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(1968)
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Se un indiano vuol venderti qualcosa, non opporti: com-
prala subito. Nell’albergo di Nuova Delhi un indiano sorri-
dente aveva stabilito di vendermi una camera, parola ambi-
gua, poiché v’è la camera da letto, la camera del lavoro, la
camera del cannone e la camera dell’occhio. La sua era una
camera cinematografica, cioè un apparecchio da presa, di
marca giapponese. Gli dissi che venivo ali Tokyo, ma non
valse. Gli dissi che neanche ero capace di fotografare, ma
valse ancor meno. Sorridente, enumerava i vantaggi.
Gli voltai le spalle, ma lo ritrovai sollecito al mercatino ti-
betano, dove mi diede ottimi consigli prima d’illlustrarmi da
capo l’utilità d’una camera. Gli voltai le spalle, ma lo ritro-
vai premuroso alla compagnia aerea, dove m’ottenne la diffi-
cile prenotazione per Benares: poi ricominciò il discorso sui
vantaggi. Il primo era ch’egli stesso m’avrebbe insegnato,
senza nessun impegno, solo comprando da lui le pellicole.
Sorrideva, convincente. Adesso so come gli indiani hanno
conquistato i commerci costieri dell’Africa, sino alle Canarie.
Tanta insistenza indusse l’Arcangelo al sorriso.
Accettai la prova ed egli divenne la mia guida turistica.
Vi sono venti tombe d’imperatori a Nuova Delhi: le ho cine-
matografate tutte; sette città si sono succedute sullo stesso
spazio in nove secoli: le ho riprese tutte; ho tutte le inquadra-
ture del Forte rosso, della Porta dell’India, dell’urna cineraria
di Gandhi.
In qualche giorno l’indiano sorridente m’aveva venduto la
camera, gli accessori, non so quante pellicole e m’aveva ino-
culato il bacillo della cinematografia. M’accompagnò sino
all’aereo per Benares e nel lasciarlo ero convinto ch’egli fosse
l’approfittatore della mia fanciullaggine.
Invece m’ha reso un grandissimo servigio. Gli debbo d’a-
ver qui la testimonianza vivida, mossa, colorata d’una così
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lunga peregrinazione in India. È tutta qui, in queste quaran-
tun pellicole, disordinate, mal numerate, incomprensibili per
chiunque, salvo per me.
Le scelgo alla meglio, le proietto sul piccolo schermo
e nel buio, narro al dittafono la mia storia di vagabondo
lungo il continente degli entronauti.
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annuisco. Cinepresa puntata verso l’est, aspettando il Sole.
Orizzonte livido, poi pallido, adesso ambra. Trasale rosata
l’aurora indiana. Eccola, annunciatrice impetuosa, affacciar-
si al deserto.
(Fra poco vedremo Kapila, il maestro tantra incontrato
qui, in questo giorno).
Il deserto su d’una sponda, la babele sull’altra, in mezzo
grandissimo il Gange nobile, lento, verde giada: questa è Be-
nares.
Sponda sud, deserto: sabbie, dune, ghiaie, non un albero o
un’erba, né una strada, una casa, un abitatore, un viandante,
un vivo, salvo qualche avvoltoio a terra, immobile, sinistro, in
attesa che il fiume gli porti carogne. Silenzio, vuoto, solitudi-
ne. È la sponda morta, maledetta, è la luna.
Sponda nord, Babele: scialuppe bragozzi navicelle, sulla
riva scale gradinate rampe che portano in alto, ai templi edifi-
ci colonnati verande, gente da per tutto in ogni posa, cani
scimmie colombi loreti, lampade fuochi fumi, tamburi campa-
ne cori. È la sponda viva, benedetta, è l’uomo.
- Perché da millenni costruite solo qui, in salita, abbando-
nando la pianura di fronte?
- Questa riva soltanto è sacra.
Sacra? Cosa vuol dire? Per noi, niente. Per noi sono sa-
cri i valori commerciali dei terreni e non lasceremmo il Teve-
re, la Senna, il Tamigi e l’Hudson costruiti da una parte e dal-
l’altra no. Come capire gli indiani? Forse essi hanno accesso
a una dimensione ove un luogo è sacro e un altro profano.
Romolo, prima di fondare Roma, scelse il punto sacro. Noi
non edificheremmo in una pianura di sabbie mobili e perico-
lose. Così Benares rifiuta il luogo inadatto alle costruzioni
spirituali.
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Al mio cenno, il battelliere torna presso la riva. Cinepresa
puntata verso la gente mentre sorge il Sole. L’uomo dell’In-
dia non è costretto nelle misure occidentali: è vivo per altre
speranze. (Sì, si: fra poco vedremo Kapila).
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vava, chi partiva, salvo pochi fedeli. Ad esempio Freddy, l’a-
mericano: è quello lì, rosso di pelo, nudo salvo il perizoma. È
quello con le efelidi e le cicatrici sul petto, cicatrici da guer-
riero antico. Sta parlando con un altro fedelissimo scuro di
pelle, Raman il bengalese, che poi ha un altro nome, ma tutti
lo chiamano così. Del resto m’avevano affibbiato il nomigno-
lo d’Italian e non me lo tolsero più. Si può a Benares parlare
delle tre stirpi elvetiche?
Ed ecco la testa di Kapila: ha la pelle chiara d’un mediter-
raneo e la nobiltà di certi visi arabi. La camera lo prende di
profilo e non lo si vede bene. Solo incontrandone gli occhi,
t’accorgi di chi è. Tutto è successo perché m’ha guardato.
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occhi bianchi Kalì divoratrice, azzurro Krishna musicante. I
volti di Dio sono tanti, quante le anime degli uomini.
Rao ha vent’anni, magro e povero, pedala tutto il giorno,
suda sotto il sole tropicale eppure gli piace di conversare e mi
dà risposte da metafisico.
- Rao, gli Dei sono reali?
- Certo.
- Reali come noi?
- Oh, molto di più.
Forse ha ragione: cosa v’è di reale in noi, cosi fragili, effi-
meri e fuggenti? Politeismo, diciamo, facili condannatori: e
invece significa che la misericordia divina si offre a ciascuno,
così come ciascuno la può intendere e immaginare.
- Al Gange, Rao, torniamo al Gange. Voglio rivedere l’a-
sceta dell’altra mattina, immobile sul basamento, avvolto nel
telo ocra.
Rao sa tutto di Benares:
- È Kapila, il maestro tantra.
Tantra? Rao pronuncia la parola con timore reverente. I
tantra sono asceti capaci di dominare le potenze scatenate
nell’atto generativo. Perciò sono casti. Tantra? Il timore di
Rao diveniva in me un’imperiosa attrazione.
Ma prima ero andato ai roghi ed ecco il film.
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fanno da barella, due parenti davanti e dietro la portano facil-
mente a spalla, pochi amici intorno e i discorsi pacati. Non vi
sono donne, neanche ai roghi. Potrebbero piangere e le lacri-
me non s’addicono al rito.
È il crepuscolo. Laggiù, sulla riva, le fiamme: mai si
spengono, giorno e notte, mai estinte da diecimila anni, forse
da ventimila. Già accese quando a Benares venne Buddha,
l’eretico che l’India ha respinto, come la latinità, Lutero.
Primo piano d’un rogo, con la legna ben distribuita, È pic-
colo, basso, ci vuol poco a divorare la forma umana. Intorno
necrofori dalla pelle nera, abili nel maneggiare le pertiche.
Lingue infocate e luminose, poi basse e corte, sfavillanti fra
dense volute di fumo nutrito della nostra materia. Rapida la
fiamma trasforma il corpo in cenere e vapore, lo rende tanto
volatile che l’immagine stessa della morte scompare. Ormai
il resto è soltanto brace nella brace. Ultime fiamme azzurre
passano a brividi. È finito: le ceneri nel Gange.
Arriva un altro cadavere, altri parenti stanno tranquilli a
guardare. Il giovane vedovo ha l’incarico d’accendere il pri-
mo legno. Come mai quest’uomo non piange la sposa perdu-
ta? Per me la morte è definitiva, per lui passeggera. Egli
stesso è il morto di tutte le sue passate esistenze.
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giamo in casse preziose, li trasportiamo in luoghi panoramici,
li poniamo in tombe a prova d’atomica, rallegrati da musica
filodiffusa e con garanzia scritta di pace per cinquecento
anni.
- Illusio perpetua, amen.
- Come? Voi siete europeo: il rispetto della vita, capite?
La vita umana è preziosa...
Forse a Nuova York, non a Benares. La vita umana copre
sterminatamente la Terra e nei millenni si è riprodotta in mi-
liardi d’esemplari. Non uno si è salvato: tutti finiti in cenere.
Quando proclami «la vita umana è preziosa», in verità pensi
soltanto alla tua pelle. Basta con l’ipocrisia: la vita umana
non è preziosa. Sappiamo bene che non vale niente.
Invito Rao a fermarsi, per girare la scena d’un gruppo di
malati che si fan condurre al Gange nella fiducia di spirare in
quel luogo privilegiato. Poi una fila di vegliardi, venuti qui
ad attendere la fine. Per un indiano non v’è miglior sorte che
morire a Benares. Superstizione, dichiara l’americano, per
non sovvertire il suo catalogo mentale.
- Rao, è superstizione? E se fosse vibrazione?
Non capisce, non risponde. Forse tutto è vibrazione. Nei
corpi è certo vibrazione il calore, il suono, la luce, l’atomo.
Negli animi è vibrazione la collera, l’amore, il trepidare. Nel-
la mente oscillano i pensieri. Negli spiriti i ritmi beati del-
l’empireo e i fremiti dell’ala d’un Arcangelo. Se tutto vibra,
l’alta tensione di Benares può trasmettersi alle anime e garan-
tire la buona morte e oltre. Allora la superstizione diviene sa-
pienza, in un universo ondulatorio.
Sono le ultime sequenze del film n. 11. Laggiù Ka-
pila, vicino alla riva, all’ombra d’una muraglia, con in-
torno cinque o sei persone. Il film finisce, ma il ricordo
comincia.
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M’avvicinai cautamente, senza mostrarmi, spinto dalla
speranza, frenato dal timore. Speranza di capire la morte,
come in qualsiasi vedovo indiano. Timore della parola tantra,
che sottintende occulti poteri.
Kapila stava ascoltando or l’uno or l’altro del crocchio.
Parlavano inglese, lingua che ormai detestavo, al punto da
trovare nobiltà nel malconoscerla. Perché i romani non vinse-
ro l’Asia? I testi tantra sarebbero in latino e latina la parlata
di Kapila.
Idee balorde, generate dalla mia stanchezza. Di colpo mi
sentivo sfinito. Stanco di tanti aeroplani, di tanti cibi e be-
vande indigeribili, di tanti letti diversi, di tanti idiomi, ero so-
vrattutto stanco di me: di ritrovarmi al mattino, di portarmi in
giro tutto il giorno, di mettermi a letto la sera, d’ascoltarmi
pensare, senza requie pensare, il solito pensare. Stanco d’as-
sistere al perpetuo variare del mio animo, ora soddisfatto ora
infastidito, per le minime cose: il bello o cattivo tempo, le pa-
role o i silenzi altrui, le nostalgie, le speranze. Continue va-
riazioni, espansioni di piccole letizie, contrazioni di mediocri
scontenti. Basta. Stanco infine d’una ricerca che non conclu-
deva, che mi faceva cambiar cieli ma non animo, che mi mo-
strava le altrui grandezze lasciandomi quel che ero, spettatore
immutato. Di colpo non ne potevo più.
M’appoggiai alla muraglia, tentando d’incrociare le gam-
be, ma non m’è mai riuscito: sùbito mi dolgono le giunture.
Mi lasciai andare, sdraiandomi per terra, come un mendican-
te. Fu allora che Kapila mi vide.
Stava a qualche passo e mi guardò. Nobiltà del suo viso
un po’ arabo, occhi grandi, lunghi e luminosi. Mi fissava e lo
sguardo era straordinariamente dolce, penetrante nella mia
amarezza. Penetrante e fraterno: il cuore mi si liberava dal
peso, ne nasceva un acquietamento, un sospiro di sollievo,
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un’indifferenza di me, un emergere. Che miracolo è questo?
Arcangelo, Arcangelo, è un tuo dono o suo?
Non mi muovo più, nemmeno quando Kapila si alza e con
gli altri s’avvia, dopo un indugio a guardarmi. Parlare? Ah
no, finalmente taccio.
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dare. Gli debbo molto, fin dalla prima volta. Senza farsi no-
tare, si era messo nelle mie vicinanze.
Kapila se n’era andato: sdraiato a terra, all’ombra della
muraglia presso il Gange, ero sbalordito dal miracolo d’una
pace che mi stava invadendo, tanto da farmi piangere. Una
pace e un perdono: assolto dagli errori e dagli smarrimenti,
tolto il peso del tempo e della vita. Ne piangevo. Lacrime
pacate, che trapelavano da sole, fitte, senza singhiozzi, senza
dolore, anzi dolci a versarsi, come chi ritrovi la casa della
giovinezza. Una pace tale che lo scriverne è tradirla. O do-
vrei chiamarla sacra, ma chi osa, oggi che a parlare di sacro
si passa per sacrestani? Piangevo, sì: piangevo a causa d’uno
sguardo.
Freddy mi sorvegliava discosto, pronto ad aiutarmi. Non
ve ne fu bisogno.
Tre giorni dopo avevo perduto tutto, perfino la valigia.
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mano, la bocca che sta parlando e sovrattutto lo sguardo, con
la sua dolcezza arcana.
Alba. Kapila s’è svegliato: sta recandosi sulla riva del
Gange per aspettarvi il Sole. Eccolo in primissimo piano:
gambe incrociate, immobile, dritto, illuminato dai primi raggi,
chiuso in un raccoglimento assoluto. Vedi? Le mosche gli
camminano sul viso, sulle nari, sull’angolo degli occhi ed egli
non se n’accorge. È lontano, entronauta, fuori dall’attrazione
terrestre, a una distanza incalcolabile, verso chissà quale
astro, donde riporterà una vibrazione felice. Perciò un suo
sguardo può darti la pace.
Mezzodì. Kapila mangia, unico pasto quotidiano, due pu-
gni di riso bollito, contenuti in una piccola ciotola di metallo.
Oltre alla ciotola, possiede un lungo bambù da pellegrino e il
telo ocra che lo copre e che ogni giorno lava. Mangia il riso
con le mani, come noi il pane. Sorride, ascolta chi gli sta vi-
cino, scherza con gli scoiattoli, Sono due, li vedi? Piccini, ri-
gati, graziosi. L’India ne è piena: scendono dagli alberi, con-
fidenti, ma non tanto da mettersi a portata di mano. Invece se
passa Kapila, gli corrono incontro, gli salgono addosso, ne ha
sempre qualcuno sulle spalle. Dicono che ciò avviene da
quando fu anacoreta nella giungla. Lo chiamano Kapila degli
scoiattoli.
Pomeriggio. Kapila circondato dalla gente che gli chiede
consigli: chi per la salute dell’anima o del corpo, chi per l’a-
scesi, chi per l’amore, chi per la famiglia, chi per l’ingiusti-
zia, chi sollecita una benedizione, chi cerca uno sguardo. Le
sue sono le risposte del taciturno: brevi. Qualcuno si fa un
merito, mettendo nella ciotola i due pugni di riso bollito che il
giorno dopo nutriranno l’asceta. Una donna porge un frutto
ch’egli darà a un bambino, un’altra un fiore ch’egli porterà
ad un tempio. In India l’asceta deve consigliare: è la sua fun-
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zione sociale. Anche da noi, nei secoli che furono cristiani, al
tempo degli eremiti.
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a interrogare Raman, Raman interrogò il vecchio e questi dis-
se d’aver invitato Kapila ad Agra e mostrò i due biglietti.
Freddy e Raman corsero a prendere i loro e io appresso, in
coda allo sportello:
Freddy, debbo parlargli. Domani vi raggiungo ad Agra
con l’aereo.
- Domani? Chissà dove saremo.
- Che faccio, Freddy?
- Ti compro il biglietto. Conosci le terze classi indiane?
Lo comprò: arrivati, avremmo telegrafato all’albergo. Mi
trascinò al treno, mi spinse dentro una carrozza già colma, di-
mostrando così la penetrabilità dei corpi. Ma non gli riuscì di
salire e scomparve, com’erano scomparsi gli altri.
Mi trovai impalato nella calca, premuto da ogni parte, cir-
condato da cento teste in alto e in basso. In alto, sul primo
portabagagli, accovacciati, uomini donne bambini; poco sot-
to, sul secondo portabagagli, rannicchiati, uomini donne bam-
bini; ad altezza normale, in piedi, uomini donne bambini; al
livello del ginocchio, seduti sul pavimento, uomini donne
bambini; sul pavimento, distesi non so come, uomini donne
bambini. E duecento occhi mi stavano fissando.
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budella e vescica straripanti, pruriti dappertutto, gambe an-
chilosate, piedi gonfi, fame, sete, sonno. Tanto malridotto da
non poter aggiungere alle mie pene anche l’ansia per la roba
abbandonata a Benares né la paura nel trovarmi lì possessore
di poche rupie, d’una camiciola sudicia, d’un calzoncino esti-
vo, di vecchi sandali.
Freddy s’occupò subito di me. Nella folla della stazione
non vedevo gli altri, ma egli sapeva ove poi trovarli. Mi die-
de da bere; mi caricò su d’un triciclo, mi portò al fiume da-
vanti alla Cittadella, mi spogliò, mi mise in acqua, m’aiutò a
lavarmi, mi distese al sole, poi all’ombra d’un albero, pareva
un figlio tant’era soccorrevole, Enea e Anchise. Stentai a rin-
graziarlo, così subitaneo giunse il sonno. Al risveglio mi ri-
trovai solo.
Le ombre dell’albero s’erano spostate. Me ne stavo im-
mobile a guardare il fluire del fiume. Affamato e senza soldi
in mezzo all’India, avrei dovuto essere sgomento e non lo ero.
M’invadeva un senso d’irrealtà: il luogo solitario, il grande
fiume, la vegetazione esotica, la mole grandiosa della Citta-
della, la perfezione immateriale del Tâj-Mahal all’orizzonte,
no, tutto ciò non era vero, piuttosto uno scenario e la mia so-
litudine una parte che stavo recitando. Ma la recitavo male,
come un attore che al nuovo colpo di scena sogghigni invece
di disperarsi. Anzi mi scappava addirittura da ridere, acci-
denti quant’è buffa la vita. E poi, più alto, il sentimento d’u-
na protezione, la sicurezza d’un destino che si andava com-
piendo. Arcangelo, Arcangelo.
Ancora guardavo pacato il fluire del fiume, quando giunse
Freddy. Aveva sistemato tutto, avrei ritrovato i bagagli a
Pondichéry da Alberto, il mio amico italiano. Si riposò un
poco, fumando la pipa, poi disse:
- Italian, andiamo da Kapila.
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M’alzai, un po’ di torcicollo per aver dormito sulla sabbia:
- Dimmi chi è Kapila.
Chi fu colui che adesso chiamano Kapila? Che vita, che
nome ebbe? Nessuno ne sa niente. Si dice abbia vissuto le
quattro età ortodosse dell’indiano. Studente sino a diciott’an-
ni (sanscrito lingua degli Dei, hindi lingua degli uomini e le
tre lingue che gli stranieri hanno portato in India: inglese,
francese, portoghese); per altri diciotto anni capo di famiglia
(moglie, figli, parentele, lavoro); eremita per cinque anni, con
la moglie, come la tradizione vuole (capanna nella giungla,
ove la donna morì); da allora peregrino senza nome né lega-
mi, fuori dall’illusione, ancorato al Supremo, randagio nei
venti, ultima tappa. Lo chiamano Kapila degli scoiattoli,
maestro tantra. In India la prima saggezza è di non aver bio-
grafia.
M’incontrai con Kapila verso il tramonto, in un prato ac-
canto al Tâj-Mahal. Freddy s’era dileguato, discreto. Invece
restava Raman, che talvolta assumeva la funzione d’interpre-
te e chiosatore. Ma non vi fu bisogno di lui. Il francese di
Kapila era armonioso e inconsueto.
Arrivato all’incontro con in testa uno sciame d’argomenti
a cui dar voce, quando, gli fui davanti mi mancò il coraggio.
Non mi sentivo d’infliggergli la mia storia, la storia dei voli,
la gente incontrata, l’Arcangelo, il vento che sempre m’ha
portato via, spingendomi a Benares, ove ho trovato uno
sguardo di pace. Non me la sentivo e tacqui.
Forse ascoltò il mio silenzio, certo ne sorrise. Cercava le
parole che più mi si addicessero. Uno scoiattolo, scesogli
sulla spalla, gli si pose sulla mano, ma il volo d’un falco lo
indusse a fuggir via. Sorrise:
- Lo scoiattolo non è mai testimone.
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Forse non cercava le parole che mi si addicessero. Forse
cercava quella condizione interiore che dà alle parole più del-
la forza di convincere quella d’illuminare. Cominciò:
- V’è una favola. Il Supremo foggiò l’uomo con l’argilla e
lo mise in piedi, ma cadeva. Ritentò: cadeva. Per sostenerlo,
gli andò dentro. Sta dentro: è il testimone.
Un altro scoiattolo gli venne vicino ed egli gli porse una
mandorla:
- Non è mai testimone: è sempre spinto, fame e paura.
Ritrovavo la dolcezza dei suoi occhi, più eloquente d’ogni
parola. Continuò, lentamente, cercando l’espressione, ripe-
tendosi:
- L’uomo vale, quand’è testimone. La virtù? Il restare te-
stimone delle proprie voracità, dei propri spaventi: staccarse-
ne, osservarli, giudicarli, accettarli o respingerli. L’intelligen-
za? È restare testimone delle proprie idee, dei propri pensieri:
staccarsene, osservarli, giudicarli, accettarli o respingerli.
Chi si lascia trascinare dalla prima voracità, non ha virtù.
Chi si lascia trascinare dalla prima idea, non ha intelligenza.
Staccarsi, spogliarsi, indietreggiare, farsi sempre più testimo-
ne. Se ti spogli di te, sei uno sguardo.
Non capivo bene. Non volevo favole, volevo la ricetta per
i miei mali. M’era tornata la voglia di parlare, inquieta:
- Egli ci ha foggiato con l’argilla? È una storia poetica,
ma a che serve? Se allora era argilla, adesso è diventata gra-
nito e mi soffoca. Egli sta dentro? Ma dov’è, dov’è mai, chi
l’ha incontrato?
Mi guardava fraternamente. Disse soltanto:
- Lo incontri arretrando. Egli ti abita in fondo al cuore,
incombe sovra il capo. Non è una favola. Apri un varco nel-
l’argilla.
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La sua certezza m’andava persuadendo e insieme m’agita-
va. Egli ci abita: sta dunque dentro di me? Era un pensiero
inquietante ed esultante. M’alzai, m’allontanai per il prato, a
grandi passi. L’ospite sconosciuto? Il tramonto tropicale
smisurava il cielo.
Mi misi a correre, spinto da un fervore ch’era anche spa-
vento. L’infinito, nei miei otto palmi d’argilla? una volta
qualcuno m’aveva detto «Chi sceglie l’infinito, dall’infinito è
stato scelto». E proprio questo era tremendo.
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come avvenne a Niccolò della Flue e a Teresa Neuman. La
mia dispepsia guarì.
Dormivo poco, dove capitava, spesso all’aperto. Presto
dimenticai il letto. Freddy m’aveva regalato un materassino
da gonfiarsi a fiato e da lavarsi ad acqua. Mi svegliavo spon-
taneamente all’alba, per non perdere l’aurora che è, col tra-
monto, un’ora privilegiata. In quei due momenti del giorno,
raggiungevo una serenità casta e adamantina. Dopo il crepu-
scolo, m’accadeva di far tardi, interrogando Raman sull’amo-
re, essenziale per i tantra. Il dialogo si prolungava medita-
bondo nella notte indiana, che ha le stelle basse, vicine al
capo, tangibili.
Così m’avvenne d’accodarmi a un pellegrinaggio imprevi-
sto, bizzarro, tortuoso, pieno di fascini e di misteri, pieno di
scomodità, sotto i cieli dell’India, misera e grande.
Finché non m’ammalai.
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Dove sarai adesso, Raman? Forse segui ancora Kapila,
forse hai raggiunto l’Himalaya come progettavi, forse la tua
cenere è dispersa nel Gange, poiché in India la forma umana
dura poco.
I nostri dialoghi notturni: verità stupefacenti, misteri ar-
caici, risalenti all’epoca delle Veneri paleolitiche con le enor-
mi poppe e le matrici evidenti. La potenza virile, avviluppata
come serpe attorno alle vertebre sacre. Per i tantra Dio è di-
vinità, femmina.
Ecco, guardate questa ripresa. Vedete? È una ragazzina
di quindici anni, puntuale ogni giorno dal villaggio a Kapila,
per offrirgli i due pugni di riso bollito. La manda certo la
madre, dato che l’offrire il cibo a un saggio colma il donatore
di meriti. Osservate: riempie la ciotola del maestro ma non la
guarda, i suoi occhi sono volti a Raman. Il che è straordina-
rio in un paese come questo, ove mai le donne guardano gli
uomini.
Vorrei essere giovane come Raman, per poter come lui as-
soggettare gli impulsi a ciò che più è a loro remoto.
Dialoghi notturni.
Amore come energia, senza virtù e senza peccati, amore
come elettricità capace d’illuminare o d’uccidere, amore privo
di carnalità. Per ogni amante sulla terra, l’amore è un rito di
parole e di gesti. Non carnale. Anzi, quando il rito sta per
toccare il culmine, ogni amante dimentica il corpo e rifugge
dai sensi, esige il buio e il silenzio, serra le palpebre, si chiu-
de nell’intimo, varca la mente, si proietta nel nero e lì, in un
supremo raccoglimento, esplode la gioia trascendente.
Carni, mucose, glandole hanno offerto solo il pretesto e il
soccorso per raggiungere la massima concentrazione dello
spirito. Così il giaciglio diventa un altare, il luogo un tempio.
Se invece gli amanti sono disamorati o distratti o stanchi, se
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l’incontro è solo corporeo e l’animo altrove, allora la sublime
concentrazione manca ed essi si rialzano ad atto compiuto,
cupi e vergognosi per l’occasione perduta. L’uomo si sente
bestiale, la donna meretrice.
Per i tantra, l’amore è la conquista d’una potenza sovran-
naturale.
Osservate quest’altra scena. È la strada d’una cittadina.
Ecco il nostro gruppo. Vedete le due ragazze coi sari ama-
ranto e smeraldo? Attenzione: ci sorpassano. Una si volta a
guardare Raman, ora si volta l’altra. Poi ridono insieme. È
una scena comune a Parigi, inverosimile in India. Raman non
se n’accorge, eppure è giovane, al massimo trent’anni. Kapi-
la ne sorride e ricorda il divino Krishna che innamorava di sé
le pastorelle. Certo si è che, se le vergini attirano i maschi, i
casti attirano le femmine.
Dialogo notturno.
- Raman, se l’atto d’amore porta al giubilo divino, perché
sei casto?
- Con l’atto tocchi per un istante il paradiso e poi ricadi.
Con l’ascesi conquisti il paradiso e vi vivi continuamente in
terra.
- Il paradiso in terra? È possibile?
- È vero: una gioia continua, intensa, più vera d’ogni vero,
meravigliosa, più concreta del corpo, delizia d’ogni delizia,
più reale dell’aria, ananda la gioia inesauribile, la gioia per-
fetta, la gioia.
- Raman, t’invidio.
- Kapila t’aiuterà a rompere l’argilla, t’aiuterà.
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Film dal n. 37 al 41. (Dedicati a me). Li ha girati Fred-
dy e sono ottimi film, ben superiori ai miei. Belle inquadratu-
re, buoni colore e movimento. Ho perfino supposto che, in
passato, Freddy fosse uomo di cinema. No, no, ha detto. Di
malavoglia ricorda i tempi trascorsi. Quanto alle sue cicatri-
ci, m’ha accennato a certo guerreggiare nella giungla, non so
se di Corea o del Vietnam: e deve alle cicatrici una pensione
militare, che in India gli basta a iosa, vivendo come vive da
asceta vagabondo.
Sono debitore a Freddy anche di questi film, in cui mi
vedo. Ma non mi piaccio. La mia forma fisica mi è estranea.
In particolar modo la faccia, ma anche il resto. Non mi ci
sono mai riconosciuto. In India men che meno, intento co-
m’ero a separarmi da me stesso, arretrando, fino a rompere
l’argilla.
Si ruppe sul mare, a Mahabalipur, in un giorno d’aprile,
un giorno 12. Il film n. 41 arriva sino alla vigilia. Gli altri,
dal n. 37, sono tutti preambolo.
N. 37. Sto salendo con Kapila su d’una corriera. Gli oc-
cidentali hanno torto a rifiutarle: vi si viaggia bene, puntuali,
posto assicurato e costano poco. Il mio bagaglio s’è ridotto a
una bisaccia: la valigia sta dagli amici di Pondichéry, che mi
hanno rispedito denaro, documenti e biglietti.
Siedo accanto a Kapila. Dopo il discorso del prato, ab-
biamo parlato di rado. Qualche mia domanda, brevi suoi
suggerimenti. Egli è maestro non per quel che predica (non
predica mai), ma per quel che infonde, grazie a un’occulta
osmosi degli animi. Mi son accorto che non siamo ostriche
chiuse, anzi aperte da tutti i lati, sensibili alle oscillazioni de-
gli altri. La vibrazione di Kapila eleva.
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Nella corriera gli accenno ai miei momenti privilegiati:
l’aurora e il tramonto, quando raggiungo una serenità vasta e
adamantina. Mi guarda e lo direi compiaciuto. Poi:
- Conserva giorno e notte la serenità.
- Giorno e notte? Come?
- Arretrando.
N. 38. Sì, ridicolo abbigliato così. Ma calzoncini e ca-
miciola si sono sbrindellati, la valigia è a Pondichéry, nella
bisaccia non ho cambio e nei villaggi che attraversiamo non
vendono certo panni occidentali. Impietosito, Freddy m’ha
regalato un doti, pezzo di tela in cui gli indiani s’avvolgono
con tanta abilità da farne pantaloni e tunica, senza cuciture,
bottoni né spilli. Ma a me il doti casca di dosso, rischiando
ogni volta di lasciarmi nudo per via. Allora Freddy, la pipa in
bocca, taglia il telo, riducendolo a un gonnellino con cintura e
a una sciarpa per riparare le spalle e la testa dai solleoni. Ed
ecco il risultato. Sono ridicolo, ma ci sto bene e chi mi bada?
In India nessun passante si volterebbe a guardare com’è vesti-
to un uomo o com’è nudo. La nudità tropicale non è mai nu-
dismo né spogliarello.
«Conserva la serenità giorno e notte». È difficilissimo.
Mentre contemplo immobile l’aurora o il tramonto, l’animo
mi diventa limpido, liscio e azzurro come un lago di monta-
gna. Non è soltanto un sentimento, tenue: è uno stato dell’a-
nimo, solido. Ma appena ho finito, appena mi alzo, lo stato
cambia. Parlo con Raman, preparo la bisaccia, guardo la
gente per la strada ed eccomi proiettato nell’attività, dimenti-
co che v’è una serenità da conservare, totalmente assorbito
dai pensieri comuni e dai gesti abituali. Più tardi, d’improv-
viso, ricordo: «Conserva la serenità», Ricordo e m’indispetti-
sco con me stesso e con la mia dimenticanza. Ma il dispetto
non è serenità e del resto basta un nulla, basta l’acquisto d’un
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frutto, il salire sul treno, il cercare gli altri ed eccomi ricaduto
nell’oblio.
- Come fare?
- Arretra.
Questo è il segreto. Occorre arretrare, separarsi dal pen-
siero comune, dal gesto abituale: guardarli. È un’opera pa-
ziente, da orologiaio che osserva con la lente le spirali, gli
scatti, l’ingranaggio e pulisce, calibra, registra. Il segreto è
arretrate in se stessi, finché s’incontra una vibrazione quasi
impercettibile, poi sempre più evidente, una vibrazione silen-
ziosa, separata e calma. Chi vi si àncora, ha la serenità per
tutto il giorno. Ma la notte?
N. 39. Lo si può credere un film erotico. Freddy, in ag-
guato, m’ha colto ogni volta che stavo presso i bassorilievi
del tempio, ove sono riprodotti tutti i gesti, le carezze, le
pose, i volti bramosi, i sorrisi rapiti, gli orgasmi. L’amore
trasfigura gli amanti e la voluttà fa del corpo un altare.
È un tempietto isolato e antico in una pianura bianca, abi-
tato da un sant’uomo, vestito quasi soltanto del suo pelo: ha il
voto del silenzio e quindi ci saluta a mani giunte, ci sorride
per un poco e poi scompare. Arriva un gruppo di donne dal
villaggio vicino: vecchierelle, ragazzine, una malata, una gra-
vida. Entrano nel tempio per venerare il lingam, circondarlo
di corone floreali, aspergerlo di polveri colorate, accendere
bastoncini d’incenso. I loro gesti sono casti, non sanno cosa
sia l’erotico né lo suppongono. Eros è un Dio e l’amore è sa-
cro.
Il gruppo femminile s’allontana nella pianura bianca e i
sari colorati formano tavolozza. Questa gente non ha il no-
stro senso del peccato: per loro è inconcepibile lo stato d’ini-
micizia con Dio. Né ha il nostro gusto per il peccato: il pec-
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cato proprio, così affascinante, e il peccato altrui, che ci con-
sente di sentirci virtuosi e indignati.
Per Freddy il peccato è buon umore. Nato e cresciuto pre-
sbiteriano, divenuto omicida per obbligo militare, arenato in
India chissà come, trova assai divertente cinematografare un
cattolico circondato da una statuaria che per gli indiani è sa-
cra, ma per i cristiani oscena.
Ecco: guarda qui come m’ha ripreso. Sembro intento a
una contemplazione lubrica. Invece penso a tutt’altro, anzi,
sono assai scoraggiato.
Ho scoperto dentro di me un individuo insospettato, un me
stesso piccino e insopportabile. L’ho scoperto per caso. Ka-
pila m’aveva chiamato in disparte per dirmi qualcosa: ero se-
reno, inserito nella vibrazione che fin dal mattino avevo in-
contrato arretrando e mi ci ero ancorato. Lasciato il maestro,
vidi da lontano Raman che ci guardava, interrogativo. Di
colpo mi sentii tronfio: Kapila aveva chiamato me e non loro.
Agli angoli della bocca mi s’andava formando un’espressione
soddisfatta. Restai allibito a guardarmi dentro e mi dicevo:
«Possibile ch’io sia tanto meschino?». Fu la prima scoperta,
ne seguirono mille.
Quando mangio, ad esempio: se ho due frutti e ne offro
uno a un commensale, l’individuo cerca di dargli il peggiore.
Quando si parla in gruppo: è difficile trattenerlo, vuol farmi
intervenire, dire la mia, esibirmi. Quando compro: egli conta
il resto, convinto che tutti sono ladri. Dopo l’incontro con
qualcuno: subito m’elargisce lodi, come sono bravo, come
sono intelligente, come piaccio. Trovato uno specchio, osa
perfino proclamarmi bello, pur ridotto come sono (guardami
nel film), magro, cencioso, malconcio. Mentitore imperterri-
to, ha l’impudenza di dirmi: «Quella bella ragazza non guar-
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da Raman, guarda te». E se il discorso cade sui miei libri, di-
venta un tacchino e gurguglia di soddisfazione.
Ma questo è niente. Iracondo e malvagio. Se mi faccio
male urtando uno stinco, vorrebbe mi sfogassi con un calcio
su d’un cane di passaggio.
Non dirò altro. Ne sono spaventato. Alterna l’avidità al
timore e per ogni cosa si domanda: «Mi giova o mi danneg-
gia?». Non v’è viltà che non l’attiri, perversione che non
l’accenda. È certo in me da sempre, coabitante, ma ora solo
vedo la sua faccia.
Kapila m’ascolta sino in fondo, mentre dai bassorilievi gli
amanti ci guardano, Poi indica il metodo:
- Se lo fissi, gli dai vita. Sta fermo nella serenità e non
badargli. Senza la tua forza, avvizzisce e muore.
N. 40. Girato dentro il tempio, ai bagliori d’un fuoco,
questo film è tutto ombre: si distingue poco o niente. Soltan-
to per avervi assistito, riconosco il succedersi del culto ser-
pentino.
Il protagonista è Raman, nudo, seduto sulle gambe incro-
ciate, il busto dritto, il capo reclinato, lo sguardo fisso alle
pareti, gli occhi sulle scene scolpite, a cui egli stesso sembra
appartenere, tant’è bronzeo e immobile.
Kapila gli è di fronte, nella medesima posa, il corpo più
chiaro, dorato, marmo antico, le palpebre chiuse e l’ineffabile
sorriso interiore che in Oriente appare sul volti di tutti gli en-
tronauti, gli eroi e gli Dei.
In un braciere fiammeggia alto il fuoco sacro. I suoi bale-
nii danno ai due uomini una fissità statuaria, mentre rendono
viventi i bassorilievi, ove le figure degli innamorati s’accen-
dono al moto delle fiamme gialle, oscillano al gioco delle om-
bre, balzano coi riverberi rossi, avanzano, gesticolano: le
femmine offrono il seno rotondo, l’anca curva, le cosce emi-
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nenti, le bocche si baciano, le dita carezzano esperte, i maschi
si ergono sui lombi, stringono le membra amate accanitamen-
te e migliaia di corpi ritmano fra i guizzi, migliaia d’amanti
ondulano vivi sulle pareti.
Kapila è la guida tacita, ma Raman è il protagonista, av-
volto tutt’intorno dalla scena dionisiaca. Avvolto ma non pe-
netrato. Il suo distacco dall’attrazione terrestre dev’essere
tanto, da poter guardare sereno il baccanale. La minima ade-
sione si rivelerebbe, nudo com’è.
Invece egli, immobile, va arroventando col fuoco interiore
la potenza creatrice (aggrovigliata come serpe intorno al sa-
cro), per dirigerla vertebra a vertebra sino all’epifisi. Un lun-
go brivido trasale su per la sua schiena.
Raman è di pietra, non respira, oltre le stelle. L’eroe casto
ha vinto l’orgia terrestre.
N. 41. Ultimo film. È l’alba, arriviamo a Mahabalipur,
sessanta chilometri da Madràs, oggi, 11 aprile.
Luogo celebre, architetture monolitiche, i re Pallava, gi-
ganteschi animali in roccia viva, gli eroi dell’epopea di Krish-
na, insomma un luogo per turisti occidentali museòmani: in-
fatti ve n’è un intero autobus, tedeschi.
Oppure un luogo per Kapila, che sa leggere in questi gra-
niti le strofe universali della Bhagavad Gita, che sa trovare in
queste caverne la presenza di Sciva. Kapila, sempre così
contenuto, s’infervora davanti alla lunga rupe che raffigura
Dei, uomini e animali in corsa felice per abbeverarsi al Gan-
ge. Mi indica le figure rupestri:
- Guarda: tutti questi esseri sono rapiti dal giubilo divino,
ananda ananda. Chi l’ha provato, qui lo ritrova, ananda
ananda.
Mentre mi parla, due tedeschi (archeologi, mineralogisti o
chissà che) raccolgono pietruzze, prendono misure delle sta-
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tue, esaminano il granito, ne discutono la composizione,
neanche suppongono quel che è palese a Kapila. Chi è inten-
to ai corpi non vede lo spirito, chi allo spirito non vede i cor-
pi. Una civiltà corporea è atea, necessariamente.
Mahabalipur monumentale non ha voce per me, resta
muta. Forse è perché sono troppo occupato a divenire
apprendista entronauta. Mestiere difficile, senza intervalli,
giorno e notte.
Ho da conservare la vibrazione serena, così facile a per-
dersi. Ho da parlare con l’Arcangelo. Ho da badare al mio
coabitante sotterraneo, limaccioso e malvagio. Ho da cono-
scere meglio una brezza sottile che scende dall’alto (dalla
nuca?), fresca e ossigenante, miracolosa. Ho da chiudermi
alle tentazioni visionarie, medianiche, ai limbi, agli inferi che
tanto più sprofondano quanto più ti alzi. Ho da conquistare
la notte, poiché il sonno è cambiato e talvolta vi tocco una
trasparenza in cui la serenità m’è compagna fin al mattino.
Poi ho da curare la grande scoperta: io sono un altro. Infine
ho da vigilare il fuoco, certi fuochi interiori, ardenti, fiamme
talvolta nel cuore, fiamma di devozione e d’abbandono, anco-
ra non so a chi, forse a Dio, se la parola non fosse consunta
sprecata venduta, forse alla Madre divina, l’antica, la prima,
la paleolitica, l’eterna, sì, cancellarmi, divenire solo un suo
strumento.
Amico mio, mi credi matto? Per ogni cavernicolo è matto
il cosmonauta.
Intendiamoci, ormai so bene che le forze spirituali non
sono astrazioni consolanti, né effusioni sentimentali, sono
realtà possenti, anche terribili. Ma con Kapila mi sento un
ragazzo condotto per mano.
Questa è la scena finale del film n. 41. Tinte intense.
Cielo raggiante, mare turchino, bianco scrosciare dell’onda,
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rena gialla ove camminiamo sprofondando: Kapila (ocra),
Raman (bronzo), io (carnicino). Freddy non si vede: gira.
Macchie di colore, avanziamo verso il Tempio della Riva.
Eccolo. È piccolo, in confronto a certi grattacieli degli
Dei. Ma è perfetto come un Partenone, come un Tâj-Mahal,
pur diversissimo. I millenni l’hanno colorato di ruggine, le
preghiere l’hanno santificato, Iddio l’ha benedetto. Accanto
al mare, fuori dal mondo, disabitato, siamo i soli qui intorno,
salvo la pace immensa. Gli ultimi fotogrammi: io che mi fer-
mo e ammiro. Qui finisce.
Ultimo film, ultima testimonianza. Per tutto quel che se-
gue, ho solo qualche fotografia, gli appunti e la memoria da
confidare al dittafono.
Mi fermo, ammiro, mi spoglio del telo, mi bagno nel mare:
è l’Oceano indiano. Freddy mi imita, gran nuotatore, e s’al-
lontana al largo. Dall’acqua guardo il tempio, vicinissimo,
quasi sulla battigia. Ne sento il fascino possente. L’impres-
sione del traguardo: mi fermo qui, sono arrivato.
L’impressione che talora danno anche luoghi profani. A
me Capri, ad esempio, tanti anni fa, appena sceso dal battel-
lo: ecco il luogo ove resterò. Ma ora quest’impressione è ben
più forte, non profana estetica panoramica, invece sacra arca-
na incombente: ecco ove finisce il mio peregrinare.
Esco dall’acqua grondante e impulsivo dico a Kapila:
- Voglio restare.
Consente subito. Arriva Freddy e s’incarica di procurarmi
ogni giorno dal villaggio cibo e bevande. Raman m’assicura
che verranno a riprendermi fra dieci giorni. M’aspettavo una
resistenza: invece, appena toccato, il congegno s’è messo in
moto, senza attriti. Ne resto sorpreso e incerto.
Mangiamo all’ombra del tempio. Quando il solleone s’at-
tenua, si preparano alla partenza. Sto per rimanere solo. Di
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colpo l’angoscia m’agguanta. Me n’ero tanto liberato, da non
ricordarla più. M’avvicino a Kapila:
- Tornerai?
Non so quale Pizia entro di me vaticina che non lo rivedrò
mai più. Inorridisco e sto per prendere la bisaccia, il mate-
rassino: non resto, non lo lascio. Il suo sguardo sereno pene-
tra nella mia paura e la calma. Infantilmente mi dichiaro suo
creditore:
- Devi ancora iniziarmi al rito serpentino.
Sorride e nega:
- No, non è per te. Per te la potenza non sale dal basso,
scende dall’alto. Non temere: ti sarò sempre vicino.
Mi lascia con questa parola sibillina. Se ne vanno. Li
vedo rimpicciolire in lontananza. Freddy si volta e mi saluta,
levando il braccio. Se ne sono andati, sono scomparsi nell’e-
ternità del tempo, nell’immensità dell’India.
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Pace, invece della paura la serenità, invece del vuoto la ricer-
ca, invece del disgusto la speranza. E ho trovato il divino.
Dunque non sono ammattito, anzi sono pratico, concreto, uti-
litario, pieno di buon senso.
Il mare consente, il cielo consente, la notte consente. Mi
metto a dormire.
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mi riusciva difficile mangiare e la ragazzina pietosa m’aiuta-
va. Era di pelle scura, liquidi gli occhi e il sorriso pronto.
L’esiguità dell’anca la faceva somigliante a un giovanotto.
Sovrabbondava in letizia, come tutti gli indiani nell’infanzia e
nella fanciullezza. Il mistero dell’India non è la fame, è la
gioia.
Poi venne col fratello, poi la madre, il padre, la famiglia.
Un giorno m’avvidi che mi scambiavano per saggio o santo e
mi veneravano. Carestie e stenti hanno loro insegnato a di-
stinguere il trapelare dell’uomo interiore, libero e felice. Per-
ciò accorrono al primo segno. Tentai di dissuaderli e mi ve-
nerarono di più. Fuggii la notte stessa. Il mistero dell’India
non è la fame, è la gioia.
Fuggii diretto a Pondichéry. Dovevo parlare con qualcu-
no. Stavo rientrando in me, condanna amara. La mente ave-
va ripreso a discorrere, a ragionare, a rinvenire spiegazioni
plausibili, ad ammucchiare tutto entro i suoi limiti. Questo
suo esagitarsi m’era assai penoso. A Pondichéry avrei certo
trovato chi m’aiutasse a tradurre alla mente l’accaduto e così
quietarla. Gli intellettuali hanno il peso dell’ipertrofia menta-
le, come gli sportivi dell’ipertrofia muscolare. Da Pondichéry
sarei tornato al Tempio della Riva, per l’appuntamento con
Kapila. Questo il programma: ma le cose andarono per tut-
t’altro verso.
Arrivai a Madràs in corriera, credo. Il ricordo è confuso:
avevo già la febbre. Rammento d’essere entrato in un nego-
zio di Madràs per comprare calzoncini e camiciola: indecente
arrivare a Pondichéry con il gonnellino confezionato da Fred-
dy e laceratosi proprio sulle natiche. Ricordo anche d’aver
preso il treno, ma qui confondo con un sogno: inseguivo il
treno senza raggiungerlo a causa del troppi bagagli, finché,
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lasciatili cadere, mi riusciva d’aggrapparmi all’ultima carroz-
za.
Ho sempre mal sopportato la febbre: se supera i trentotto,
vaneggio. A Madràs mi rendevo ben conto d’aver bisogno di
cure e ciò mi spingeva ancor più verso Pondichéry, ove v’è un
nuovissimo ospedale e la clinica delle suore francesi, soprat-
tutto v’è Alberto, gli altri amici e la mia valigia.
Insomma, presi il treno ma non arrivai. A mezza strada
scesi, abbandonando bisaccia, materassino, passaporto, bi-
glietto aereo, dollari e rupie. Febbre a quaranta. Perché sono
sceso? Chissà. Non rammento neanche d’essermi poi sdraia-
to all’ombra d’un albero, ove alcuni contadini mi trovarono e
chiamarono la guardia stradale, quella che sorveglia il tra-
sporto del riso. Ordinò mi ricoverassero in una capanna e lì
riaprii gli occhi.
Avevo freddo e brividi. Ero sdraiato a terra, su d’una
stuoia. Una vecchia mi stava vicino, accoccolata: ne vedevo
le mani, logore, la pelle dalla palma dura e sciupata come
suola, le dita nodose e secche, arboree, mani solcate da grosse
vene in rilievo, povere vene dal sangue stanco, dal sangue
freddo ed esse si spingono fuori per scaldarsi al sole.
Di quelle ore o giorni ricordo poco o niente, salvo una sce-
na del delirio in cui ridevo tanto: parlavo con Essy del peyote
e Maggie dell’onnipotenza, mentre Nala e Poo bambine,
ascoltavano gravemente il derviscio che diceva niente insalata
senza ascensore e mi spanciavo dal ridere.
Riaprii gli occhi e trovai davanti la faccia di Freddy, ca-
pelli rossi, efelidi, occhio che ammicca, il buon sorriso, la pa-
rola incoraggiante: «Italian, ma che fai?». Ne fui tanto con-
fuso e consolato, da mettermi a piangere, senza poter parlare.
Freddy, amico mio, quanto sono stato ingiusto verso di te,
quanto in cuore ti ho condannato perché vivevi da girovago
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americano, da ridanciano fumatore di pipa. Una volta, invi-
perito dal tuo fotografarmi vicino alle statue degli amanti,
t’ho perfino chiamato presbiteriano omicida. Americano,
amico mio, stupido che sono, non capivo che la tua vita è
d’essere soccorsevele e cosi rompere l’argilla. Piangevo sen-
za ritegno, incapace di ringraziarlo, incapace finanche di do-
mandargli come m’aveva trovato.
Mi prese in braccio, ripetendo il gesto di Agra, mi sdraiò
su d’un carro di buoi, Enea e Anchise, mi trasferì su di un’au-
tomobile, mi depose su di un letto dell’ospedale di Pondichéry
e già Alberto era stato avvertito e m’aspettava, già il passa-
porto era stato trovato e il biglietto aereo. Non indugiò. Mi
diede in fretta un piccolo Ganesci di bronzo dono di Kapila,
mi mise una mano sulla spalla dicendomi: «Italian guarisci
presto» e se n’andò, alto e grosso, pieno di naturalezza nel
suo perizoma, passando fra i medici in camice bianco.
Pur debole tanto da non poter parlare, gustavo la ritrovata
mollezza del letto. Grato, sorridevo all’Arcangelo.
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pensare? Insomma, volevo una dose di idee da somministrare
al mio comprendonio, assuefatto a elucubrare all’europea.
Foste mai convalescenti in un aprile un po’ velato? Reci-
tavo versi italiani e le infermiere ridevano. L’aprile indiano è
folgorane, ma ero pieno di biancori e la convalescenza m’il-
languidiva. Alberto parlava e l’ascoltavo flebilmente.
Mi somministrò la dose. Disse della gioia, la trascenden-
te, la trasformante, la suprema, la divina, l’unica e le altre
sono tutte imitazioni sbiadite. La gioia che ognuno cerca e
finché non la trova, non ha pace. La gioia, diceva e dal tono
capivo che la conoscevamo entrambi, fratelli. Gioia inaltera-
bile che il tempo non invecchia, che il corpo non macchia, che
ti dà la certezza e ti salva dalla solitudine. La gioia, non in
un paradiso postumo ed evanescente, ma qui, su questa terra,
adesso, in questo corpo.
Eravamo nella corsia: egli parlava in italiano, sottovoce,
accanto al mio guanciale e i malati tacevano, quasi capissero.
È vero, Alberto, è vero. Diceva: averla conosciuta anche una
sola volta, anche un solo momento, ti fa per sempre diverso e
non la dimentichi più. Averla perenne in sé trasforma la vita
in eden. Questa gioia è il sostrato dell’universo e lo giustifi-
ca. Consentivo, la mente placata: è vero, Alberto, è vero.
Guarii e debbo una testimonianza all’India: il suo segreto
è la gioia. Debbo una testimonianza a chi mi ha aiutato o se-
guito: il segreto è la gioia. Se il mio nome ti pesa, buttalo e
tienti soltanto la canzone.
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gio in Europa è bellissimo, chissà dov’è Kapila, non puoi ri-
trovarlo in questo stato. L’ultima spinta:
- Non dimenticare che sei cristiano.
- Alberto, che vuoi dire? Sono piuttosto indù.
- Non si diventa indù, si nasce.
- Alberto, proprio tu?
- Non a caso si riceve il battesimo. Il tuo Arcangelo esce
dal Vangelo di Maggie.
Non avevo voglia di disputare, ero troppo debole. Più che
la mia testa, gli davano ragione le mie gambe, flosce. Da
Roma mi telegrafavano inviti al ritorno. Kapila aveva detto:
«Ti sarò sempre vicino». Portavo con me il suo piccolo Ga-
nesci di bronzo.
Dopo ore e ore d’aereo, annunciano che sorvoliamo la
Grecia e il Monte Athos.
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