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Alice
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Ebook420 pages5 hours

Alice

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About this ebook

Per quanto ogni famiglia sia infelice a modo suo, i destini delle famiglie vicine ad Alice, diciottenne inquieta, sono accomunati da incomprensioni e discordie di pari intensità. Eppure, in un pomeriggio che sembra come tanti, mentre Alice e Bruno fanno l'amore e fumano marijuana, nessuno dei loro cari può sapere cosa sta per succedere: un'auto senza controllo, la lamiera sfondata di uno scuolabus, le vite di Bruno e di un bambino, Thibaut, perdute per sempre. Non può immaginarlo il padre di Alice, che fatica a gestire le turbolenze della figlia, né la sua nuova compagna, impegnata nell'eterna ricerca della quiete domestica. Non possono immaginarlo la madre di Thibaut né quella di Bruno, che nella vendetta cercheranno l'unica consolazione al lutto. E Alice, inghiottita da una spirale di accuse, si ritroverà a sprofondare sempre più in basso, sempre più sola, sempre più in pericolo.
LanguageItaliano
PublisherLeone Editore
Release dateApr 19, 2019
ISBN9788863938807
Alice

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    Alice - Barbara Abel

    1

    Maude si prende la testa fra le mani. Quello che temeva si sta concretizzando, la morsa che comprime il suo cranio amplifica una tensione sempre più dolorosa. Si massaggia le tempie chiudendo gli occhi, con la consapevolezza che è già troppo tardi per limitare i danni. L’ipersensibilità alla luce conferma le sue impressioni: l’emicrania sta guadagnando terreno. Maude sa benissimo che tra poco non avrà più nessun’altra scelta se non quella di stendersi nella penombra e aspettare che passi.

    Per scrupolo, fruga comunque nella borsa, alla ricerca di un antidolorifico che inghiotte febbrilmente, senza grandi speranze di trarne sollievo. Si addossa poi contro lo schienale della sedia, prima di immobilizzarsi con il fiato corto e con una smorfia sul viso.

    Cinque minuti dopo, sconfitta dal dolore, afferra la sua giacca e lascia lo studio, lo sguardo fisso a terra. La strada del ritorno è un calvario. I rumori del traffico l’aggrediscono, ogni movimento del capo decuplica il male, e il sole che regna sovrano in un cielo senza nubi le fa l’effetto di una miriade di spade infuocate piantate al centro delle pupille. Quando arriva a casa, i primi segni di una nausea inevitabile si stanno già manifestando. 

    Maude esce con cautela dalla macchina. Avanza a piccoli passi fino alla porta d’ingresso che apre come se stesse maneggiando nitroglicerina. Nell’ingresso, nota subito lo zaino di Alice ai piedi dell’attaccapanni e le sfugge una smorfia infastidita: la presenza della ragazza in casa la contraria, avrebbe preferito stare da sola. A quell’ora, Alice dovrebbe essere al liceo. 

    «Alice?» grida verso il piano di sopra. 

    Nessuna reazione. Maude non si sorprende, l’adolescente risponde raramente quando la si chiama. Lascia le sue cose nell’ingresso e sale le scale, due rampe, fino al solaio. Il suo mal di testa si è amplificato. Arrivata al pianerottolo, si avvicina alla porta della camera di Alice e bussa.

    «Alice?»

    Silenzio. Maude non è dell’umore giusto per tergiversare. Afferra la maniglia, apre la porta ed entra nella stanza. 

    Alice richiude precipitosamente la finestra. Maude legge nello sguardo della figliastra un imbarazzo che viene confermato dall’odore che aleggia nella stanza.

    «Cosa ci fai qui?» le chiede, sconcertata. 

    «La prof di matematica era assente, ci hanno lasciato andare a casa» risponde Alice con disinvoltura. «E tu, cosa ci fai qui?»

    «Posso sapere cosa stai combinando?» prosegue Maude, senza preoccuparsi di rispondere alla domanda della ragazza. 

    «Niente di speciale…»

    «Non mentirmi, per favore! C’è odore di canna in tutta la stanza.»

    «Ma cosa dici?»

    «Mi prendi per scema? Mi gira la testa solo a respirare l’aria che c’è in camera tua!»

    Alice si rabbuia. Sospira rumorosamente alzando gli occhi al cielo. 

    «Appunto, è camera mia. Fra tre mesi ho diciott’anni. Quindi mollami, ok? Non sei mica mia madre!»

    «Non parlarmi con questo tono» ribatte subito Maude con voce dura. «E no che non ti mollo. Innanzitutto non hai ancora diciotto anni, e poi ti proibisco di fumare quella merda sotto il mio tetto. Non sarò tua madre, ma sono a casa mia! E poi, da quand’è che fumi le canne?»

    La ragazza alza le spalle con una flemma che irrita la matrigna.

    «Ti prego di rispondere alla mia domanda!» insiste Maude, nonostante il dolore che le s’irradia nella scatola cranica ogni volta che pronuncia una parola.

    «Va be’, dai, non è il caso di farne una tragedia. Fumo una volta ogni tanto, per rilassarmi.»

    «Sono le tre del pomeriggio, Alice! Sei da sola in camera tua. Non stai facendo un tiro a una festa con un gruppo di amici, cosa che ancora ancora potrei capire. Non accettare, ma capire. Da quant’è che va avanti questa storia?»

    Messa con le spalle al muro, Alice distoglie lo sguardo e incrocia le braccia, con il volto irrigidito. Maude aspetta una risposta che non arriva. La sua testa rimbomba dolorosamente, deve fare uno sforzo sovrumano per mantenere il rapporto di forza in suo favore. 

    «Come vuoi…» borbotta alla fine, dopo lunghi secondi di silenzio. «Staremo a vedere come reagirà tuo padre!»

    Dopo tutto, Alice ha ragione: non è sua madre, tocca a Simon risolvere questioni del genere con sua figlia. Lei ha già abbastanza da fare con i suoi, di figli. Le cose sono state messe in chiaro tra loro fin da quando sono andati a vivere assieme: ognuno gestisce come vuole i problemi relativi alla propria tribù. L’altro è presente per aiutare, sostenere, consigliare, ma sempre facendo attenzione a rimanere al suo posto. 

    «Glielo dirai?» esclama Alice improvvisamente molto reattiva. 

    «Certo che glielo dirò! Non penserai che tenga questa cosa per me!»

    Maude si dirige verso la porta della stanza. 

    «Per favore, non dirgli niente!»

    La voce di Alice è abbattuta, contrita, quasi supplicante. Il loro rapporto non è semplice, l’adolescente fa fatica ad accettare questa matrigna che considera un’usurpatrice. La sua vera madre, morta quando lei aveva dieci anni, è rimasta ai suoi occhi l’unica moglie legittima di suo padre. Nonostante gli sforzi continui, un buon senso illimitato e una pazienza in grado di resistere a tutte le prove, Maude non è mai riuscita a infrangere del tutto la barriera tra lei e la figlia dell’uomo che ama. Alice le rimprovera la sua presenza. Si spinge fino a condannare la sua stessa esistenza. Rigetta con una severità indistruttibile questa donna che ha avuto l’audacia di occupare dei territori inaccessibili. A prescindere dai metodi di avvicinamento adottati, il rifiuto è sistematico. 

    Alla fine, Maude ha gettato la spugna. Del resto, cosa si può fare contro una morta? È una battaglia persa in partenza, le forze in campo sono sbilanciate. Da una parte, una donna in carne e ossa, eterna seconda, condannata a un paragone che non può reggere. Dall’altra, un ricordo, un’immagine, un simbolo. La defunta possiede un’aureola di qualità ineguagliabili, un corredo di virtù di cui nessun mortale può essere dotato. 

    Maude sa tuttavia che la realtà è molto diversa: tra Simon e la madre di Alice le cose non erano così idilliache come la ragazza si ostina a credere. Prima che il cancro si manifestasse, la coppia si trovava in difficoltà, al punto di prendere in considerazione l’idea di separarsi. La malattia, poi, aveva sconvolto il corso delle cose. Avevano deciso di comune accordo di lottare assieme, entrambi coscienti della gravità della situazione. Uniti nell’avversità come non lo erano più nella vita quotidiana. Si erano occupati della cosa più urgente. Avevano fatto di tutto per proteggere la loro bambina da un cataclisma ineluttabile. Inutile aggiungere dolore al dolore. Se, per miracolo, Jeanne fosse sopravvissuta, sarebbero sempre stati in tempo per prendere una decisione più avanti. 

    Non ebbero bisogno di riflettere. 

    Quindici mesi dopo l’annuncio dello spietato verdetto, Jade si era spenta al reparto di cure palliative dell’ospedale Marie-Curie, lasciando Simon smarrito e Alice frastornata dal dolore. Padre e figlia si erano stretti l’uno all’altra, attingendo dalla loro presenza reciproca la forza per superare una simile prova. Fedele a quanto pianificato con Jeanne, Simon non aveva mai rivelato ad Alice che la coppia era stata in pericolo. Alice era così giovane, così vulnerabile, così addolorata! E poi erano cose da adulti. Non era quindi sorprendente che lei avesse sviluppato una visione tronca della realtà, idealizzando sua madre, attaccandosi alla forza di un amore che la morte non era stata capace di distruggere. 

    L’arrivo di Maude nella vita di Simon, quattro anni dopo il decesso di Jeanne, era stato percepito come un tradimento ingiustificabile, quantomeno da parte dell’intrusa. Anche Simon aveva avuto la sua parte di risentimento, ma la ragazza alla fine lo aveva perdonato. Un’indulgenza mai concessa a Maude.

    «Non posso nascondergli una cosa simile, Alice!»

    «Per favore! Ti prometto che non succederà mai più!»

    Scossa dal tono implorante della ragazza, al quale non è abituata, Maude decide di dedicare qualche minuto in più per farle capire che non può lasciar correre questa cosa. 

    «Alice, tuo padre se la prenderebbe tantissimo con me se un giorno scoprisse che ti ho trovata a fumare una canna in camera tua e non gli ho detto niente.»

    «Non c’è nessun motivo che lo scopra se non glielo dici!»

    Di fronte a questa logica, Maude si lascia scappare una risatina che reprime subito. 

    «Cos’è che ti succede tutto d’un tratto?» chiede con un’espressione perplessa. «Da quando viviamo assieme non me ne passi una, sono la cattiva, la nemica da combattere. E adesso, di punto in bianco, vorresti che diventassimo complici e che io ti copra?»

    Alice si mordicchia il labbro inferiore, evidentemente in difficoltà.

    «Ti rendi conto anche tu che non è possibile, dai» continua Maude. «Puoi anche continuare a fulminarmi con lo sguardo, Alice, ma questo non cambierà niente. Non mi prenderò la responsabilità di nascondere una cosa del genere a tuo padre.»

    «Una cosa del genere!» sogghigna la ragazza, esasperata. «A sentire te, sembra che mi droghi!»

    «In effetti» ribatte la matrigna con calma. «È proprio quello che fai!»

    «È una canna, Maude! Solo un po’ d’erba! È considerata una sostanza terapeutica in alcuni paesi.»

    «Il consumo di cannabis è proibito dalla legge nel nostro paese.»

    Capendo che le cose non stanno andando per il verso giusto, Alice cambia strategia. Passa dalla condiscendenza indignata al sospiro disperato. 

    «Per favore, Maude. Ti supplico! Se papà viene a sapere che fumo erba non mi mollerà più. Lo conosci, sarà un inferno per me!»

    Maude non può negarlo. Simon è inflessibile su alcuni temi e, sull’argomento droga, nessuna deroga è concessa. Il suo carattere e i suoi principi, a volte, fanno di lui un uomo rigido, intransigente. 

    Nonostante tutto, Maude è toccata dal nuovo atteggiamento di Alice. E deve ammettere che la cosa non è poi così grave. Lei stessa non ha forse fumato delle canne alla sua età? 

    Scaccia velocemente questo pensiero dalla mente. A ogni modo, non è questo il problema. Non del tutto, almeno. 

    «Infatti, lo conosco» concede, con un tono comunque più comprensivo. «Ed è per questo motivo che non posso nascondergli una cosa del genere. Come farei a guardarlo negli occhi senza avere l’impressione di tradire la sua fiducia?»

    «Anche se ti prometto di smettere?»

    Questa volta tocca a Maude fare un sospiro profondo. È la prima volta che la ragazza fa un passo verso di lei da quando, un anno prima, Simon e Alice si sono trasferiti a casa sua. Costretta, è vero, ma si tratta comunque di un passo. La situazione è delicata, Maude non riesce a non essere confusa. Potrebbe essere un’occasione per avvicinarsi a quest’adolescente impertinente e riottosa? Potrebbe essere quello che stava aspettando, un’opportunità di provarle che non è sua nemica. Che potrebbe, al contrario, diventare un’alleata, una complice…

    Chiude gli occhi. L’emicrania non l’ha abbandonata e il dilemma in cui si trova non fa che accentuare la tensione che la opprime. 

    Dal canto suo, Alice sente che l’indecisione sta prendendo piede nella mente della sua matrigna. Percepisce una breccia nella quale infilarsi per ottenere ciò che vuole.

    «Lo so che con te non sono sempre stata molto simpatica » mormora con voce confusa. «Per me non è stato facile, non devi prendertela. Ma devo ammettere che papà è molto più felice da quando state assieme. E questo, in ogni caso, è importante…»

    «Non mi è molto chiaro il legame con quello di cui ci stiamo occupando» la interrompe Maude, seccata, riconoscendo benissimo il tentativo di manipolazione della ragazza. 

    Alice si rabbuia e Maude si pente subito del suo scatto. 

    «Ascolta, Alice: ho un’emicrania che mi sta spaccando la testa quindi, per oggi, non ho la forza di discutere con te. Non ho ancora deciso cosa farò, ma quello che è certo è che non voglio che fumi mai più! Da nessuna parte! Né qui né fuori! Hai capito?»

    La ragazza si limita a rivolgerle uno sguardo carico di riconoscenza. 

    «Grazie, Maude. Non te ne pentirai!»

    «Perché mi ringrazi? Non ti ho mica detto che non avrei detto niente a tuo padre!»

    «No. Ma so che non lo farai. E so anche che puoi fidarti di me. Ti prometto che non accadrà più. Mai più!»

    Maude non ha una risposta, si sente troppo spossata. La sua emicrania è insopportabile e le rimane solo un’idea in testa: andare a letto. Perché, comunque, non c’è niente da aggiungere. E anche perché sa che Alice ha ragione: non dirà nulla a Simon. 

    Quello che invece ignora è che sta per commettere il più grosso errore della sua vita. 

    6 mesi dopo

    2

    La radio parla delle seccature quotidiane, diffonde un sottofondo di logorrea monotona e notizie. La cucina è inondata dalla luce cerea del primo mattino, mentre il profumo di caffè satura l’aria fino al corridoio. In mezzo alla stanza, una tavola apparecchiata attende i suoi occupanti. Solange ci posa sopra pane, burro, cereali, latte e barattoli di marmellata, prima di affacciarsi alla porta e voltarsi in direzione delle camere. 

    «Sam, siete in ritardo!»

    Una risposta le arriva dall’altra estremità del corridoio. Solange riesce a indovinarne il senso solo grazie all’intonazione. Soddisfatta, ritorna in cucina e inserisce due fette nel tostapane. 

    Qualche minuto dopo, il passo dinamico di Samuel si avvicina al ritmo delle prime note di What a Feeling di Irene Cara, un brano della colonna sonora di Flashdance. È una canzone che piace a Solange. Aumenta leggermente il volume e accoglie suo marito tenendo il tempo con un movimento elastico e regolare del capo.

    «Flashdance» spiega con nostalgia. «I miei tredici anni. Avevo la locandina appesa in camera. Sognavo di assomigliare a Jennifer Beals!»

    Samuel la scruta con uno sguardo derisorio e al tempo stesso indulgente.

    «Si direbbe che tu non ce l’abbia fatta!» ridacchia, baciando sua moglie sulle labbra. 

    I capelli biondo veneziano di Solange sono fini e lisci tanto quanto quelli di Jennifer Beals sono scuri e ricci. Solange è una donnina di quarantacinque anni, tutta curve e pienezza. I suoi occhi chiari esprimono una dolcezza incondizionata. Ha una faccia da cherubino, di quelle che potrebbero ricevere l’assoluzione senza passare dal confessionale. È una donna che ama con dolcezza e benevolenza, senza eccessi, sempre controllata. Nasconde i suoi ardori, al riparo da sguardi e giudizi. Come se fosse immune dalla passione e dalle sue stravaganze. È capace di associare amore e serenità, due parole che risultano incompatibili per la maggior parte della gente. Quando ama, però, lo fa bene. Potrebbe sembrare un attributo insipido, ma in realtà conferisce un valore aggiunto a un’emozione troppo spesso maltrattata. Fino a oggi, un solo essere è riuscito a far esplodere i limiti di un amore guidato dalla ragione. Questo essere è Thibaut, sette anni. 

    «Thibaut è pronto?» chiede mentre versa due tazze di caffè. 

    «Sta finendo di lavarsi i denti.»

    Solange appoggia la caffettiera sul suo supporto prima di uscire nel corridoio. 

    «Thibaut!» urla in direzione del bagno. «Sbrigati, o arriverai in ritardo a scuola.»

    Senza aspettare una reazione, torna in cucina dove le due fette sono pronte. Passando di fronte al tostapane ne prende una per mano. Le bruciano le dita e le lascia cadere sul suo piatto prima di sedersi di fronte a Samuel che sta bevendo il caffè e leggendo i messaggi sullo smartphone. 

    «Oggi devo fermarmi in ufficio fino a tardi» la informa, appoggiando la tazza sul tavolo. «Non riesco ad andare a prendere Thibaut. Tu ce la fai?»

    «Impossibile. Ho un appuntamento alle quattro e un altro alle cinque meno un quarto. È meglio che prenda lo scuolabus.»

    «Ok. Avvisi tu la maestra?»

    «Dopo chiamo la scuola.»

    Le due fette sono già spalmate di marmellata quando finalmente il bambino appare. Solange si alza per accoglierlo, stringe tra le braccia il suo corpicino e immerge la faccia nella sua chioma bionda. 

    «Hai dormito bene?»

    Il bambino annuisce mentre il suo sguardo si posa sulla fetta di pane e marmellata che sua madre, lo sa, ha preparato per lui. Lei lo aiuta a sedersi, accosta la sua sedia contro il tavolo, riempie una tazza di latte e ci aggiunge due cucchiai di cacao in polvere.

    «Dovrai tornare con il bus questo pomeriggio, pulcino» gli spiega mentre il latte si scalda nel microonde. Mi aspetterai dalla signora Coustenoble.

    «No, dai, mamma, per favore! Non ho voglia di andare da lei!»

    «Non ho scelta, amore. Tornerò il più presto possibile, ma non posso fare altrimenti. È gentile la signora Coustenoble, no?»

    «Puzza!»

    Solange decide di non rispondere. Lancia uno sguardo divertito a suo marito che però, tutto preso dal cellulare, non sembra aver seguito lo scambio di battute. Come se avesse sentito lo sguardo di sua moglie, Samuel blocca lo schermo del telefono, si alza e lo infila nella tasca della tuta da lavoro. 

    «Ometto, qui bisogna accelerare un po’!» dice al bambino. «Devo essere in cantiere fra tre quarti d’ora ed è dall’altra parte della città.»

    «Lasciagli finire la colazione» interviene Solange con dolcezza. 

    La madre accarezza i capelli del figlio avvolgendolo in uno sguardo affettuoso. Diventata madre piuttosto tardi, prova per il suo piccoletto un amore incondizionato, una passione selvaggia, un’adorazione primitiva. Thibaut è il miracolo che aveva smesso di attendere. Dieci anni prima, un esercito di esami e di specialisti l’avevano dichiarata sterile. La sentenza era stata senza appello, secondo i medici non aveva alcuna possibilità di dare alla luce un bambino. 

    I quattro anni successivi erano stati occupati da numerosi tentativi di fecondazione in vitro, tentativi dai quali la coppia usciva sempre più disperata. Dopo il tredicesimo tentativo, Solange e Samuel Lefebvre avevano deciso di mettere un termine all’accanimento. Con la morte nel cuore, avevano rinunciato ad avere figli. Era seguito un lungo periodo di resilienza in cui avevano rinchiuso il sogno di diventare genitori in fondo al dimenticatoio della loro anima. Un processo lungo, doloroso, continuamente corroso dalla spietata indifferenza della vita quotidiana. 

    Solange fa l’agente immobiliare. Passare le giornate a vendere o affittare case, spesso a giovani coppie in fase di nidificazione, era stata una prova ardua per lei. Ogni giorno passeggiava per stanze vuote di cui declamava le potenzialità, la superficie o l’originalità, spettatrice suo malgrado delle proiezioni di gioia di perfetti sconosciuti che avrebbero goduto di quanto a lei era precluso. Da una visita all’altra, i progetti per le destinazioni di ogni stanza, i colori dei muri o la posizione della culla si moltiplicavano. La giovane donna rimaneva impassibile, mantenendo in ogni circostanza uno sguardo calmo e un sorriso sereno. 

    Sotto la superficie, però, affrontava dei cicloni di tristezza, lottando per non morire affogata nelle profondità del suo dolore. 

    Quanto a Samuel, si era tuffato anima e corpo nell’attività professionale. Capocantiere competente e rispettato, non aveva lesinato né tempo né energie per essere all’altezza delle sue numerose responsabilità. Tra riunioni preliminari, studio dei progetti e dei fascicoli tecnici, analisi delle tempistiche, ripartizione dei compiti, organizzazione generale dei cantieri, controlli, coordinamento del lavoro delle diverse squadre e aspetti burocratici, aveva messo in atto una strategia di compensazione resa vertiginosa dalla tenacia che lo caratterizzava. Con un carattere che a tratti rasentava l’ostinazione, era un uomo tutto d’un pezzo, onesto e rigoroso. Un uomo razionale, guidato da una deontologia senza falle. 

    All’alba dei quarant’anni, tuttavia, Solange si era scoperta incinta. Così, all’improvviso, senza nessuna spiegazione. Solange e Samuel non avevano cercato di scoprire il mistero di questo prodigio. La vita gli aveva fatto un regalo, e loro lo avevano semplicemente accettato. 

     Oggi Thibaut ha sette anni. Da qualunque punto di vista, è un bambino come tanti altri. Dal punto di vista dei suoi genitori, è la loro ragione di vita. 

    «Non voglio andare dalla signora Cousnobe» si lamenta il bambino. «Voglio andare al doposcuola!»

    Solange sospira. La signora Coustenoble, loro vicina di casa, è un’anziana donna che tiene volentieri Thibaut quando Solange e Samuel tornano tardi dal lavoro. Quando era più piccolo, lui adorava andare da quella specie di nonna sostitutiva. Da qualche settimana, però, ci va controvoglia. 

    «Perché non ti piace più andare da lei?» chiede Solange, che non riesce a capire questo brusco cambiamento. 

    «Mi annoio. Fa sempre un sacco di domande.»

    «È perché s’interessa a te… e poi è gentile la signora Coustenoble. Ti compra sempre i tuoi biscotti preferiti!»

    Thibaut alza le spalle in segno di indifferenza.

    «Preferisco il doposcuola.»

    Solange fa un rapido calcolo mentale: anche se il suo ultimo appuntamento dovesse finire alle cinque e mezza, non riuscirebbe ad arrivare a scuola prima delle sei. Troppo tardi quindi per prendere Thibaut. A meno che non riesca a spostare l’appuntamento delle cinque meno un quarto…

    Anticiparlo le sembra difficile, il cliente le ha detto che lavorava fino alle quattro. Spostarlo al giorno successivo? No, troppo complicato, il giorno dopo deve occuparsi delle pratiche delle ultime due settimane e scrivere una relazione sulle vendite concluse. 

    «Oggi non è possibile, cucciolo» decide a malincuore. «Ma ti prometto che tornerò presto. E questa sera ti farò le patatine fritte!» aggiunge con entusiasmo marcato, per tirare fuori suo figlio dalla tristezza che lo ha avvolto. 

    «Dai, dobbiamo andare, Thibaut!» dice Samuel mentre esce dalla stanza. 

    Solange segue suo marito nell’ingresso. Rimasto da solo in cucina, il bambino sospira. Guarda dalla finestra con malinconia. Il vetro è ricoperto da una condensa che gli impedisce di distinguere il paesaggio familiare della città. Thibaut si alza e si avvicina alla finestra. Con la punta dell’indice disegna un viso che sorride, uno smiley maldestro a forma di sole. Quando sua madre appare sulla porta, lo scopre mentre sta finendo di tracciare una successione di larghi raggi per raffigurare i capelli. 

    «Thibaut!» lo sgrida. «Ti ho già chiesto di non disegnare sui vetri. Li ho appena lavati! Rimangono le impronte, fa schifo!»

    «Non ti piace il mio signore?»

    «Non è questo il punto» si lamenta lei. «Te l’ho già detto mille volte: non voglio che disegni sui vetri, punto e basta! Capito?»

    Il bambino fa un’espressione contrita prima di abbassare la testa a mo’ di risposta. Solange si spazientisce. 

    «Sbrigati, adesso! Siete tutti e due in ritardo!»

    Lo accompagna fino all’ingresso, lo aiuta a indossare giacca, sciarpa e cappello, senza dimenticare lo zainetto. Poi gli dà un bacio frettoloso, un bacio ancora impregnato del rimprovero di poco prima. 

    «Ci vediamo questa sera, fai il bravo, mi raccomando.»

    Samuel si avvicina per salutare sua moglie con un bacio. 

    «Noi scappiamo. Passa una buona giornata.»

    «Anche tu, a stasera» mormora lei mentre gli restituisce il bacio. 

    Padre e figlio escono dall’appartamento e scendono le scale che portano al pianterreno. 

    Solange aspetta che siano usciti dal portone prima di richiudere la porta dietro di sé. 

    3

    La calma e la concentrazione regnano nella sala operatoria. A intervalli regolari, si sentono le note metalliche dei monitor di controllo. Attorno alla paziente – una cinquantenne affetta da prolassi rettale –, una mezza dozzina di persone si dà da fare ai lati del chirurgo, vero e proprio direttore d’orchestra dell’intervento. Nascosto dietro alla sua maschera, si concentra sul suo compito. Gli strumenti gli sono consegnati con un balletto fluido e preciso. Tutti trattengono il fiato con gli occhi fissi sullo schermo dove si vede la cavità addominale. 

    Dopo due ore di lavoro, la protesi che deve mantenere il retto nella posizione giusta viene fissata. L’operazione è quasi conclusa. Il chirurgo verifica l’assenza di emostasi e che nessuna complicazione sia emersa nel corso dell’intervento. Rassicurato, informa lo specializzando che può richiudere. Mentre quest’ultimo si occupa delle suture, l’anestesista si tiene pronta: il risveglio è sempre un momento delicato. 

    Dopo aver steso la relazione, il chirurgo esce dalla sala operatoria. Attraversa le diverse camere indispensabili per garantire la sterilità, poi si dirige verso lo spogliatoio dove si toglie il camice, che butta assieme a copricapo, maschera e copriscarpe nell’apposita cesta. 

    Liberato da tutti gli elementi della divisa, appare Simon, soddisfatto e affamato. Apre il suo armadietto e compie alcuni gesti che lo riportano definitivamente alla tranquillità della vita quotidiana. L’operazione che ha appena concluso non ha nulla di eccezionale, e sicuramente andrà a perdersi nella moltitudine di interventi di routine che abitualmente ritmano le sue giornate e che, succedendosi, formano la sua carriera.

    Poco importa. 

    Non esistono interventi minori.

    All’interno della porta del suo armadietto, si può leggere questo testo, appeso su una locandina: 

    Un uomo passeggia sul cantiere di una cattedrale e incontra tre operai che stanno facendo lo stesso lavoro. A ognuno pone la stessa domanda: «Che cosa fai?».

    «Taglio una pietra» risponde il primo. 

    «Mi guadagno da vivere» dice il secondo. 

    Il terzo dichiara quindi: «Costruisco una cattedrale».

    Questo aforisma rappresenta per Simon Cherreault la pietra angolare delle sue ambizioni. Chirurgo talentuoso, vede in questa storia un’illustrazione perfetta del suo pensiero. La sua scelta professionale non ne è estranea: se c’è una cosa della quale Simon non ha mai dubitato, è di essere nato per compiere grandi imprese. 

    Cosa c’è di più grande del salvare vite?

    Dopo aver richiuso l’armadietto, il chirurgo indossa la giacca nella tasca della quale recupera l’orologio. Mentre lo mette al polso, controlla l’ora e constata con piacere che gli rimane abbastanza tempo per mangiare un boccone prima di andare a prendere Alice al liceo. 

    È da tanto che non le fa la sorpresa di andarla a prendere all’uscita di scuola. Nelle ultime settimane, i turni e le visite si sono moltiplicate, lasciandogli pochissima libertà. Maude, la sua compagna, non gli ha mai rimproverato i suoi orari, ma ha l’impressione che da qualche tempo sua figlia lo tenga a distanza. 

    Secondo Simon, il poco tempo a disposizione non è la sola causa di questo atteggiamento. Alice ha appena compiuto diciott’anni e, agli albori della sua vita adulta, ha di meglio da fare che passare del tempo con suo padre. Ma Simon sa anche che tocca a lui mantenere il contatto. Fino all’anno precedente, faceva regolarmente in modo di ritagliarsi dei momenti per loro due, momenti dai quali Maude e i suoi figli – Arthur e Suzie – erano esclusi. Queste parentesi risuonavano come un’eco della loro vita precedente: Simon era consapevole che Alice non viveva bene la loro nuova situazione famigliare e che l’arrivo di Maude nella loro esistenza non era del tutto gradito. I primi tempi della loro convivenza erano stati molto tesi, poi le cose avevano lentamente preso una piega migliore. La diplomazia e l’intelligenza di Maude avevano contribuito in gran parte a questa evoluzione. 

    Quando pensa a Maude, il cuore di Simon si gonfia di adorazione e riconoscenza. È lei che lo ha salvato dalle lande deserte e gelate della vedovanza. Dopo la morte di Jeanne, e nonostante il disamore che si era infiltrato nella loro coppia, aveva scelto di mettere la sua vita sentimentale da parte per concentrarsi su sua figlia e sull’attività professionale. L’incontro con Maude, avvenuto in seguito a un’appendicite di Arthur, l’aveva colto di sorpresa. L’appendicite era degenerata in peritonite e, dopo l’intervento, Simon si era incaricato personalmente di rassicurare i genitori. 

    Nella sala d’attesa, Maude e Bertrand aspettavano, ognuno assorto nella propria inquietudine. Erano seduti alle estremità opposte della stanza, austeri e silenziosi… 

    Entrando, Simon aveva percepito una tensione che aleggiava e che non sembrava legata esclusivamente all’ansia causata dall’operazione. 

    Lo scambio era stato indolore: «Tutto è andato benissimo, Arthur si riprenderà nel giro di pochi giorni».

    I genitori lo avevano ringraziato. 

    Questo era stato il loro primo incontro: un contatto protocollare, un mero scambio di informazioni mediche. I ruoli erano chiaramente stabiliti, nessuno era uscito dalla sua funzione. Lui, medico onnisciente il cui sapere e le cui abilità avevano permesso di salvare un bambino. Loro, genitori del bambino in questione, smarriti, preoccupati e riconoscenti.

    La routine. 

    C’era stato solo un’eco distante, una risonanza appena percepibile, di cui Simon si ricorda oggi come della prova irrefutabile che lui e Maude erano destinati a rivedersi. L’aveva trovata carina, con quel qualcosa di particolare che attira lo sguardo…

    Forse, se si erano rivisti qualche settimana dopo, era stato perché si era ricordato quella frazione di secondo in cui l’aveva guardata come una donna e non come una madre? 

    Simon non ha mai saputo rispondere a questa domanda. 

    Il caso aveva fatto sì che le loro strade s’incrociassero nuovamente al vernissage della mostra di un conoscente comune. L’artista era il padre della migliore amica di Alice, o almeno di quella che era la sua migliore amica all’epoca. Per Maude, si trattava di un collega con il quale, tempo prima, aveva condiviso un atelier. 

    Era lei che lo aveva riconosciuto. Simon si teneva in disparte e lei era venuta a salutarlo. Il viso piacevole della donna gli sembrava famigliare, ma non riusciva a ricordare le circostanze in cui… 

    «Sono la madre di Arthur, che lei ha operato di peritonite circa un mese e mezzo fa.»

    Né Arthur né la peritonite gli avevano lasciato un gran ricordo. 

    «Arthur… Sì, certo… Come sta?»

    «Vispo come un grillo. Volevo ringraziarla, si è ripreso benissimo dopo l’operazione.»

    Simon aveva abbozzato un sorriso modesto. Voleva proseguire la conversazione, ma non gli veniva in mente niente che non fosse una banalità.

    «Ho fatto solo il mio lavoro.»

    «Lei ha salvato il mio bambino.»

    «Non era niente di che.»

    E mentre sprofondava lentamente nella disperazione di sentirsi così mediocre, lei gli aveva sorriso con tanto calore che aveva provato un po’ di indulgenza per la piattezza delle proprie parole.

    «Lei si chiama la madre di Arthur o possiede un nome?»

    «Maude.»

    Simon stava per fare riferimento al celebre film Harold e Maude quando si

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