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L’alba è già passata: La prima indagine del giudice Davide Leonardi
L’alba è già passata: La prima indagine del giudice Davide Leonardi
L’alba è già passata: La prima indagine del giudice Davide Leonardi
Ebook253 pages3 hours

L’alba è già passata: La prima indagine del giudice Davide Leonardi

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About this ebook

Davide Leonardi, giudice istruttore fresco di nomina, arriva in Sardegna nell’autunno del 1969 per ricoprire un incarico che ritiene provvisorio. Il tempo di fare esperienza per poi tornare nella sua Brescia.
Mentre cerca di capire la sfuggente realtà di Oristano, gli piomba addosso il suo primo caso: il cadavere di un pastore prossimo al matrimonio viene ritrovato con un pallettone in corpo nelle campagne di un paese dell'interno. Leonardi, curioso e riflessivo, non delega ad altri come imporrebbe il suo ruolo, ma si cala in prima linea nelle indagini di un omicidio che da subito appare insolito, tra vecchie pratiche criminali e complicate frequentazioni della vittima e della sua bellissima fidanzata, entrambi iscritti alla sezione locale del PCI.
Il giovane giudice dovrà fare i conti col fascino della Sardegna, in cui velocemente stanno cambiando antiche abitudini e modi di essere.
LanguageItaliano
PublisherCondaghes
Release dateMay 7, 2023
ISBN9788873567622
L’alba è già passata: La prima indagine del giudice Davide Leonardi

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    Book preview

    L’alba è già passata - Daniele Manca

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    a mia figlia Camilla

    e ai giovani come lei,

    perché si impegnino di più

    a migliorare il mondo

    Daniele Manca

    L’alba è già passata

    La prima indagine del giudice Davide Leonardi

    Romanzo

    logo_condaghes_bn

    Condaghes

    Indice

    Prologo

    Parte Prima

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    Parte Seconda

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    XXV

    XXVI

    XXVII

    XXVIII

    XXIX

    XXX

    Epilogo

    Glossario

    Ringraziamenti

    L'Autore

    La collana Narrativa tascabile I supertascabili

    Colophon

    Prologo

    Alle due del mattino sono ancora seduto sotto il portico della mia casa, davanti al giardino.

    Nell’oscurità appena attenuata dal chiarore della luna, le piante sembrano osservarmi silenziose e discrete, come un gruppo di spettatori davanti al palco. Ai loro piedi l’erba è ricresciuta velocemente dopo l’ultimo taglio e il prato non è mai ordinato come vorrei.

    Il fumo del Toscano si dilegua nell’aria, con rapide e strane giravolte a cui cerco inutilmente di attribuire un senso. Dal mare poco lontano arriva una brezza leggera che rende più sopportabile il caldo afoso di questa estate diversa dalle altre.

    è la prima notte da pensionato e non ho sonno.

    Sul tavolo è ancora poggiata la lettera di Federico Dore, che adesso abita a Torino e oggi non è venuto in Tribunale alla cerimonia di saluto: scrive che l’età avanza, non sta bene, mi chiede quando andrò a trovarlo ora che sono in pensione.

    Ne ha fatto di strada, Federico, da quando comandava la Compagnia di Ghilarza e io ero giudice istruttore fresco di nomina appena giunto a Oristano dalla Lombardia!

    Eravamo entrambi all’inizio della carriera, ma due animi diversi: io idealista, curioso, in fondo fiducioso nella vita, forse anche ingenuo, lui freddo, disincantato, a volte quasi cinico.

    Ci siamo conosciuti nel corso della mia prima indagine importante, una brutta storia che fece molto scalpore in Sardegna e di cui potrei scrivere ora che ho più tempo, aiutando i ricordi con le pagine del mio diario.

    Una vicenda che anche stanotte è ricomparsa nitida, intensa, come spesso mi è accaduto in tutta la mia attività di magistrato.

    Del resto è comprensibile, allora ero agli inizi, all’alba della vita; e poi la prima indagine, come gli amori, non si scorda mai.

    Parte prima

    I

    Porto Torres-Oristano, domenica 19 ottobre 1969

    Ricordo bene, quasi nei dettagli, il 19 ottobre 1969, la mia prima domenica in Sardegna: il risveglio faticoso nella stretta cabina del traghetto Tirrenia, la mattina scura e piovigginosa, i quotidiani sardi acquistati all’edicola, il lungo viaggio pieno di sorprese sulla statale 131 con la 500 quasi nuova e da pagare a rate, attraverso paesi che sembravano piccoli e sperduti, come fotografie di un tempo antico.

    Laureato giovanissimo in Giurisprudenza, avevo superato subito il concorso in magistratura e dopo il periodo di uditorato al Tribunale di Brescia, la mia città, volevo entrare in una Procura della Repubblica o nell’Ufficio Istruzione, mi interessava l’attività istruttoria, la fase delle indagini, dove inizia il lungo viaggio che porta al processo e alla sentenza. Non c’erano posti disponibili in Lombardia, dovevo trasferirmi in un’altra regione, si era liberata una sede proprio in Sardegna, a Oristano, dove cercavano un giudice istruttore e non c’erano molte richieste.

    Uno o due anni al massimo, il tempo che si liberasse un posto più vicino a casa, in fondo era anche un’occasione per cambiare aria e fare esperienza in una città che non conoscevo.

    I primi di ottobre del 1969 era arrivata la conferma, dovevo prendere servizio entro una quindicina di giorni.

    Decisi che sarei arrivato a Oristano in auto, avevo diverse valigie da trasportare e sarei stato più indipendente.

    Dopo i primi chilometri nell’isola mi domandai se avessi fatto bene ad accettare quel posto.

    Non era soltanto la lontananza da Brescia, quella l’avevo messa in conto. Forse influirono gli interminabili spazi tra un paese e l’altro oppure le case basse e scure di alcune vie che si intravedevano dentro i centri abitati, oltre i vetri bagnati dell’auto, la giornata cupa, la pioggia inattesa, la delusione di chi immaginava che in Sardegna avrebbe trovato il caldo e un perenne sole luminoso. E certo non aiutava il pensiero che per andarmene avrei dovuto riattraversare di nuovo quel mare che mi pareva sconfinato, costretto a utilizzare la nave o un aereo, io che allora neanche sapevo nuotare!

    Poi prevalsero la fiducia e la curiosità, del resto mi ero documentato, avevo letto che Oristano stava crescendo, presto sarebbe diventata provincia, avrebbe avuto il suo porto e il suo aeroporto, raggiungere la penisola dalla città sarebbe stato rapido e facilissimo.

    ***

    Mi sistemai provvisoriamente in un albergo che occupava alcuni piani di un palazzotto dall’aria familiare e con i muri scrostati, me l’aveva consigliato un collega di Napoli che lavorava a Cagliari, Mario Sorrentino, conosciuto durante il periodo di uditorato.

    Mangiai un boccone nel ristorante dell’albergo, mi riposai e nel tardo pomeriggio mi feci indicare una chiesa dov’era possibile ascoltare messa, era pur sempre domenica e io, anche se praticante a ritmo variabile e con interrogativi mai del tutto risolti, ho accettato fin da ragazzo la scommessa di credere.

    Del resto sono cresciuto nell’oratorio parrocchiale di un quartiere popolare di Brescia, Campo Fiera, tra una sacrestia disadorna, vecchi turiboli consunti, messe con la chitarra e partite di calcio insieme a sacerdoti controcorrente, più abituati a stare in strada e battersi per gli ultimi che a fare processioni.

    A quel falegname rivoluzionario che predicava amore e cacciava i mercanti dal Tempio sono sempre rimasto affezionato, così come ai miei parroci con le scarpe riciclate.

    La chiesa di San Francesco era vicina al mio albergo, bisognava attraversare piazza Roma, poi corso Umberto e quindi piazza Eleonora.

    In strada poca gente, dovevano essere tutti dentro i bar, da cui giungevano le voci di Enrico Ameri e Sandro Ciotti che commentavano le partite di quella domenica di serie A, oramai giunta al termine.

    Tifavo Milan, oltre al Brescia, e il calcio mi è sempre piaciuto, anche e soprattutto giocarlo, nonostante fossi scarsissimo e faticassi parecchio a trovare posto anche in una squadra amatoriale.

    Quella domenica i rossoneri non erano scesi in campo, turno anticipato il giovedì precedente perché impegnati nella Coppa Intercontinentale in Argentina.

    Mi chiesi in che categoria giocasse la squadra di Oristano e se anche lì si tifasse il Cagliari. Non l’avrei trovato strano, del resto la squadra era prima in classifica. Subito mi venne in mente Gigi Riva, lombardo come me e finito in Sardegna da qualche anno.

    Sicuramente anche lui non vedrà l’ora di andarsene osservai convinto, in fondo un modo per consolarmi in quella sera uggiosa e lontano da casa.

    Dopo la messa ritornai in piazza Eleonora, dove si erano formati capannelli di giovani che evidentemente non rinunciavano a uscire nonostante il tempo: doveva essere il luogo di incontro della città.

    Cercai un telefono pubblico e chiamai Roberta, la mia fidanzata storica da otto anni, insieme fin dall’ultimo anno delle superiori.

    Aveva un temperamento deciso ma tendente al drammatico.

    – Stai tranquilla – la rincuorai prima di chiudere la comunicazione mentre piangeva salutandomi. – Ci vediamo per l’Immacolata, torno presto, non ti preoccupare.

    Poi telefonai a mia madre.

    Era una donna forte: papà se n’era andato per un infarto quando avevo quindici anni, lasciandola sola con due figli da crescere.

    Ragioniera, cattolica praticante, strinse i denti e con molti sacrifici mantenne con dignità tipicamente piccolo-borghese me e mio fratello.

    – Mi mancate, mamma, mi mancate tanto.

    – Anche tu, Davide. Ma devi fare il tuo dovere, hai un compito da svolgere!

    Eccola lì, pensai, lei e il suo solito senso del dovere, ce l’aveva radicato nel profondo e alla fine l’aveva inculcato anche a me, l’idea quasi sacrale e molto cristiana che abbiamo tutti un ruolo da svolgere, un incarico da adempiere bene e con coscienza, un impegno da mettere davanti a tutto.

    Non era per quell’intima convinzione che avevo sempre studiato moltissimo, laureandomi senza ritardo e superando alla prima botta il concorso in magistratura?

    Sì, era così, ed ero soddisfatto di me stesso, ma intanto quella sera mi trovavo in una città sconosciuta, solo, lontano da casa, senza nemmeno un milanista con cui chiacchierare.

    Oristano, lunedì 20 ottobre 1969

    L’ideatore del nuovo Palazzo di Giustizia di Oristano non aveva certo risparmiato sugli spazi, come del resto accadeva allora.

    Gli anditi e la sala d’udienza erano larghi e spaziosi, tutto era moderno, anche se ad accogliermi fu il sorriso paternale dell’anziano consigliere di istruzione del Tribunale di Oristano Giorgio Pinna Alziator, magistrato di esperienza e uomo scaltro che ormai puntava ad andarsene in pensione senza troppe seccature.

    – Benvenuto Davide, che piacere conoscerti, vieni vieni, facciamo subito le presentazioni.

    L’Ufficio Istruzione era sistemato al terzo piano, in un’ala del Palazzo costruita attorno a un lungo corridoio su cui affacciavano gli uffici dei giudici istruttori e delle segreterie, oltre ad altre stanze adibite a varie funzioni che avrei scoperto con il tempo.

    Alziator era un po’ appesantito ma si muoveva agile, sicuro, come il padrone di casa nel suo appartamento, omaggiato da tutti, passando di stanza in stanza senza bussare alle porte, veloce, quasi come se dovesse fare in fretta per assolvere un altro impegno.

    – Questo è Viviani, Carlo Viviani, sostituto procuratore (tranquillo Carlo, tranquillo, stai comodo, ci sarà tempo per conoscervi e per litigare) – disse con voce nasale, senza guardare in viso l’interlocutore e facendo una risatina. – Questo è il cancelliere Marcello Melis (non è certo un chiacchierone) – altra risata, e così, di stanza in stanza, commento dopo commento, risatina dopo risatina, mi condusse velocemente nel mio ufficio, ampio e luminoso ma un po’ disordinato.

    Io salutavo con discrezione, sorridente e leggermente imbarazzato per quella che mi sembrava un’invasione di campo, cercando di memorizzare volti e nomi.

    – Ci vediamo a mezzogiorno per organizzare il lavoro, fai con comodo e sistemati, ciao ciao! – aggiunse salutandomi con la mano mentre usciva dalla stanza già pensando ad altro.

    II

    Oristano, sabato 15 novembre 1969

    Dopo pochi giorni mi ero già reso conto del forte carico di lavoro dell’Ufficio Istruzione del Tribunale. Il circondario comprendeva un vasto territorio che oltre alla tranquilla Oristano raggiungeva anche alcuni paesi della provincia di Nuoro, dove negli ultimi anni c’era stata un’impressionante recrudescenza di omicidi, sequestri e rapine, oltre al solito secolare fenomeno dell’abigeato, tanto che il Parlamento aveva appena istituito una Commissione speciale d’inchiesta che in quei giorni iniziava un viaggio nell’isola.

    Ebbi appena il tempo di prendere confidenza con i primi fascicoli e familiarizzare con la procedura quando arrivò la prima indagine per omicidio.

    Era stato ucciso un pastore di Urzusei, un paese dell’interno, a confine con la provincia di Nuoro.

    La Compagnia dei Carabinieri di Ghilarza aveva telefonato in Procura prestissimo, alle 5 del mattino, durante il mio turno, alle sette era stato aperto il fascicolo e decisa l’istruttoria formale, alle otto avevo già l’incarico.

    – Caro Davide, vai tu, è un omicidio, sei di turno e poi siamo solo in due all’Ufficio Istruzione, la Procura è già ingolfata, il pretore di Ghilarza è ammalato, del resto prima o poi devi iniziare con qualcosa d’importante – esordì Alziator quella mattina cercando di rassicurarmi davanti alle mie riserve prima di accettare quell’incarico.

    – Ma come, presidente, non deve iniziare le indagini la Procura? È una procedura irrituale! – provai a protestare.

    – La procedura, la procedura! – sbottò Alziator. – Qui siamo in emergenza, abbiamo deciso di aprire subito l’istruttoria formale, dai dai, tocca a te! Stai tranquillo, ti daremo tutti una mano, non ti lasciamo solo – proseguì toccandomi la spalla e fingendo premura e affetto con la stessa sincerità di un avvocato quando consola il collega avversario che ha perso la causa.

    – Adesso vai, vai – concluse dopo avermi spiegato brevemente di cosa si trattava, congedandomi senza alcun suggerimento e per nulla scosso da quella vicenda che per lui doveva essere mera routine, uno dei tanti morti ammazzati in campagna che aveva visto nella sua lunga carriera in Sardegna.

    ***

    Urzusei dista una cinquantina di chilometri da Oristano.

    Salimmo sulla vecchia 1100 di servizio e lasciammo la città imboccando la statale 131, che tutti chiamavano la Carlo Felice.

    Oltre al funzionario di cancelleria Marcello Melis, oramai prossimo alla pensione, silenzioso e francamente un po’ triste, c’erano il maresciallo Francesco Piras e il brigadiere Pasqualino Cancedda, della sezione di Polizia giudiziaria dei Carabinieri, che mi affiancavano fin dal primo giorno in cui ero arrivato all’Ufficio Istruzione del Tribunale.

    Piras aveva superato i cinquant’anni, ma non li dimostrava. Alto, magro, era sicuramente quel che si dice un bell’uomo.

    Fra tutti noi era quello che aveva più esperienza e conosceva perfettamente la realtà in cui lavorava.

    Cancedda era l’opposto: poco più di quarant’anni all’anagrafe ma dieci in più stampati in faccia, basso, scuro, baffoni neri, sempre allegro, originario di un paese della Marmilla, uomo dai mille pranzi in compagnia che a Oristano mi accorsi ben presto non essere né pochi né al risparmio.

    Dopo mezz’ora svoltammo sulla vecchia strada provinciale 41, che in quel punto attraversava un fitto bosco di querce da sughero e da cui si aprivano diverse mulattiere e sentieri sterrati.

    A due chilometri di distanza da Urzusei ci fermammo nei pressi di alcune camionette dei Carabinieri che sostavano ai bordi di una radura adiacente alla provinciale, nel luogo dov’era stato rinvenuto il cadavere: sul mio block notes segnai che erano passate da poco le nove del mattino di sabato 15 novembre 1969.

    Aveva piovuto tutta la notte, il cielo era scuro e faceva un freddo cane, manco fossimo a Brescia.

    Scesi dall’auto, ci avviammo lungo un sentiero sterrato parallelo alla provinciale che collegava due ampi spiazzi in terra battuta distanti fra loro un centinaio di metri: la prima piazzola, più vicina al paese, si chiamava La Madonnina perché al centro era stata costruita una cappellina in pietra, circondata da un muretto basso con precari portavasi in acciaio e un basamento alto poco più di un metro, su cui era poggiata una piccola edicola con la statuina di Maria che sembrava osservarci afflitta e sconsolata. Nella seconda piazzola, sempre sul limitare della provinciale, una fontanella e un abbeveratoio per animali segnavano l’inizio di un sentiero che si inoltrava nella campagna e dove, verso destra, era parcheggiata una Fiat 500, seminascosta da alcuni cespugli di lentisco.

    Una lunga fila di alberi di leccio, alti e rigogliosi, sistemati al bordo della strada asfaltata come soldati in marcia uno dietro l’altro, impediva la vista del sentiero a chi transitava sulla provinciale.

    Il corpo dell’uomo era disteso al suolo, più o meno a metà del sentiero, con le braccia allargate come un Cristo in croce rovesciato, il volto quasi nascosto dalla fanghiglia.

    Una scarica di pallettoni gli aveva trapassato la schiena e una vasta chiazza di sangue macchiava il giaccone in pelle scura, completamente inzuppato d’acqua e di fango.

    – Salvatore Cossu, allevatore, ventinove anni – disse con tono burocratico il giovane capitano Federico Dore, che guidava la Compagnia dei Carabinieri di Ghilarza.

    – Lo conoscevo bene – intervenne il maresciallo Stefano Poddighe, comandante della stazione dei Carabinieri di Urzusei. – L’ha trovato un pastore che andava all’ovile, Sebastiano Deriu. È venuto in caserma verso le quattro del mattino, ha detto che non aveva riconosciuto la vittima ma che il corpo era già rigido. Sono arrivato subito con l’appuntato Di Nicola e in effetti Cossu doveva essere già morto da diverse ore.

    – È stato colpito da pochi metri di distanza, certamente alle spalle – intervenne ancora Dore. – Un colpo solo, abbiamo trovato la borra e i pallettoni, è un fucile calibro 16, lo usano in molti per la caccia.

    Erano bastati pochi minuti agli occhi del capitano per fare una prima ricostruzione dell’accaduto. Sembrava desideroso di mostrare la propria esperienza e forse mi aveva preso per un pivellino.

    In effetti non avevo mai visto un uomo ucciso anche se cercavo di sembrare tranquillo e facevo finta di non apparire impressionato.

    D’un tratto si sentì un forte boato, un tuono lì vicino.

    – Sta per piovere! – fece Dore senza scomporsi, accarezzandosi i bei capelli ricci.

    Un brivido di freddo mi percorse la schiena e istintivamente mi strinsi il bavero del cappotto, quasi a cercare protezione o un rifugio mentre gli occhi neri e intelligenti del maresciallo Poddighe mi scrutavano curiosi ma allo stesso tempo amichevoli e comprensivi.

    Imbarazzato distolsi lo sguardo e mi concentrai sul corpo dell’uomo: sotto il giubbotto in pelle scura, portava una giacca

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