di stelle. Presto avrebbero acceso i fuochi.
Spostò lo sguardo sui cinque picchi che circondavano la città su tre lati e sospirò. Stupidi
umani. Tornò a guardare la folla in festa che risaliva la collina, attraversando i giardini di
roccia, per raggiungere il Tempio dei Sogni, ancora pochi minuti e sarebbero scomparsi nel
rosso degli aceri, così non avrebbe dovuto tollerarne la vista, almeno per un po'. Spostò il
peso del corpo sulla gamba destra, stendendo la sinistra per far circolare il sangue nelle
gambe e far passare quel fastidioso formicolio che lo aveva colto. Era rimasto accovacciato
sul tetto a pagoda del tempio troppo a lungo, o forse stava solo invecchiando, storse il naso,
scacciando la possibilità. Trecento anni a guardia degli sciocchi abitanti di Kyoto senza
ricavarne nulla in cambio iniziavano però a pesare sulle sue spalle.
"Ora basta Keishi. Sei diventato noioso. Ogni anno è la stessa storia!" Protestò ridacchiando
sottovoce una voce femminile alle sue spalle.
"Lasciami in pace Izumi!" Le ringhiò lui di rimando senza nemmeno voltarsi a guardarla e,
riprendendo la sua posizione iniziale, tornò ad osservare il sentiero. Le lanterne sarebbero
presto ricomparse e aveva il compito, ingrato a suo parere, di sorvegliarle perché arrivassero
senza inconvenienti alla soglia del tempio. Da lì in avanti non sarebbe più stato affar suo.
Eppure, su quel tetto, anziché a loro difesa, sembrava essere il predatore in attesa di
scagliarsi sulla sua preda, gli occhi ambrati puntati nell'oscurità e il corpo solido ma
flessuoso lo facevano assomigliare ad una tigre pronta a divorare il drago fiammeggiante
non appena avesse abbandonato il rifugio tra gli alberi. Spesso si diceva che avrebbe anche
potuto farlo, spezzare il suo giuramento di Guardiano dei Sogni e avventarsi fiero e famelico
su quelle inutili marionette che si chiamavano esseri umani. La lama della sua katana
avrebbe assaggiato ancora il sangue dell'uomo?
"Avanti... - La ragazza gli si avvicinò, interrompendo il corso dei suoi pensieri e posando le
mani sulle sue spalle larghe, chinandosi a sfiorargli l'orecchio con le labbra - Non mettermi il
broncio..." Miagolò carezzandogli i capelli e finendo pochi istanti dopo per scivolare a terra,
sedendosi accanto a lui, lasciando penzolare i piedini dal tetto e raccogliendo tra le
ginocchia i numerosi strati di tessuto leggero e trasparente che costituivano il suo abito. Con
un sospiro stanco inclinò la testa, facendo passare dal collo e dalla spalla l'arco di corno che
le attraversava la schiena. Lo sistemò tra sé e Keishi, tenendovi una mano posata sopra,
all'altezza dell'impugnatura. Sebbene il suo aspetto fosse quello di una creatura delicata e
graziosa, Izumi era come lui, un Guardiano dei Sogni, una fredda e crudele dispensatrice di
morte per chi avesse osato interrompere la cerimonia del passaggio degli spiriti.
Rimasero a lungo in silenzio, scrutando l'oscurità, in attesa... In attesa che il drago
ricomparisse, in attesa che i fuochi fossero accesi. Quello sarebbe stato il momento più

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pericoloso, quando gli spiriti avrebbero attraversato nuovamente il confine, mentre gli
sciocchi umani avrebbero cantato e danzato, ignari di ogni cosa.
Le lanterne ricomparvero quando il primo fuoco si stava accendendo. Keishi si alzò in piedi,
il momento stava arrivando. Presto i cinque fuochi avrebbero rischiarato la notte e il
pericolo sarebbe passato, gli spiriti sarebbero tornati oltre la soglia e le vite degli uomini
sarebbero state garantite per un altro anno. La sua mano guantata si posò sull'elsa della
katana producendo un appena percettibile scricchiolio della pelle che gli fasciava le dita.
Izumi lo imitò, balzando in piedi nel lieve frusciare del suo abito che si confondeva con
quello delle foglie mosse dalla brezza. Una mano sull'impugnatura dell'arco che puntava
verso il basso. Si scambiarono un'occhiata. Erano pronti. Non c'era bisogno di parole.
Avevano combattuto fianco a fianco per centinaia d'anni e la loro intesa era perfetta,
armonica e profonda come un concerto d'archi.
Il secondo fuoco. Le lanterne intonavano il loro canto, l'ultimo saluto agli spiriti, il congedo
e il ringraziamento. Keishi strinse l'elsa, sentiva il loro odore. Sapeva che nell'ombra li
osservavano in attesa di un suo attimo di distrazione. Ma gli spiriti dovevano tornare al luogo
al quale appartenevano. Nessuna eccezione. Mai.
Izumi fiutò l'aria sollevando il mento e socchiudendo gli occhi dal taglio felino. Le sue labbra
si schiusero in un sorriso, flettendo la schiena in un movimento morbido sollevò l'arco e lo
puntò nel buio di fronte a sé. Incoccò la freccia piumata di nero e tese la corda fino al suo
punto massimo incurvando i flettenti, pronta a scoccare. Quando Keishi sfoderò la sua
katana le nubi si addensarono sopra al Tempio dei Sogni, celando ogni stella e facendo
scomparire la pallida luna. Il terzo fuoco. Inspirò profondamente, dilatando le narici e
gonfiando i polmoni. Quell'odore. Inconfondibile. Mai dimenticato. Erano passate decine
d'anni, forse un centinaio, dall'ultima volta che lo aveva sentito, dall'ultima volta che
avevano osato cercare di interrompere il Daimonji. Si sarebbero mossi in fretta. Non
avevano molto tempo e la cerimonia avrebbe presto raggiunto il suo culmine. Quanti erano?
Quanti di loro si nascondevano nell'ombra? A quanti la sua lama avrebbe donato la morte
quella notte? Keishi lasciò che il pensiero lo cullasse per alcuni istanti. Sapeva non avrebbe
dovuto indugiare in simili speranze...
Il quarto fuoco. Tutto accadde con rapidità. Il sibilo della prima freccia di Izumi trapassò
l'aria. Keishi sapeva che certamente aveva colpito il bersaglio. Non aveva mai dubitato di lei.
Quello fu il segnale. La battaglia era cominciata. Da quel momento in avanti non avrebbe
più pensato. Non agli uomini. Non al Tempio. Non ad Izumi. Lui e la sua spada si sarebbero
mossi come una sola cosa, leggeri e mortali, agili e affamati...
Non si curava della netta inferiorità numerica in cui si trovavano. Lui da solo avrebbe
sterminato un esercito se se ne fosse presentata l'occasione. Questi non erano che inutili e
fastidiosi moscerini in confronto ai millenari nemici che aveva affrontato prima del
giuramento. Dannato giuramento che lo obbligava a prestare servizio al Tempio. Eppure
senza di quello non avrebbe potuto godere di questi attimi di pura estasi, mentre lacerava,
dilaniava, faceva a brandelli ogni ombra passasse davanti ai suoi occhi d'ambra, mentre il
loro sangue denso e freddo impregnava i suoi abiti, schizzava sul suo viso e colava dalla
lama della katana in grossi rivoli.

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Quando il quinto fuoco venne acceso e le montagne in fiamme vennero salutate con alte
grida di gioia dal popolo di Kyoto, ignaro della cruenta battaglia che si era appena svolta sul
tetto del Tempio dei Sogni, tutto era finito. Una ad una le lanterne entrarono nel Tempo,
varcando la soglia a doppio battente e illuminandone l'interno che non vedeva la luce
dall'anno precedente. Ogni lanterna al suo posto. Ogni uomo con la sua lanterna. In silenzio.
Il compito di Keishi era terminato. Gli spiriti potevano riposare. Con cura ripulì la lama,
accudendola con rispetto e amore, e la rinfoderò. Si abbandonò ad un lungo sospiro e chinò
il capo a destra e poi a sinistra per sciogliere ogni vertebra. Socchiuse gli occhi e assaporò il
silenzio. Nessun rumore. Troppo silenzio. Qualcosa gli sfuggiva. Qualcosa mancava. Riaprì
gli occhi allarmato e strinse i pugni. Izumi non era più al suo fianco. Keishi fece vagare lo
sguardo, perlustrando ogni angolo di quel tetto che si era trasformato in un campo di
battaglia, il cuore che batteva ad un ritmo insostenibile, come volesse strappargli le carni e
balzare fuori dal petto. Il respiro affannato si muoveva frenetico, un passo e poi l'altro, e un
altro ancora. Izumi, Dov'era Izumi?
Eccola.
Izumi.
A terra. Sul tetto del tempio a pagoda. L'arco stretto in una mano, la testa abbandonata verso
la spalla sinistra, ciocche di capelli sfuggite dalle lunghe trecce si agitavano sul suo viso
mosse dalla brezza. La stoffa sottile della gonna l'avvolgeva del freddo abbraccio della morte.
Keishi cadde in ginocchio al suo fianco quasi senza rendersene conto. Morta? Izumi non
poteva essere morta. Si stava sbagliando. Perché allora non respirava? Morta. Nemmeno un
lacrima scese sul suo viso. Morta. Quando aveva pianto l'ultima volta? Morta. Non lo
ricordava. Morta.
E cos'era quel vuoto nel petto che stava sentendo, mentre la sua mano non poteva fare a
meno di allungarsi a sfiorare il viso di porcellana di Izumi?
Morta...

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