Cardello
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Cardello - Luigi Capuana
GEMME
Copertina_CapuanaLuigi Capuana
Cardello
ISBN 978-88-6393-789-3
© 2018 Leone Editore, Milano
www.leoneeditore.it
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
In quel paese benedetto non si studia mai.
Il giovedì non si fa scuola e ogni settimana
è composta di sei giovedì e di una domenica.
Carlo Collodi
Iscrivibile, come il precedente e più famoso racconto Scurpiddu, in un filone di narrativa educativa per ragazzi di impianto verista, Cardello è una fiaba acutissima e limpida, ma senza nulla di fiabesco, anzi a tratti spietata e cruda dove se il bene alla fine trionfa, lo fa passando attraverso territori impervi e oscuri, che nulla risparmiano al lettore. La positività dei valori che vi si affermano – l’onesto e duro lavoro, il merito riconosciuto, la lealtà e la purezza di cuore – doveva essere ben chiara, condivisa e promossa, perché in quei valori ci si credeva davvero, al di là della loro reale applicabilità nella vita di tutti i giorni.
L’Italia immediatamente post-unitaria, come noto, avvertì la necessità di radunare le giovani generazioni della nazione appena nata attorno ad alcune priorità, non ultima la scolarizzazione, in un contesto di analfabetismo dilagante. Negli anni Ottanta del Diciannovesimo secolo due opere capitali in questo senso erano state Le avventure di Pinocchio del 1883 e Cuore del 1886, che pur con contenuti di demagogia populista e spunti diversi contribuivano alla fondazione di un patrimonio identitario.
In Cardello, però, troviamo anche la storia di una ricerca: quella del padre, di un «secondo padre». Il piccolo orfano crede dapprima di averlo trovato in Orso peloso, un burattinaio rude e gretto, spesso ubriaco, che gli insegna le mirabilia delle marionette, come muoverle e farle parlare, ma che lascia morire la figlioletta per negligenza e in preda all’ira uccide la giovane moglie. Neppure il Decano, nella cui casa si mangia spesso e bene, può essere per Cardello un padre: «Invece delle cose di Dio, il padre cappellano pensava a insegnargli ad arrostire le costole di maiale» e, al posto del breviario, bello in vista sul comodino Il libro dei cuochi. Solo il Piemontese, con la sua «grande smania di fare» e l’ostinata imprenditorialità, gli svelerà un mondo prima sconosciuto: le stoviglie smaltate, che qualcuno in paese crede siano opera di magia e non di ingegno. È lui che gli farà capire che nella vita si può non essere schiavi di qualcuno, ma si deve decidere da soli il proprio futuro, il destino, come ripete Cardello. Sul suo spirito libero tutto questo ha una funzione di catalizzatore di sogni e speranze, che il ragazzo insegue a occhi aperti. D’altronde, quando Cardello decide di lasciare la dorata servitù del Decano, lo fa proprio perché «avrebbe sofferto, avrebbe lottato, ma voleva riuscire qualcosa di meglio di un servitore». E così avverrà, grazie all’amorevole dedizione filiale nei confronti del Piemontese e alla sua voglia di imparare, di «guadagnarsi il pane col sudore» per farsi «una discreta posizioncina al sole». Alla fine Cardello si guadagnerà i riconoscimenti che merita, come viene ben enucleato nella morale finale del racconto, affidata alle parole del segretario comunale, una volta aperto il testamento del Piemontese che lascia il ragazzo erede universale: «Il nostro destino […] ce lo facciamo con le nostre mani. Tu sei stato un buon figliolo; la fortuna che ti capita oggi te la sei meritata».
Ma, come in molte fiabe a lieto fine che si rispettino, spesso tra le pieghe innocenti del narrato si nascondono significati altri, più profondi. Certo non è un caso la scelta del Piemontese come salvatore per il siciliano Cardello; la famiglia Savoia, gli unificatori d’Italia, il vento della modernità contro ataviche paludi. E che dire dell’immancabile burattinaio, il Mangiafuoco, l’incantatore di fanciulli, che dietro il suo Paese dei balocchi nasconde miseria umana e brutalità e che, a sua volta, è servo, delle piazze da cui dipende, dei signorotti che lo snobbano e mandano gambe all’aria il suo spettacolo? L’artista di piazza, il saltimbanco ridotto a orpello. E non ultimo il Decano, la volgare meschinità della sua vita in netto contrasto con l’abito che indossa non può che alludere al fil rouge di satira anticlericale che, per molti decenni dopo l’unità d’Italia, fu nota caratteristica nel nostro Paese.
Comunque, al di là di tutto, resta ben impressa nella mente la forza genuina di una storia che insegnava come il merito derivi sempre dal talento, l’onestà giunga da un lavoro vero, il coraggio dei propri sentimenti, dei sogni, la lealtà e la fiducia verso gli altri inneschino meccanismi virtuosi, che accettare qualsiasi forma di schiavitù, anche la più dorata, magari ti dà agio e benessere, ma ti soffoca e ti annienta, e soprattutto alla fine, dopo tanto tribolare, la vita premi questi valori, li riconosca come tali. Una storia che oggi, a concepirla prima ancora che a scriverla, purtroppo farebbe sorridere. Amaramente sorridere.
Danilo Laccetti
L’Orso peloso
Da tre giorni nel paesetto non si parlava di altro che dell’arrivo del burattinaio.
Davanti al magazzino da lui preso in affitto, una folla di ragazzi faceva ressa per vedere i preparativi delle rappresentazioni, quantunque il portone socchiuso non permettesse di scorgere quel che colui stava ad armeggiare là dentro.
Si udivano frequenti picchi di martello, stridori di sega, brontolii d’una voce arrochita che doveva essere del burattinaio, e, di tratto in tratto, i vagiti di una creaturina già vista più volte dai ragazzi in braccio alla giovine donna malaticcia che sembrava figliuola di quell’uomo e invece – così si diceva – ne era la moglie.
Se qualche ragazzo, più ardito o più impertinente, osava di ficcare la testa tra i battenti del portone socchiuso, o spingeva indietro la parte di esso scostata dallo stipite, un urlo o una parolaccia dall’interno lo faceva scappare subito via.
Ed era uno sbandarsi di qua e di là di tutta la ragazzaglia, appena il burattinaio appariva su la soglia, in maniche di camicia, coi lunghi capelli grigi in disordine, i calzoni malamente stretti ai fianchi da una larga cigna di cuoio, con la pipetta di radica tra i denti, che pareva dovesse bruciargli i baffi ispidi e folti e i peli della barba che gli si arricciavano e arruffavano sul mento.
I ragazzi lo avevano soprannominato Orso peloso sin dal primo giorno; ma poi si erano accorti che era meno orso di quel che immaginavano.
Si piantava a gambe larghe su la soglia, con le braccia dietro la schiena, tirando dense ondate di fumo dalla pipetta mezza carbonizzata; e, dopo aver guardato attorno, si rivolgeva a qualcuno di loro: «Ehi, ragazzo! Vuoi comprarmi quattro soldi di chiodi simili a questo?».
E appena il chiamato si accostava accennando di sì, l’Orso peloso gli faceva una carezza,