Per essere a Torino
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Alessandro Comoglio nasce nel 1974 a Torino. Attratto dalla sua città come da una forza di gravità invincibile è tornato a viverla e raccontarla dopo una lunga traiettoria in Italia e nel mondo. Laureato in filosofia teoretica con Gianni Vattimo, ha pubblicato nel 2000 per Paravia Bruno Mondadori Filosofie del denaro. Ha attraversato variegate esperienze professionali in numerose aziende multinazionali, dal marketing alla comunicazione all’organizzazione di grandi eventi e oggi lavora, suo malgrado, nel campo dello sviluppo immobiliare.
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Per essere a Torino - Alessandro Comoglio
Alessandro Comoglio
Per essere a Torino
© 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-306-7515-5
I edizione febbraio 2023
Finito di stampare nel mese di febbraio 2023
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
Per essere a Torino
A Sara, che forse un giorno sorriderà
leggendo questo libro
«Poteva andare anche peggio».
«No».
Francesco Tullio-Altan
Nuove Voci
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
Premessa
A rigor di logica, dopo cinquant’anni di globalizzazione sempre più accelerata, soprattutto nelle grandi città – che in provincia e campagna, nonostante la Rete, le cose continuano ad arrivare un po’ in differita – dovrebbe ormai esistere un homo urbanus
identico a sé stesso in ogni dove. Un prodotto cittadino standard che, indipendentemente dalla latitudine geografica, dalla provenienza famigliare, dai tratti somatici e dal colore della pelle, indossa gli stessi vestiti, ascolta la stessa musica, ha più o meno le stesse opinioni su tutto, reagisce in maniera automatica a stimoli commerciali universali, uguali ovunque, e soprattutto affronta i fatti della vita con un unico e solo spirito collettivo globalizzato. Non dovrebbe quindi esserci nulla di più lontano da un asettico soggetto orizzontale, ripetuto in serie da un capo all’altro del pianeta, di forme-pensiero locali radicate verticalmente, le cosiddette mentalità
territoriali: caratteri, umori e inclinazioni frutto di antiche appartenenze di clima, razza, tradizione e religione, sempre più deboli e obsolete.
Eppure questo homo urbanus universale, palesemente, non esiste da nessuna parte, neppure in quelle che dovrebbero essere le sue moderne culle d’elezione. Londra, ad esempio. Sicuramente la città più globalizzata d’Europa, probabilmente del mondo, ha abdicato da decenni a qualsiasi pretesa identitaria. Tolti il Big Ben, Buckingham Palace, il portoncino di Downing Street e Fortnum&Mason, di stretto uso pubblicitario, sono spariti tutti i segni di riconoscimento nazionale autentico. Londra ha smesso di fare qualsiasi cosa in proprio, anzi ha semplicemente smesso di fare del tutto. A Londra non si fa né sviluppa più materialmente niente, soltanto si dirige quello che fa qualcun altro in qualche altra parte d’Inghilterra o del mondo. E proprio perché non occorre saper fare nulla di preciso, è il punto di convergenza di impressionanti, multiformi masse cosmopolite, in cerca di opportunità in un campo neutro che (fino a ieri) accoglieva chiunque, a patto di rispettare le tanto imparziali quanto feroci regole della competizione. Per la sopravvivenza della macchina cittadina, che cresce quotidianamente a dismisura, ogni ingranaggio della vita pubblica, appena fuori dalla porta di casa, è ottimizzato all’estremo, a servizio dell’assoluta funzionalità all’obiettivo economico, che continua a spostarsi in avanti, sempre fuori portata. Perché tutto costa troppo. Enormemente troppo.
Si affina, giorno dopo giorno, uno spietato efficientismo di percorsi, trasporti e processi per spremere da ciascuno il massimo rendimento nell’unità di tempo. La dittatura dell’economia di scala ha estinto gli ultimi timidi particolarismi di matrice originale. In nessun altro luogo, nemmeno negli Stati Uniti, si ritrova una tale anonima, ossessiva ripetizione di negozi e servizi affiliati alle grandi catene mondiali. In ogni strada, di ogni quartiere, nella stessa identica sequenza. Questo enorme frullatore, acceso alla massima velocità 24 ore su 24, dovrebbe essere il laboratorio perfetto dove incontrare l’homo urbanus del XXI secolo, completamente decontestualizzato e privo di pregiudizi, talmente impegnato a rincorrere i ritmi allucinati del lavoro digitalizzato da non avere più tempo, né spazio, né respiro per coltivare folkloristiche tradizioni o ataviche psicologie di derivazione etnica. Talmente avvezzo alla mescolanza vorticosa di generi, razze, espressioni, stili e accenti che gli ruota attorno in metropolitana da non distinguerli più, e considerarli soltanto sfumature di un unico colore, modulazioni di frequenza di un grande rumore di fondo. Talmente allenato alla palestra della convivenza stretta con le diversità, che