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Deranged
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Ebook568 pages7 hours

Deranged

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About this ebook

La vita della giovane liceale Bianca scorre in maniera piuttosto lineare nonostante gli alti e bassi tipici dell’adolescenza: ha assorbito con coraggio il duro colpo dell’abbandono dei suoi genitori già in tenera età, e condivide le proprie giornate in compagnia della zia Giada e della migliore amica Andrea. Ha una forte passione per la musica, e proprio in occasione di una festa scolastica viene notata tra il pubblico dai Blue Flame, la band giovanile che sta iniziando a mietere i primi successi, ricevendo la proposta di entrare a far parte del gruppo. Sembra un sogno a occhi aperti per Bianca, che stravede per quei suoi coetanei così fascinosi e idolatrati: ma le luci della ribalta promettono davvero un radioso futuro, o celano invece un doloroso passato?

Cresciuta tra i libri di storia e letteratura della madre e i manuali di anatomia del padre, Giulia Mochi si sente a proprio agio tra le parole. Dopo gli studi classici, l’accademia di illustrazione e una serie di pubblicazioni vincenti per i concorsi più disparati, è ormai sicura di aver trovato la propria felicità nell’arte. Un incontro inaspettato le fa rivedere ogni certezza, portandola sulla strada della musica: un percorso pericoloso ma necessario a farla crescere.
Questo romanzo è dedicato alla persona che le ha cambiato per sempre la vita.
LanguageItaliano
Release dateFeb 28, 2023
ISBN9788830679658
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    Deranged - Giulia Mochi

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi:

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani)

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    PARTE UNO

    I

    "Take me down, to the paradise city

    Where the grass is green and the girls are pretty."

    Così cantava Axl Rose nel 1987 e così cantavo io quando le giornate non erano altro che grigio su grigio.

    Tutti abbiamo bisogno di scappare, a volte.

    Tutti avremmo bisogno del Paradiso. Sempre.

    In fondo però, non ero convinta che un tipo come il signor Rose si sarebbe fermato in una città perfetta, dove ogni cosa va esattamente come vorresti. Nemmeno io lo avrei voluto; forse per un giorno o due, ma poi sarebbe diventato noioso. Forse un po’ di grigio era necessario.

    C’era una persona a cui avrei tanto voluto chiederlo. Una persona a cui avrei domandato se gli piacessero le pretty girls o se non ci avesse mai pensato, e se l’unica parola femminile di cui si fosse mai innamorato fosse musica.

    Quella persona si chiamava Riccardo Neri ed era la mia ossessione dei tempi del liceo: un ragazzone con la stazza da buttafuori e l’abbigliamento del classico rockettaro che voleva distinguersi dalla massa di tamarri e fare dispetto ai genitori.

    Però lui non si atteggiava solamente, ci credeva davvero.

    Probabilmente portava polsini di cuoio e anelli di ferro già dall’asilo, quindi la sua non era una fase.

    E poi suonava.

    Aveva studiato batteria da prima di nascere e, quando non era allo strumento, teneva comunque il tempo con il piede.

    Normalmente i batteristi venivano sempre ignorati, perché stavano seduti nelle retrovie, in ombra, e in un perenne e frenetico movimento che li riduceva a busti che agitavano le braccia e le criniere di capelli. Però lui aveva quel qualcosa che aveva fatto in modo che i miei occhi gli si incollassero addosso, sia ai concerti che in corridoio a scuola.

    Riservava sempre un sorriso a tutti, era gentile… ed ero certa che la signora della segreteria fosse una mia grande rivale.

    Al primo anno di liceo, lui e il suo gruppetto di amici avevano messo su i Blue Flame, una band che per sonorità e stile aveva pescato a piene mani dalla scena hair metal.

    Che cosa avrebbero potuto combinare dei ragazzini che strimpellavano in questo o in quel bar in cambio delle bibite gratis?

    Tutto.

    Gli articoli sul Tirreno e le chiacchiere avevano attirato l’attenzione del proprietario del Rose, il club più in vista della Versilia, secondo solo alla leggendaria Bussola. In poche parole, il ricco e lungimirante Christian Bravi li aveva comprati senza battere ciglio, proprio per aggiudicarseli prima che ci pensasse la concorrenza.

    Li aveva pregati di animare gli eventi esclusivi all’interno del suo club, prima utilizzandoli come apripista per band di rilievo, poi lasciandogli tutto lo spazio di cui avevano bisogno. Il loro periodo di prova fu breve, perché erano in gamba e con la voglia di lavorare sodo.

    Il proprietario gli regalò la visibilità necessaria per iniziare una carriera effettiva in cambio di un contratto discografico con la sua casa di produzione, la neonata ma già quotata Morning Star, che aveva lanciato altri gruppi in rapida ascesa come i Mystical Mist e i Graceful Corpse. Insieme ai Blue Flame, avevano tutti la stessa caratteristica: cantavano solo ed esclusivamente in inglese, risultando credibili. Credibili come lo erano i Police e i Duran Duran, ma con la particolarità di essere originari di Marina di Pietrasanta.

    Le etichette indipendenti del cosiddetto Rinascimento rock italiano erano comparse già agli inizi degli anni ’70, dando risalto a gruppi leggendari come Litfiba, Diaframma e Violet Eves. Tutti in gara, tutti sullo stesso piano.

    L’anno dei Blue Flame era l’anno delle nuove rotte musicali, il punto di inizio. Il rock degli anni ’70 era stato soppiantato dal punk, ma il punk era durato troppo poco. L’hair metal di Warrant e Guns N’ Roses la faceva da padrone, certo, ma mentre gli anni ’80 stavano arrivando agli sgoccioli, ecco che si parlava di Nirvana e Alice in Chains. Si parlava di grunge.

    I Blue Flame erano un’accozzaglia perfetta del ventennio passato, con una spolveratina di innovazione che permeava l’aria in vista del nuovo decennio.

    Seattle aveva Kurt Cobain? Lucca aveva Riccardo Neri e la sua band.

    Al momento, quando i giochi erano appena iniziati, era ancora possibile fare un paragone che non facesse sorridere.

    Perché i Blue Flame dimostrarono subito di avere la stoffa per poter fare strada. La miccia era accesa e la bomba pronta a esplodere.

    Nel bene e nel male.

    Da un giorno all’altro, il banalissimo e grigio liceo statale Michelangelo si era trasformato nel luogo d’assalto di giornalisti e fan impazziti. Le facce dei Blue Flame ti osservavano languide dalle stampe dei giornali, dalle copertine delle riviste e, a volte, anche dallo schermo del televisore. Conservavo come una reliquia la videocassetta che conteneva l’esibizione del gruppo all’edizione ’86/’87 di Discoring.

    In quella strana e improvvisa follia, la cosa consolante era che le lezioni avevano continuato il proprio corso, gli insegnati erano rimasti intransigenti e i nuovi fenomeni del momento non avevano dato segni di essersi resi conto della propria popolarità.

    Quando facevano lo show erano quelle divinità perfette che facevano piangere le ragazzine. Quando entravano nel liceo alle otto erano comuni mortali che pregavano per il sei politico.

    Dopo la confessione della videocassetta, è inutile dire che fossi un’assidua visitatrice del Rose, all’inizio solo con una mira ben precisa che nel tempo si era trasformata in qualcosa di più.

    Ero innamorata persa di Riccardo, anche se il massimo dei discorsi che avevo intrattenuto con lui riguardava il meteo o le verifiche, ma ero anche incantata dalla musica del suo gruppo: quattro ragazzi che sotto i riflettori ti portavano in un altro mondo.

    Nonostante il successo, non avevano dato segno di volersi sedere sugli allori. Suonavano con la passione di chi è agli esordi ed è entusiasta di aver realizzato qualcosa. Suonavano con l’anima.

    Il loro frontman e prima chitarra faceva quasi paura: era esattamente il tipo che ti aspetti di vedere in un film a luci rosse pluripremiato. Suonava come se non avesse altri scopi nella vita e aveva una presenza scenica che faceva sbiadire tutto il resto. Anche questo soggetto era individuabile nei corridoi del mio liceo, ma anche così, in cattività, aveva una qualche aura di fascino e pericolo che faceva in modo che nessuno gli si avvicinasse più del dovuto. Senza contare che dalla sua vantava una invidiabile collezione di sospensioni e richiami che – per misteriose ragioni – non erano mai sfociati in una bocciatura.

    Si chiamava Claudio e basta, perché se dicevi Claudio, era ovvio che stessi parlando di lui. Era l’unico membro del gruppo a essere famoso già prima del successo. Non solo era bello, ma era anche un prodigio della musica che non si era mai fatto problemi a dare dell’incompetente agli insegnanti che non riuscivano a stare al suo passo.

    Lui era la faccia della band.

    Si sapeva poco e niente del bassista e della seconda chitarra: anche loro avevano un certo magnetismo, ma non si preoccupavano tanto della visibilità. Restavano sempre due mirabili creature, ma non erano Claudio.

    Quindi, per farla breve, ecco le mie priorità all’inizio di tutta la vicenda: Riccardo, la musica e prendere voti decenti a scuola.

    A differenza dei Blue Flame, ero decisamente una ragazza come le altre. Una ragazza che si vestiva e truccava come Joan Jett, ma, a parte questo, come le altre.

    Non volevo cambiare la mia situazione, non avevo sogni irrealizzabili.

    Volevo solo uscire con un ragazzo che mi piaceva.

    Peccato che avessi scelto quello sbagliato.

    II

    Iniziò tutto nel luglio appiccicoso dell’ultimo anno di liceo, alla festa organizzata per la fine degli esami di maturità che si teneva, ovviamente, al Rose.

    I Blue Flame erano riusciti a convincere il loro manager a riservare il locale alle quinte del liceo e quello aveva magicamente acconsentito. O meglio, aveva semplicemente fiutato l’ennesima occasione per sfruttare le sue gallinelle dalle uova d’oro.

    Pubblicità, fotografi appostati anche nei tombini, transenne… nulla di tutto quel caos riuscì a impensierirmi.

    Mi dicevo solo che non avrei potuto avere più fortuna.

    Per le prime ore della serata era filato tutto liscio, ma con il procedere degli eventi e con lo svuotamento graduale delle riserve d’alcol del locale, il tutto stava inevitabilmente degenerando.

    Non si può chiudere una mandria di adolescenti in piena crisi ormonale in una stanza semibuia con poco spazio di manovra e musica sparata, sperando che questi non facciano quello che una mandria di adolescenti in piena crisi ormonale riesce a fare meglio.

    Così non passò molto prima che la maggior parte dei presenti perdesse interesse per la band sul palco e si dedicasse ad altre attività ricreative, permettendomi di arrivare fin sotto la pedana e continuare a strillare le strofe delle canzoni più sporche del repertorio dei Blue Flame.

    Per l’occasione avevano presentato una scaletta che aveva la funzione della musica techno in discoteca: zero contenuti e incitamento a strusciarsi.

    Senza la pretesa che i loro compagni di scuola li stessero a sentire, avevano srotolato i loro remake più quotati.

    Le cover erano sempre diverse dagli originali, più veloci, più rumorose, più tutto, mentre i pezzi composti dal gruppo erano totalmente diversi. Troppo veri e profondi per una serata in cui nessuno voleva ascoltare.

    Le melodie erano potenti, e spesso in netto contrasto con il ritmo incalzante degli strumenti, forse proprio per ingannare gli ascoltatori con il classico la canti, ma non sai le parole.

    All’inizio del nuovo brano incrociai gli occhi di Claudio e ci caddi dentro.

    Erano così blu e irreali e… tristi. Non avevano niente a che fare con lo sguardo supponente delle sue foto in copertina.

    Altre volte mi era capitato di cogliere la stessa sfumatura, mentre ci studiavamo in corridoio o alle assemblee di istituto, ma non avrei saputo dire di più. Claudio era un lupo solitario, nessuno si avvicinava a lui, a parte la sua band.

    Mentre lo guardavo, sentivo qualcosa pizzicare nella testa, come un pensiero che sboccia lentamente e che non potrà avere significato fino all’ultimo.

    Un braccio sudato mi strinse le spalle.

    Mi voltai come se mi avessero dato uno schiaffo: ero arrabbiata per aver perso quella sensazione.

    Davanti a me si intravedeva la faccia di un ragazzo, ma con le luci vorticanti non avrei saputo riconoscerlo. Aveva la voce malferma e puzzava di alcol. «Sei proprio carina.»

    «Tu no.» Non avevo tempo per un moccioso ubriaco e il contatto tra il suo braccio e la mia pelle mi faceva venire la nausea. Gli afferrai il gomito e me lo levai di dosso. La cosa non gli fece piacere.

    «Perché fai la stronza?»

    «Perché hai rotto il cazzo.» Decretò una voce alle sue spalle.

    Il tipo si voltò e alzò i tacchi nell’immediato.

    Tirai un sospiro di sollievo. «Grazie, Andrea.»

    «Dovere, sorella.»

    Andrea Parisi: un nome, un programma. Non era un maschio, come pensavano subito tutti e come avevano modo di verificare vedendola: capelli da Barbie, occhi verde prato e una manciata di lentiggini sparse attorno al naso alla francese.

    Tutto normale, se non fosse che andava in giro vestita come Tupac e, soprattutto, parlava come Tupac.

    Era il terrore dei ragazzi e l’argomento di gossip delle ragazze. E, grazie a Dio, era la mia migliore amica. Meglio: era la mia unica, vera amica.

    «Allora, stavolta ti dichiari a Cuz Cobèn, o devo minacciare anche lui?» Strillò per sovrastare la musica.

    «Kurt Cobain…»

    «Non è importante! Promettimi che alla fine del concerto gli parlerai, o butto giù tutto.»

    Già, il piano era quello. Erano mesi che Andrea ed io progettavamo il mio incontro romantico e l’ora fatidica era arrivata.

    Solo che io non mi sentivo ancora pronta.

    Non c’era nulla di trascendentale in un semplice invito a uscire insieme, lo capivo, solo che non riuscivo a farlo.

    Che cosa sarebbe accaduto dopo? Come si faceva la fidanzata?

    «Ehi.»

    Mi trovai con le mani di Andrea intrecciate alle mie, in una parodia di una posa di danza.

    «Adesso balliamo come se non ci fosse un domani, tu ti scarichi un po’ e poi corri da Cuz, va bene?»

    Attaccò con una serie di passi da regina della street dance e la folla attorno a noi si diradò per farle spazio.

    Tutti conoscevano Andrea principalmente per due cose: picchiava come un ragazzo e ballava come un’acrobata, ora anche sulle note rock dei Blue Flame.

    Tese le braccia verso di me, come per attirarmi, e la seguii: mi aveva insegnato abbastanza passi per potermi divertire con lei, ma non avrei mai retto il confronto in una gara.

    Attorno a noi qualcuno faceva il tifo, qualcun altro applaudiva e altri ancora commentavano in modi più o meno carini.

    Una punk mancata e una ballerina del ghetto.

    Andrea ed io eravamo diverse e avevamo spaccato in due la scuola: una metà ci amava, l’altra ci odiava. E a noi non fregava assolutamente niente.

    I Blue Flame erano in televisione, ma anche io e lei ci eravamo ritagliate il nostro angolino di celebrità.

    Mentre ridevo assieme a lei, pensavo che solo Andrea riuscisse a tirare fuori la vera me. Con lei ero sicura, ero spontanea, ero veramente tosta.

    Perché è così che sono le persone toste: quelle che fanno e dicono ciò che pensano, e se gli altri non sono d’accordo, che si fottano.

    Sì, quella era l’energia che mi serviva, la stessa che ancora mi pulsava addosso anche quando la musica si affievolì fino a spegnersi e la gente iniziò a sciamare fuori.

    La stessa che mi diede il coraggio di arrampicarmi sul palco, mentre Andrea mi faceva segno che ci saremmo sentite al telefono una volta compiuta la missione.

    Con la grande pista da ballo sgombra e i riflettori spenti, sembrava di trovarsi in un teatro abbandonato.

    Restavano solo gli attori con addosso i costumi e gli strumenti che facevano da scenografia.

    La seconda chitarra, il bel ragazzo a cui l’abbigliamento da scappato di casa non rendeva giustizia, mi notò per primo. Non diede segno di essere infastidito e si limitò a sorridermi mentre correva in aiuto del bassista. Il suo amico sembrava il fratello gemello di Sebastian Bach degli Skid Row, solo con i capelli neri e verdi, ed era gravemente impigliato nei cavi degli alimentatori.

    Salire lassù con loro non mi diede le vertigini che mi sarei aspettata.

    Per me i Blue Flame erano compagni di scuola, persone normali che facevano casino durante l’ora di ginnastica e si mettevano in fila per il bagno. Forse era per quello che non ero agitata.

    Mi guardai rapidamente intorno e trovai il mio obiettivo. Riccardo era in parte nascosto dalle quinte e stava parlando animatamente con qualcuno. Avrei dovuto aspettare.

    «Sei brava a ballare.»

    Tutta la mia tranquillità evaporò.

    Mi voltai come se mi avessero puntato una pistola nella schiena: lentamente e con i sudori freddi.

    Prima mi accecai con il riflesso di un crocefisso – che sul petto nudo su cui si trovava sapeva molto di volgare – e poi con quello di un piercing dorato appeso a un sorriso altrettanto blasfemo.

    Gli occhi blu del cantante erano di nuovo puntati nei miei e i suoi capelli rossi sembravano un’aureola che gli conferiva tutto, meno che l’aria di santità.

    Sentirlo parlare mi fece un effetto strano. Non era come quando cantava…

    «Grazie?»

    «Con chi vuoi provarci, principessa?»

    Principessa?

    «Come?»

    Lui sorrise: i suoi denti erano troppo bianchi e i suoi canini troppo lunghi.

    «Non è la prima volta che ci regali una delle tue performances. Da qui si vede tutto. Hai ballato davanti al palco, ti abbiamo notata, hai aspettato che tutti uscissero e sei salita. Con chi vuoi provarci?»

    Ma che stronzo. Peccato che avesse ragione. Non sulla cosa del ballo, però, pensandoci bene…

    Nel momento in cui mi voltai, il mio cervello mi gridò che era stata una pessima idea, che non avrei mai dovuto farlo.

    Il sorriso sul volto di Claudio si allargò ancora di più. «Riccardo? Potevi avere me e guardavi Riccardo?»

    Pronunciava il nome del collega con notevole disgusto.

    «Ti piaci molto, vero?»

    Non avevo neanche fatto apposta, la risposta mi era uscita dal cuore. Però, accidenti, mi stava dando sui nervi. Misterioso, intelligente o bellissimo che fossi, se facevi il bastardo, non avevi giustificazioni.

    Lui si fermò per un paio di secondi con gli occhi blu sgranati, poi scoppiò a ridere. Fu strano vederlo così… scomposto.

    «Mi piaci di più tu, principessa, e te lo dimostrerò.»

    Chiamò Riccardo e gli fece un cenno che non seppi interpretare, ma che non mi piacque per nulla. Poi invitò gli altri due colleghi, Diego e Oscar – anche se dovevo ancora capire chi suonasse cosa – a seguirlo dietro le quinte.

    Prima di andarsene si premunì di lasciarmi un bacio sulla guancia, pericolosamente vicino alla bocca.

    «Claudio. Ricordati il mio nome, principessa.»

    Già, Claudio. Perché non lo conosceva nessuno…

    Il chiacchiericcio dietro le quinte si spense e Riccardo tornò sul palco con un gran sorriso tutto rivolto a me.

    La cosa era incoraggiante, ma sembrava così bella da farmi venire l’impulso di darmi un pizzicotto per scoprire se stessi solo sognando.

    «Ecco la ballerina.»

    Ancora? Davvero Andrea ed io eravamo così in bella vista?

    Ormai rassegnata alla mia nuova etichetta, alzai le spalle. «Colpevole.»

    «Ballare hip hop su un pezzo rock…» I suoi occhi scuri vagavano senza vergogna addosso a me, sul mio top nero troppo corto e sui jeans troppo strappati. «Non mi sembri da hip hop.»

    Misi le mani sui fianchi e piegai il bacino, mettendomi in posa per prenderlo in giro. «E da cosa ti sembro?»

    «Da mosh pit.»

    Alzai le sopracciglia. «Decisamente scontato.»

    Lui si mise a ridere e si passò una mano tra quei capelli biondi e lunghi e lisci e lucidi che erano l’invidia di qualsiasi ragazza. La riga in mezzo non si scompose di mezzo millimetro.

    «Riccardo.» Mi fece, tendendomi l’altra mano. Come se non sapessi il suo nome…

    Aveva le dita callose e il palmo enorme. Avrei voluto essere una bambola per poterci dormire dentro la notte.

    Ricambiai il saluto, cercando di non apparire troppo compiaciuta.

    Rispetto ai monosillabi di circostanza nei corridoi, qui eravamo su tutto un altro livello.

    «Bianca.»

    Scoprii in quel momento che anche lui mi conosceva già di fama.

    «Bianca e Andrea, quelle dell’indirizzo classico.»

    «Siamo famose?»

    «Direi di sì.»

    «Allora siamo colleghi.»

    Riccardo trattenne la mia mano ancora per un istante e annuì. «Volevi chiedermi qualcosa?»

    «Mi pare che Claudio ti avesse già spiegato tutto a gesti.»

    Il suo sorriso si allargò. «Sei una che sa il fatto suo… Non credo che Claudio avesse capito.»

    «Ah, no?»

    «Tu canti, Bianca?»

    Certo. Sotto la doccia e mentre apparecchiavo in tavola, ma la cosa finiva lì. «Non come intendi tu.»

    «Però vorresti? Come intendo io.»

    Mi chiesi che cosa stesse succedendo. Nella mia testa aleggiava ancora il filmino di me che chiedevo a Riccardo vuoi uscire con me e lui che rispondeva sì, certo e poi fine.

    Cosa c’entrava tutto quel cantare e domandare?

    «È una domanda a trabocchetto?»

    «Stai sempre sul chi va là?»

    «E tu sai rispondere solo con altre domande?»

    Facemmo una pausa. Sembravamo due cowboy pronti a estrarre la pistola.

    Non capivo se Riccardo stesse sorridendo, o se la scarsa illuminazione creasse un’illusione sul suo viso.

    «Mi ricordo di te ad altri nostri concerti. Dimmi qualcosa dei nostri testi.»

    Voleva vedere quanto fossi fan? Voleva sentire siete bravissimi? Col cavolo.

    «Sono veloci e ritmici. Ballabili. Ma se li ascolti, sono tristi.»

    Riccardo aveva la faccia di uno che aveva appena fatto jackpot a Las Vegas. «Cantane uno. Quello che vuoi, però devi cantarne uno.»

    Lanciai uno sguardo alla pista da ballo vuota, buia e imbrattata di bottiglie e pozzanghere di alcol.

    In un angolino intravidi un ragazzino con secchio e scopettone. Fissava rassegnato il macello che avrebbe dovuto pulire.

    A parte Riccardo, avrei avuto solo un testimone di un eventuale fiasco.

    «Devo cantare così, senza musica?»

    «Come se fossi a casa tua.»

    La sua espressione era la stessa di prima.

    Guarda che mi toccava fare per un appuntamento…

    Pensai velocemente alle canzoni, quelle canzoni che sapevo a memoria e che in quel momento parevano essersi cancellate.

    Paradossalmente mi spuntò nella testa l’unica che i Blue Flame avessero presentato solo una volta e poi mai più. Era troppo nostalgica e lenta per il loro pubblico, ma mi sembrò adatta. Avrei dimostrato di aver studiato. Era strano che ricordassi le parole, ma mi dissi che così avrei di certo stupito Riccardo.

    Non diedi spiegazioni, attaccai e basta.

    Con lo sguardo fisso sul bordo del palco, non feci altro che immergermi nella canzone, come se fosse una piscina di ricordi.

    "All those nights spent on the roof,

    Counting stars against the inky sky

    Watching the moon peek out

    From behind gray clouds

    Lighting them from the inside out.

    We wanted for nothing on those nights."

    Con la seconda strofa, ebbi l’impressione di sentire dei passi affrettati.

    Rimasi perplessa quando una seconda voce si intrecciò alla mia, ma continuai.

    Forse era un test, forse era una presa in giro. Non mi fregava niente.

    Mi sentivo come quando ero con Andrea: mi sentivo viva.

    La sensazione che mi dava stare sul palco era inebriante.

    "No wondering about tomorrow

    Or if there was someone somewhere

    Who truly understood what it was like

    To be a kid

    To be us."

    Ora ero definitivamente consapevole del timbro maschile che accompagnava il mio. E sapevo esattamente a chi apparteneva.

    "They were just a foot away

    Just over the left or right.

    It didn’t matter what happened tomorrow

    Just as long as we could look over

    And find each other."

    Pronunciai l’ultimo verso con la faccia di Claudio a mezzo millimetro dalla mia e i suoi occhi di ghiaccio che sembrava volessero incenerirmi.

    Le nostre voci si erano trovate in un’armonia perfetta, al contrario di noi.

    Claudio aveva perso ogni traccia della precedente giovialità e non capivo se fosse incazzato nero, o sull’orlo delle lacrime.

    La sua voce era comunque ferma e tagliente. «Cosa stai facendo, principessa?»

    Riccardo non mi diede il tempo di rispondere e intervenne al mio posto. «Hai sentito?»

    Finalmente Claudio smise di fissarmi. «Non sono sordo. Voglio sapere perché l’ho sentito.»

    «Le ho chiesto di improvvisare e lei ha scelto il brano, tutto qui.»

    «Perché lei doveva improvvisare?»

    «Perché è quello che cerchiamo.»

    «Quella canzone non si canta e per il resto vado bene io.»

    «C’è qualcuno che non è d’accordo.»

    Claudio si zittì all’istante, Riccardo era sempre più soddisfatto e io ci capivo meno che mai.

    «Claudio…»

    Mi pentii di aver attirato la sua attenzione appena tornò a fissarmi. Dovevo convincermi che non lo faceva apposta, che quegli occhi erano così perché ci era nato e che era un essere umano come tutti gli altri. Non sembrava un’impresa facile.

    «Non volevo offenderti. Quella canzone è la mia preferita e l’ho cantata con rispetto.»

    La mano di Claudio sfiorò per un istante il crocefisso che pendeva contro il suo petto e si ritrasse. «Perché ti piace tanto?»

    «Perché parla di ricordi, ma in un modo diverso. Non è la solita serenata alla ex perché la storia è finita. Credo che racconti di due fratelli che da bambini erano molto legati e che ora non lo sono più… Una canzone rock che parla di famiglia è insolita…»

    Quello che ricevetti in cambio della mia interpretazione fu una carezza sulla guancia che, da quanto era delicata, non sembrava provenire dalla mano di Claudio.

    Lui se ne andò così, senza un’altra parola.

    Mi bloccai a fissare lo spazio indefinito delimitato dalle quinte.

    «Ehi, non è successo niente.»

    Mi voltai verso Riccardo, che aveva assunto l’atteggiamento della mamma chioccia, o almeno era così che lo vedevo.

    Perché in quel momento, senza sapere bene il perché, tutto ciò di cui avevo bisogno era buttarmi tra le braccia di qualcuno e stringerlo. Non come una ragazza che ama un ragazzo, ma più come una bimba che si consola con il suo peluche preferito.

    Sotto quella facciata che trasudava sesso e pericolo, Claudio emanava una sconfinata tristezza e, senza volere, non avevo fatto altro che accentuarla.

    «Mi dispiace.» Dissi solo.

    «Per cosa?»

    «Non lo so…»

    Riccardo cercò la mia mano e la strinse. «Senti, facciamo una cosa. Ci sediamo e parliamo con calma, va bene? Non posso farti tornare a casa così.»

    In un angolino buio del cervello sentii una vocina che mi annunciava che Andrea avrebbe avuto mie notizie molto tardi.

    III

    Dato l’orario assurdo, tutti i bar della città erano ovviamente chiusi. Ma il Rose, Il Rose, era aperto per me. Per me e per Riccardo.

    E per Diego e Oscar, che trovammo nella sala dedicata ai musicisti, intenti a lanciarsi noccioline. Anzi, uno le lanciava, l’altro schivava i colpi, strillandogli di piantarla.

    Visti così, non erano più così eterei e misteriosi…

    Il fratello bello di Sebastian Bach ci notò per primo e cambiò violentemente colore, passando dal bianco cadaverico al rosa confetto. «Mi dispiace tanto… Ho provato a dirgli di non farlo…»

    Una nocciolina lo prese in pieno e lui si voltò con la voglia di omicidio negli occhi indaco. «DIEGO!»

    Il ragazzo moro se la rideva senza remore, tutto stravaccato su un divanetto blu troppo raffinato per lui. Smise solo quando entrai dopo Riccardo, tirandosi a sedere e cercando di stirare i vestiti da scappato di casa. «Riccardo! Dovevi dircelo che portavi una ragazza! Ora penserà che siamo dei cialtroni!»

    Aveva una bella voce, ma il tono era altissimo anche se era evidente che non stesse urlando.

    «Sei tu il cialtrone, Diego!» Lo freddò Oscar, aggiustandosi i capelli bicolore.

    Mi porse la mano con le unghie laccate di viola e un mezzo inchino. Sembrava uno di quei cavalieri medievali dei film romantici e aveva dei modi di fare troppo eleganti per un ragazzo ricoperto di borchie e pelle nera. «Sono Oscar, molto piacere.»

    «Io sono Diego!» Gli gridò dietro l’altro, saltando giù dal divanetto e correndomi incontro.

    Ora che eravamo vicini, notai che era più basso di me di almeno una spanna.

    A parte quel dettaglio, rinnovai il mio pensiero che fosse davvero bello: il classico tipo da spiaggia con capello lungo, collanine etniche e abbronzatura perenne.

    Diego e Oscar mi piacevano molto e, così, a pelle, ero certa che, anche se sembravano il giorno e la notte, fossero grandi amici di vecchia data.

    Sorrisi a entrambi, stringendo contemporaneamente la mano gelida di Oscar da un lato e quella bollente di Diego dall’altro.

    «Io sono Bianca. Scusate l’intrusione.»

    «Non ti intrudi, non ti intrudi.» Fece Diego con il solito tono gridato, mentre mi trascinava di peso sul divanetto blu.

    «Ragazzi, ho trovato la soluzione al nostro problema.» Annunciò Riccardo, indicandomi ai suoi amici. «Bianca ha lasciato Claudio a bocca aperta.»

    In un primo momento Diego e Oscar parvero non capire. Poi proruppero contemporaneamente in una scarica di domande, da cui dedussi di essere finita nei guai. Lo ipotizzai quando distinsi un sei una cantante? e un altro allora la prendiamo nel gruppo?.

    «No.»

    Il brusio si placò e tutti si voltarono verso di me.

    Agitai le mani, come per scacciare la confusione che avevo in testa. «Credo che abbiate capito male… non cercavo un gruppo. Forse stavate aspettando una cantante e mi avete scambiato per lei, ma vi assicuro che non sono quella che serve a voi.»

    Il mio blaterare non sembrò sortire effetti particolari, anzi, servì solo ad aumentare l’entusiasmo dei ragazzi, quello di Diego in primis.

    «È proprio lei!» Fece lui, puntandomi il dito contro. «Modesta come Claudio.» Concluse con una risata spaccatimpani che strappò un sorriso perfino a Oscar.

    «Non aspettavamo nessuno, Bianca.» Mi assicurò Riccardo, togliendomi il dubbio.

    «Però è vero il fatto che ci serva una cantante. E proprio stasera sei arrivata tu. Le cose che impressionano Claudio si possono contare sulle dita di una mano.»

    «Certo.» Lo interruppe Diego. «Se stesso, il suo riflesso e il suo ca…»

    «DIEGO!»

    «Eh, però non si può mai scherzare!»

    «Ragazzi…» Oscar trascinò Diego verso la porta e chinò il capo come un maggiordomo che si congeda dal padrone. «Sono sicuro che potrete parlare molto meglio senza di noi tra i piedi. Buona serata.»

    Le pittoresche manifestazioni di dissenso da parte di Diego riecheggiarono per i corridoi del Rose per un discreto minuto, prima che calasse di nuovo il silenzio.

    Convincendomi ormai di essere ospite gradito, mi misi comoda sul divanetto blu, raccolsi un paio di noccioline e le rimisi nella ciotola sul tavolo poco distante.

    «Allora… com’è che vi serve una cantante?»

    «Vogliamo fare qualcosa di diverso.»

    Se c’era una cosa che avevo imparato nei miei studi classici, era che noi uomini moderni non riusciremmo a fare qualcosa di diverso neanche volendo. Probabilmente il rock and roll lo avevano già inventato i greci e ancora non ne avevamo trovato testimonianze. Ma era solo questione di tempo.

    «Ci sono già band di uomini che hanno una donna cantante.»

    «Avresti Claudio come accompagnamento. Cantereste insieme.»

    Come Danny e Sandy in Grease? Ma non erano un gruppo rock brutto e cattivo?

    Riccardo aveva captato il mio scetticismo, ma non era disposto a mollare.

    «So che dà molto l’idea di commerciale, ma funzionerà di sicuro. Non vuoi nemmeno provare?»

    In effetti perché stavo facendo la difficile? Ah, già, perché probabilmente Claudio mi avrebbe murata in un pilone di cemento appena avesse scoperto che intendevo rubargli la scena…

    «Senti, Riccardo… Claudio non mi è sembrato molto d’accordo. E poi lui è bravissimo, sa suonare… Credo che vi rallenterei e basta.»

    Se Claudio era uno che se la tirava, scoprii che anche Riccardo era un tipo che confidava molto nelle proprie capacità, sia estetiche che intellettuali, nel momento in cui mi si sedette pericolosamente vicino e impostò il registro vocale da camera da letto. «È quello che voglio.»

    «Vuoi che vi rallenti?» Balbettai, cercando di non ritirarmi.

    «Claudio è parte della band, non deve essere la band.»

    «Avete paura di restare a piedi.»

    Oh no. La mia boccaccia. Sempre lei.

    Non feci in tempo a pensare alle mie ultime volontà, perché Riccardo scoppiò a ridere prima. Il fatto che non si fosse arrabbiato era ancora più inquietante.

    «Ora sono ancora più convinto che tu sia quella giusta. Puoi tenere testa a Claudio senza nemmeno provarci.»

    Accidenti, lo avevo proprio fatto felice…

    «Bene…» Fece lui mentre riprendeva fiato. «Ora sarai stanca e vorrai stare tranquilla per un po’. Ti riaccompagno a casa.»

    Non mi sentivo stanca, ero troppo sovraccarica di informazioni ed emozioni. Però, per una volta, rimasi zitta e studiai quel viso che così vicino mi era apparso solo in sogno.

    Ora Riccardo era diventato una persona reale, nel bene e nel male.

    Mi sorrise con la sua espressione da bravo ragazzo e mi lasciai imbrogliare.

    Spegnemmo le luci del Rose e Riccardo chiuse la porta con le sue chiavi personali. Se avessi accettato di entrare nel gruppo ne avrei avuto un paio anch’io?

    «Ti fidi, vero?» Chiese Riccardo mentre faceva lampeggiare i fanali di una Renault 5 color carta da zucchero che sapeva poco di rock and roll.

    Il fatto che lo avesse chiesto avrebbe dovuto mettermi i brividi, invece dissi solo «Certo.»

    Il tragitto dal Rose a casa mia si poteva benissimo fare anche a piedi, con un po’ di pazienza. Percorrendolo in macchina, ebbi l’impressione che il tempo si fosse fermato e che la strada non finisse mai.

    Con la testa appoggiata al sedile troppo alto, guardavo la mano di Riccardo che passava dal cambio al volante.

    Immaginai che si posasse sul mio ginocchio poco distante.

    Le luci dei lampioni e i fari delle auto creavano ombre sempre diverse sul suo profilo, ipnotizzandomi e invitandomi a chiudere le palpebre.

    Riccardo parlò piano, come se avesse capito che mi stavo per addormentare. «Penserai che siamo degli spostati.»

    Chi non è spostato al mondo?

    «Non lo penso. Penso che siate dei sovversivi.»

    Riccardo spostò per un attimo lo sguardo dalla strada a me. «Sovversivi?»

    «Mi sembra che vogliate tutti spodestare Claudio. Non so che storia abbiate, ma mi dispiace per lui.»

    Riccardo rise brevemente: un suono basso dal fondo della sua gola che, a mio parere, non era adatto a una conversazione innocente. «Ti interessa. Vuol dire che entrerai nel gruppo?»

    L’auto accostò vicino al cancelletto in ferro battuto di casa mia. Assunsi la miglior faccia da bastarda del mio repertorio e mi sporsi verso il mio conducente d’eccezione. «Lo saprai domani. Voglio vederti con le occhiaie.»

    La bocca di Riccardo si mosse, come se fosse già impostata per rispondere a tono, ma al primo tentativo non ne uscì un suono. Si arrese subito dopo.

    «Hai vinto.»

    Aprii la portiera ma rimasi seduta, come se aspettassi qualcosa.

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