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Il magistrato ipocrita: La prima inchiesta giornalistica di Carlo Lozzi, tra mafia, massoneria, magistratura e poteri occulti
Il magistrato ipocrita: La prima inchiesta giornalistica di Carlo Lozzi, tra mafia, massoneria, magistratura e poteri occulti
Il magistrato ipocrita: La prima inchiesta giornalistica di Carlo Lozzi, tra mafia, massoneria, magistratura e poteri occulti
Ebook527 pages6 hours

Il magistrato ipocrita: La prima inchiesta giornalistica di Carlo Lozzi, tra mafia, massoneria, magistratura e poteri occulti

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Un’inchiesta giornalistica, sviluppatasi su delazioni anonime di un agente segreto sfuggito al controllo, consente di ricostruire i rapporti sommersi fra mafia, massoneria e magistratura, e conduce alla scoperta della Grande Loggia di Euclide che controlla tutti i centri di potere della Repubblica.
Sullo sfondo, la storia di amore del protagonista Carlo Lozzi con la sua bella Ludovica, e la profonda amicizia che lega i giornalisti d’inchiesta.
LanguageItaliano
Release dateApr 30, 2023
ISBN9788893782975
Il magistrato ipocrita: La prima inchiesta giornalistica di Carlo Lozzi, tra mafia, massoneria, magistratura e poteri occulti

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    Book preview

    Il magistrato ipocrita - Fabio Pilato

    Prefazione

    Dal punto di vista femminile:

    Posso dire di essere stata la prima a leggere il manoscritto, con la complicità del Covid che mi ha trattenuta a casa per una settimana. Sono rimasta letteralmente rapita dal ritmo crescente della narrazione e dallo sviluppo degli intrighi, al punto che non riuscivo più a smettere di leggere fino ad arrivare all’inatteso colpo di scena nel finale. Una lettura scorrevole ed efficace, ma non per questo meno profonda e introspettiva, che attraversa i temi dell’amore, dell’amicizia, del rapporto fra l’uomo e il potere, della corruzione e del degrado delle istituzioni.

    Lo sguardo acuto dell’Autore, che presta le sue conoscenze alle discettazioni filosofiche e ai ragionamenti cervellotici del protagonista, raggiunge però la massima espressione nella costruzione della psicologia dei personaggi.

    Sentimenti puliti – come l’amore che lega Carlo e Ludovica, il desiderio di giustizia dei tre giornalisti, l’amicizia fraterna fra Carlo e Bobo, gli aneliti dello spirito di Vanessa che sopravvivono al lusso, l’umiltà di Martina – fanno da contraltare ai sentimenti sporchi – congiure, brame di potere, di ricchezza e prevaricazione criminale – che muovono gli altri personaggi. Le contraddizioni umane trovano sintesi nel personaggio di Ludovica, che probabilmente costituisce la figura più travagliata del romanzo.

    Man mano che scorrevano le pagine ho intuito il suggerimento tacito dell’Autore, nascosto nelle pieghe del romanzo, di guardare la storia con gli occhi del cuore piuttosto che con quelli dell’attualità. Così mi sono accorta che il focus del racconto non è tanto l’intrigo di potere che pure sta alla base del racconto, bensì il destino dell’uomo che si dibatte fra vizi e virtù. Ci si rende conto che, alleggerendo la storia con sfumature narrative che oscillano dalla comicità al dramma, Fabio ci conduce per mano in un viaggio introspettivo nelle profondità dell’animo umano e ne analizza le contraddizioni e i travagli. È il tema dell’eterna lotta fra il bene e il male, dove tutto, in definitiva, viene rimesso al libero arbitrio di ciascuno di noi che sceglie la virtù o il vizio compiendo un preciso atto di libertà e autodeterminazione.

    In conclusione, è un libro che ho amato, che mi ha fatto sorridere, riflettere e trepidare. Una lettura che consiglio vivamente a tutti voi.

    Faira Camilleri

    ***

    Dal punto di vista maschile:

    Ho saputo della genesi di questo libro durante una di quelle corse mattutine (ma non troppo mattiniere) che con Fabio siamo soliti fare. Ho letto il manoscritto, quando ancora non si sapeva se e chi avrebbe proceduto alla pubblicazione.

    Partendo da una busta gialla con una strana iscrizione in greco e un ancor più strano codice numerico, inizia la storia che porta il giornalista Carlo Lozzi, il protagonista, a conoscere di un sistema corrotto, trasversale, coinvolgente anche il sistema giudiziario, i cui meccanismi vengono decodificati man mano che la corrispondenza con l’anonimo interlocutore di Carlo Lozzi si infittisce.

    Attraverso i personaggi co-protagonisti di Carlo, Ludovica e Bobo, si affrontano incidenter con seria comicità (quasi pirandelliana) i temi dell’amore e dell’amicizia, che rimangono sullo sfondo di tutto il romanzo, così come rimane sullo sfondo l’indistinguibile triade mafia, massoneria, magistratura.

    In un calembour di filosofia e di sicilianità il romanzo porta il lettore, nel suo epilogo, a una amara inquietudine storica, laddove ci si sofferma sul fatto che le camarille, le consorterie di questa nostra Italia, forse non finiranno mai.

    Riecheggia la famosa frase del protagonista del Gattopardo, Tancredi Falconeri nipote del Principe di Salina: se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.

    Tutto ogni volta sembra cambiare, ma tutto rimane come è.

    I romanzi che non replicano mai fedelmente la realtà – essendo la realtà ben oltre la sua rappresentazione romanzata – portano sempre a risvegliare qualcosa di sopito in noi.

    Ecco, questo è un romanzo che tende a risvegliare l’assopimento che porta il nuovo. Nuovo che non cambia mai il vecchio.

    Buon risveglio.

    P. S.

    I fatti e i personaggi di questo romanzo sono frutto della fantasia dell’autore e ogni riferimento a fatti o personaggi reali è puramente casuale.

    Così, per esempio Bobo non sono io, anche se…

    Loris Mantia

    Parte prima

    παραλειπόμενα: Le cose trascurate

    Capitolo 1 – Prologo

    Tutto ebbe inizio da una busta anonima di colore giallo, con una piccola striscia rossa all’angolo destro, consegnata nella redazione del periodico Antipotere dove lavoravo come editorialista:

    Ó ὕπνος αδελφός του θανάτου 

    Prologo: Stai lontano dal maggiordomo

    Obiettivo: 25 gennaio 1982

    K-21

    A destare la mia curiosità non fu tanto l’aforisma greco (il sonno è fratello della morte), quanto piuttosto la firma K-21, che mi ricordava un gioco di spionaggio internazionale di quando ero ragazzino.

    K-21 era un agente dei servizi segreti in missione, che aveva il compito di carpire informazioni riservate sul nucleare o su armamenti di Stati ostili, per poi scappare in aeroporto prima di essere scoperto dai servizi di intelligence. Se la pedina arrivava nella casella dell’aeroporto, la spia vinceva la partita.

    Di lettere anonime ne arrivavano tante in redazione, ma questa – con l’intestazione in greco antico, l’avvertimento di stare lontano dal maggiordomo, la data e la firma K-21 – aveva suscitato una sorta di curiosità mista a inquietudine. Naturale interrogarsi su chi fosse il maggiordomo e cosa significasse quella data. Così andai sul web alla ricerca di eventuali riscontri storici, senza tuttavia approdare a nulla.

    Trovai, invece, un giro di commenti all’editoriale sui "paladini dell’antimafia" che avevo pubblicato la settimana addietro. Il titolo, decisamente stucchevole e ipocrita, mi era stato garbatamente suggerito dal mio Direttore, sornione e adorabile vegliardo quasi settantenne, con la fronte spaziosa, il barbone bianco e un livello di esperienza che ti permette di non temere più nulla della vita.

    Come tutte le persone fisiche, aveva un nome e un cognome, ma per noi era, solo e soltanto, il Direttore.

    È confacente alla linea editoriale del nostro periodico aveva detto, quasi a volersi giustificare del fatto che quel titolo condannava l’articolo a una demagogica apologia dell’antimafia.

    Soltanto il grande affetto che nutrivo per lui poteva indurmi a scrivere un simile editoriale. Un’offesa ad Aristofane e al suo concetto di demagogia come nobile arte di guida politica della polis da parte delle persone perbene, gli avevo detto nel consegnargli l’articolo. Lui aveva replicato che, prima o poi, mi avrebbe spedito a zappare la terra, così finivo di triturare gli zebedei al prossimo.

    Avevo insistito.

    Perché non rendere un servizio alla vera antimafia e scrivere un editoriale sui tanti magistrati che la mafia la combattono per davvero, in silenzio e lontani dai riflettori, anziché dare spazio ai pochi tromboni che si prendono i meriti dei primi esclusivamente per fare carriera?

    Niente da fare.

    Mi aveva buttato fuori facendo scattare l’apriporta alle mie spalle: Ora te ne devi andare, aveva detto accompagnando la frase con il tipico gesto siculo: tre movimenti secchi e rapidi della mano dal basso verso l’alto.

    Il settimanale Antipotere era nato da un progetto editoriale già tutto racchiuso nel suo nome e ispirato alla figura di Giuseppe Fava – indimenticabile collega il quale, nell’ottobre del 1981, aveva pubblicato un articolo, intitolato Lo spirito di un giornale, per chiarire le linee guida del quotidiano di cui era diventato direttore: "basarsi sulla verità, per realizzare giustizia e difendere la libertà" .

    Noi giornalisti di Antipotere ci sentivamo investiti di una missione che ripetevamo come un mantra: risvegliare la coscienza individuale, stordita dai processi di omologazione sociale e formare una cultura autentica della legalità, attraverso il rifiuto di ogni forma di prevaricazione e abuso, anche se proveniente dal potere costituito. In parole povere, doveva essere netta la separazione fra bene e male, la distinzione fra onesti e manigoldi, sul presupposto che l’atteggiamento mafioso rimane tale da qualsiasi parte provenga, criminali o uomini di Stato.

    Ecco perché era considerato un giornale di protesta; scomodo e anarchico secondo alcuni, ipocrita secondo altri, originario e rivoluzionario secondo altri ancora. L’unica accusa mai formulata era quella di una qualsivoglia appartenenza politica, per il semplice fatto che ci eravamo occupati del malaffare di ogni sorta, senza distinzione fra politici di destra, di sinistra o di centro, magistrati, preti e governanti, in quanto fermamente convinti che la furfanteria non abbia colore politico ma soltanto connotazione illecita.

    Era questo il motivo per cui, pur essendo un settimanale cartaceo, dalla modesta tiratura e privo di una corrispondente versione online, si era ugualmente conquistato una certa autorevolezza nel panorama giornalistico, ricavandosi una nicchia di lettori eruditi a cui proporre il pensiero dell’élite intellettuale italiana ed estera.

    Da poveri illusi, ignoravamo la massima – oggi quanto mai vera – che le masse non hanno mai sete di verità ma, al contrario, un tale bisogno di obbedienza da sottomettersi volentieri al primo arrogante che le riempie di illusioni; mentre chi tenta di disilluderle e di toglierle dall’errore finisce per diventarne la vittima.

    Orbene, con questi presupposti culturali, avrei voluto raccontare luci e ombre della cosiddetta ’antimafia’, senza tacere dei tanti impostori che hanno fatto carriera, sfruttando il vessillo della lotta per la legalità, millantando inesistenti rapporti di amicizia, o addirittura di fratellanza, con le vittime eccellenti.

    Ma forse aveva ragione il Direttore che certe battaglie, soprattutto quelle sugli ideali etici di Giustizia e Verità, ti costringono a ingoiare qualche rospo e accettare qualche ‘implicanza collaterale’, come l’aveva testualmente definita.

    Mi spiego.

    Le DDA (Direzioni Distrettuali Antimafia) di alcuni capoluoghi siciliani – Himera, Lilybaeum, Mylae – avevano messo a segno alcune operazioni che avevano duramente colpito le famiglie mafiose locali. Pertanto, si era ritenuto giusto rilanciare il tema della legalità e dell’affermazione dello stato di diritto, citando il lavoro svolto da quelle procure nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata. Ciò, a costo di esaltare implicitamente figure mediocri che assurgevano spesso all’onore delle cronache ma che, nel silenzio consapevole dei corridoi dei tribunali, erano noti per essere soltanto dei presuntuosi narcisisti, in balìa delle ambizioni personali di carriera.

    Tant’è, avevo messo in soffitta la demagogia di Aristofane e provato a digerire le implicanze collaterali di cui parlava il Direttore.

    Stanco di leggere i commenti nei vari blog, mi lasciai sedurre dalle campane vespertine che annunciavano la fine della mia giornata lavorativa; uno dei piccoli privilegi di lavorare per un periodico e non occuparsi di cronaca, era una certa elasticità negli orari di lavoro e, soprattutto, non dover aspettare fino a notte che il giornale andasse in stampa.

    Tornai a casa in fretta, col desiderio di godermi la cena in compagnia di Ludovica, la mia bellissima compagna che mi sopportava pazientemente da sei anni, ma il mio programma ‘pantofolaro’ fu turbato dalla vista della seconda busta, gialla con la striscia rossa all’angolo destro, che fuoriusciva vistosamente dalla buca delle lettere.

    Conteneva lo stesso messaggio:

    Ó ὕπνος αδελφός του θανάτου 

    Prologo: Stai lontano dal maggiordomo

    Obiettivo: 25 gennaio 1982

    K-21

    Ludovica fece capolino dalla cucina per avvertirmi che la cena era quasi pronta. Scosse la testa divertita nel vedermi impicciato con chiavi, busta, cellulare e zaino.

    Le mandai un bacio a distanza lasciando cadere tutto per terra ed entrai in doccia, infastidito dal fatto che, chiunque fosse questo K-21, sapeva anche dove abitavo. Ciò senza considerare che, in un soggetto pseudo-autistico e particolarmente incline alle masturbazioni mentali come il sottoscritto, quei messaggi sortivano l’effetto di innescare i soliti loop e proiettarmi nell’iperuranio a svolazzare incontrollato come una foglia secca in balìa del vento. Ó ὕπνος αδελφός του θανάτου εστιν: il sonno è fratello della morte, ripetevo in continuazione sotto il getto tiepido e avvolgente della doccia. Ó ὕπνος αδελφός του θανάτου εστιν, Ó ὕπνος αδελφός του θανάτου εστιν. Ó ὕπνος αδελφός του θανάτου εστιν.

    A tavola, Ludovica riconobbe subito l’espressione assente dipinta sul mio volto e la ricollegò alla busta gialla. Non tenendo a freno la curiosità femminile chiese cosa contenesse ma io, continuando a volteggiare leggiadro nella mesosfera, liquidai l’argomento rispondendole che si trattava di un nostalgico della Magna Grecia, che si divertiva a scrivere in lingua arcaica.

    Strano che ti arrivino a casa aveva distrattamente commentato, con quell’intuito femminile, schietto e pragmatico, che centra sistematicamente il punto.

    Il secondo bicchiere di Chablis aveva già migliorato il mio umore. Stava perfino affiorando un po' di allegria, quando, mannaggia a lei, Ludovica comunicò che sarebbe andata a Roma per lavoro. Chiesi il motivo di quei continui viaggi, ma ricambiò il tono di sufficienza con cui le avevo risposto poco prima, dicendo che erano i ritmi imposti dal Ministero per la consegna dei progetti di riqualificazione sociale delle aree metropolitane e recupero delle fasce emarginate.

    Tradotto volgarmente: solite menate delle pubbliche amministrazioni che amano finanziare progetti e piani sociali con dispendio di danaro pubblico, perdite di tempo e nessun risultato concreto. Questo però non potevo dirlo a Ludovica che si dedicava anima e corpo a quel lavoro.

    E così, mentre lei preparava la valigia, io conservavo le buste anonime nel vano segreto della mia libreria, con la prospettiva di accomodarmi in terrazza a godermi la frescura serale. Adoravo quel periodo di inizio settembre, perché consentiva di contemplare il mare, malinconicamente illuminato dalle luci del porto, stando comodamente sdraiato in compagnia di un libro e di un bicchiere, senza soffrire l’afa soffocante del mese di agosto. Trascorsi la sera in compagnia della filosofia di Fichte, assillato dalla scelta fra dogmatismo e idealismo. A ciascuno i suoi problemi, pensavo: il povero Fichte doveva fare la sua scelta, ma pure io avevo un bel da fare per capire se i riflessi di luce sul mare rendessero il paesaggio romantico ovvero malinconico. Mi andai a coricare con due dicotomie nella testa: dogmatismo-idealismo; romanticismo-malinconia.

    L’indomani, dopo aver augurato buon viaggio a Ludovica con una passionale seduta di sesso mattutino, mi recai al giornale senza più pensare alle lettere anonime. E perfino me ne dimenticai, concentrato com’ero nella preparazione del nuovo editoriale sul concetto di monade in Leibniz, argomento che il mio grande amico e collega Bobo Giangrande aveva definito di così grande interesse da poter essere inserito perfino nel palinsesto delle trasmissioni notturne di Rai Educational.

    Leibniz cacciò K-21 dalla mente fino a quando, dopo due settimane, mi fu recapitata in redazione una terza busta con lo stesso messaggio delle precedenti:

    Ó ὕπνος αδελφός του θανάτου 

    Prologo: Stai lontano dal maggiordomo

    Obiettivo: 25 gennaio 1982

    K-21

    Identico messaggio trovai la sera, per la quarta volta, nella buca della posta di casa. A quel punto, però, s’imponeva la domanda se dare importanza alla cosa oppure continuare a ignorarla. Ma del resto, volendo essere realistici, cosa avrei potuto fare? Parlarne con il Direttore, con Bobo o qualche altro amico, e magari essere preso per paranoico; oppure rimanere fermo e aspettare.

    Ignorando che quelli erano i primi segnali del mio hapax esistenziale, scelsi tale ultima opzione per pura convenienza, convincendomi a forza che si trattasse del solito megalomane.

    Eppure, mentre dalla terrazza di casa contemplavo nuovamente le luci del porto, assillato dalla scelta romantico-malinconico, si infilava nella mente il tarlo di una sospetta coincidenza fra la pubblicazione dell’editoriale sui paladini dell’antimafia e i messaggi anonimi.

    In effetti, l’ostinata reiterazione dello stesso messaggio, recapitato perfino a casa, induceva a escludere l’ipotesi del mitomane che accompagna il disagio psichico a ben altro tipo di prolissa grafomania. E poi, chi poteva ricordarsi di un gioco di società degli anni ’70, nemmeno troppo noto già all’epoca?

    Insomma, prendeva corpo gradualmente l’idea che lì fuori, nascosto da qualche parte, ci fosse qualcuno desideroso di comunicarmi qualcosa.

    Contemporaneamente, osservavo i riverberi tremuli delle luci gialle sulla superficie del mare e rimanevo sospeso fra la sensazione di quiete che da essa promanava e il fastidio provocato da quella comunicazione anonima.

    Ó ὕπνος αδελφός του θανάτου εστιν, il sonno è fratello della morte.

    Ero forse io l’addormentato a cui sfuggiva un’evidenza che avevo sotto gli occhi? Chi era questo K-21? Un pazzo, un agente segreto come nel gioco di società, o chi altri? E perché ricorreva alla metafora del maggiordomo? E ancora, quale simbolicità poteva mai esprimere la data del 25 gennaio 1982, indicata, in modo diacronico, come obiettivo da realizzare?

    Erano questi alcuni degli interrogativi suscitati dal misterioso K-21, chiunque diavolo fosse costui.

    Il loop continuava a roteare nella mia testa senza arrestarsi: Ó ὕπνος αδελφός του θανάτου εστιν (il sonno è fratello della morte), Ó ὕπνος αδελφός του θανάτου εστιν. A quella frase rispondevo mentalmente: Οι οὗν σοφοί και δίκαιοι άνθρωποι τόν θάνατον ού δειμαίνουσιν (gli uomini saggi e giusti non temono la morte).

    Fra tanti difetti e un rapporto estremamente complicato con me stesso, mi riconoscevo almeno il pregio di essere un uomo di buona volontà e amante della giustizia; perché dunque avrei dovuto temere la morte o il sonno della ragione?

    Furono i riflessi tremuli delle luci sul mare a dirottare altrove il mio ragionamento, riportandomi all’irrisolto dilemma shakespeariano: i riflessi di luce sul mare sono romantici o malinconici? Boh, entrambi?

    Come dolcemente soggiogato da una corrente di mare lieve e invisibile, che ti trascina al largo verso altri lidi senza che te ne accorgi, così mi allontanai piano piano dai messaggi di K-21 e dal mio personale dilemma, fino ad approdare alla constatazione sugli inutili affanni dell’uomo e di come egli si appesantisce la mente con preoccupazioni e pensieri superflui.

    Imparassimo, una volta per tutte, a fidarci della vita, a lasciare che sia lei a condurci, a fornire soluzioni e risposte. Potessimo diventare tutti un po' aristotelici, e affermare: C’è soluzione? Di che ti preoccupi. Non c’è soluzione? Di che ti preoccupi.

    Potessimo prendere spunto da quei riflessi di luce tremula sulla superficie dell’acqua, destinati a sparire con la luce del giorno, eppure così placidi, privi di preoccupazione, quasi consapevoli della caducità di ogni cosa. Mere proiezioni di luci artificiali, eppure in grado di placare l’animo inquieto di chi si ferma, paziente, a contemplarli nel silenzio della notte.

    Il sonno è fratello della morte, ma gli uomini giusti non devono temere la morte e non possono cadere nel sonno della ragione.

    Forse per questo, quei riflessi di luce presidiano la notte, quasi a voler essere un monito per le coscienze. Un invito a non dormire, a vigilare costantemente per evitare che il buio della ragione abbia il sopravvento. Vigilate itaque, quia nescitis diem neque horam, vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.

    Il loop mentale raggiunse l’apice della contorsione, nel constatare che pensavo a più cose contemporaneamente, ma pensavo anche che, pensare a più cose contemporaneamente, equivale a non pensare a niente. Però è sempre meglio pensare a niente che non pensare affatto.

    Lo struscio dei piedi nudi di Ludovica alle mie spalle mi salvò dalla deriva autistica in cui ero imprigionato. Protesi le braccia per accoglierla e si accucciò sulle mie gambe, rannicchiandosi come una bimba in cerca di protezione. Rimase in silenzio per qualche minuto, con il volto premuto sul mio petto, quasi volesse inalare il profumo naturale della mia pelle e al contempo fiutare il mio stato d’animo.

    Ogni rapporto possiede i suoi incastri, i suoi equilibri sommersi, le sue forme di compensazione.

    Per un personaggio come me, sbadato e perennemente immerso nelle nuvole, Ludovica rappresentava un ponte verso la vita reale. Era il filo che tiene ancorato l’aquilone alla mano e gli impedisce di volteggiare in aria in un perenne moto senza senso. Era lei che mi distoglieva dall’inconcludenza richiamandomi alla concretezza della vita quotidiana.

    In cambio, io la aiutavo a distaccarsi dalle cose terrene e vivere la prospettiva eraclitea della mutevolezza dell’essere. Le ripetevo sempre: πάντα ῥεῖ, amore mio. Non ti puoi immergere due volte nella stessa acqua. Lei mi smontava subito con un "vai a comprare il caffè grazie", o espressioni simili dal contenuto più esplicito, che costituivano un caldo invito a lasciare l’iperuranio e tornare fra i mortali. Quella sera andammo a letto a rifugiarci nell’individualismo del mondo onirico che, come diceva un tale, è come lo stuzzicadenti (di uso strettamente personale).

    ***

    L’indomani, il Direttore mi accolse con il sorrisetto ironico che io e Bobo definivamo tecnicamente "presa per il culo. Era un sorriso accompagnato da uno sguardo furbo, della serie ne so più di te, e da una gestualità particolarmente manierosa e affettata, della serie guarda come ti fotto".

    Insomma, sempre tecnicamente, si trattava della classica "presa per il culo".

    Iniziando a fare un giro largo, mi raccontava di aver ricevuto numerose telefonate di complimenti per l’editoriale sull’antimafia e che volevano invitarmi come relatore a un convegno sul tema. Non male come riconoscimento per uno che, fino ad allora, si era occupato della pagina culturale della rivista, recensendo libri e intervenendo su tematiche di carattere generale, nel tentativo di dare un senso alla laurea in filosofia, rimasta nel cassetto come ingombrante accessorio dei tanti sogni mai realizzati.

    Io lo ascoltavo in silenzio e dovevo avere un’espressione particolarmente ebete a giudicare dal fatto che non la smetteva di sorridere mentre parlava.

    Però quell’analisi del rapporto fra giustizia e legalità e l’elogio dei paladini dell’antimafia dovevano proprio aver colto il bersaglio, se, fra le tante telefonate, il direttore aveva ricevuto anche quella del Procuratore Petroli che elogiava l’efficacia e la levatura culturale di questa ‘firma del giornalismo d’élite’, così mi aveva definito.

    Rimasi zitto, in attesa di capire dove volesse andare a parare con quel panegirico, finché non mi disse che Petroli mi aveva invitato nel suo ufficio per l’indomani mattina, desideroso di conoscermi personalmente.

    Infine, senza dismettere quel sorrisetto sarcastico – giustappunto da presa per il culo – il direttore era spuntato da dietro la nuvola di fumo creata per accendere la sua adorata pipa, per esclamare: Attento allo squalo. A quel punto, aveva premuto il pulsante dell’apriporta per suggerirmi elegantemente di togliermi dai maroni.

    Prima di genuflettermi davanti all’Autorità, feci una rapida ricerca per sapere di più su questo Domenico o, forse, Agostino Petroli, Procuratore della Repubblica di Himera. Considerato, a furor di popolo, uno dei magistrati più impegnati ed esposti d’Italia, egli si era costruita una certa notorietà a suon di arresti e condanne, stroncando sul nascere ogni tentativo di riorganizzazione delle cosche mafiose nel territorio. Da tutti ritenuto un Procuratore di ferro, autentico e inflessibile servitore dello Stato, aveva prodotto una mole di lavoro impressionante, con risultati eccezionali nel contrasto alla criminalità organizzata, mai raggiunti da nessuno prima di allora.

    Epperò, qualche uccellino impertinente suggeriva una lettura alternativa della storia, raccontando che Agostino Petroli aveva costruito la carriera a tavolino, frequentando salotti romani e corridoi ministeriali, muovendosi sempre sottotraccia, manifestando una grande accortezza nel compiacere gli ambienti politico-istituzionali detentori del potere.

    Se pensi di trovarti dinanzi a un uomo di giustizia, scordatelo.

    Era stato il monito di un mio amico avvocato nel riportare alcune maldicenze dei corridoi. Serpeggiava la voce secondo cui Petroli fosse un equilibrista che amava definirsi ‘magistrato antimafia’, locuzione altamente suggestiva, spesso utilizzata come viatico per godere di una presunzione aprioristica di onestà e non applicare a se stessi le regole che valgono per gli altri.

    Vuoi conoscere gli umori della gente comune? mi aveva chiesto con il tono sarcastico che lo contraddistingueva. Senza attendere risposta aveva proseguito: Se un magistrato antimafia combatte l’illegalità a rischio della propria vita, avrà pure diritto a qualche privilegio, non credi? Ad esempio, scorrazzare per la città a sirene spiegate, solo per arrivare prima a casa, allo stadio, o alla scuola dei figli; aspirare ai massimi livelli della carriera perché in fondo gli spetta di diritto, dopo avere rischiato la vita nel combattere la mafia… Questo è quello che pensa la gente comune, amico mio.

    Non è che hai perso qualche processo con lui e hai il dentino avvelenato?  gli avevo risposto con fare sornione.

    Era chiaro che quelle maldicenze fossero dettate da invidie o comunque da una visione superficiale dei fatti. Continuai pertanto a raccogliere informazioni qua e là, sul web, con i colleghi e soprattutto con Bobo che aveva riattaccato il telefono dopo essersi prolungato nelle sue disamine profonde e articolate:

    Bobo, domani devo andare a trovare Petroli. Che mi dici di lui?

    A me sta sui coglioni.

    Analisi conclusa.

    Riassumendo, Petroli era un valoroso magistrato che meritava la fama superlativa di Procuratore di ferro, secondo l’opinione dominante, mentre, secondo la contrapposta opinione – largamente minoritaria –  era solo un carrierista, privo di qualsiasi codice etico.

    Quel contrasto di opinioni, tuttavia, mi lasciava del tutto indifferente. Dualismo della realtà e convivenza degli opposti erano temi a me noti fin da quando, giovane liceale, mi ero imbattuto nei romanzi di Dostoevskij. Come dimenticare la teoria delle idee doppie del principe Myškin; la verità che ama frammentarsi negli opposti; come ignorare che, nelle contraddizioni umane, si nasconde sempre un punto di congiunzione che riconduce tutto a unità.

    Gli opposti in grado di convivere senza affatto contraddirsi; la nobiltà d’animo che contiene la miseria umana e, per converso, la miseria umana che è in grado di generare gli slanci più nobili.

    Ecco perché l’essere descritto, contemporaneamente, come paladino della legalità e come carrierista, costituiva ai miei occhi un postulato unico, due frammenti speculari di verità che convivevano, nonostante l’apparente inconciliabilità. Ben poteva, il Petroli, essere un uomo di giustizia ma anche un carrierista.

    La storia dimostra di sapersi avvalere anche degli imbecilli per attuarsi, figuriamoci se non è capace di sfruttare le persone valide, che magari accusano qualche debolezza umana, tutto sommato perdonabile.

    Tutto questo dire, però, aveva accresciuto così tanto la curiosità sul personaggio che l’indomani, alle nove in punto, mi presentai al palazzo di giustizia.

    Ai controlli di sicurezza notai un canuto signore sui settant’anni, discretamente vestito con un abito grigio chiaro, una camicia bianca e una cravatta blu con le margheritine bianche. Gli avvocati lo salutavano con un Consigliere, ossequi e, in segno di rispetto e reverenza, accompagnavano il saluto con un leggero movimento del capo verso il basso.

    Incuriosito, chiesi chi fosse quel magistrato.

    Il Consigliere De Giorgi, il magistrato più preparato del tribunale di Himera, Un’enciclopedia di saggezza e di buon senso, Un monumento del diritto, un uomo giusto. Queste le definizioni lusinghiere, rivolte a quell’umile magistrato che, quasi invisibile e con il trolley pieno di fascicoli, si era sottoposto ai controlli di sicurezza, aspettando il suo turno immobile e ordinato.

    Dietro di lui arrivò un giovane magistrato, attorniato dagli agenti della scorta che gli portavano la borsa. Aggirò i controlli passando lateralmente al metal detector e si fermò davanti l’ascensore, noncurante del saluto militare da parte dei carabinieri preposti al controllo. Chiesi come mai avesse saltato i controlli. Mi risposero con un certo stupore che era un pubblico ministero.

    Gli agenti della scorta m’impedirono di entrare con lui e mi toccò attendere l’altro ascensore in compagnia del Consigliere De Giorgi, il quale, notata la scena, mi aveva salutato affabilmente con un rapido movimento delle sopracciglia verso l’alto, come se volesse dirmi che vuol farci… porti pazienza.

    Seduto nell’anticamera della Procura, in compagnia di postulanti cronisti e agenti di scorta, a un tratto vidi uscire un alto ufficiale della Guardia di Finanza insieme ad altri due tipi in abito blu dal portamento serio e austero. Fissai nella mia mente i loro volti, sapendo che li avrei dimenticati di lì a poco, ed entrai nello studio del Procuratore Petroli. Si scusò per l’attesa, più per maniera che per giustificarsi davvero, mentre io potevo soddisfare infine la mia curiosità osservandolo attentamente.

    Di media altezza, vestiva in modo classico, con una giacca blu, un pantalone grigio antracite, la camicia celeste su cui spezzava una cravatta bordeaux, e un paio di mocassini neri.

    Ne studiai i lineamenti alla ricerca di qualche manifestazione somatica della personalità. Aveva le tempie scavate, occhi castani e gelidi, occhiali senza montatura, i capelli, con un’attaccatura alta, erano più pronunciati nella zona temporale e lunghi in quella occipitale fino a toccare il colletto della camicia. Quando parlava le labbra diventavano ancora più sottili assumendo una strana forma, quasi una smorfia che non saprei descrivere. Insomma, era un uomo abbastanza brutto, che non avrei notato se lo avessi incontrato per strada. Eppure, in quel contesto, con la sua fama e nell’esercizio della funzione, esercitava indubbiamente un suo fascino.

    Tenendo il sigaro spento in bocca, mi indicò con sussiego una sedia, poi girò attorno alla sua grande scrivania, per adagiarsi sulla poltrona presidenziale: Finalmente ci conosciamo Dottor Lozzi. Come uomo e come servitore dello Stato, non posso che ringraziarla per il suo editoriale.

    Lieto di conoscerla dottor Petroli. Ho fatto solo il mio dovere e non me ne voglia se non ho menzionato né lei né i suoi collaboratori.

    Ma ci mancherebbe. Lo avrebbe trasformato in un articoletto celebrativo, indebolendo l’efficacia del messaggio.

    Questo era lo spirito, ma, come lei ben sa, l’opinione pubblica ha bisogno di nomi, di persone da adottare come esempi. Lei è un esempio per tutti noi.

    Credo che il messaggio sia arrivato ugualmente, anche senza nomi.

    Però, se lei mi fornisse del materiale, potrei preparare un articolo dedicato alla procura di Himera. L’idea mi era venuta così improvvisa e inaspettata, che non ero riuscito a tenere a freno la lingua.

    Lui invece rispose compiaciuto: Mi dica cosa le serve.

    Considerato che sono un neofita, mi piacerebbe leggere qualcosa che dia un’idea dell’attività di contrasto alla criminalità organizzata che avete svolto finora.

    Le faccio preparare un CD con tutte le richieste di custodia cautelare accolte in questi anni. Afferrando la cornetta, diede subito disposizione alla segretaria. Beninteso, non dica a nessuno che gliel’ho dato io. Tutto lecito per carità, ma preferisco che i nostri rapporti futuri si sviluppino nella riservatezza assoluta.

    Ha la mia parola.

    "E mi dica: da quanto tempo lavora per la rivista Antipotere?"

    Fin dalla sua creazione.

    Prima scriveva solo libri, mi pare.

    Collaboravo con altre riviste specializzate, qualche insegnamento universitario e scrivevo libri.

    Perché ha lasciato l’università?

    Non mi piaceva e non mi piace il metodo… programmi auto-referenziati che servono a riprodurre un sistema sociale, a trasmettere una pseudo cultura omologata e centralizzata. Io ho seguito un percorso diverso, coltivando idee libertarie e, per coerenza, mi sono sottratto a quella insana gerarchia di vassalli e valvassori.

    Un ribelle insomma.

    Diciamo che preferisco Democrito a Sant’Agostino, dissi ridacchiando. Dall’espressione che fece, intuii che non aveva compreso la battuta.

    E questo l’ha indotta a…

    "Lavorare per Antipotere. Mi è piaciuto il progetto editoriale… l’idea di un periodico indipendente che consentisse di esprimermi liberamente. Lei sa meglio di me che oggi c’è bisogno di rilanciare certi ideali di verità e di giustizia, e di contrastare le ipocrisie del potere."

    Niente di più vero. Sa che ho letto il suo libro.

    Quale?

    L’ultimo. Potere e Verità. Analisi spietata ma vera…, e silenziò il cellulare che squillava in continuazione, …Ma a rischio di apparire un esaltato, le dico cosa penso.

    Portò il sigaro spento in bocca, con una gestualità consolidata che serviva a dare solennità alle sue parole: sento che lei può afferrare ciò che voglio dire, senza fraintendermi.

    Dica pure.

    Fra la menzogna del potere e la forza della verità ci siamo noi pubblici ministeri.

    Cioè?

    Vede, caro amico… mi permetta di definirla così… io penso che noi abbiamo una missione etica: rimuovere la menzogna e ristabilire la verità. Siamo il ponte necessario che conduce alla verità. Un tempo, nella vecchia letteratura processual-penalistica, si affermava che il pubblico ministero è «l’occhio della legge». Ebbene, se quest’occhio si distrae o peggio si addormenta, i reati non vengono scoperti, i crimini rimangono impuniti e la verità si perde.

    Sembrava un ragno che iniziava sapientemente a tessere la sua tela e io ero intenzionato a dargli tutto il filo che voleva. Gli risposi: Indubbiamente svolgete una funzione delicata e, per molti versi, ingrata. Gestite un potere enorme, intercettate i segreti più reconditi degli esseri umani, entrate nella sfera riservata dell’individuo e carpite le informazioni più intime della vita di ciascuno. Per gestire tutto questo, occorre grande equilibrio, senso di responsabilità e onestà intellettuale. Una responsabilità talmente grande che non vorrei essere al vostro posto.

    Ascoltava con il sigaro spento in bocca e senza perdere il suo contegno annuiva manifestando un moderato compiacimento. Ma ero certo che, dentro di sé, il suo ego fosse in quel momento rigonfio e gongolante.

    Anche voi giornalisti maneggiate la verità e la vita degli uomini, forse più di noi magistrati. Perché vede: per eliminare una persona non è necessario ucciderla e nemmeno metterla in galera. Basta buttarla in prima pagina ed è bruciato per sempre. Se ci riflette bene, io e lei siamo accomunati dalla stessa sorte. Entrambi armeggiamo con la verità. Abbiamo un’idea di società e tentiamo di costruirla attraverso il nostro lavoro.

    Quest’ultima affermazione aveva un certo connotato politico perché – mi dicevo – un magistrato dovrebbe semplicemente applicare la legge, non pensare di attuare un progetto di società. Ma non era il caso di contraddirlo, almeno non al primo incontro.

    E poi – devo ammetterlo – Petroli suscitava un sentimento di grande rispetto. Avvertivo anche un certo timore reverenziale, ma solo a intermittenza, quando cioè mi soffermavo all’idea di trovarmi al cospetto del famoso magistrato che stava scrivendo la storia della lotta alla mafia. Ciò mi impediva di essere del tutto disinvolto nel condurre la conversazione e stavo attento a soppesare ogni parola, nel timore di mancargli di rispetto o di essere irriverente.

    Gli rivolsi un sorriso cordiale: Indubbiamente la verità è, o dovrebbe essere, il nostro pane quotidiano. C’è chi la cerca e chi semplicemente la manipola. La differenza però è che il giornalista non priva nessuno della libertà. Mossi l’indice in senso di diniego. No, non potrei mai fare il suo lavoro e per questo ha la mia più sincera ammirazione.

    E io la ricambio nella stessa misura, non foss’altro perché non l’ho mai incontrata in questi corridoi a piatire per qualche notizia da pubblicare.

    Beh, non si illuda .. solo perché non mi sono mai occupato di cronaca giudiziaria, scherzai.

    "Lo so. Lei ha sempre curato la rubrica… l’elzeviro, in terza pagina

    ¹ , esclamò con tono vivace, poi aggiunse: La seguo da anni con grande interesse, ed è proprio per questo che, in realtà, intendevo incontrarla già da tempo. In fondo, combattiamo la stessa battaglia. Scrivere sulla verità come fa lei, peraltro in un settimanale chiamato Antipotere, significa lottare per l’affermazione della legalità. Lei combatte la prepotenza umana dal punto di vista filosofico e sociale, e io dal punto di vista giuridico. Si potrebbe dire, con una battuta, che siamo quasi colleghi."

    L’affabilità di questo magistrato sconfessava l’immagine dell’uomo bramoso di fama e potere che mi era stata dipinta da qualcuno, sicché giunsi alla conclusione che le

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