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About this ebook

James nasce nel 1952 a Shively, la città più razzista e bigotta della Louisiana. La madre incarna il moralismo e la frivolezza della comunità e il padre si è ormai arreso a tale egemonia femminile. James invece ha una mente troppo fine per rimanere intrappolato in quell’angolo di mondo. Inizia così un viaggio fisico, che lo porterà prima al college, poi in carcere e infine tra i sobborghi newyorkesi, ma anche un viaggio interiore, alla scoperta delle varie personalità che lo abitano e che spesso prendono il sopravvento.
LanguageItaliano
PublisherLeone Editore
Release dateFeb 11, 2019
ISBN9788863938579
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    Flaneur - Caterina Sbrana

    SATURA

    frontespizio

    Caterina Sbrana

    Flaneur

    ISBN 978-88-6393-857-9

    © 2018 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Ce grand malheur de ne pouvoir être seul!

    Che gran disgrazia non poter essere solo!

    LA BRUYÈRE

    Prefazione

    Il respiro.

    Raschia dentro il casco, gratta contro la membrana del timpano, graffia le pareti del cranio mentre cerca di uscire.

    Se anche uscisse, pensa, sarebbe come una goccia d’acqua dolce nel mare.

    In breve, sarebbe aggredito da tutte le direzioni; in un istante le sue particelle sarebbero diluite e smembrate.

    Dal nulla.

    Che è attorno. 

    Si guarda una mano; la vede rispondergli con pallidi bagliori: lottano contro lo sfondo buio, spaventati. È la consapevolezza della loro umile esistenza ad atterrirli.

    Muove le dita, prima una, poi l’altra, fino all’ultima.

    Riesce a trovare un po’ di conforto persino in quei ridicoli movimenti.

    Perché sono gli unici, tutto il resto è fermo nel suo impercettibile giro.

    Senza fine.

    L’infinito si riflette anche in quel moto.

    Muovere le dita è l’unica conferma di esistere ancora.

    Di essere lì, di essere lui.

    E allora muovile, dannazione.

    Non smettere di muoverle. Non smettere mai.

    Anche il respiro gli sussurra di essere vivo. Ma è così forte, tremendamente penetrante, che non riesce a rassicurarlo, solo atterrirlo a morte.

    E lo fa sentire solo.

    Nonostante non lo sia.

    Miliardi di persone lo stanno guardando, ma lui non può vederli.

    Lui non vede nessuno, nulla oltre quell’oblò circolare.

    È come essere intrappolato in un sottomarino che affonda.

    Anche se le cose dovessero mettersi male, anche se dovesse urlare, il suono non percorrerebbe un centimetro di spazio.

    Un centimetro,

    oramai, 

    del resto, 

    è tutto ciò che 

    manca.

    Risponde con un cenno al suo compare e rivede nella sua stramba sagoma il riflesso di se stesso.

    Manca per cosa, poi?

    Per arrivare, per annullare quelle che, fino a poco tempo fa, chiunque avrebbe definito 

    incolmabili distanze.

    E, dopo, quando le due realtà sarebbero entrate in contatto?

    Nulla sarebbe potuto cambiare.

    Oppure tutto.

    Magari sarebbe esploso e anche a quel punto, sarebbero seguiti bagliori e luci,

    ma nessun suono.

    Qualcuno laggiù avrebbe pianto.

    Sua moglie, forse.

    Qualcuno avrebbe versato lacrime solo per il miserabile fallimento di anni di lavoro e qualcun altro, additandolo, avrebbe riso dicendo «ve l’avevo detto».

    Ma, in ogni caso, qualsiasi cosa fosse successa, 

    il silenzio lì sarebbe rimasto, 

    a muovere la melodia e alimentare quel carillon eterno.

    E, persino a lui, non sarebbe più importato di nessuno, 

    nessuna voce, nessuna lacrima, perché sarebbe diventato parte del 

    silenzioso meccanismo.

    Ora davvero manca qualche centimetro.

    Aggrappato alla scaletta, mentre lontano sente il ricetrasmettitore chiamarlo con suoni sconnessi, ricorda quel sogno.

    Lo aveva visto condensarsi sulle palpebre, la sera prima della sua partenza.

    Non avrebbe mai pensato che sarebbe tornato a farne parte, questa volta per davvero.

    L’ultima volta che si era trovato in quella situazione, gli era bastato svegliarsi per uscirne, scoprendo sua moglie a sedere sul letto, piangere e fissare il buio.

    Ma anche nel sogno il respiro non era così assordante.

    Una voce gracchiando gli ordina di riferire che va ancora tutto bene, che sta ancora funzionando.

    Ma non ha sufficiente voce per rispondere e rassicurarla, le sue corde sono secche e tese.

    Poi, tutto si ferma.

    Ha toccato.

    Ha toccato e non è esploso.

    Quei pochi centimetri che lo separavano dalle sue paure e dal lavoro a cui aveva dedicato tutta la vita sono stati compressi in un tocco leggero, quasi evanescente.

    Si sente come privo di materia.

    Ora persino il respiro sembra volerlo cullare.

    Si volta verso Buzz e alza il dito in segno che tutto è andato bene, tutto andrà bene.

    E ripensa a quando, anni fa, a soli quindici anni, prima ancora di avere l’età legale per poter guidare, dopo aver frequentato la Blume High School di Wapakoneta, aveva conseguito il suo primo brevetto di volo. E come quel brevetto, che aveva con orgoglio stretto tra le mani e sfiorato ogni sera prima di dormire, gli aveva regalato poi tante soddisfazioni, chiedendogli però altrettanti sacrifici. 

    Ora, tutto era ripagato. 

    Anni e anni di studio, i numerosi trasferimenti, la rinuncia allo scoutismo… 

    Ora il suo amato distintivo, quello che profumava di tutti i Jamboree e di tutte le uscite fatte con il suo gruppo, era lì con lui: non lo avrebbe mai abbandonato, nemmeno in queste circostanze. 

    E ricorda anche quando, pochi giorni prima, all’alba della sua partenza, aveva salutato il suo gruppo, riunito al Farragut State Park in Idaho per il Jamboree nazionale, e aveva pensato che li avrebbe guardati, da lassù, e li avrebbe sentiti vicini, nel momento in cui avrebbe fatto il passo.

    Quel passo. Ora pensa che, quando tornerà, parlerà di quel passo.

    Racconterà di quei secondi, interminabili prima del tocco.

    La speranza di poterlo descrivere a sua moglie, gli dà la forza di rispondere.

    A quel ricetrasmettitore che, ancora senza risposta, sempre più allarmato, gracchia.

    Si china ad appoggiare gli oggetti in memoria dei grandi che l’hanno preceduto. Anche grazie a loro, tutto quello è diventato possibile. Gagarin e Komarov.

    Quindi socchiude le labbra.

    Segna la storia.

    «Questo è un piccolo passo per un uomo, un gigantesco balzo per l’umanità.»

    Neil Armstrong

    1

    C’era agitazione quel giorno. Stava accadendo qualcosa, giù, al pian terreno, lo avvertivo dalla mia camera in cima alle scale. Nulla di diverso dalle altre mattine, ma quel giorno lo sentivo. I giocattoli non catturavano più la mia attenzione, o almeno non abbastanza da isolarmi dalla frenesia che vibrava tra le pareti di casa. Sentivo mia madre in cucina. Si affaccendava con le stoviglie. Era perennemente affaccendata con le stoviglie, sembrava preparare di continuo da mangiare, nonostante accendesse i fornelli solo poco prima dei pasti. Trovava sempre qualcosa da fare o che nessun altro aveva fatto: sparecchiare, pulire i fornelli, lucidare pentole e padelle già splendenti, allineare con perfezione millimetrica tazze e bicchieri. Era mia madre, la vera padrona di quelle quattro mura. Se un giorno avesse smesso di fare ciò che quotidianamente la impegnava tutte quelle ore, nessuno di noi sarebbe stato più in grado di riconoscerla. Era solita dire che se non ci fosse stata lei saremmo morti, annegati nella nostra stessa confusione. Ci chiamava la fabbrica del disordine, ma sono convinto che anche senza il suo lavoro ce la saremmo cavata. Semplicemente, le pentole e le tazze non avrebbero avuto i manici nella stessa direzione. E forse la casa sarebbe stata più vivibile, più nostra. Ma solo io sembravo infastidito da tale perfezionismo, ero l’unico a notarlo. 

    Nell’angolo del salotto c’era mio padre. Immobile, sulla poltrona salmone, leggeva il giornale dopo la sua passeggiata mattutina. Sono convinto che lo stesse leggendo anche in quel momento. Leggeva sempre quel maledetto giornale. Ecco perché ricordo il viso del signor Tip, l’uomo della pubblicità delle solette. «Le solette spaziali» diceva sorridendo, e lo si poteva vedere incastrato tra gli articoli di qualsiasi quotidiano. «Le solette che ti porteranno in alto» sorrideva, e ti fissava, mentre con la mano libera dalla soletta reggeva un modellino simile al Redstone. Se la ditta avesse potuto permetterselo, sono certo che non si sarebbe fatta troppi scrupoli a chiamare Jurij Gagarin in persona, per pubblicizzare le loro dannate solette. Almeno avrei memorizzato il viso dell’eroe del momento, piuttosto che quel grassone doppio mento sorridente. Prima o poi sarei arrivato a odiarlo.

    Ricordo perfettamente il signor Tip, ma ho dimenticato mio padre.

    Nei ricordi della mia infanzia non è rimasto altro che quel giornale, dietro cui si nascondeva quando non era al lavoro. Se mio padre era il doppio mento del signor Tip, mia madre era i manici allineati delle tazze. Immagini impresse per sempre nella memoria, ma inutili.

    Mio fratello frequentava l’accademia militare. A volte tornava nei fine settimana, ma il giorno dopo andava via di nuovo.

    Ogni tanto mi portava dei regali. Una sera, al suo ritorno, ricevetti un camion giocattolo. Mi piacque da subito, sin da quando lo vidi tra le sue mani. Salì immediatamente sul podio dei miei giocattoli preferiti. Porgendomelo, sorrise, e mi disse che l’aveva ricevuto dal nemico, quando alla fine della battaglia si era arreso.

    Io lo ringraziai tanto e lo supplicai di raccontarmi com’era andata, ma senza credere a una parola di quello che mi avrebbe detto. Mi piacevano le sue storie, ma sapevo che quel camion lo aveva comprato al negozio all’angolo in fondo alla strada, sulla via verso casa. E poi c’era l’etichetta adesiva attaccata sotto la cabina di guida. Ero un bambino sveglio, io. Ma come ogni bambino amavo i racconti e, dal momento che il signor Tip con la sua lingua di carta non avrebbe mai potuto raccontarmene uno, mai al mondo avrei confessato a mio fratello di sapere che mentiva.

    Così potevo sedermi sulle sue ginocchia, sulla tuta mimetica, e stare ad ascoltare.

    Mio fratello si chiamava Tom, ma tutti noi lo chiamavamo Tommy, nonostante non fosse il soprannome più adatto a un ragazzone in divisa. Ma forse ci ricordava i tempi in cui era sempre qui, e giocavamo a bagnarci con la pompa giù in giardino.

    Ah, io mi chiamo James, per la cronaca. Ma tutti mi chiamano Jiggy, quindi se mai doveste parlare di me, parlate di Jiggy. Raccontate di Jiggy e la sua penosa infanzia tra i camioncini vinti in battaglia e le solette spaziali del signor Tip, non di James. Se qualcuno si rivolge a me con quel nome, io non rispondo. Non perché sia stupido, ma James non mi piace, non mi piace proprio. Lo detesto come detesto ogni centimetro di quelle quattro mura. 

    Persino ora, dopo anni di distanza. Persino ora che sono qui, tra quattro mura che dovrei detestare più di quelle di casa mia.

    Seduto sulla solita poltrona storta nell’angolo della mia stanza. Da solo, ovvio. Non ho idea di dove sia finito il mio compagno di stanza.

    Lui e la sua puzza saranno di sotto, probabilmente, in mezzo a quel casino. Nel cortile del college, con tutto il resto della gente. Studenti, insegnanti. Il rettore. Perché è finita male, e stanno per venirmi a prendere. Tra poco le volanti saranno qui, e io e gli altri coinvolti verremo portati al distretto di polizia.

    Sento il vociare delle persone, di sotto. Filtra dalle fessure della finestra, insieme al freddo dell’inverno. Ma più fredde del ghiaccio sono quelle parole. Perché tutti parlano e si confrontano, esplicando i loro pareri su cose che non sanno, narrando fatti che non hanno visto, riferendo parole che non hanno sentito.

    So cosa sta succedendo là fuori. Si sta costruendo la mia storia, si sta stroncando la mia vita. Tutte quelle persone che gettano sentenze in attesa della polizia stanno tagliando le gambe al mio futuro. Perché loro parlano, ma non sanno com’è andata. Non c’erano quando il fatto è accaduto.

    Io invece ero lì. Ma non avrei voluto.

    Dannazione, non avrei voluto che quella storia finisse male.

    Vorrei piangere, ma non ci riesco. Vorrei provare un po’ di commozione e nostalgia al ricordo delle pareti di casa mia, così candide e pulite in confronto a quelle opprimenti del college che ora sembrano stringermi in una morsa, mentre rimango incollato alla mia poltrona sfoderata.

    Ma non ci riesco, le lacrime non vengono. Mi è impossibile rammentare un viso amico, un volto familiare. Vedo solo quel maledetto signor Tip e il suo doppio mento, e le tazze, così fottutamente, dannatamente allineate.

    Mi guardo le mani, ancora umide di quella roba. È finita male.

    Piangi, maledizione! È finita male.

    Guardo i miei vestiti, impregnati di rosso. Tutto quello che è rimasto di lui è il suo sangue, su di me. Ma non sono stato io. È tutto sbagliato, cazzo, è tutto sbagliato!

    Eppure non piango. Fisso il vuoto davanti a me, sentendo ancora il peso del suo corpo, lo stesso corpo che mi ha lasciato quelle impronte rosse.

    E rivedo la mia vita, quello che è stata finora.

    Non riesco a fare altro che rivivere cose già vissute, percorrere vecchie strade già percorse. Mentre le pareti dalla tappezzeria bordeaux cambiano colore e forma. E diventano fogli di giornale, rievocano la mia camera in cima alle scale. Si tramutano in ricordi, che mi immobilizzano, proprio mentre dovrei scappare, uscire e urlare a tutti che non sono stato io. Proprio quando ogni secondo che trascorro nel silenzio di questa camera si trasforma in un metro in meno che mi separa dalla polizia.

    Ma i primi anni sono lì, davanti a me, più pesanti di catene.

    È cominciato tutto con quel camioncino, quello che Tommy aveva vinto per me al fronte. Che mi aveva regalato con orgoglio, sotto gli occhi vigili del signor Tip, che mentre cercava di vendere le sue solette, osservava tutto.

    Osservava tutto e rideva. Sono convinto che già sapesse. Conosceva già la merda in cui sarei finito, lo schifo in cui sarebbe affondata la mia vita.

    Lo sapeva, e, invece di avvisarmi, rideva e mi offriva una soletta.

    Erano gli anni Sessanta. Abitavamo in una piccola casa nella periferia di Louisville, in un posto chiamato Shively. All’apparenza lo avreste definito un quartiere pacifico, tranquillo, con tutte quelle sue casette uguali, ordinate in fila come dei manici di tazze. A Shively ogni allegra casetta aveva la sua allegra famiglia, con la sua macchina e il suo cortile, e ogni sera si ritrovavano tutti allegramente a cena, seduti a un allegro tavolo con davanti un triste tacchino.

    Ma era tutta finzione, così come la presenza di mio padre e la perfezione della nostra famiglia.

    Shively, in fondo, era un posto come altri, reduce dalla frenesia degli anni Cinquanta, anni voraci, fatti di entusiasmo e di ripresa. Ma anche di razzismo. 

    Fu il caso Wade, nel 1954, a renderci famosi in tutt’America, e a spazzar via con un soffio di dinamite tutti gli anni di duro lavoro dei Barren, nostri concittadini che si erano battuti per la causa nera. Proprio grazie a loro, una famiglia afroamericana riuscì a ottenere un’abitazione. Sembravano aver impartito una lezione di uguaglianza e fraternità, ma dopo una serie di episodi, quali minacce e croci bruciate nel giardino, gli inquilini furono fatti saltare in aria come leggeri barattoli in una bancarella di fucili a pallini. Casa compresa, ovviamente.

    E sette anni dopo si respirava ancora l’odore di fumo di quella notte. Il mondo sembrava progredire, ma noi eravamo in stallo, paralizzati in un time out di calma apparente.

    Mentre il Redstone, il primo razzo americano, partiva nel suo salto verso il cielo, alla volta dell’infinito, mentre in Russia Jurij Gagarin si preparava a indossare il casco per compiere un giro dell’orbita terrestre a bordo del Vostok 1, noi eravamo lì, a Shively, a scacciar via le ceneri del passato nella speranza di poter vedere nuovamente il cielo.

    Non mi sono mai sentito davvero a casa in quel posto. Non mi sono mai sentito davvero a casa da nessuna parte.

    Mia madre invece ci sguazzava a Shively. Era il posto adatto per lei, Shively era davvero il posto adatto a chi passava il giorno ad allineare tazze per fare colpo sui vicini. In famiglia avremmo anche potuto soffrire la fame, essere sull’orlo del baratro o in punto di morte per qualche piaga o malattia, ma quando le altre donne del quartiere, le sue amiche, si riunivano a casa nostra per un tè e qualche tazza di pettegolezzi, ecco che i problemi svanivano. Quell’armonia di gonne colorate cacciava via di casa la tristezza, la solitudine e i silenzi, per far posto all’amore e a tutto l’affetto di una madre modello nei confronti dell’unico figlio che il fronte non le aveva portato via.

    Appena la porta si apriva i miei genitori diventavano la coppia che tutti sognavano di essere. Mia madre affibbiava stupidi nomignoli a mio padre come «caro» o «tesoro», e ogni tanto lasciava il tavolo con il servizio da tè e pasticcini per venirmi a spettinare i capelli, amorevolmente, mentre io giocavo con il mio camion sul tappeto del salotto. E le altre donne gioivano e starnazzavano come oche invidiose.

    In quel momento mia madre godeva la sua apoteosi. Quella che le era valsa tutte quelle ore di allineamento di tazze e pulizia di padelle. La stessa che provava ogni domenica, quando conquistava le prime file in chiesa.

    Mio padre non aveva amici, invece. Non che mia madre ne avesse, ma lui non parlava proprio con nessuno. Nemmeno con noi. Parlava sporadicamente con Tommy, quando tornava. Gli chiedeva com’era andata con i ragazzi, e sono convinto che chiunque fossero stati quei ragazzi erano più simili a una famiglia di quanto non lo fossimo noi. Poi tornava nel suo silenzio.

    Mio padre odiava anche le visite. Detestava soprattutto quelle galline che venivano a trovare mia madre e non si impegnava nemmeno per dimostrare il contrario quando loro lo salutavano. Non che ciò cambiasse le cose, poiché si ripresentavano lo stesso, proprio come se fossero a casa loro. Gettavano borse e cappotti in salotto, poi si riversavano in cucina e nel corridoio. Un’invasione che sembrava non avere fine. Non c’era angolo della casa che non venisse raggiunto da quello starnazzante chiacchiericcio, e mentre mio padre, sprofondato ancor più nella poltrona, si rifugiava nella sua roccaforte di carta diventando nulla più che un soprammobile (per poco non lo scambiavano per un appendiabiti), io cercavo riparo nelle stanze più alte della casa.

    Quando si avvicinava l’ora x pensavo bene di sparire; le volte che mi attardavo ero costretto poi a subire buffetti e pacche leggere in testa («oh che bel bimbo, ma come sei cresciuto» ecc. ecc.) prima di riuscire a sgattaiolare di sopra e tornare ai miei giocattoli. Quindi avevo ben imparato a tenere d’occhio l’ora e comportarmi di conseguenza. Se non altro, disturbo a parte, avevo imparato a leggerlo quel maledetto orologio del salotto.

    Quel giorno, dicevo, c’era agitazione. Proprio come poco prima dell’ora x, ma non poteva essere, perché era mattina. Le oche arrivavano solo il pomeriggio: la mattina erano impegnate nella spesa e in altre faccende casalinghe, come lavare i pavimenti, sbattere tappeti, spolverare mariti.

    In più era mercoledì, e Tommy tornava sempre il venerdì.

    «Jamie!» mi chiamò mia madre, sporgendosi sulle scale.

    Nel 1961 avevo nove anni, ma ero già abbastanza sveglio da realizzare quanto odiassi quel nome. Mi faceva proprio schifo, se mi è permesso dirlo. E non che non glielo avessi detto, di chiamarmi Jiggy. Ma lei continuava, Jamie qua, Jamie là. Nessuno mi chiamava Jiggy, in casa mia, passavo dal James tonante di mio padre al Jamie civettuolo di mia madre, ma nessuno che avesse mai la decenza di chiamarmi Jiggy. Non capisco cosa gli costasse, poi. Era un maledetto nome, così come lo era Jamie o James. Ma era mio, di mia invenzione, non loro, e questo bastava a renderlo migliore.

    «Sì, mamma?» eppure dovevo rispondere comunque.

    «Vieni di sotto e vedi di essere pulito. Devo presentarti una persona!»

    Lanciai un ultimo sguardo al mio camioncino, abbandonato sul tappeto insieme ad altre vetture buttate alla rinfusa. Accidenti, proprio quando è appena successo l’incidente, pensai tra me. Ora dovranno cavarsela da soli.

    Mi alzai di malavoglia e aprii la porta.

    Dalla sagoma luminosa proiettata sui gradini delle scale capii che stava entrando qualcuno, proprio in quel momento. Mia madre era alla porta, e per la prima volta pochi passi più indietro c’era anche mio padre, senza la scorta del signor Tip.

    Cercai di fare piano, ma la mia presenza venne subito avvertita da chi era sulla soglia, e proiettava la sua ombra, immensamente lunga, per tutte le scale.

    Un bambino.

    Proprio come me, proprio come ero io. Stessa altezza, stessi pantaloni corti con la camicia infilata dentro. Mi aveva notato subito e mi studiava, con la stessa espressione annoiata con cui probabilmente lo stavo fissando anche io.

    Dietro di lui, la madre lo invitava in modo gentile a entrare.

    «Oh eccolo qui» disse la mia, prendendomi per mano. Mi ero fermato a qualche gradino di distanza.

    «Questo è mio figlio, Jamie. Andiamo Jamie, vieni qui. Saluta i nostri vicini, i signori Bride. Si sono appena trasferiti nella casa di fronte.»

    Non dissi nulla, del resto parlava con un certo Jamie. Oh, se c’è una cosa che dovete sapere di me, è che sono particolarmente orgoglioso. E altezzoso. Se qualcosa non mi garba prendo le distanze e non aspettatevi che vi spieghi il motivo di tale freddezza. Dovete capirlo e basta se volete la mia compagnia, soprattutto se siete mia madre e sono 365 giorni per nove anni che vi ripeto di non rivolgervi a me con il nome di Jamie. Mi chiedo come sia possibile, dopo tutto questo tempo, non assimilare un così banale concetto. Senza contare gli anni bisestili poi.

    Non dissi nulla fino a che una leggera pacca sulla schiena non mi obbligò a rispondere con un timido saluto formale.

    «Lui è Robert» mi tolse dal presunto imbarazzo l’altra signora. Non sono mai in imbarazzo, io. Semplicemente, ritengo di essere abbastanza in grado di controllarmi e non fare nulla di cui potrei vergognarmi. Se quello che dico (ho pochi peli sulla lingua) dovesse imbarazzare voi, allora nessuno vi obbliga a rimanere. Anche perché c’è una storia da raccontare, qui, e se volete stare a sentirla vi conviene imparare a non turbarvi. Perché di cose assurde da raccontare ne ho a scatoloni, e ho proprio intenzione di dirle tutte. Dalla prima all’ultima. Non che mi faccia piacere, poi, rivelarle a voi. Ma è il solo modo che mi è rimasto per salvare la pelle. E non ho nessun altro a cui poterle confessare.

    «Ma prego, accomodatevi» ruppe il silenzio mia madre «vi offro qualcosa.» «Bambini, voi andate a giocare. Jamie, mostra a Robert il tuo nuovo camioncino, forza.»

    Con un gesto delicato spinse Robert verso di me e con più convinzione me verso le scale. Così, controvoglia, fui obbligato a salire su, con la persona che avrebbe cambiato le carte sul tavolo della mia vita, mentre sentivo mia madre chiedere alla nuova coppia se preferiva tè o caffè. Dev’essere lì che il mio destino è cambiato. Ho sempre pensato alla mia vita come un binario e, probabilmente, è stato in quel momento, quando io e Robert ci siamo avviati su per le scale, che la leva si è mossa e ha cambiato gli intrecci. Da quel momento, il treno avrebbe preso un’altra direzione.

    Ma nessuno di noi ne era consapevole.

    Giunti in camera tornai alle mie faccende, sedendomi sul tappeto e impugnando il camioncino, ma senza mai perdere di vista il nuovo arrivato, che si aggirava per la stanza con aria invadente, studiando le mie cose.

    «È un bel camioncino» disse Rob a un certo punto.

    Capii subito che non aveva gusti convenzionali: in effetti, quello che Tommy mi aveva regalato era davvero un bel camioncino.

    «Già» risposi portandomelo più vicino «è il mio camioncino.»

    Mi accorsi della mia postura, avidamente avvinghiata al giocattolo e mollai un po’ la presa: «Me lo ha portato mio fratello Tommy. Lo ha vinto al fronte».

    «Davvero?» Rob mostrò un misto tra ironia e stupore.

    «Certo che no» lo compatii.

    «Anche il cane di mio zio si chiama Tommy.»

    «Bene.» 

    Voleva proprio attaccare bottone, quello.

    «Ho sempre pensato che Tommy fosse un nome da cane.»

    E diceva pure cose imbecilli.

    «Be’, io invece penso che Robert non sia un nome da cane. Più da criceto forse, insomma da roditore. Se avessi un topo potrei dargli il tuo nome.»

    Nonostante l’intenzione, non sembrò offendersi. Anzi, si sedette accanto a me sul tappeto.

    «Come hai detto che ti chiami tu?»

    Probabilmente era alla ricerca di qualche battutina con cui ricambiare, ma la memoria non lo aiutava. Non eravamo poi così diversi, io e il vecchio Rob.

    «Mi chiamo Jiggy» ne approfittai per mettere in chiaro le cose.

    «Tua madre non ha detto così, prima» affermò lui perplesso.

    «Mia madre non ha ancora capito come mi chiamo. Il mio nome è Jiggy, Jiggy, non Jamie.»

    «Sono entrambi due nomi buffi.»

    «Già» ero abituato a quello che pensava la gente «ma almeno Jiggy l’ho inventato io, e ognuno è libero di darsi il nome stupido che gli pare, se lo ritiene bellissimo, e andarne pure fiero. C’è una bella differenza nel darsi o farsi dare un nome stupido.

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