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L'ospite oscuro
L'ospite oscuro
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L'ospite oscuro

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About this ebook

1944. Il maestro elementare Simon Jefhte, ebreo di Budapest, ha un diario in cui descrive le proprie gesta di serial killer, compiute sotto l’influenza di una misteriosa entità demoniaca. Il diario s’interrompe bruscamente al momento dell’arresto e della deportazione ad Auschwitz del suo autore. 2005. A Chicago, un misterioso serial killer uccide senza pietà cinque bambine. Sulle sue tracce si mette il detective Nigel Petrucciani, per molti anni il migliore investigatore della squadra omicidi ma ora sospeso dal servizio a causa di un provvedimento disciplinare. Grazie all'aiuto della bella poliziotta Carla Rodriguez, di cui diventa amante, tra omicidi efferati, colpi di scena e fenomeni paranormali Nigel scoprirà il colpevole. Ma a quale prezzo?
LanguageItaliano
PublisherLeone Editore
Release dateAug 10, 2018
ISBN9788863938302
L'ospite oscuro

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    L'ospite oscuro - Ignazio Pandolfo

    CAPITOLO 1

    Erano le quattro; quella notte l’insonnia era arrivata prima del solito.

    Username? NERO.

    Password? TARANTULA.

    Il computer chiese tempo, la piccola clessidra cominciò a roteare sullo schermo immerso nel buio. Quando la clessidra si fermò, con un lampo silenzioso il sito si aprì. Il portale era semplice: fondo blu e scritta gialla: PET SHOP.

    Ancora username, ancora password, e la lista cominciò a scorrere: 

    Animali da monta

    Bestie in calore

    Stalloni

    Bestie selvagge

    Finalmente, ansimando, cliccò su Cuccioli e si aprì l’inferno.

    L’orrore cominciò a scorrere nella luce azzurrognola emanata dallo schermo, che risaltava come un fungo luminescente nell’oscurità della stanza. Le immagini pedopornografiche si aprivano una dopo l’altra in un crescendo morboso che lo prendeva allo stomaco, che gli riempiva il pene di sangue e l’anima di desiderio osceno e gioioso; ma anche di folle paura per la propria debolezza.

    Assillato dai sensi di colpa e spinto dal terrore che qualcuno potesse scoprire il suo vizio, si affrettava ogni volta a cancellare la cronologia del computer, pur sapendo benissimo che tutta quella vergognosa perversione avrebbe comunque lasciato le sue tracce indelebili nella memoria della macchina.

    Prese a masturbarsi immerso nell’ombra. Fu un orgasmo frustrante, malato e senza piacere. Soltanto sperma caldo e appiccicoso, buono solo a spargersi dappertutto e a sporcare ogni cosa.

    Alla fine, esausto, spense il computer e andò in bagno a lavarsi, mentre un nuovo giorno stava per cominciare.

    Il mattino dopo, come sempre, tutto sembrava tranquillo. Il borbottio vago del primo telegiornale e l’odore del caffè aleggiavano nell’aria con tutta la loro fasulla e rassicurante quotidianità. Il suo sguardo si staccò dalla tazza in cerca dell’orologio che se ne stava contegnoso sul muro della cucina. Erano le sette e tutto continuava a sembrare assurdamente normale.

    Nel cielo la luce del giorno ristagnava grigia, quasi non riuscisse a decidersi se far piovere o far venire fuori un po’ di sole.

    Oggi non andrò in ufficio. No, oggi proprio non mi va, pensò mentre osservava con aria assente i vestiti appesi nell’armadio.

    Quando raggiunse la macchina, parcheggiata sul terrazzo del multipiano, vide che era tutta ricoperta di brina gelata. I cristalli erano appannati e dentro era fredda come una ghiacciaia. Il motore si avviò al primo colpo e lui prese a guidare piano nella spirale in discesa che portava all’uscita.

    Mancava un quarto alle otto. L’asfalto lucido per la pioggia della notte scorreva docile davanti alle cromature squadrate del muso dell’auto. Le strade erano ancora deserte, solo qualche cartaccia smossa dal vento volteggiava debole dalle parti dei cassonetti dell’immondizia.

    Fu allora che vide la bambina. Gli veniva incontro rapida, con passi piccoli e frequenti, stringendo al petto una piccola bambola di pezza. Seguiva il bordo del marciapiede con il suo zainetto in spalla, con le gambe rese più dritte dalla calzamaglia bianca e dagli stivaletti di plastica rossa.

    Qualcosa dentro di lui si ritirò da una parte, come per lasciare sprofondare la coscienza nel nulla. Il sangue schizzò su dai genitali attraverso lo stomaco, nel torace e nel cervello, spazzando via i freni inibitori. Era una scossa di desiderio lascivo, libidine, sesso e desiderio di morte.

    Prese a guardarsi attorno convulsamente, con l’espressione selvatica di un predatore braccato. Fece rapidamente inversione per seguirla. Poi rallentò, costeggiando il marciapiede per starle dietro. La strada era ancora deserta.

    «Sì! Sì!… Così va bene… bravo… così! Accelera un poco. Seguila… seguila più da vicino…»

    CAPITOLO 2

    Come al solito da più di due anni, le voci lo svegliarono strisciando attraverso le assi sconnesse, filtrando dentro la baracca assieme alla luce bianca e sporca del mattino. Venivano fuori dal canneto insieme alle zanzare e all’odore dolciastro del fango che si alzava dall’argine del fiume. 

    Erano sempre le stesse: a volte papà o mamma, certe volte Gesù oppure addirittura Dio in persona. Ogni tanto il Diavolo, e quando era lui a parlare faceva proprio paura.

    La maggior parte, comunque, erano voci senza nome. Voci qualsiasi, senza volto, che parlavano tutte assieme, mormoravano, comandavano, gridavano.

    Anche quel mattino furono loro a svegliarlo. Spaventapasseri si rizzò come una molla, mettendosi a sedere sul bozzolo di coperte cenciose e fogli di giornale nel quale aveva dormito. Rimase per qualche secondo a guardare stralunato la penombra, mentre cercava di afferrare il senso di quelle parole: «Esci… Vai fuori… Vai al canneto. Vai fuori, presto!».

    «Non voglio uscire, non mi va!» Piagnucolò tappandosi le orecchie. «Non voglio, fa freddo.»

    «Esci bastardo! Vai alle canne, lui è tornato! Vai, maledetto bastardo!»

    Ora il tono si era fatto minaccioso; Spaventapasseri ebbe paura e obbedì. Si alzò in tutta la sua magrezza legnosa e uscì.

    All’esterno si gelava, il cielo era coperto da uno strato compatto e basso di nubi grigiastre come neve sporca. Spaventapasseri guardò in alto strizzando gli occhi ma non riuscì a vedere il sole. Non aveva orologio, non aveva idea di che ora fosse.

    Il borbottio del battello, che dal centro della città discendeva schiumando nell’acqua marrone del fiume, irruppe nel silenzio. Sono le nove, pensò sollevato, quello passa sempre alla stessa ora. C’è ancora tempo, la mensa dei poveri chiude alle dodici.

    «Vai in mezzo alle canne. Vai, presto! Lui è tornato!» ripresero a gridare le voci.

    «Vado… Adesso vado, un momento, adesso vado… Un momento.»

    Il canneto si estendeva per più di cento metri lungo il fiume. Se ne stava lì da sempre, con le radici affondate in quintali di melma, schiuma gialla, vecchi copertoni e chiazze d’olio. Le canne, lucide e verdi, erano fitte e formavano quasi un unico impenetrabile organismo vegetale addormentato sull’argine, cullato da tempo immemorabile dallo scorrere lento dell’acqua.

    Spaventapasseri si mosse nel mattino spettrale lasciandosi dietro una scia di fiato condensato. Un improvviso refolo di vento sfiorò la cima delle canne che si incurvarono in un’onda sincrona, come le zampe di un millepiedi. Un uccello schizzò fuori dalla massa verde, pesante e rumoroso, prima di scomparire dietro la scarpata erbosa che saliva verso la strada.

    Poi ricadde il silenzio, congelando la scena come in un fotogramma sgranato e squallido. Fu un attimo: un’ombra scura sbucò fuori dal canneto correndo e prese a risalire la scarpata verso la strada, arrampicandosi frenetica come un ragno inseguito da una serpe. La figura si fermò per un millesimo di secondo e, come in un sogno, si girò e sembrò guardare verso di lui. Poi riprese a salire e scomparve.

    Quel volto gli si stampò indelebile nel cervello. Quando si riscosse, Spaventapasseri ebbe appena il tempo di intravedere il retro nero di un’auto che si smaterializzava nel silenzio.

    Le voci erano andate, scomparse dalla sua testa. Ora sentiva solo un maledetto bisogno di urinare.

    «È uscito dalle canne, era lui? Cosa ci faceva lì?» Biascicò piano, mentre il bisogno fisiologico continuava a tormentarlo.

    S’infilò nel canneto nel punto da cui era uscita l’ombra e con fatica prese a farsi strada tra le foglie taglienti e le radici contorte aggrappate al terreno come parassiti. Avanzava pressato da ogni lato dalla vegetazione e respirava con difficoltà, grondando sudore freddo. Poi i giunchi cominciarono a diradarsi, e fu allora che vide quelle macchie rosso scuro sul verde, sempre più grandi e vicine, che laccavano la superficie lucida delle canne. Alcune stillavano liquido, formando sottili fili vischiosi appesi alle estremità aguzze delle foglie.

    Raggiunse uno slargo ricoperto da sterpaglia e fango e vide altro sangue. Sangue dappertutto e brandelli di carne. Più in fondo, sul limitare di una piccola radura, giaceva un corpo nudo, esile e disarticolato, fatto a pezzi, sventrato. Quella vista gli contrasse lo stomaco quasi avesse appena ricevuto un calcio. Che sia un animale? Un piccolo animale?

    Gli intestini sparsi sul terreno formavano una pozza iridescente, striata da nervature violacee che già cominciavano a ricoprirsi di insetti. Poi vide una mano che affiorava dal fango. Una mano di bambina.

    Cadde in ginocchio, vomitò e sentì il calore dell’urina scorrergli tra le gambe; urlò terrorizzato e fuggì. Corse via agitando le braccia come se fossero appendici inutili del suo corpo, mentre le sue grida turbavano la quiete del mattino.

    Raggiunse la cima della scarpata, cercò di scavalcare il guard-rail, incespicò e rotolò rovinosamente sull’asfalto: un’auto che sopraggiungeva ad alta velocità lo schivò per miracolo, sterzando e frenando così bruscamente da far fischiare le ruote sulla carreggiata. Quella che seguiva ridusse la velocità per osservare meglio, poi continuò per la propria strada, indifferente. Altre auto rallentarono curiose, mentre lui strisciava verso il bordo della strada dove rimase per ore, rattrappito come un insetto morto in mezzo all’immondizia.

    Poi, finalmente, qualcuno chiamò la polizia.

    CAPITOLO 3

    Nigel Petrucciani aveva smesso di bere da poco più di un anno ma, ciononostante, ogni sera, finiva con il sentirsi permeato da un malessere vischioso e senza contorni. Una sensazione opprimente di angoscia che gli si gonfiava dentro come una vescica, lo tormentava e lo sfiancava fino a fargli desiderare solo di dormire, di sparire da questo mondo fino al mattino dopo. 

    La luce dell’inverno, bianca come calce, si stava abbassando sulla città, e presto sarebbe sparita, inghiottita dalle ombre della sera.

    Quel pomeriggio aveva deciso di tornare a casa tagliando attraverso il parco; da lì si allungava un po’ ma lui non aveva fretta, e poi la solitudine e il rumore della ghiaia sotto le scarpe lo rilassavano: solo Dio sapeva quanto ne avesse bisogno.

    Quel mattino non era andato in ufficio, non ce l’aveva proprio fatta. Aveva telefonato al dipartimento farfugliando a proposito di un qualche tipo di influenza. Da quando lo avevano sbattuto dietro una scrivania non andava al lavoro volentieri. Starsene lì a fare il passacarte mentre i colleghi gli giravano intorno eccitati parlando di casi da risolvere, di indagini, di scientifica e di tutte quelle cose che prima gli riempivano l’esistenza lo faceva sentire uno schifo.

    Era rimasto a poltrire a letto fino a mezzogiorno, poi era uscito. Aveva mangiato qualcosa in un bar e bevuto un caffè e una coca. Da quando aveva chiuso con l’alcol beveva solo quella.

    Dopo aver girovagato fino alle quattro, era entrato in un cinema senza neppure guardare che film davano. Nel buio della sala solo qualche coppietta e non più di cinque o sei spettatori solitari, impietriti nel buio. Sicuramente anche loro dei derelitti.

    Sullo schermo impazzava un ragazzino occhialuto, con la faccia da scemo, impegnato a fare magie e ogni genere di cazzate. Il film era un’idiozia più noiosa che irritante, e piano piano, cullato dall’oscurità, si era addormentato. Poi qualcuno lo aveva svegliato scuotendogli una spalla. Stava russando.

    Il ragazzino con la faccia da imbecille stava ancora imperversando sullo schermo. Nigel si era tirato su ed era scivolato fuori dal cinema prima che si accendesse la luce.

    Il parco era spazzato da un vento freddo e carico di umidità. Ormai era quasi deserto, niente bambini né carrozzine, solo qualche inserviente intento a spazzare cartacce svolazzanti. Due vecchi barboni si stavano avviando curvi verso il cancello, aggrappati a gigantesche borse di plastica contenenti tutta la loro vita.

    Passare da lì gli piaceva, perché la luce morente del pomeriggio sembrava durare un po’ di più che nelle strade del centro, oscurate dalla mole grigia degli antichi grattacieli dei tempi di Al Capone.

    Una volta fuori si avviò verso la fermata dei bus. Dopo pochi isolati si ritrovò nella Michigan Avenue, sfolgorante per le luci di innumerevoli negozi di lusso, inghirlandati da ogni genere di addobbi natalizi. Tutto attorno a lui brulicava una folla in piena frenesia da shopping compulsivo.

    Si fermò davanti alla vetrina di un enorme centro commerciale, dove un tizio vestito da Babbo Natale era impegnato a suonare con il sassofono vecchie melodie natalizie. L’uomo con il suo grottesco costume se ne stava impalato su una scala mobile in discesa, e non appena giunto a terra riprendeva quella in salita, continuando a dar fiato allo strumento, per poi scendere ancora una volta, in un ciclo che sembrava non dover mai concludersi.

    Rimase per un paio di minuti a osservare quella scena assurda, che non fece altro che peggiorare il suo stato di depressione. Poi decise di attraversare il Chicago River per raggiungere al più presto la stazione dei bus.

    Anche il ponte era molto affollato. Seduto alla base di un pilastro di pietra che sosteneva un leone di bronzo, se ne stava un barbone nero, intento a suonare un vecchio blues con l’armonica a bocca. L’uomo teneva le gambe divaricate, e nel mezzo il cappello per le elemosine. Nigel si frugò le tasche ma non trovò nulla.

    «Non c’è problema amico, grazie lo stesso. Che Dio ti benedica!» gli gridò il vecchio con un sorriso, mentre riprendeva a suonare.

    Lasciatosi il ponte alle spalle, si inoltrò lungo una strada sempre più caotica e rumorosa, sulla quale si aprivano innumerevoli bar, ristoranti, pub e locali di ogni genere. Fu allora che cominciò a percepire tutto il peso della giornata: la fatica di vivere con i muscoli del collo trasformati in strisce di cuoio secco e la cefalea ottusa e muta che gli risaliva verso la nuca. Era per via dei farmaci che prendeva da quando aveva smesso di bere. Ogni volta che il loro effetto si esauriva, i muscoli diventavano rigidi come pezzi di legno e i nervi come fili elettrici scoperti.

    Sempre meglio la dipendenza dai sedativi che essere un alcolizzato, pensò, immergendosi nella luce giallastra del bus che lo avrebbe condotto a casa.

    Da quando era rimasto solo, si era trasferito molto fuori dal Loop, il centro della città.

    La zona era semiperiferica e relativamente poco frequentata. La si poteva raggiungere percorrendo a piedi una breve salita.

    Aveva preso in affitto, per un prezzo ridicolo, un appartamento al quindicesimo piano di un vecchio stabile per il quale era prevista di lì a qualche anno la demolizione. Era l’unico abitante del palazzo, oltre ad alcune famiglie di cinesi e ispanici che occupavano i piani bassi. Li incontrava di rado, ma in compenso ne percepiva ogni sera la presenza: urla di rabbia, tv a tutto volume, grida di donne e pianti di bambini.

    Nell’appartamento regnava il caos: sacchi d’immondizia dappertutto, cataste di vecchi giornali, piatti di carta intrisi d’olio e tanfo di scarichi intasati. La casa era anche gelata: il riscaldamento era fuori uso da due mesi e lui non aveva ancora trovato i soldi per aggiustarlo. Da quando lo avevano messo ai servizi sedentari era al minimo dello stipendio, e poi il divorzio, gli alimenti e tutti quei maledetti avvocati avevano fatto il resto.

    Ancora oggi non ricordava bene se Susan lo avesse mollato perché beveva o se si era messo a bere perché lei lo aveva lasciato. Ormai non aveva più nessuna importanza. Era solo acqua passata, solo maledetta acqua passata e basta.

    In ogni caso era riuscito a salvare i soldi per pagare la luce e l’affitto e per fortuna gli era rimasto il cellulare di servizio. Almeno quello non glielo avevano portato via.

    Il frigo era vuoto: solo cattivo odore e avanzi di cibo del quale aveva perso ogni memoria. Aprì una lattina di coca, mandò giù con un brivido una pillola di Xanax e si spogliò.

    Lo specchio gli restituì l’immagine del suo corpo che, nonostante i problemi di salute, era ancora miracolosamente compatto. Anche il viso, seppur segnato da occhiaie profonde e ricoperto da un velo di barba biondiccia vecchia di due o tre giorni, dimostrava meno della sua età.

    Sulla spalla sinistra rivide quel tatuaggio, del quale quasi non si ricordava più e che si era fatto fare senza nemmeno un perché, in uno dei suoi tanti momenti di sballo. Rappresentava la bandiera degli Stati Confederati del Sud. La bandiera degli sconfitti… Il simbolo dei perdenti, pensò prima di spegnere la luce.

    Avvolto in una coperta, rimase al buio, profilato nel rettangolo brillante della finestra, con lo sguardo perso nello sterminato reticolo della metropoli che risplendeva di luce arancione a perdita d’occhio. Era un’immensa distesa luccicante, tagliata dal fiume che la attraversava come un mostruoso serpente nero. Nella distanza la cortina colossale della pioggia scendeva obliqua, polverizzandosi in nuvole d’acqua come fumo giallastro che fluttuava offuscando i confini invisibili della città.

    Aveva bisogno di mandare giù qualcosa di caldo ma, paralizzato dalla depressione, preferì seppellirsi nel letto sotto un cumulo di coperte e, in attesa che l’effetto del sedativo si facesse sentire, si accese una sigaretta.

    Stava fantasticando sul solito depresso, cotto dai sedativi, trovato carbonizzato nel letto per colpa di un mozzicone lasciato acceso, quando il cellulare si illuminò sul piano del comodino come un insetto elettronico, sparandogli nel cervello la scarica del suo frinire metallico. Sul display si materializzò una scritta: Nick.

    Nick Adamsky, il capo della Special Events Unit, il suo superiore diretto; l’unica persona che sentiva sempre volentieri e per la quale provava affetto e gratitudine.

    «Pronto Nigel, come va?»

    «Meglio Nick, sto meglio, un po’ meglio.» 

    «Ne sono felice; ascoltami, domani dovremmo vederci da me in ufficio, pensi di farcela?»

    «Credo di sì, a che ora?»

    «Diciamo alle nove. Sai, dovrei parlarti di una cosa delicata.»

    «Di che si tratta?»

    «No, per telefono non mi va, ne parliamo domani. Meglio in ufficio.»

    «D’accordo, domani alle nove.»

    «Magnifico. A domani, e cerca di darti una ripulita: fatti la barba, metti una cravatta, cerca di renderti presentabile; è da un po’ che ti vedo messo male. Sai, forse potremmo incontrare il sovrintendente e quello ce l’ha con te, anzi, diciamo che gli stai proprio sulle palle.»

    «Lo so Nick. Quel figlio di…»

    «Piantala Nigel! Anzi se per caso lo incontriamo cerca di fare buona impressione, mi raccomando. È importante, molto importante.»

    «Stai tranquillo Nick. A domani, buonanotte.»

    «Notte Nigel.»

    La chiamata lo aveva rincuorato. Nick era una delle poche persone con la quale aveva mantenuto un buon rapporto. Per lui era stato come un padre, anche quando si era messo nei guai.

    Quella notte maledetta, uscito in missione completamente ubriaco, aveva voluto guidare lui a tutti i costi… Perché?… Perché?… Cristo che casino, che incidente! Nove macchine distrutte, tre feriti gravi, per fortuna nessun morto; e per finire, completamente fuori di testa, si era messo anche a urlare e a sparare in aria. Era rimasto ricoverato in psichiatria per più di due settimane, e di quel periodo non ricordava niente, un cazzo di niente. E poi l’inchiesta: volevano semplicemente radiarlo con la diagnosi di «condizione maniacale acuta in soggetto con sindrome bipolare». 

    Il sovrintendente era stato il più accanito di tutti; voleva cacciarlo fuori dai coglioni per sempre. Solo Nick lo aveva difeso. Era stato un leone, aveva tirato fuori le palle, aveva sbattuto in faccia alla commissione il suo Stato di Servizio, si era fatto garante, aveva urlato e alla fine, anche se con il parere contrario del sovrintendente, la commissione si era convinta. Prima un periodo di riabilitazione psichiatrica e poi i servizi sedentari. Via il distintivo, la pistola e la patente, ma almeno lo stipendio e la pensione erano salvi.

    I lunghi mesi passati fuori dall’ospedale erano stati un calvario. Un incubo nel quale a momenti di depressione pesanti come tonnellate di piombo si alternavano a sprazzi di eccitazione maniacale dei quali alla fine ricordava poco o nulla. Solo grazie alle cure della dottoressa Anderson e ai trecento milligrammi di litio ogni maledetta mattina era riuscito a uscire da quell’inferno e ad assestarsi in uno stato di equilibrio che gli aveva consentito di tirare avanti un’esistenza priva di picchi

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