Il culto di San Bartolomeo Apostolo: dall'Armenia all'Occidente medievale
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Il culto di San Bartolomeo Apostolo - Francesca Di Rienzo
INTRODUZIONE
Lo scopo del presente lavoro è quello di presentare una recensione, per quanto possibile completa, sull’apostolo Bartolomeo che predicò la Parola di Gesù Cristo nell’Armenia Maggiore¹ e vi ricevette la corona del martirio.
La storia di questo Apostolo è contenuta presso gli Armeni nel cosiddetto Omeliario, nel quale, fra le vite e i martìri di altri santi, si conserva la narrazione intitolata Martirio di San Bartolomeo apostolo². Questa storia stampata nel tomo I, a partire da p. 200, dell’opera in armeno dal titolo Vite e martiri dei Santi, è stata pubblicata in Venezia presso i Mechitaristi nel 1874. L’illustre mechitarista Jean Baptiste Aucher nel tomo IX della sua opera intitolata Vite e martiri dei Santi, ha pubblicato la stessa storia dell’Omeliario accrescendola anche sulla base di altre fonti nonché, la storia del ritrovamento delle reliquie basata sullo stesso Omeliario e la narrazione della traslazione di queste in Occidente estratta dagli Acta Sanctorum del Bolland.³
Proprio il principio del Martirologio edito da Aucher riporta queste parole: «Vita e martirio di S. Bartolomeo apostolo – il padre spirituale degli Armeni e primo fondamento di verità cristiana in tutto l’Oriente, l’apostolo Bartolomeo era uno dei Dodici eletti. Secondo l’opinione di molti quegli non è altro che Natanaele, il quale era di Cana di Galilea e dal Signore ricevette la testimonianza: Ecco un vero Israelita in cui non c’è inganno!
».⁴ Nel primo capitolo ho cercato di indagare secondo le fonti l’identità dell’Apostolo, e la prima domanda da porci è proprio questa: Bartolomeo e Natanaele, come da molti viene sostenuto, sono la stessa persona? Perché nei Vangeli sinottici, in Marco, Luca e Matteo si parla di Bartolomeo, mentre nel Vangelo di Giovanni tra i primi discepoli compare il nome di Natanaele? La spinosa questione, che attualmente rimane aperta, viene già proposta da Sant’Agostino, il quale conferma che non solo Natanaele non si trova nella lista dei Dodici ma in modo ingegnoso asserisce anche che «[…] fu tra gli apostoli e apostolo non fu», questo fa supporre che il personaggio in questione era sicuramente a conoscenza del messaggio evangelico e conosceva gli apostoli, il che gli permise di continuare a predicare il Verbo come discepolo.
Personalmente ho azzardato l’ipotesi dell’associazione Bartimeo - Natanaele, i quali entrambi vengono inseriti nella lista discepoli - apostoli. Come si può notare l’assonanza tra il nome Bartolomeo e Bartimeo è forte, soprattutto se si tiene conto della radice aramaica che hanno in comune,Bar
. L’assonanza fonetica tra Bar-Tol’may e Bar-timeo fanno supporre che le fonti latine successive potessero aver storpiato i nomi, uniformandoli. Ma perché associare un discepolo ad un apostolo? Se prendiamo l’episodio del cieco di Gerico di Marco,⁵ in cui si evince la presenza di Bartimeo è associabile al miracolo del cieco nato narrato in Giovanni⁶ ma con alcune differenze. In Marco si narra che Bartimeo fosse un mendicante e che alla semplice chiamata di Gesù, riacquistò la vista e prese a seguirlo;in Giovanni il racconto è più articolato, in primo luogo perché con molta probabilità il cieco nato (che non chiama Bartimeo) apparteneva ad una famiglia di un ceto sociale più elevato che frequentava la sinagoga, questo si evince anche dalla domanda che i farisei gli pongono e alla quale il cieco risponde, il che fa presupporre un certo grado di istruzione. È vero che il racconto dei primi discepoli in Giovanni si antepone alla narrazione della guarigione di un cieco nato, ma questo non esclude il fatto che il discepolo Bartimeo di Marco non possa essere associato all’apostolo Natanaele di Giovanni, escludendo l’associazione Bartolomeo - Natanaele. Ci tengo a sottolineare che è un’ipotesi e direi anche un azzardo, ma che andrebbe a supportare la tesi agostiniana, in cui Natanaele potrebbe essere considerato un discepolo della prima ora e non un apostolo, ponendolo in associazione con il discepolo Bartimeo di Marco. Certo è che la tradizione che vuole S. Bartolomeo in Frigia appare collegata a quella che lo vede predicare e morire in Licaonia secondo gli Atti di Filippo; bisogna tuttavia tener presente che in entrambe le tradizioni l’apostolo Bartolomeo è spesso confuso con il discepolo, e che, nella versione armena l’abbinamento di Bartolomeo e Filippo si riferisce quasi esclusivamente al discepolo.⁷ Questa confusione che viene generata attraverso la trasmissione delle diverse tradizioni spiegherebbe di conseguenza, anche la definizione che ne dà Agostino, ovvero che fu tra gli apostoli ma apostolo non fu.
Il lavoro prosegue seguendo i viaggi dell’apostolo Bartolomeo in India, in Frigia e in Licaonia, in Partia, nella terra dell’Oasis, sino al martirio in Armenia presso Urbianos e, come viene esposto nel Martirologio, avvenne nel trentesimo anno del regno di Sanatrucio «[…] ossia nell’anno del Signore sessantasette, un anno dopo la morte dei Santi Apostoli Pietro e Paolo a Roma», l’Apostolo venne percosso per circa un’ora con legni nodosi e proprio nel Martirologio Aucher aggiunge: «[…] dove altri dicono che la pelle gli sia stata tolta e che egli dopo sia stato percosso con bastoni».⁸
Ma come giungono in Occidente le reliquie? Il tomo IX a p. 447 dell’Omeliario ci presenta un uomo dal nome Maruta, siro di nazione, cultore della verità cristiana e amante dei martiri. Dopo aver edificato la città di Martyropolis⁹ in cui raccolse ottantamiladuecento reliquie, si spinse nell’Armenia Maggiore, desideroso di trovare il corpo di S. Bartolomeo, e «[…] dopo esservi giunto, rimase dodici giorni. Essendo custodite le reliquie del Santo in un nascondiglio nell’altare della chiesa costruita in suo onore e non osando egli realizzare il suo desiderio e il suo voto ardente alla vista di tutti, trascorse dodici giorni […]. Passati dodici giorni improvvisamente si verificò un terremoto, il luogo in cui era nascosto il tesoro divino si scisse e da una fenditura rifulse luce all’esterno. Allora il beato Maruta stese il mantello con grande timore e gioia, immise la mano all’interno del ricettacolo spaccato e raccolse le reliquie in un panno lasciandone lì una parte. Allora Maruta a mezzanotte, fuggito da quella terra celermente sotto la guida di un angelo di Dio, nel tempo di una sola notte, quasi a vista pervenne alla sua città di Nephergerd». Lo stesso Aucher narra: «che parte delle reliquie fu lasciata in Armenia, nel luogo in cui erano nascoste, e parte fu asportata in modo miracoloso attraverso San Maruta e riposta nella città di Nephergerd sita nella terra di Dsoph, così si ritiene con fondamento che quella porzione di reliquie che dopo generazioni fu trasportata mirabilmente in Occidente, insieme con le arche di altri martiri, non sia altro che quella che si trovava a Nephergerd in un’arca distinta. E se gli storici greci e latini dicono che quest’ultima traslazione sia stata fatta dall’Armenia, ciò non è falso, giacché anche Nephergerd era parte dell’Armenia».¹⁰
Per ordine di Anastasio le reliquie vennero poi trasferite a Dara, e sotto l’impero di Giustiniano venne costruita una chiesa in onore dell’Apostolo. Con la caduta di Dara in mano persiana nel 574, le chiese furono distrutte e disperse le reliquie, molte delle quali furono gettate in acqua, tra cui anche l’arca contenente il corpo dell’Apostolo assieme a quelle di altri quattro Santi. Fra gli scrittori latini risalta l’autorità di Gregorio di Tours, dove nel Liber in gloria Martyrium narra che il sarcofago plumbeo viene trasportato dalle acque nell’Isola di Lipari e rivelato ai cristiani affinché raccogliessero il suo corpo e gli edificassero un gran tempio, nel quale si attesta il culto presso l’isola, è sicuramente anteriore al VI secolo. Qui si pone un altro quesito, chi è Agatone che accoglie sulla spiaggia di Portinenti le Sante Reliquie, citato da Teodoro lo Studita e da Giuseppe l’Innografo? Il suo nome viene legato solo a fonti tarde e inattendibili, legate al complesso di leggende composte fra il VII ed il IX secolo, che fiorirono attorno ai santi martiri di Lentini Alfio, Cirino e Filadelfio.
Nel secondo capitolo viene ad essere sviluppato il valore del culto deisanti e delle reliquie. Il santo diventa un ottimo intermediario tra cielo eterra perché, grazie ai suoi meriti, è ammesso direttamente alla gloria celeste, ponendosi in una situazione privilegiata per comunicare con quel Diotrascendente che si colloca al di sopra di tutto il mondo, terreno e ultraterreno. Il rapporto tra la reliquia e le autorità, siano esse laiche o ecclesiastiche, viene a svilupparsi proprio in seno a questo principio, perché controllarel’accesso ai santi, alle loro tombe e alle loro reliquie diventa un modo percontrollare l’accesso al divino, garantendo a chi gode di questo ruolo unefficace strumento di esercizio del potere. Naturalmente non tutti i santigodono della stessa popolarità, e quindi anche dello stesso potere. Alcunisono indiscutibilmente riconosciuti in tutta la cristianità e hanno una grande risonanza ovunque, altri sono venerati solo localmente e le ripercussionidel loro culto non si estendono oltre il confine della città o della diocesi, e queste caratteristiche si riflettono anche su chi si è votato a loro. Una voltastabilito il legame spirituale con un santo, occorre, infatti, accrescerne il prestigio per garantirsi un buon rendimento politico
, attraverso strategie chepassano dall’esaltazione delle eccezionalità in vita e in morte del vir Dei. Il miracolo in questo processo occupa un posto fondamentale, perché garantisce la potenza del santo e, di conseguenza, la sua vicinanza a Dio.¹¹
Sta di fatto che le reliquie rimasero a Lipari sino all’838, quando «[…] i Saraceni, sopravvenuti, depredarono e devastarono l’isola predetta, e rompendo il sepolcro del Beato Bartolomeo ne dissiparono le ossa. Dopo poco, mentre essi si ritiravano, l’Apostolo di Dio, apparso durante una visione ad un certo monaco greco che era stato il custode di quella chiesa, gli disse:Alzati e raccogli le mie ossa che sono disperse!
[…] Alzatosi subito, il monaco si recò sul luogo e le trovò, le raccolse senza il minimo dubbio e le nascose, dopo averle riposte in un vaso, e si allontanò, lasciato sul posto un compagno. Giungendo colà le navi dei Longobardi alla ricerca dei Saraceni, presero il monaco che trovarono sul posto, il corpo del Santo Apostolo e si allontanarono».¹² È proprio in questo quadro che avviene la traslazione mediante il ricorso alla forza, del corpo di Bartolomeo da Lipari a Benevento, per volontà del principe beneventano Sicardo.
L’importanza di questi resti porta di conseguenza all’appropriazione di essi utilizzando mezzi come la sottrazione mediante la forza, il furto e di conseguenza il commercio dei medesimi. Tra i più noti fornitori appare il nome di Deusdona, ma si ha notizia anche di un certo Felice, che attorno all’838 visita Freising dove vende parte del corpo di San Bartolomeo al vescovo Erchamberto.
Ancora mediante l’utilizzo della forza, sotto la potenza degli Ottoni, il corpo dell’Apostolo subisce un’ulteriore traslazione, questa volta da Benevento a Roma. Ma le reliquie vennero portate a Roma da Ottone II o da Ottone III? Secondo la notizia di Ottone di Frisinga, il corpo viene traslato dopo l’assedio del 983 e posto in una vasca di porfido presso l’Isola Tiberina. C’è da dire che questa narrazione si oppone a quella di Leone Ostiense, che attribuisce invece a Ottone III la traslazione delle reliquie nel 999 e l’inganno che i beneventani hanno compiuto ai danni dell’imperatore, consegnandogli il corpo di S. Paolino da Nola e non quello di S. Bartolomeo. Nel dirimere la questione, la De Francovich suppone che Ottone II debba aver deposto le reliquie di S. Bartolomeo in una chiesetta posta sull’Isola Tiberina dedicata a due martiri Sant’Esuperanzio e S. Sabino e che questa poi sarebbe stata poi rimpiazzata dalla chiesa di Ottone III, nella quale si conservano le reliquie dei due martiri in una cappella laterale.
Il ruolo dei santi era basilare nei sistemi religiosi d’Oriente e d’Occidente, ma esiste un profondo divario tra le reliquie in Occidente e le icone in Oriente. André Grabar nel 1946 ha posto in rilievo il fatto che in Oriente il culto delle reliquie si è sviluppato anteriormente a quello delle immagini. Egli ha teorizzato che a Bisanzio ebbe luogo una transizione dal culto degli oggetti fisici a quello della rappresentazione visiva, mentre in Occidente tale sviluppo non si spinse mai oltre il livello dell’immagine-reliquario.¹³ Più recentemente Ernst Kitzinger ha suggerito che il culto delle immagini non si sarebbe sviluppato dal culto delle reliquie, ma piuttosto sarebbe il risultato di una politica consapevole degli imperatori, i quali estesero il culto ufficiale dell’immagine dell’imperatore, fino a includere il culto delle immagini di Cristo e dei santi.¹⁴ Qualunque sia stata l’origine di questa singolare devozione bizantina, essa non venne accolta dai latini. Ciò risulta con evidenza nei Libri Carolini, trattato polemico composto intorno al 792, probabilmente da Teodulfo di Orléans, come risposta ufficiale dei Franchi all’eresia dei Greci.¹⁵ La vera obiezione da parte dei Franchi era che il vero oggetto della devozione non fossero le immagini, ma piuttosto le reliquie: «[…] Illi vero pene omnem suae credulitas spem in immaginibus conlocet, restat, uto nos sanctos in eorum corporibus vel potius reliquiis corporum, seu etiam, vestimentis veneremur, juxta antiquorum patrum traditionem […]»¹⁶ quindi secondo Teodulfo i Greci ripongono tutta la loro credenza nelle immagini, mentre in Occidente si venerano i santi nei loro corpi secondo l’antica tradizione dei Padri della Chiesa. L’autore dei Libri Carolini insisteva sul fatto che non poteva esserci eguaglianza tra reliquie ed immagini, in quanto solo le reliquie avrebbero preso parte alla resurrezione, alla fine del mondo. Le immagini potevano essere più o meno fedeli o belle, ma non potevano avere altra funzione che quella didattica. L’onore e la venerazione erano riservati solo alle reliquie.¹⁷
Anche se il culto dell’immagine, come sostiene il Kitzinger, è strettamente legato e deriva in parte dal culto delle reliquie, bisogna dire che in Armenia la riproduzione della figura dell’Apostolo nelle opere artistiche è quasi inesistente, a parte l’immagine creduta di S. Tommaso e poi in realtà identificazione di S. Bartolomeo, nella facciata della chiesa di Aghtamar. La rarità delle immagini dell’Apostolo alla periferia orientale dell’impero bizantino non ci sembra che si debba ascrivere solamente alle tendenze iconoclaste caratteristiche di queste regioni. Sebbene una vera e propria ricerca in tal senso non sia stata mai condotta, la ragione di tale scarsità,è possibile sia da individuare nell’inconsistenza di una reale tradizione del suo culto nella sfera della religiosità popolare.¹⁸
Nel terzo capitolo ho cercato di definire una raccolta di opere tra Oriente e Occidente nelle quali si attestano i caratteri iconografici di S. Bartolomeo, descritto nel consesso apostolico o nell’etimasia, e riconoscibile solo dai caratteri greci e latini che ne attestano il nome, posto all’interno di conche absidali o nei sottarchi: tra lo splendore delle tessere musive che caratterizzano la Basilica Eufrasiana di Parenzo; la Panagia Kanakaria a Cipro;Santa Caterina al Sinai; la Cattedrale di Cefalù; la chiesa della Martorana a Palermo e il Duomo di Monreale. Un cambio iconografico si avverte sotto la dinastia degli Ottoni con il puteale di S. Bartolomeo nella chiesa all’Isola Tiberina, dove per la prima volta