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A qualche passo da te
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A qualche passo da te

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About this ebook

Quando Charlotte si trasferisce a New York con la propria famiglia, riesce presto ad abituarsi ai ritmi frenetici della metropoli grazie all’incontro con i nuovi compagni di classe. Ma la sua tranquilla vita di sedicenne viene sconvolta e messa in pericolo. Un misterioso killer poeta, a conoscenza dei misteri che ruotano attorno alle vite dei ragazzi, anticipa le sue violente intenzioni con dei versi in rima. Terribili segreti e relazioni oscure stravolgeranno l’esistenza di Charlotte e delle persone a lei vicine. Tra misfatti, incomprensioni e la frenetica caccia a uno sfuggente serial killer, un giallo che vi terrà col fiato sospeso fino all’ultima rima.
LanguageItaliano
PublisherNextBook
Release dateJan 15, 2019
ISBN9788885949126
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    A qualche passo da te - Alessia Spanevello

    CAPITOLO 1

    A luglio approdammo all’aeroporto di New York City pronti per la nostra nuova vita da americani. Prendemmo un taxi e arrivammo nel tardo pomeriggio a Chelsea, un posto alquanto bizzarro, dove tutte le casette, perfettamente allineate tra loro, erano identiche. Scesi dal taxi e osservai la mia nuova casa: era semplice ma graziosa, aveva un grande portico e un giardino molto ampio. Raggiunsi la porta ed entrai curiosa di vedere come fosse l’interno: al piano terra un enorme soggiorno catturava l’attenzione, una spaziosa sala da pranzo occupava gran parte dello spazio e, infine, una cucina completa di tutto dava sul retro; al secondo piano mi attendeva la mia camera, quella dei miei genitori e, infine, c’era un comodo bagno comune. Tutto era arredato in modo piacevole. Passai il tempo a perlustrare tutta la casa a fondo. Poi, senza fretta, gironzolai per il mio quartiere e i dintorni non trovando anima viva.

    Nel frattempo, i miei genitori m’iscrissero all’Andrew Lane la scuola più prestigiosa di Manhattan dove, oltre a seguire i corsi della mattina, si potevano frequentare anche corsi extrascolastici. L’idea di frequentare una nuova scuola non m’ispirava molto perché temevo, chissà, che non mi avrebbero mai accettata. La cosa che più mi creava disagio era dover indossare la divisa scolastica. Non mi vedevo impacchettata in vestiti non miei, omologata a tanti altri studenti.

    Una mattina mi svegliai con il desiderio di andare a correre per il mio quartiere. Amavo profondamente lo sport: quando vivevo in Canada, facevo parte della squadra di preparazione atletica. Indossai pantaloncini corti e una canottiera, un paio di scarpe da ginnastica e mi raccolsi i capelli in una coda di cavallo. Uscii da casa e decisi di andare, correndo, fino a Central Park. Mi misi le cuffiette e partii al ritmo di una musica gradevole. Arrivai in fondo al mio quartiere, girai l’angolo tutta presa da un motivo musicale del tutto nuovo, con inserimenti «rap», e in modo sbadato mi scontrai con un ragazzo.

    Stavo per chiedere scusa, sistemando la mia radiolina, quando lui mi accusò: «Che cosa fai? Dove cavolo hai la testa?»

    Incrociai lo sguardo del ragazzo. I suoi occhi scuri mi fulminavano.

    Non riuscii a trattenermi. Con tono altrettanto sgarbato risposi: «E tu dove ce l’avevi?»

    «Attaccata al collo, dove credi che l’avessi? Sei tu quella che ha problemi qui. Chiedimi come minimo scusa, ora.»

    Chiedergli scusa? Mi toccava anche questa, di sentirmi accusare come se la colpa dello scontro fosse stata soltanto mia.

    «Chi ti credi di essere? Sei stato tu a venirmi addosso» gridai furente.

    Lui non rispose. Semplicemente, mi squadrò dalla testa ai piedi con un’espressione di disgusto e poi se ne andò. Rimasi ammutolita di fronte a quel tipo.

    La notte prima dell’inizio della scuola non riuscii a chiudere occhio da quanto ero agitata: come sarebbe stato il programma di studio?

    Come sarebbero stati i nuovi professori? Come mi avrebbero accolta

    gli studenti del mio corso?

    Così, con questi pensieri in testa, non sentii la sveglia e mi dovetti preparare in cinque minuti, presi al volo la cartella e mi fiondai in macchina. Mio padre, impaziente di partire, mi aspettava con il motore acceso e appena fui salita partì sgommando alla volta della Andrew Lane. Durante il tragitto giocherellavo con le pieghe della gonna della divisa fresca di bucato. Ero nervosa e mio padre se ne accorse, mi guardò fissamente ma non disse nulla.

    Arrivai appena in tempo per sentire suonare l’ultima campanella d’inizio delle lezioni. Oltrepassai di corsa il cancello della scuola indaffarata a cercare ansiosamente il corridoio giusto per arrivare nella mia classe. Mi bloccai sulla soglia meravigliata da tanta magnificenza.

    Il corridoio principale mostrava una serie di archi in stile gotico sotto i quali si estendeva una fila di armadietti così lunga che sembrava non avere fine. Davanti a uno di questi armadietti una ragazza stava prendendo in modo frettoloso gli ultimi libri per correre in classe. Mi avvicinai per chiederle un’informazione, ma lei nel girarsi m’investì. Aveva più o meno la mia età e pensai che frequentasse il mio corso, così le chiesi se sapesse dove fosse l’aula di matematica.

    «Ciao. Sono nuova e in tremendo ritardo. Sai dove posso trovare l’aula dove tiene la sua lezione il professor Green?»

    «Sei nel corso del prof Green?» chiese lei stupita.

    «Sì, perché?» domandai curiosa.

    «Quel corso è difficile, è l’unico ad avere una classe mista, solo i ragazzi e le ragazze dai quattordici ai diciotto anni più brillanti lo frequentano. Sei coraggiosa ad affrontarlo. Vieni, ti accompagno. È l’aula accanto alla mia.»

    Aveva un visetto simpatico e modi gentili.

    La ragazza non disse altro, si girò e corse via. Dopo un attimo di smarrimento cominciai a correrle dietro.

    «Ecco, è qui» disse indicando una porta socchiusa ed entrò svelta nell’aula accanto.

    «Grazie» le gridai.

    Entrai nel preciso momento in cui il professor Green cominciava a parlare e, senza farmi molto notare, tenendo la testa bassa e senza guardare nessuno degli studenti già in ordine, mi sedetti nel primo posto libero che trovai. Posai la cartella a terra con un sospiro di sollievo. Ero arrivata giusta in tempo. Sentii su di me il fastidio di uno sguardo e voltandomi vidi un magnifico ragazzo. Aveva dei profondi occhi nocciola, dei folti capelli biondi e larghe spalle muscolose da atleta. Aveva però qualcosa di familiare. Lui sorrise e allora lo riconobbi all’istante: era il ragazzo con il quale mi ero scontrata qualche giorno prima. Continuava a fissarmi e io, in quel momento non riuscii più a pensare a niente.

    All’improvviso, lui prese la mia cartella e la lanciò oltre il banco, al centro dell’aula. Esterrefatta, non reagii subito. Poi, passato lo sbalordimento, capii che dovevo andare a prendermela e, con un moto di rabbia mi alzai, radunai i libri alla svelta e tornai al posto.

    Seccata, dissi a quel bel tipo: «Perché l’hai fatto?»

    Lui, con l’aria più tranquilla di questo mondo: «Ora siamo pari.»

    Mi accorsi che due ragazzi dietro di noi stavano trattenendo a stento le risate. Rimasi senza parole e quando finalmente le ritrovai, una voce tuonò dalla cattedra: «Non siamo a un party, signori, stiamo facendo lezione. Vorrei un po’ di serietà e d’impegno. Soprattutto da lei, signor Bluemoor. E lei signorina, che è nuova, dovrebbe ascoltare, non perdere il suo tempo con quei ragazzi. E se non avete voglia di seguire la lezione» e indicò con un cenno brusco la porta «potete uscire subito da qui.»

    Avvampai violentemente e nascosi la testa dietro il libro di matematica. Era il primo giorno di scuola e, senza colpa, mi prendevo il primo rimprovero.

    Di nascosto spiai il ragazzo e osservai che, cosa incredibile, stava sghignazzando su di me; in quell’istante lo odiai dal profondo di me stessa. Per il resto della lezione lo ignorai e mi concentrai sul professor Green. Nelle ore successive affrontai fisica strumentale, sperando in cuor mio di non dover subire ancora la presenza di quel tipo. Con mio sollievo non era nel mio stesso corso.

    Passai il resto della mattinata in modo davvero tranquillo.

    Un brontolio allo stomaco, qualche attimo prima della campanella, mi avvertì che era ora di pranzare. Raccolsi le mie cose e uscii in cerca della mensa. Non avevo idea di dove fosse e così decisi di seguire la massa di studenti che andava in un’unica direzione. Nella calca qualcuno mi tirò per una manica e mi ritrovai di fronte la ragazza degli «armadietti».

    «Ciao, che ne dici, mangiamo insieme?» mi propose.

    «Perché no?» dissi.

    «Ah, io mi chiamo Caroline ma puoi chiamarmi Carly.»

    Mi presentai a mia volta.

    «Dai vieni con me, andiamo a sederci» disse sorridendo e mi fece strada.

    Proprio nell’istante in cui stavamo per sederci, passò il ragazzo «simpatico» dell’ora di matematica. Mi guardò e cominciò a ridere di nuovo. Sapevo che si stava ancora godendo il suo attimo di gloria. Un moto di rabbia mi crebbe dentro e di riflesso chiesi a Caroline chi fosse.

    Lei strabuzzò gli occhi.

    «Ma come, lo conosci?»

    «Ho avuto il piacere di incontrarlo due volte e mi pare di capire che si creda il re della scuola.»

    Carly allora, con fare pettegolo, cominciò a raccontarmi di lui e della sua famiglia.

    Proveniva da una famiglia facoltosa: il padre, Adam Bluemoor, era un noto avvocato di Manhattan e la madre, Nancy, era la preside della nostra scuola. Aveva una sorella, Rosalie, capitano della squadra delle cheerleaders, molto popolare tra i ragazzi. Lui, Nick, invece era conteso dalle ragazze più «in» della scuola perché era il capitano della squadra di football. Non che fosse una cima a scuola, ma superava facilmente ogni anno grazie a sua madre. Cambiava ragazza come cambiava mutande e girava voce che una ragazza fosse rimasta addirittura incinta a causa sua. In quel momento mi accorsi che si era seduto due tavoli più in là, insieme con i suoi compagni di squadra.

    «Qualcosa mi dice che stanno parlando di te» mi fece notare Caroline.

    «Come fai a dirlo?»

    «Non vedi come ti guarda?»

    A quel punto lui si alzò e con un sorriso sulle labbra venne verso me.

    «Che bel cuoricino avevi stamattina» disse trattenendo a stento le risate.

    Per un attimo non riuscii a capire di cosa parlasse, poi come un flash, mi fu tutto chiaro e gli risposi a tono: «Lieta di averti illuminata la giornata!»

    «Di cosa state parlando?» s’intromise Caroline.

    Di sicuro, mentre mi chinavo per prendere la cartella, aveva viste le mie mutandine che, infatti, avevano stampigliato un cuoricino rosa. Provai un senso di vergogna, diventai rossa come un pomodoro e non sapevo cosa rispondere.

    Gli amici cominciarono a ridere di gusto e uno di loro gridò a squarciagola: «Nick, lasciala stare, non è fatta per te.»

    Lui, incredibilmente, mi propose: «Ti andrebbe di uscire con me una di queste sere?»

    Lo guardai furiosa.

    «Neanche morta!» feci, e me ne andai indignata.

    Caroline mi seguì.

    Lui si girò verso i suoi amici ridendo.

    «Ehi, ragazzi, con questa ci vuole un po’ più d’impegno.»

    Loro scoppiarono a ridere.

    CAPITOLO 2

    Finita la pausa per il pranzo, mi ritrovai in classe seduta in ultima fila. Ero nervosa, mi sentivo diversa dal solito, in grado di poter reagire malamente a ogni imprevisto. Quel tipo, Nick, sapeva tirare fuori il lato peggiore di me. Mi era insopportabile a causa della sua arroganza, anche se non lo conoscevo abbastanza da poterlo giudicare veramente. Mi guardai intorno. Facce anonime. Delle persone che erano presenti in classe non conoscevo nessuno.

    Il banco accanto al mio era vuoto. Pregai in silenzio che non fosse occupato da quel ragazzo, da Nick, non lo avrei sopportato un’altra ora vicino a me.

    La professoressa di biologia cominciò a parlare di fotosintesi. Io cominciai a prendere appunti quando, a dieci minuti dall’inizio della lezione la porta si aprì rumorosamente.

    «Scusi professoressa, sono in ritardo, me ne rendo conto, ma sono stato impegnato.»

    Alzai gli occhi dal mio foglio pieno di disegni e parole alla rinfusa e scrutai curiosa il tipo appena entrato. Il nuovo venuto, senza dire altro, si appropriò del banco accanto al mio e tirò fuori rapidamente la penna e un foglio. Lo osservai senza darlo a vedere, facendomi schermo con il mio quaderno di appunti. Dovevo ammettere che era parecchio carino. Aveva occhi verde chiaro, portava capelli brizzolati biondi e aveva un fisico scolpito.

    Dovevo averlo guardato un po’ troppo a lungo, perché a un certo punto si voltò e posò i suoi occhi chiari su di me. Avvampai come il mio solito e distolsi lo sguardo.

    «Ciao, io sono James.»

    Vidi che mi tendeva la mano. Gliela strinsi imbarazzata e mi presentai a mia volta.

    «Charlotte» disse ripetendolo più volte, come se volesse assaporare

    il suono del mio nome. «Devo dire che è davvero un bel nome.»

    «Grazie.»

    «Sei nuova, non è vero?»

    «Sì, mi sono appena trasferita dal Canada.»

    Quel pomeriggio, la mia prima lezione di biologia non la seguii proprio per niente. Era più divertente ascoltare James. Mi spiegò che era iscritto all’ultimo anno, ma frequentava questo corso di biologia per approfondire la materia e per ottenere dei crediti scolastici; giocava a football, sua grande passione.

    «Hai già avuto l’onore di conoscere il grande capitano di football?» disse con una certa freddezza nella voce cui all’inizio non

    feci caso.

    «Sì, sfortunatamente» dissi sorridendo.

    «Non capisco come le persone come lui riescano sempre a farcela in tutto. Non lo sopporto. Don Giovanni da strapazzo, che si crede di essere chissà chi. Ed è pure fortunato che la madre è disposta ad aiutarlo a superare ogni difficoltà, soprattutto per quanto riguarda lo studio.»

    Non sapevo che cosa dire. Aveva espresso i miei stessi giudizi sulla persona di Nick. È vero che al primo impatto Nick non mi era stato simpatico, tuttavia mi guardai bene dal giudicare il suo comportamento. In fondo non lo conoscevo abbastanza bene. Però, ero curiosa. Perché James ce l’aveva tanto con lui?

    «Che cosa ti ha fatto?»

    Lui mi guardò sorpreso, ero sicura che non si aspettasse una simile domanda da parte mia.

    «Perché credi che ce l’abbia con lui?» chiese nervoso.

    «Da quello che mi hai detto, non mi pare ti vada tanto a genio» dissi quasi

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