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Per amore o per potere
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Per amore o per potere

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260 d.C. In Oriente l’esercito romano è annientato a Edessa dai Sasanidi e lo stesso imperatore Valeriano cade prigioniero. Roma è sul punto di essere travolta per i contemporanei attacchi sferrati dai barbari in Occidente. Solo Odenato, il re di Palmira, si erge in difesa di Roma contro l’invasione persiana. Gallieno, il figlio di Valeriano, affida a Marcello Nuteno il compito di raggiungere Palmira per comunicare a Odenato che l’imperatore lo ha investito del comando di tutto l’Oriente. Il giovane prefetto incontra così la bellissima Zenobia, moglie di Odenato. Fra i due si manifesta una reciproca forte attrazione anche se emergono subito ostacoli che i loro sentimenti non riescono a eludere: Marcello è un soldato devoto alla ragion di stato, mentre Zenobia non ammette intralci alla sua sete di potere.
LanguageItaliano
PublisherLeone Editore
Release dateMar 8, 2019
ISBN9788863938630
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    Per amore o per potere - Giuseppe Bertolini

    A mia moglie Maria Luisa

    Questo romanzo è dedicato alla memoria di Khaled Asaad, il responsabile delle antichità di Palmira, ucciso barbaramente dagli uomini dell’Isis per non aver voluto rivelare dove aveva nascosto i reperti archeologici che i nuovi barbari volevano distruggere.

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    INTRODUZIONE

    Fra i tanti personaggi che gli storici antichi ci hanno tramandato, uno mi ha sempre affascinato, mi riferisco a Zenobia, la regina di Palmira.

    Nella seconda metà del terzo secolo d.C., questa donna diede vita a un regno che si estendeva dalle coste del Ponto Eusino sino all’Egitto, un’impresa che la colloca di diritto tra le figure femminili più interessanti dell’antichità.

    Ciò che distingue Zenobia dalle altre sovrane come Semiramide, Didone o Cleopatra, è la sua vita sentimentale scevra di grandi e tragici amori. Anzi, viene ricordata come la sposa fedele di Odenato e, dopo la di lui scomparsa, come vedova irreprensibile.

    Gli autori antichi che hanno scritto di lei l’hanno descritta come persona di abitudini morigerate, indenne da quelle debolezze che solitamente attribuivano al suo sesso: molto coraggiosa, abile a cavalcare e nell’uso dell’arco, amata dai soldati con cui condivideva rischi e disagi.

    Sotto la sua guida ferma e illuminata, una modesta città carovaniera situata nel bel mezzo del deserto siriaco, com’era Palmira, si trasformò in una realtà politica e militare tale da competere alla pari con l’impero romano e il regno sasanide.

    Solo una persona dotata di grande acume politico e spiccata personalità poteva realizzare un simile progetto a scapito dei padroni del mondo.

    È a questo straordinario personaggio che s’ispira il romanzo: una donna fuori dagli schemi, che seppe conquistare un ruolo di primo piano in uno dei periodi più tormentati e drammatici della storia di Roma, quello immediatamente successivo la sconfitta dell’imperatore Valeriano per mano dei sasanidi, quando solo l’intervento vittorioso di Odenato, il più che maturo sposo di una giovanissima Zenobia, risollevò le compromesse sorti dell’impero in Oriente.

    Si è soliti affermare che dietro un grande uomo ci sia sempre una grande donna, nel caso specifico sono convinto che all’indiscutibile abilità di Odenato come generale abbiano fatto riscontro le non comuni doti politiche di Zenobia, che fu lei a dar vita al grande regno di Palmira.

    Contrariamente alla tradizione storica che ce ne ha trasmesso un’immagine algida, poco o nulla interessata agli uomini, mi sono preso la libertà di attribuirle un segreto interesse amoroso verso l’inviato dell’imperatore Gallieno, Marcello Nuteno, un senatore che la tradizione indica come suo marito nell’esilio di Tivoli dove Aureliano la confinò dopo averla sconfitta.

    La monumentale cerchia di mura ancora visibile a Roma per lunghi tratti fu costruita per volontà dell’imperatore Aureliano a partire dal 270 d.C., dopo che numerose e agguerrite tribù barbare avevano superato le Alpi spingendosi sino all’altezza di Fano prima di essere fermate.

    Nella seconda metà di quel concitato III secolo d.C. l’Impero Romano era in preda a una crisi così profonda che le sue stesse fondamenta ne risultavano minacciate. Nel cinquantennio che va dall’assassinio di Alessandro Severo all’ascesa al trono di Diocleziano (235-284 d.C.), il confine reno-danubiano fu ripetutamente violato da tribù barbare coalizzate e, come se questo non fosse di per se stesso sufficientemente grave, un nuovo fronte di guerra si aprì in Oriente ad opera del regno sasanide. Un avvenimento che fu fonte di iatture enormi per l’impero, perché causò la perdita di vasti territori e alcune tra le più umilianti e sanguinose sconfitte subite dai suoi eserciti, che culminarono con la cattura dello stesso imperatore Valeriano durante un rovinoso scontro nei pressi di Edessa nel 260 d.C.

    Valeriano morì in prigionia senza che il figlio Gallieno facesse alcunché per liberarlo, pressato com’era dalle continue incursioni dei barbari e dalle ripetute sollevazioni in seno all’esercito, ma anche per calcolo e convenienza politica.

    Il 260 d.C. fu l’anno in cui la crisi dell’impero raggiunse il picco più alto, perché oltre alla sconfitta militare fece la sua comparsa la peste, che per diversi anni percorse città e campagne senza risparmiare nessuno. Ma neppure quest’ultima catastrofe pose termine alle endemiche ribellioni che contagiavano l’esercito da ormai troppi anni; all’indomani della battaglia nell’impero presero avvio ripetute secessioni territoriali, che ne minarono ulteriormente la solidità amministrativa e militare dividendolo in tre parti: il così detto Impero Gallico in mano a Postumo, un usurpatore; l’impero vero e proprio sotto la legittima autorità di Gallieno e, in oriente, il regno di Palmira.

    Il romanzo prende avvio dopo la tragica sconfitta di Edessa e si conclude con il ripristino dell’unità dell’impero a opera di Aureliano.

    PARTE PRIMA

    Gli incessanti attacchi portati dalla cavalleria sasanide erano iniziati dopo che l’esercito romano aveva lasciato Samosata al comando dell’imperatore Valeriano: un’interminabile colonna che procedeva lenta verso Edessa e che a tratti rallentava sin quasi a fermarsi, a volte spezzettandosi a causa del continuo scendere e salire imposto dalle aride alture che si susseguivano una dietro l’altra sino in prossimità della capitale dell’Osroene, da oltre un mese sotto assedio insieme alla vicina Carrhae.

    Sapore, il Re dei Re, come amava farsi chiamare secondo l’antica tradizione dei sovrani persiani, aveva lasciato Ctesifonte all’inizio della primavera per dare avvio alla conquista di Mesopotamia, Syria, Cilicia e Cappadocia ma, dopo un avvio promettente in cui aveva distrutto i presidi romani di Nisibis e Resaina, l’avanzata aveva segnato il passo per l’ostinata resistenza delle città assediate.

    Non appena la notizia dell’invasione era giunta ad Antiochia, l’anziano Valeriano aveva riunito il Consilium Imperiale e ordinato l’adunata dell’esercito.

    Il piano elaborato prevedeva l’invio di un forte contingente a Zeugma per impedire che il nemico utilizzasse il ponte sull’Eufrate mentre l’imperatore, al comando delle legioni d’oriente, avrebbe preso la via di Samosata per attaccare inatteso l’esercito sasanide alle spalle.

    Non tutto però era andato per il verso giusto. Forse qualcuno aveva tradito o le spie nemiche avevano ben operato, fatto sta che Sapore era venuto a conoscenza del piano romano e a venir sorpresi non erano stati i sasanidi bensì gli stessi romani.

    Valeriano, dopo aver lasciato il tesoro dell’esercito a Samosata sotto la protezione di un contingente agli ordini di Macriano Maggiore, aveva proseguito su una pista secondaria per portarsi ad Antinopolis, alle spalle dell’intero dispositivo nemico impegnato negli assedi. Nelle sue intenzioni doveva essere una mossa brillante in grado di imprimere una svolta favorevole alla campagna, cogliere il nemico di sorpresa e schiacciarlo prima che potesse parare la minaccia, ma nei fatti si risolse in un disastro.

    Il percorso scelto dai romani per assicurarsi il vantaggio attraversava le pendici esterne del Tauro orientale ed era irto di difficoltà da affrontare per le legioni e soprattutto per i carriaggi che si allungavano sulla pista per diverse miglia. Al centro di quel lunghissimo serpente di ferro stava l’imperatore con il suo seguito, sotto la protezione della guardia pretoriana.

    Nel luminoso chiarore seguito all‘alba del secondo giorno di marcia, i mobilissimi arcieri nemici avevano fatto una prima comparsa sbucando dal nulla non appena le legioni si erano messe in movimento, sferrando il primo dei loro micidiali attacchi alla coda della colonna.

    Era estate e il sole, una volta alto nel cielo, rendeva la temperatura intollerabile a chi doveva marciare indossando una corazza di ferro; dopo un’ora i corpi dei legionari erano coperti di sudore e la loro testa cuoceva sotto l’elmo che, da elemento di protezione, si era trasformato in strumento di tortura. Le unità avevano quindi preso a disunirsi essendo l’attenzione dei soldati più rivolta alla propria infelice situazione che non al mantenimento della formazione.

    I cavalieri dalmati di scorta alla retroguardia erano stati colti completamente di sorpresa al punto che, prima ancora che si rendessero conto di venir attaccati, un buon numero di loro giaceva a terra colpito a morte. Nella confusione che poi si era ingenerata molti dei servi al seguito e i conducenti dei carri avevano perso la testa e si erano dati a una fuga disordinata, diventando facile preda degli arcieri nemici. Nel tempo in cui un’altra unità di cavalleria raggiungeva il luogo dell’incursione il nemico era già sparito dietro le aride colline che contrassegnavano quell’inospitale paesaggio.

    Nell’arco della medesima giornata la colonna romana ebbe a subire altri tre attacchi condotti con le stesse modalità e, quando le trombe diedero il segnale della sosta notturna, diverse centinaia di legionari giacevano lungo la pista insieme a numerosi carri immobilizzati, ai loro conducenti e ai muli uccisi.

    Nel cielo terso che precedeva il tramonto, la presenza in volo di corvi e avvoltoi segnalava i cadaveri disseminati lungo la pista insieme alle torme di sciacalli attirati dall’odore del sangue.

    Il consuntivo della giornata era stato pesante, non soltanto per le perdite, quanto per il fatto che l’iniziativa era sempre rimasta in mano nemica ingenerando in soldati e ufficiali un profondo senso d’insicurezza, acuito dalla perdita di buona parte della provvista d’acqua.

    «Dovevamo sorprendere il nemico alle spalle» si dicevano l’un l’altro i legionari «e invece ci stavano aspettando, così sono stati loro a sorprendere noi.»

    La parola tradimento, dapprima sussurrata da alcuni, fu ben presto sulla bocca di tutti generando un’inquietudine tale da costringere i più a chiedersi cosa sarebbe accaduto il giorno successivo.

    All’interno del padiglione imperiale i membri del Consilium si scambiavano occhiate inquiete, ormai era evidente a tutti che le cose non stavano procedendo nel modo in cui erano state pianificate. Alcuni dei partecipanti, incuranti della presenza dell’imperatore, davano libero sfogo alle proprie preoccupazioni lamentando come la campagna fosse stata male impostata e condotta ancora peggio, dal momento che trovarsi in mezzo al deserto con poca acqua e alla mercé del nemico non era certo il miglior viatico prima di uno scontro; pertanto proponevano di tornare indietro: «Samosata non è lontana; con una marcia forzata possiamo raggiungerla in poco più di un giorno, dietro le sue mura saremo al sicuro».

    Ma evidentemente la paura aveva intaccato anche la ragione dei consiglieri e quel suggerimento fu rigettato con veemenza da Ballista e da Quieto, coloro che avevano spinto Valeriano a quella sciagurata marcia; alcuni sostenevano che volessero portare l’imperatore alla rovina per prendere il suo posto.

    Così accadde che la notte, invece di portare consiglio, vide ulteriori attacchi nemici che con le frecce incendiarie appiccarono il fuoco a numerose tende e ad alcuni padiglioni del seguito imperiale.

    Quando le prime luci del giorno illuminarono il campo romano, lo spettacolo che si presentò agli occhi dei soldati fu tale da far crescere a dismisura il loro sgomento: tende ed equipaggiamenti bruciati come pure gran parte del foraggio per gli animali, carri inutilizzabili e, quello che più contava, numerosi corpi di legionari a terra trapassati dalle frecce. I soldati s’aggiravano per il campo cupi, silenziosi, gli occhi arrossati per la tensione e la mancanza di sonno, cercando di mettere un po’ d’ordine e soccorrere i feriti.

    L’esercito, infine riprese la marcia ma subito gli attacchi nemici ripresero ancora più virulenti, favoriti dalla tardiva reazione della cavalleria incapace di porre un freno all’iniziativa avversaria.

    Nel trascorrere delle ore la colonna continuava a marciare sotto il sole ormai in preda alla rassegnazione, muovendosi come un lunghissimo lombrico che, colpito ora in un punto ora in un altro, si agita e si contorce quando viene toccato, per ritornare inerte non appena cessato lo stimolo.

    E andò avanti così per buona parte della giornata: gli uomini sempre più sfiduciati continuavano a marciare sorretti dalla speranza di scorgere da un momento all’altro le mura di Edessa, l’agognata salvezza. Invece, quando ormai erano a poche miglia dalla città, trovarono la strada sbarrata dall’intero esercito nemico schierato per la battaglia: un lungo fronte compatto, variopinto, irto di lance dietro mille stendardi colorati, ognuno dei quali indicava il popolo d’appartenenza di quei guerrieri scaglionati in profonda schiera. C’erano i figli della Sogdiana sui loro piccoli, robustissimi cavalli; gli arcieri del Khwrezm; gli spietati guerrieri dell’Abarshare dalle larghe spade e quelli del Khorasan con le lunghe lance falciate accanto agli uomini scuri del Kusana dai turbanti colorati e le lame ricurve; poi, uno a fianco all’altro, i Gorgans, i Turan, i Makra, i Medi che, al comparire del nemico, come un sol uomo levarono alto un grido possente che il vento portò ai romani, simile al tuono che annuncia la tempesta.

    In altri tempi e con un altro imperatore una simile situazione, per quanto delicata, non sarebbe sfociata in disastro ma l’inettitudine di Valeriano, aggravata dal precario stato di salute che lo induceva ad avvalersi di consiglieri non all’altezza, quando non corrotti dall’oro persiano, fece sì che accadesse il peggio.

    Gli uomini si erano resi conto di non essere ben guidati sin da quando avevano lasciato Antiochia e ora, dopo aver subito l’iniziativa nemica per due giorni senza riuscire a controbatterla, il loro morale era a terra.

    Trovarsi davanti l’intero esercito nemico schierato, urlante, pronto a combattere, fece sì che anche chi aveva il cuore più saldo si perdesse d’animo; lo stesso Valeriano, dubitando non solo della vittoria ma pure della salvezza, mandò un’ambasciata a Sapore per chiedere una tregua.

    In quella richiesta il re persiano vide la paura e la disperazione del vecchio imperatore e rifiutò la trattativa. Approfittando del vento impetuoso che investiva frontalmente i romani, lanciò all’attacco la cavalleria catafratta che piombò sulle legioni, accecate e sfiduciate, scompaginandole. Il resto lo fecero le fanterie che si gettarono in massa sulla sconvolta colonna romana, simili alle acque di un fiume in piena che rompe gli argini e dilaga per ogni dove, sommergendo e spazzando via ogni ostacolo.

    Al termine di quell’infausta giornata migliaia di legionari giacevano inerti sul terreno insieme alle loro insegne calpestate; del grande esercito che aveva lasciato Antiochia non c’era più traccia: chi non era stato ucciso era caduto prigioniero e fra questi vi era pure l’imperatore. Le sole forze romane che parzialmente erano scampate al disastro furono alcune unità di cavalleria che si erano date alla fuga, frammentate in piccoli gruppi diretti verso Samosata.

    Marco Celio riuscì a portarsi fuori dalla mischia per mero caso: circondato insieme ai suoi compagni da un nugolo di sasanidi, approfittò di un varco che si era creato quando i nemici avevano portato l’attenzione su alcuni ufficiali. Nel breve attimo in cui tutti si gettavano su quegli sfortunati, diede di sprone al cavallo che lo portò di slancio lontano dal pericolo immediato. Solo altri due soldati riuscirono a passare prima che l’anello di ferro sasanide si richiudesse. Lui aveva continuato a galoppare senza voltarsi, rallentando quando non aveva più udito il clamore della battaglia; solo allora aveva guardato dietro di sé e, tranquillizzato dall’assenza di nemici, aveva messo l’animale al passo per farsi raggiungere dagli altri due fuggiaschi.

    «E ora che si fa?» chiese uno di loro mentre col lembo del mantello si tergeva il sangue che gli colava da un taglio sulla fronte.

    «Allontaniamoci il più possibile e troviamo un riparo per la notte dove far riposare i cavalli, poi ci rimetteremo in cammino. Non penso che a quest’ora si mettano a rastrellare i fuggiaschi; lo faranno domani ma allora noi saremo lontani e prima del tramonto avremo riguadagnato Samosata.»

    Raccolsero alcune ghirbe di acqua trovate vicino ai cadaveri degli uomini uccisi nella mattinata e lasciarono la pista per immettersi in uno stretto uadi incassato, avanzando finché non trovarono un discreto riparo sotto l’orlo di un argine scavato dall’acqua.

    «Cerchiamo di dormire anche noi; ne abbiamo bisogno» disse ai compagni avvolgendosi nel mantello.

    La luce della luna rischiarava il paesaggio silenzioso disegnando ombre inquietanti quando Marco Celio aprì gli occhi scosso dai brividi di freddo; non sapeva quanto aveva dormito ma dalla posizione dell’astro pensava che non fossero trascorse più di tre o quattro ore. Svegliò i compagni e in silenzio, tenendo i cavalli per le briglie, ripercorsero a ritroso lo uadi sino a che ritrovarono la pista. Intorno a loro non s’udiva altro rumore che non fosse quello dei predatori e degli uccelli notturni e neppure si scorgevano fuochi. Rassicurati, montarono in sella e misero gli animali al passo sino al sopraggiungere delle prime luci del giorno, quando aumentarono l’andatura. Nessuno di loro aveva voglia di parlare, ognuno pensava a ciò che era accaduto il giorno prima, ai compagni caduti e a quelli catturati, la cui sorte era ben peggiore; i sasanidi erano famosi per le torture, infliggevano un’infinita sequenza di crudeltà e di orrori che al pensiero faceva sciogliere l’animo anche al più valoroso dei soldati. A ognuno di loro era capitato di vedere compagni impalati, sventrati o accecati con ferri roventi prima di essere lasciati liberi in pieno deserto, tutte immagini che non riuscivano a togliersi dalla testa ora che la calma era tornata nei loro animi. Continuarono a cavalcare fin quando non raggiunsero il campo dove avevano sostato la notte precedente e lì si fermarono per far mangiare i cavalli con il foraggio rinvenuto a terra. Erano trascorsi solo pochi minuti allorché udirono il rumore di un galoppo e non fecero in tempo a nascondersi che una trentina di cavalieri, fortunatamente romani, apparve da dietro un tell, con alla testa Ballista, il prefetto del pretorio.

    Alcuni giorni dopo Marco Celio e i suoi due compagni galoppavano lungo le strade dell’Asia minore diretti verso la Moesia, latori di una lettera per Gallieno, il figlio di Valeriano.

    La notte successiva la battaglia, nell’accampamento sasanide in festa, un vecchio dalla barba strappata, febbricitante, con indosso vesti lacere e sporche, malamente avvolto nei resti di un mantello purpureo a cui erano stati tolti i fregi d’oro, giaceva incatenato a un picchetto all’ingresso del grande padiglione reale dove Sapore banchettava con i suoi generali fra musica e risa, servito da giovani schiave seminude dal corpo lucente e profumato.

    L’allegria e le grida aumentavano con lo scorrere del vino insieme alla licenziosità dei convitati che non avevano remore a ghermire ora questa ora quella fanciulla che infiammava i loro sensi. Colto da un bisogno causato dal troppo bere, Sapore, anziché appartarsi dietro le cortine delle sue stanze, si portò all’ingresso della tenda e scostata la veste svuotò la vescica su quell’essere miserando incatenato, fingendo di non vederlo, e poi rientrò con un ghigno di malvagia soddisfazione impresso sul volto.

    Lungo la sponda romana del Danuvius, tra la confluenza del Tisza e la città di Mursa, cinquecento cavalieri della legio ii Parthica erano appostati nel bel mezzo della foresta pannonica in attesa di una banda di Iagizi, dopo che una pattuglia, nel perlustrare la sponda del fiume, aveva rinvenuto numerose zattere pronte all’uso.

    Sul finire dell’inverno, folti raggruppamenti di Quadi, Marcomanni, Iagizi e Roxolani avevano attraversato il fiume, ricalcando quanto fatto l’anno precedente da altre bande delle stesse tribù che avevano poi razziato e devastato il territorio romano in profondità. Allora una dura campagna seguita da lunghe trattative aveva portato Gallieno e i capi dei barbari a un accordo che concedeva a queste tribù di insediarsi in alcune zone disabitate della Pannonia.

    Le ultime incursioni, invece, avevano interessato i territori adiacenti al confine con la Moesia Superior e si erano protratte per tutta la primavera con il trasferimento sulla sponda romana di migliaia di guerrieri scatenati che avevano ucciso e razziato, fino a che l’arrivo dell’imperatore con l’esercito li aveva indotti a interrompere le scorrerie.

    Quell’anno non si erano verificate battaglie importanti ma una lunga serie di scontri con questa o quella tribù; avevano dovuto operare un duro ed estenuante rastrellamento teso a ricacciare i nemici sull’altra sponda. L’azione a cui ora stava attendendo la cavalleria romana ne era una coda; il grosso dei barbari aveva già ripassato il fiume e buona parte delle legioni era in marcia per i quartieri invernali di Naissus.

    Da due giorni le forze al comando del prefetto Marcello Nuteno erano appostate intorno alla radura in paziente attesa del ritorno dei barbari e finalmente, sul finire della mattinata, gli esploratori marcomanni avevano riferito che il nemico stava per sopraggiungere: si trattava di un folto nucleo di Iagizi con numerose donne prigioniere.

    «Fate attenzione a non colpirle» disse ai centurioni. «Aspettate il mio segnale e poi sotto senza pietà, spingeteli verso il fiume, non ne deve sfuggire nemmeno uno.»

    Attesero ancora più un’ora prima di udire le voci dei barbari provenire dalla foresta e infine li scorsero farsi avanti tranquillamente, senza alcuna precauzione; alcuni parlavano tra loro, altri ridevano mentre colpivano le prigioniere con la punta delle spade per farle camminare più in fretta, nonostante le donne fossero visibilmente esauste dopo giorni in cui avevano camminato scalze per decine di miglia e avevano subito violenze e maltrattamenti. Erano stremate, molte stavano in piedi solo grazie all’aiuto delle compagne che le sostenevano, ma gli Iagizi, incuranti del loro stato, continuavano a pungolarle quasi fossero animali condotti al macello. Per quanto i soldati fossero usi alle crudeltà della guerra, nel vedere in che stato fossero ridotte e come venissero ancora colpite, vi fu più di uno che digrignando i denti con rabbia si ripromise di vendicarle.

    Marcello seguì con lo sguardo gli aguzzini che spingevano le prigioniere verso gli alberi, dove non avrebbero intralciato i guerrieri impegnati nel recupero delle zattere. Non appena queste si gettarono a terra, si voltò verso il bucinator facendogli segno col braccio. Un suono prolungato lacerò l’aria e subito fu un susseguirsi di richiami scomposti, di urla mentre dagli alberi sbucavano i cavalieri romani. I barbari, dopo un primo momento di sconcerto, strinsero le fila accingendosi allo scontro ma, a un nuovo segnale di tromba, un nugolo di dardi piovve sul gruppo compatto degli Iagizi abbattendone molti. Seguì una pioggia ininterrotta di frecce che seminò la morte a piene mani. Dalla massa dei barbari si levavano urla e imprecazioni mentre le punte di ferro squarciavano le carni degli uomini che cadevano a terra. Infine, quando i superstiti videro i soldati impugnare le lunghe aste e lanciarsi su di loro al galoppo, ruppero gli indugi e chi ancora era in piedi voltò le spalle ai nemici e corse verso il fiume per cercare la salvezza nell’acqua.

    Vicino agli argini il fiume scorreva tranquillo ma appena più al largo l’intensità della corrente aumentava pericolosamente; gli uomini che si erano spinti verso il centro del fiume si sentirono afferrati e trascinati via da una forza spaventosa. Solo alcuni, i più forti e i migliori nuotatori, toccarono l’altra sponda mentre i loro compagni venivano risucchiati dai gorghi della corrente uno dopo l’altro: un grido strozzato, un agitar di braccia e la testa spariva sott’acqua per riapparire ancora un attimo prima di tornare sotto quelle acque torbide. Annegarono a decine mentre i romani provvedevano a finire i superstiti, aizzati dalle grida di giubilo delle donne per la fine dei loro aguzzini. Quando tornò il silenzio la radura era ricoperta di cadaveri.

    A quel punto Marcello ordinò ai soldati di prendersi cura delle prigioniere.

    Quella sera uno strano corteo raggiunse il campo che la legione aveva impiantato nei pressi di un villaggio alla confluenza di due fiumi: ogni uomo portava con sé sul cavallo una delle prigioniere liberate mentre mille miglia lontano, nel mezzo del deserto mesopotamico, in quello stesso giorno, l’intero esercito d’Oriente cessava di esistere.

    Le legioni di Gallieno si dirigevano alla volta degli accampamenti invernali dopo aver combattuto duramente per tutta la durata della buona stagione. Dopo aver annientato l’ultima banda di barbari, il passo dei soldati s’era fatto leggero al pensiero del riposo che li aspettava nelle ospitali taverne di Naissus con le loro donne compiacenti. Di soldi da spendere ne avrebbero avuto in abbondanza: oltre ai mesi di paga arretrata, la consistenza del bottino recuperato faceva ben sperare nella generosità dell’imperatore.

    La città di Naissus era stata in origine un campo legionario che nel corso dei secoli si era trasformato in città fortificata, ingrandendosi progressivamente sino a diventare quel centro importante che era in quella seconda metà del terzo secolo. Situata nel cuore della Moesia, che negli ultimi decenni aveva conosciuto ripetute scorrerie di barbari, si prestava ottimamente come base invernale delle legioni dal momento che vi convergevano numerose strade provenienti dalla Dacia e dalle principali fortezze situate lungo il confine fluviale.

    Le origini militari della città erano facilmente riscontrabili nell’impostazione urbanistica che ancora ricalcava lo schema dell’accampamento militare: una cinta muraria rettangolare con una porta per ogni lato e, all’interno del perimetro difensivo, le vie che s’incrociavano perpendicolarmente. La città era al centro di un vasto territorio pianeggiante e larga

    mente coltivato, attraversato da un affluente del Danuvius, il Margus, che gli garantiva la fertilità; le montagne intorno erano ricoperte da dense foreste popolate di lupi e orsi che ne sconsigliavano la frequentazione ai viandanti.

    Erano anni che il Danuvius non era più un ostacolo per le tribù barbare che volevano entrare nell’impero. Nel secolo precedente si erano verificate pericolose incursioni, fin dai tempi di Marco Aurelio, quando Quadi e Marcomanni, dopo aver devastato la Raetia e il Noricum, erano scesi in Italia saccheggiando la Venetia e arrivando fin sotto le mura di Aquileia, prima di essere sconfitti. Ma, anche se scacciate dalla penisola, queste popolazioni, a più riprese, per circa una ventina di anni, avevano impegnato Marco Aurelio e suo figlio Commodo in campagne logoranti, che avevano coinvolto pesantemente oltre le province già citate anche la Pannonia. Erano poi seguiti alcuni decenni di relativa tranquillità ma dal 212 d.C., a ogni inizio della buona stagione, nuovi grossi concentramenti di tribù barbare si erano riversati dentro i confini dell’impero saccheggiando, devastando città e campagne, mettendo a ferro e fuoco intere province. Questa situazione si era protratta sino all’estate del 260 d.C. quando Gallieno si era visto costretto ad abbandonare in via definitiva gli Agri Decumati, il territorio situato tra il corso del Moenum, le sorgenti del Danuvius e il tratto iniziale del Rhenus; era stata una decisione dolorosa ma necessaria perché Roma non aveva più le forze necessarie per difenderli.

    La debolezza dell’impero in quegli anni traeva origine da molte cause, non ultima le frequenti sollevazioni in seno all’esercito per l’ambizione dei molti generali a indossare la porpora imperiale; ovviamente i frequenti e sanguinosi scontri fratricidi andavano a scapito della lotta contro i barbari che, consapevoli delle difficoltà interne dell’impero, attraversavano impuniti i confini non solo con lo scopo di compiere razzie, ma anche per insediarsi nei territori invasi. Ogni anno si assisteva al ripetersi dello stesso rituale, cambiava solo il nome del nemico da affrontare o della provincia da riconquistare; non appena si riusciva a chiudere una falla, se ne apriva un’altra in un diverso luogo, in un continuo susseguirsi di combattimenti sfiancanti e sanguinosi di cui non si intravedeva la fine. La situazione militare era talmente deteriorata che anche numerosi campi legionari situati lungo il confine fluviale erano stati ripetutamente attaccati e distrutti; la stessa sorte era toccata a molte città e ai territori di quelle infelici province che, oltre a subire la tragedia delle invasioni, erano gravate dal peso delle requisizioni operate dall’esercito per il proprio mantenimento.

    Infine, come se tutto questo non fosse sufficiente, negli ultimi anni s’era scatenata un’epidemia di peste che puntualmente si risvegliava ogni estate più virulenta, colpendo indistintamente civili, legionari e barbari.

    Publio Licinio Egnazio Gallieno, figlio primogenito dell’imperatore Valeriano, nell’estate del 260 d.C. era da sette anni associato al trono e reggeva la parte occidentale dell’impero. Il suo aspetto fisico aveva poco o nulla di marziale e, quando dismetteva la porpora e le insegne del potere, aveva più le sembianze di un letterato o di un retore che non quelle di un soldato. Invero era uomo di vasta cultura, amante degli autori greci e latini, con un profondo interesse per la filosofia. Ciò nondimeno, alla prova dei fatti, si era rivelato un imperatore autorevole, dotato di qualità militari insospettate e capace di trascinare l’esercito alla vittoria nelle tante prove affrontate nel corso di quegli anni.

    In un’epoca in cui l’impero vacillava come una nave in mezzo a una tempesta, rischiando di essere travolto dalle ripetute ondate barbariche che ne infrangevano i confini, Gallieno aveva dato prova di possedere una forte tempra di combattente e di saper reggere con mano salda il comando nelle continue emergenze, senza mai perdersi d’animo.

    La sua carriera militare era iniziata nel 253 d.C., a trentacinque anni, allorché il padre Valeriano gli aveva affidato la difesa della parte occidentale dell’impero, riservando a sé quella dell’Oriente, dove la minaccia sasanide aveva assunto la fisionomia di uno scontro mortale fra i due imperi. Qui, infatti, Roma aveva di fronte una potenza decisa a contenderle la supremazia, un grande impero che, per ampiezza di territorio, numero di abitanti e capacità organizzative, permetteva al re sasanide di disporre di un temibile esercito i cui punti di forza erano i mobilissimi arcieri a cavallo e i catafratti, la cavalleria pesante corazzata, una massa d’urto in grado di travolgere ogni ostacolo.

    Negli anni compresi tra il 224 e il 226 d.C. la dinastia sasanide aveva scalzato l’esausta monarchia partica e, una volta assunto il potere, aveva rivendicato i territori che in un lontano passato avevano fatto parte dell’impero persiano: Mesopotamia, Syria, Palestina e Asia minore. Da allora i sovrani sasanidi avevano intrapreso una serie di campagne militari contro Roma, conquistando numerose città mesopotamiche per poi dilagare in Syria impadronendosi di Antiochia, la terza città dell’impero. La controffensiva romana aveva in parte ripristinato la situazione, sia pure a costo di perdite ingenti e devastazioni ancora maggiori, ma dopo alcuni anni di tregua armata il conflitto tra le due potenze era ripreso più aspro che mai e, questa volta, con un esito disastroso per Roma: la sconfitta sul campo e la cattura dello stesso imperatore.

    Sino al momento di salire al trono Gallieno aveva trascorso una vita tranquilla, in tutto simile a quella dei molti giovani romani come lui appartenenti alla ricca aristocrazia senatoriale. Amante del bello e della cultura, a ventiquattro anni aveva sposato la nobile, ricchissima Cornelia Salonina che gli aveva dato tre figli, di cui il primogenito era prematuramente scomparso.

    Fino a quando aveva vissuto a Roma, Gallieno era stato un convinto seguace e ammiratore del grande filosofo Plotino, con il quale aveva condiviso il progetto di fondare in Campania una città interamente popolata da filosofi. Tuttavia gli eventi politici e militari lo avevano allontanato dal suo intento e aveva dovuto assumere la guida delle legioni. Da quel momento la vita del giovane Augusto era cambiata radicalmente: la sua presenza a Roma dapprima divenne sporadica, poi cessò del tutto, con grande disappunto della classe senatoria che si vedeva ignorata. D’altro canto, il susseguirsi delle invasioni ai confini e le ribellioni in seno all’esercito erano state tali e tante da impegnarlo in una pressoché continua compagna militare, impedendogli di dedicare la sua attenzione ad altro che non fosse la guerra. Nel corso dei sette anni da capo dell’esercito occidentale, aveva riportato numerose vittorie: in Gallia su Franchi e Alamanni, in Dacia contro Goti e Carpi, in Pannonia e in Italia su Quadi, Marcomanni, Iazigi e Roxolani, gli stessi popoli affrontati nuovamente nella campagna testé conclusa.

    Adesso, alle soglie dell’autunno, tutto lasciava prevedere un periodo di tranquillità, quantomeno nella Moesia dove la presenza delle legioni scoraggiava qualunque iniziativa da parte delle popolazioni barbare.

    A differenza di suo padre, che aveva stabilito in Antiochia la residenza imperiale installandovi la corte, Gallieno preferiva vivere a stretto contatto con l’esercito, risiedendo ora nei campi legionari permanenti ora nelle città fortificate situate a ridosso del limes, in modo da avere sempre le legioni sottomano. Per i rapporti con la corte antiochena, il senato e le province, si avvaleva di una folta schiera di funzionari e scrivani guidati da Caio Cosconio, a cui era personalmente legato da antichi vincoli di amicizia.

    In quella parte della Moesia dove era situata Naissus, da che s’erano acquartierate le legioni, le ore di luce si erano accorciate. Con il calare del buio la nebbia si levava dal fiume avvolgendo silenziosamente la città e gli accampamenti, ristagnando sino a giorno fatto, quando il sole asciugava le foglie roride e ingiallite. Era un preannuncio della brutta stagione, che avrebbe permesso ai soldati di trascorrere più tempo nelle taverne e nei lupanari nelle ore libere dal servizio.

    Anche l’Augusto Gallieno aveva l’abitudine di riservare la notte ai suoi piaceri; mentre durante il giorno adempieva scrupolosamente ai doveri inerenti al comando dell’esercito e di capo del governo, quando si ritirava nel privato delle sue stanze si trasformava e, assecondando la sua natura passionale, si dedicava a quei piaceri a cui indulgeva in assenza di Salonina. La personalità di Gallieno era piuttosto sfaccettata: studioso, letterato, filosofo, generale e anche convinto cultore del piacere, un aspetto questo che Salonina aveva sempre represso, dandosi a lui solo nei modi e nelle forme consone al talamo nunziale. Ma in sua assenza l’imperatore si concedeva senza remore a incontri meno ortodossi, assecondando i suoi impulsi più reconditi; era un modo per reagire alla pressione degli avvenimenti, sopportare il peso della responsabilità e alleggerire le tensioni accumulate nel corso della giornata.

    Quel giorno aveva trascorso lunghe ore a esaminare la corrispondenza che Caio Cosconio gli aveva portato. Di per sé non era un impegno gravoso ma aveva richiesto tutta la sua attenzione per dettare al segretario le opportune risposte alle numerose questioni sollevate; una era particolarmente delicata: concerneva l’atteggiamento che i governatori delle province dovevano tenere nei confronti dei cristiani. Su questo problema era in disaccordo con suo padre, infatti Gallieno riteneva sbagliato perseguitare i membri di questa religione, dal momento che la situazione dell’impero era tale da suggerire ogni sforzo che ne favorisse la compattezza.

    Mentre consumava un pasto frugale senza interrompere la lettura dei documenti, Cosconio gli aveva ricordato che nel pomeriggio avrebbe dovuto presiedere il Consilium per esaminare la situazione dei confini in base agli ultimi rapporti pervenuti e decidere gli interventi necessari al rafforzamento delle legioni in previsione della ripresa dei combattimenti nella successiva primavera.

    In buona sostanza era stata una giornata più noiosa che faticosa e si era ritirato nelle sue stanze visibilmente sollevato al pensiero di una notte di piacere con la bruna, selvaggia e licenziosa giovane barbara che condivideva il suo letto. Pipa, questo il nome della giovane, era la figlia di un capo marcomanno che questi aveva regalato a Gallieno in occasione della firma di un trattato con cui l’imperatore concedeva alla sua tribù di insediarsi in Pannonia per ripopolare la provincia devastata. Al momento di ricevere quel dono inusuale, Gallieno non ne era stato particolarmente entusiasta; le donne barbare non erano in cima ai suoi pensieri, nel suo letto c’era sempre una qualche dissoluta rappresentante dell’aristocrazia locale desiderosa di compiacere l’imperatore per trarne un qualche vantaggio per sé o per il marito, ma anche per il semplice gusto di vantarsene con le amiche. La bella Pipa però gli aveva fatto cambiare opinione rivelandosi una lussuriosa sorpresa. Suo padre era un capo barbaro tutt’altro che stupido e nei giorni precedenti la firma dell’accordo, s’era adoperato generosamente con i servitori dell’Augusto per avere informazioni sui suoi gusti sessuali e, appurato che preferiva le fanciulle ai giovanetti, aveva chiesto alle sue mogli quale tra le sue numerose figlie fosse la più adatta per farne

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