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Santa Kultura
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Ebook370 pages5 hours

Santa Kultura

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About this ebook

Un giorno qualunque sul finire degli anni Ottanta, il paese di Valle viene sconvolto dalla notizia che, dopo la morte di frate Pidkins, il vecchio convento di cui lui era proprietario è stato venduto e verrà presto trasformato in un hotel. Riccardo, un giovane senza lavoro né diploma, accetta l’incarico di trasportare i libri del defunto nella vicina chiesa del burbero Don Orazio, usando come mezzo la piccola Ape car dei francescani, ribattezzata Santa Kultura.
Tra i tantissimi libri della collezione del frate, il giovane scoprirà un messaggio che lo spingerà passo dopo passo a svelare un mistero: chi è il traditore che si nasconde in convento?
LanguageItaliano
Release dateApr 21, 2023
ISBN9788831457958
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    Santa Kultura - Gianandrea Frighetto

    La Ruota Edizioni

    Santa Kultura

    Gianandrea Frighetto

    Collana Nuvole

    Copyright © 2023 La Ruota Edizioni

    Tel. 06 89715227

    www.laruotaedizioni.it

    redazione@laruotaedizioni.it

    ISBN: 978-88-31457-95-8

    Impaginazione e progetto grafico cover a cura di Valentina Modica

    Ai miei nonni

    Un giorno, un forestiero mi chiese quale fosse la nostra filosofia di vita. Riflettei un istante e risposi che se fosse andato in qualunque piazza, borgo o campagna del Vecchio Stivale, vi avrebbe trovato una chiesa per pregare, un mercato per mangiare e, infine, un’osteria. Lì, ci sarebbe stato qualcuno disposto a narrargli una storia, in cambio di un goccio di vino e di un sorriso. Solo allora avrebbe capito.

    Frate Pidkins

    Prologo

    31 gennaio 1987

    I paesani di Valle si sarebbero ricordati di quella notte soprattutto per il freddo. Tetro e silenzioso, rendeva la terra come la dura pietra, scivolando tra le casupole costellanti la pianura e facendo stringere le assonnate chiappe tra i pigiami. Gli alberi nei giardini reggevano le foglie come gocce al naso e osservavano la scena celati dalla fitta nebbia, muro invalicabile alle pendici delle alte cime. Al di sotto, il convento del Tonin si ergeva nella sua monumentale decadenza e tra le grate in ferro e le finestre dai vetri graffiati, quell’innata immobilità veniva interrotta a ritmo irregolare da una luce, che appariva e scompariva lungo il corridoio perimetrale.

    L’ombra camminava veloce con la torcia in mano, rapida nonostante il fare claudicante che la costringeva a piegarsi sulla spalla destra, per poi darsi la spinta del passo successivo. Frate Pidkins si volse un paio di volte, prima di procedere lungo le scale al piano superiore e, infine, giungere di fronte alla stanza esattamente al centro.

    Posò la fronte sulla porta e il naso adunco inspirò l’alito di cipolla rimbalzare sul legno umido. Ruotò la testa, da una parte e poi dall’altra, per infine abbassare la maniglia e valicare l’uscio cigolante.

    Una gelida folata lo accolse dalla finestra aperta, mescolandosi con il profumo di carta stampata che impregnava le pareti. Attraversò la stanza serrando gli scuri e si volse verso i libri, che sembravano osservarlo in un silenzio giudicante. Dopo un momento di riflessione, infilò la mano in tasca ed estrasse una scatola in velluto rosso.

    «Qualcuno vi salverà» sussurrò e lanciò un’occhiata ai dorsi sugli scaffali, prima di far scivolare via il coperchio.

    All’interno giacevano un volume consunto, un foglietto ripiegato e un sacchetto in lino chiuso da uno spago.

    Afferrò il pezzo di carta e lo stese in alto, illuminandolo al chiarore della luna.

    «Se state leggendo questo messaggio, significa che sono morto» recitò sorridente.

    E sorrise anche quando raccolse il sacchetto con coulisse sul palmo della mano.

    Un brivido gli corse lungo la schiena, facendogli scuotere le spalle ossute, ma non il sorriso. Slegò con un movimento il cordoncino e allargò il foro con le dita. Nascosto tra soffici bende ingiallite, s’intravvedeva l’unghia d’un pollice mozzato e il ghigno del frate rivelò che lui, quella notte, se la sarebbe ricordata per un altro motivo.

    Pitagora

    23 luglio 1988

    «Il convento è stato venduto» scandì una seconda volta la voce calma e risoluta di frate Bosco.

    Dall’alto dell’ambone i suoi occhi percorsero il silenzio tra le panche della piccola navata, indugiando, infine, sulle due figure al limitare dell’acquasantiera, che lo guardavano con espressione perplessa. Due vagabondi, per essere precisi. Il più anziano, dalla fulgida barba accompagnata da una chioma liscia e ondulata, veniva chiamato Barone per le sue nobili origini, sebbene lui stesso non le avesse mai confermate né smentite in quanto muto. Il secondo, invece, aveva un viso squadrato che arrivava alla spalla del compagno, con un’ampia fronte su cui s’inarcava il sopracciglio sinistro, facendogli assumere un’aria furbesca. Di nome faceva Giovanni, ma la totale assenza di barba sul mento e di pelo sotto le ascelle, gli aveva affibbiato il soprannome popolare di "Iovane¹".

    Un irruento sbattere di porte interruppe lo scambio di sguardi, che si volsero verso l’uomo appena entrato dal portone centrale. Vestito con una semplice maglia consunta e un paio di jeans bucati, avanzò con camminata ondeggiante, lasciando ad altri acquasanta e segno della croce. La sua comparsa risvegliò i fedeli di Valle di Sopra, che reagirono all’annuncio del frate dando in escandescenza.

    I contadini delle campagne circostanti maledissero le tasse, perché sempre di quelle si trattava, convinti che fossero il male per tutti. Le mogli, schierate in prima fila per far udire l’eco delle loro voci, inveirono contro i mariti, peccatori, a loro dire, perché poco partecipativi in chiesa e a letto, e per questo Dio gliela faceva pagare. Infine i vagabondi, che di matrimoni e di tasse ne sapevano poco, si alzarono protestando contro la borghesia, colpevole di volergli togliere la santità, ma soprattutto il piatto caldo dopo la messa.

    In mezzo a tutto quel trambusto l’ultimo arrivato, che si chiamava Piero, si mosse tra le panchine, schivando con eleganza il vecchio Matusalemme con il sacco per le offerte e sedendosi di fianco al suo capo, il Barone per l’appunto.

    «Me so’ perso qualcosa?» chiese grattandosi la barba grigia sotto il mento, mentre i frati cercavano di riportare calma e pace tra i credenti.

    «Vendono tutto» sussurrò Iovane chinandosi sopra il cavallo dei pantaloni del Barone.

    «Finalmente. Hai capito Matusa? Finita la pacchia, sparisci con i mobili tarlati del corridoio» urlò Piero al frate, che con un gesto lo invitò ad andarsene a Valle di Sotto.

    «Ma che hai capito? Vendono il convento»

    «Questo? Lo sapevo» rispose allora Piero con un’alzata di spalle, piegandosi anche lui vicino al Barone, che intanto li osservava ringraziando Dio di non poter parlare.

    «Si dice» riprese, accarezzandosi i ciuffi sul mento sporchi di briciole, «che il Papa non voglia più mantenere ’ste ciese»

    «E tra le tante proprio quella di Valle?» chiese Iovane indicando con l’indice il pavimento e anche il Barone lo fissò dubbioso.

    «Certo. Prima un paesino montano del Veneto» disse Piero lasciando sospese le sue parole, mentre tutt’attorno la folla sembrava calmarsi e i confratelli erano in procinto di riprendere le liturgie, «per arrivare a vendere San Pietro» concluse con un’eco che si ripeté nel silenzio della navata.

    In pochi attimi il turbamento dei fedeli si riaccese con un boato e frate Bosco fissò minaccioso il trio, stringendo i denti e mostrando la mascella scultorea.

    «Forse è meglio andarcene» commentò Iovane e gli amici concordarono con un cenno.

    In fondo si erano fatti cinque chilometri a piedi non per una benedizione, ma per il calice e la particola della cena subito dopo.

    «Silenzio» urlò in quell’istante frate Bosco bloccando tutti, compresi i tre vagabondi che, prossimi all’uscita, si voltarono verso l’altare, «Volevo solo avvisarvi che la mensa è chiusa per il trasloco. E ora potete andare in pace» continuò, non nascondendo un sorriso beato.

    «Lo ha fatto di proposito!» commentò Piero passeggiando su e giù di fronte l’ala esterna del convento, con l’erba a bagnargli le scarpe bucate. Iovane e Barone sedevano sul muretto non ascoltandolo nemmeno, presi com’erano dallo scoprire se c’era qualcuno che li amasse tra i petali di margherita.

    «Hanno voluto darci una lezione da giù» continuò Piero.

    «Da dove?»

    «Ma è ovvio. Dal Vaticano»

    «Ancora con questa storia» rispose Iovane accendendosi una sigaretta.

    Piero si girò, puntando l’indice in alto per rispondergli. Ma subito si bloccò, all’udire un rumore di monete tonanti.

    Un’ombra comparve sul piazzale del convento e si avvicinò a passi lenti. Fino a che, sotto la luce proveniente dalla finestra, riconobbero frate Mattia, il giovane e timido campanaro.

    «Che ci fai qui? Se è per i soldi, puoi dire a Matusalemme che prima non li avevo e di certo non li ho ora» disse Piero.

    Il frate spostò il ciuffo biondo sulla fronte e avvicinò il cesto con le offerte da cui estrasse un paio di pagnotte cotte al forno, che i vagabondi afferrarono subito.

    «La nostra manna» esclamò Iovane, dividendo il proprio pezzo di pane con Barone.

    «Non è che hai un po’ di vino lì dentro?» chiese invece Piero, prendendo il sacco e infilandovi la testa.

    «Mi spiace r-ragazzi, questo c’è stasera. Frate Bosco ha già chiuso le d-dispense»

    «Simpatico» rispose ancora Piero, sedendosi con le gambe divaricate sul poggiolo, mentre il frate faceva altrettanto.

    «Sai perché lo hanno venduto?» chiese Iovane e il Barone alzò lo sguardo incuriosito, ma l’altro scosse la testa grattandosi la guancia.

    Il giovane campanaro fece spallucce.

    «Probabilmente un erede di f-fratello Pidkins. Il c-convento apparteneva alla sua f-famiglia da g-generazioni»

    «Ma non era del Papa?» chiese Piero quasi soffocandosi con il boccone.

    Frate Mattia negò con il dito: «E-era un’antica fortezza c-convertita in romitorio per i frati. F-fino a oggi»

    «Pidkins» rifletté Iovane ad alta voce, «non era quello che è morto un anno fa?»

    «Chi?» domandò Piero, al che Iovane sbuffò.

    «L’anziano frate senza il pollice»

    «Ah già, quello che non parlava la nostra lingua» commentò Piero spalancando gli occhi.

    «Eri te che non ti facevi capire» commentò Iovane scuotendo la testa.

    «Ci ha l-lasciato tutti i libri però» aggiunse il frate, rigirando lo spago della tonaca tra le dita.

    «Non penserete mica di tenerli?» domandò Piero.

    «Frate Bosco v-vuole donarli. E credo sia la s-scelta migliore, perché sono s-sacri. E anche s-se non lo fossero, non lo t-troverei giusto» rispose ancora, suscitando un sorriso ammirato del Barone, «M-ma avremo b-bisogno di aiuto»

    «Ci siamo» rispose Iovane.

    «Per portarli a don O-Orazio»

    «Impegnati! Siamo impegnati voleva dire» aggiunse subito Piero, lanciando un’occhiataccia all’amico.

    «Al solo s-sentire il suo nome t-tutti rifiutano»

    «Capirai. Ha aperto un foro nella chiesa del paese» disse Piero.

    «Non è s-stato uno s-scherzo?»

    «Credevo l’avesse incendiata» commentò invece Iovane girandosi verso l’altro vagabondo. «Comunque ti do un consiglio. Trova un giovane cristiano nullafacente, meglio se di Mezzo, così sei sicuro che non lo conosca, e vedrai che tutto sarà risolto» concluse.

    Il frate sorrise, spostandosi la frangia di lato: «Avete ragione! Anche f-frate Bosco dice s-sempre: non consumare il tuo cuore di affanni e di dolori»

    «È di Gesù?» chiese Piero attirando lo sguardo accigliato degli amici.

    «Pitagora»

    «Stessa classe insomma»

    «N-ne parlerò con Bosco. O-ora vado, che domani ho le lezioni di campana. Vi aspetto a messa»

    «Come se fossimo già lì» lo salutò Piero assieme agli altri, che lo guardarono andare via, «È un bravo ragazzo. Ingenuo, ma bravo» aggiunse.

    «Lo sai che quella borsa va restituita con tutti i soldi, vero?»

    «Pensavo l’avesse lasciata per il vino» rispose allargando le braccia con un sorriso, ma Iovane gli indicò la porta del convento e, dopo che ebbe restituito il malloppo, i tre si incamminarono sulla via del ritorno. L’oscurità calò come il sipario di un teatro e avvolse le loro ombre, mentre l’interminabile voce di Piero dirigeva i loro passi verso le luci di Valle di Mezzo.


    1 Giovane.

    Aristotele

    24 luglio 1988

    Riccardo si svegliò male quella mattina, come sempre del resto in quell’ultimo periodo. L’assillante rumore era cessato, ma ormai il sonno era svanito. Sebbene indossasse solo le mutande, si sentiva così sudato, che gli sembrava di avere la pelle incollata alle lenzuola e si mise a sedere con movimenti lenti, tant’era la paura di strapparsela. Appoggiò i piedi sul pavimento con gli occhi ancora chiusi e passò la lingua sulle labbra secche, che faticavano ad aprirsi.

    Tastò la superficie del comodino in cerca della bottiglia d’acqua per le emergenze, ed era ancora intento nello sforzo quando l’avviso sonoro si ripeté, confermandosi causa dei suoi mali.

    Un profondo din don, seguito da un don dan e che riprendeva dall’inizio la sua melanconica sinfonia. Come sempre malediceva il campanile, il prete e sua nonna (non del prete, certo, ma la propria), che per puro spirito cattolico, aveva deciso di costruire la casa di fianco all’unica chiesa presente nel raggio di chilometri. Borbottando qualcosa anche a lui incomprensibile, si alzò e andò in bagno. Un paio d’occhi castano chiaro perlustrarono il suo viso dallo specchio, rifiutandosi infine di porre rimedio ai ciuffi biondi che si contorcevano ribelli a qualsiasi forma d’ordine. Notò suo malgrado le chiazze vuote tra i nei delle guance. I peli non avevano ancora deciso di spuntare durante le ore notturne e lanciò una triste occhiata al rasoio regalatogli dallo zio Mario due Natali prima, ancora avvolto dalla pellicola.

    Mugugnò ancora sfilandosi le mutande e, dopo un rapido consulto al water, andò in doccia. L’acqua fluiva rapida sul fisico magro e muscoloso e lui passò in rassegna tutto il corpo, fino a quando la mano non si bloccò.

    Le dita disegnarono il profilo della cicatrice che gli tagliava la schiena a metà e, per un attimo, un’ombra oscurò il suo viso.

    «Ricky sei sveglio?» gridò la madre, affacciatasi sulle ripide scale a chiocciola.

    «Se non lo ero lo sono adesso» rispose ad alta voce una volta uscito dalla cabina, proseguendo con gli interrogativi di quel mattino.

    Perché sotto le ascelle e non sul mento? Figuriamoci sul petto poi… pensò scuotendo il capo.

    Scese a passi rapidi i gradini in legno, saltando gli ultimi due e quasi torcendosi una caviglia mentre nel balzo girava verso la cucina. Un aroma di arance fresche lo accolse assieme alle mattonelle verde pisello e si sedette a capo tavola, rivolto alla televisione a tubo catodico. Era arrivato giusto in tempo per il solito tg che sua nonna, accomodata in rigoroso silenzio dall’altra parte della tavolata, guardava puntualmente trecentosessantaquattro giorni l’anno. Natale faceva eccezione, con la maratona di messe e benedizioni da tutt’Italia. La stanza, come quasi tutta la casa del resto, era in puro stile anni Cinquanta, eccetto per la sua camera e la statua marmorea di sua nonna, risalente al secolo passato, anno più anno meno. Nonostante il gusto comune dell’arredo quasi interamente in noce, la topografia divideva, attraverso il corridoio angusto e stretto, la cucina e il salotto, il bagno grande dallo sgabuzzino, il bagno piccolo dalla lavanderia e poi sopra si ripeteva uguale, separando le camere da letto. Se qualcuno avesse piantato un muro nel mezzo, la famiglia avrebbe potuto dividersi i servizi e le sale come una vera Berlino. Riccardo teneva gli occhi fissi sullo schermo luminoso e non si accorse neppure della scodella rifilata dalla madre sotto il suo naso.

    «Tieni, mangia che poi devi portare nonna a messa».

    Riccardo alzò gli occhi al cielo, prima di incrociare le due perle nere che l’osservavano corrucciate.

    «Ma è qui di fronte, perché devo portarla ogni volta?»

    «Ma voi giovani non sentite i tg ogni tanto? Hai visto cosa è successo a Bologna l’altro giorno?» commentò, scuotendo i rossi capelli che le arrivavano sulle spalle.

    «Un omicidio per droga?»

    «No! Una rapina a un anziano. Lo hanno malmenato e derubato»

    «Tranquilla, non si porta neanche i soldi per l’elemosina».

    La madre non gli diede retta, indossò i guanti in lattice attenta a non rovinare lo smalto e tornò a lavare i piatti. Riccardo terminò la colazione e la nonna proseguì a guardare la tv, disinteressata a qualsiasi accenno di conversazione.

    «Prendi diecimila lire dal portafoglio» aggiunse sua madre, senza distogliere lo sguardo dal rubinetto.

    «Non serve mamma» protestò lui con poca convinzione.

    «Pensa solo a rimetterti, qualcosa arriverà» rispose e gli rivolse un sorriso circondato da fini rughe.

    «Ma davvero, ce la faccio anche da solo».

    La madre, e pure la nonna, lo fissarono con sguardo dispiaciuto.

    «Tienili lo stesso» rispose la donna, infilandogli la banconota gocciolante tra le mani, «Semmai trovassi qualcosa, mi offrirai una buona granita».

    Riccardo strinse le dita attorno alla filigrana, sentendola pesante come un macigno.

    «Papà sta per tornare» sussurrò infine il ragazzo, rigirando il latte dentro la conca del cucchiaio.

    D’un tratto sua madre si immobilizzò tanto che quasi non si udiva il suo respiro. Lasciò scorrere l’acqua del rubinetto sulle tazze sporche e bastò solo un gesto, un’alzata di quelle magre spalle che tremavano sotto il grembiule, a fargli capire che il suo intuito non aveva sbagliato. Suo padre non avrebbe approvato la scelta di lasciargli del denaro senza fare nulla in cambio e Riccardo fu certo che la madre lo volesse tenere alla larga da casa, lontano dalle botte, dagli insulti, dagli schiaffi.

    Ma durò un momento. Le stoviglie tornarono a cozzare, le pagine della rivista di nonna quasi si strapparono nel girarsi e Riccardo infilò il cucchiaio nella scodella non aggiungendo altro. Il silenzio dell’omertà, la convinzione della propria colpevolezza che si insinuava e giustificava ogni azione.

    I ragazzi forti non piangono ricordò il mantra del padre.

    Un leggero scalpitare di zampe lo distolse dai pensieri e un rumore, simile al suo rasoio da barba intatto, si riprodusse accanto ai suoi piedi. Sbirciò sotto la tovaglia trovando il ghigno di Lili, il cane di sua mamma, che lo osservava in attesa. Era un bastardino giunto alcuni anni prima dal canile, con un lungo pelo nero e le zampe bianche. Aveva uno sguardo da agnello, che compensava con una fame da vero lupo. Non gli diede retta e affogò la bocca con i cereali, ma il ringhiare non cessava. Cercò di allontanare il segugio muovendo il piede, ma l’altro era più svelto e aveva anticipato la mossa, comunicando la sua contrarietà. Riccardo lasciò perdere la disputa tornando alla sua colazione e d’un tratto si accorse che mancava qualcosa nella stanza.

    «Ma dov’è andata nonna?» chiese alzando la voce per coprire il rumore di piatti e bicchieri che tintinnavano sul lavello.

    «Fuori che ti aspetta»

    «Ma da quanto è lì?»

    La madre alzò le spalle e lui terminò con un paio di bocconi, scansò la forma pelosa ghignante e si affrettò a uscire, venendo accolto dal caldo umido e soffocante di quella splendente giornata di agosto. Socchiuse gli occhi e vide l’anziana in piedi di fronte al cancelletto, intenta ad ammirare la chiesa all’orizzonte.

    «Andiamo?»

    Non parlavano quasi mai in pubblico, era la prassi. Soprattutto da quando la signora Annarita aveva perso gran parte del suo udito e il nipote era stanco di far sentire le loro conversazioni a tutto il quartiere. Gli occhi di ghiaccio scrutavano immobili il paesaggio e, per un momento, il ragazzo ricordò quando, da piccolo, si divertiva a spiarla lavorare. In una cucina dalle persiane abbassate e l’incenso alleggiante nell’aria, passava il filo tra i fori delle selle da bicicletta, così tante volte che Riccardo ne perdeva il conto. Quando terminava un intero scatolone, la nonna poggiava la schiena sulla sedia, ricompensandosi con una tazza di tè bollente e una scatola di bastoncini alla liquirizia. Il pensiero del nipote tornò al presente, scrutando con pazienza quell’abito blu dal cui colletto luccicava il santino di Padre Pio. Un cappello in vimini le copriva il capo, lasciando scivolare alcuni ciuffi brizzolati sul collo.

    D’un tratto la nonna mosse un primo passo, seguito da un altro e il ragazzo le stette accanto fin quando non giunsero di fronte ai sacri portoni. L’anziana lo lasciò di fretta per correre a prendersi un posto ai piedi dell’altare. Vide le ballerine dorate perdersi tra il gruppo di fedeli che attendeva il prete nella navata. Don Angelo, un trentenne dal lungo capello nero e una pancia che l’abito scuro non riusciva a nascondere, fece la sua comparsa da dietro le quinte, sfoderando uno charme da vero personaggio famoso. Accolse il suo pubblico con un sorriso smagliante e ampi gesti delle braccia, che sciolsero le novantenni e fecero scuotere il capo agli accompagnatori, compreso Riccardo, che si allontanò al lancio di benedizioni in un latino ad vanveram.

    Sono le otto meno dieci rifletté il giovane osservando il campanile.

    Dalla tasca posteriore dei jeans estrasse un plico di fogli accartocciati. Esaminò per un momento la sua candidatura, sebbene sapesse fosse inutile quanto il voto di ginnastica a scuola. Ma aveva fatto una promessa e voleva mantenerla.

    Diresse i suoi passi oltre la piazza della chiesa, già svuotatasi prima degli otto rintocchi, e si immise tra le viuzze a quell’ora deserte. Villette singole dai mille colori si affacciavano sulla strada, sfidando le regole più basilari delle ville del Palladio, da cui traevano segretamente inspirazione. Se si fosse posto un qualsiasi quesito architettonico, ecco che i proprietari stilavano il discorso prestampato e con fulvido orgoglio descrivevano le curvilinee scale che portavano a terrazzi perimetrali, o le finestre squadrate che correvano su tutti i lati, ammiccando con le loro persiane marroni, o marrone scuro o marrone quasi nero. Bastava fossero marroni insomma.

    Proseguì quindi Riccardo, ma con la testa rivolta a terra e i pensieri che correvano ben al di là delle storiche origini di Valle e dei suoi fondatori. Chissà che avrebbe detto, se avesse saputo che sotto le scarpe sgualcite c’era un antico acquedotto romano, per lo più ancora funzionante, ma protetto dal menefreghismo dei burocrati locali, interessati solo all’arrivo della sorgente fino al rubinetto di casa propria.

    Come tutte le strade portavano a Roma, a Valle era l’acqua a scorrere prima dal sindaco di turno.

    Ma il tempo è denaro, soprattutto per chi ha poco di entrambi e, svoltato l’angolo di un’abitazione dell’epoca della Serenissima, i suoi occhi incrociarono la nostra odierna agorà.

    Una tenda a strisce bianche e gialle si stendeva sopra i tavolini della veranda, prima d’essere accolti dal grande bancone in granito maculato a dalmata, che con un paio di sardine e tre tonni in bacheca, rispettava il nome impresso sull’insegna: La locanda del pescatore.

    Riccardo si infilò sul pavimento dai rettangoli in terracotta e superò i quattro anziani che lo squadrarono. Il più grosso, e indubbiamente meno amichevole, lanciò una carta sul banco chiudendo la scopa e si volse sfidandolo a fare altrettanto.

    «Hai visto Patata? È di nuovo qui» disse il Malacarne con voce rauca al compagno.

    Quest’ultimo, un mingherlino ex postino ed ex altri lavori a busta bianca, rise isterico, non per il giovane, ma pregustando la mano successiva in cui l’asso di denari bolliva tra le dita.

    «Parlo con te» proseguì ancora il burbero pensionato, equilibrandosi sulle gambe posteriori della seggiola.

    Riccardo strinse le labbra maledicendo la propria sfortuna e si volse in attesa del tribunale dei quattro, che avevano interrotto la partita.

    «Alla tua età già avevo un’attività ed ero sposato. Che aspetti?»

    Un’alzata di spalle, accompagnata da un mezzo sorriso, fu l’unica risposta che seppe dare e il mugugno del gruppo piovve come giudizio per quella perdita di tempo. Peggio che dal dottore.

    «Lillo» urlò di contro Malacarne e il cameriere spuntò dal nulla rivolgendo un breve cenno a Riccardo, «Chiedi al cuoco quanto ci vuole per una pasta» concluse e il siculo schioccò le dita facendogli l’occhiolino.

    Poi, con sinuosi movimenti della camicia bianca dal colletto a punta, prese Riccardo per le spalle e lo scortò in fondo al locale.

    «Cucinate a quest’ora?»

    Il barman inclinò la testa scuotendola leggermente.

    «Secondo te c’è un cuoco qui?» chiese ironico e preparò un piattino con soppressa e delle fette di pane appena tagliato.

    Lo rigirò tra le mani e confermò con una smorfia la sua soddisfazione.

    «Sai che non si fidano per la tua…» riprese osservandolo un momento, «situazione. Perdi solo tempo amico mio» concluse e spinò un altro giro d’ombre².

    Riccardo non era nuovo a quel trattamento, ma le parole lo colpirono dritto al petto, più dei commenti del Malacarne e lo sguardo dispiaciuto della famiglia.

    «Non è stata colpa mia»

    «E che ce posso fa’?» canticchiò l’altro alzando l’alta fronte stempiata e infilandogli un bicchiere d’acqua tra le mani.

    Proprio in quell’istante la porta si spalancò e un colpo d’aria agitò i ventilatori, che ronzavano dispersi agli angoli del locale.

    «Lillo, due» ordinò Lele Bulgaro alzando le bianchissime dita al cielo e indicando il numero fortunato.

    Il cameriere sbuffò accorrendo con il suo più adorabile sorriso alla spina e salutò con un lieve inchino il nuovo arrivato. Il Bulgaro mosse i piccoli passi agitando i ciuffi attorno alla piazza sulla testa e squadrò tutti, fermandosi infine sull’unico minore in sala. Non era conosciuto per la sua simpatia e del resto anche il soprannome, distante da possibili, ma mai accertate origini balcaniche, gli era stato affibbiato per decisione popolare a causa delle salate quotazioni che riscuoteva con la sua ferramenta, richiamando così la nota marca di gioielleria, forse più economica per certi versi.

    L’uomo tirò su con il naso ingoiando il grumo e disegnò una smorfia arcuata e dubbiosa sulle labbra spesse e carnose. I passi al suo seguito anticiparono la figura del secondo arrivato, che lo coprì con la sua mole a sfiorare il lampadario, seppure si dicesse che con qualche ombra in più si alzasse fino al soffitto.

    Tinto Brass fece il suo ingresso già con la tuta blu sporca di olio. A differenza di quanto un malpensante potesse immaginare, nulla c’entravano i suoi interessi cinematografici. La storia era nata all’età di vent’anni, cioè quando aveva iniziato a tingersi i lunghi capelli lisci di color nero pece, per nascondere i ciuffi brizzolati sempre più frequenti. Quello stava per Tinto. Brass invece era per la sua corporatura, alto e magro aveva sempre avuto gambe, ma soprattutto braccia più lunghe della media dei suoi compaesani, a cui di certo non si poteva dire mancasse fantasia.

    Il Tinto però non degnò di uno sguardo Riccardo, prendendosi invece il bicchierino e sedendo sulla seggiola vicino a Malacarne con un profondo sospiro.

    «Novità dal fronte?» chiese, infine, volgendo lo sguardo lungo le pareti coperte da bottiglie di vecchia annata e salami lasciati a stagionare.

    «L’Iraq è alle strette, ormai dovranno cedere» rispose Malacarne facendo la voce grossa e gonfiando il petto.

    «Ma smettila. L’avevi detto anche per Israele qualche anno fa e guarda com’è finita. Sicuro che tuo nipote non

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