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Il palladio di Atlantide
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Il palladio di Atlantide

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About this ebook

Una misteriosa statuetta viene ritrovata nelle acque cristalline che bagnano l’isola di Santorini, e per studiarne la provenienza viene convocato un team di esperti, tra cui il famoso avventuriero Joshua William Lewis e la dottoressa Giulia Monti. Ma il furto della statuetta e il rapimento di Giulia, amore mai dimenticato dello studioso, innescheranno un crescendo di combattimenti e colpi di scena degno di un film di Indiana Jones, alla ricerca della perduta città di Atlantide.
LanguageItaliano
PublisherLeone Editore
Release dateApr 23, 2018
ISBN9788863937978
Il palladio di Atlantide

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    Il palladio di Atlantide - Giuseppe Rendina

    PARTE PRIMA 

    TES KA MI POSYTÓN

    1

    L’ULTIMA LEZIONE

    Università La Sapienza, Roma, 14 maggio dell’anno successivo, ore 12.55

    I neon spenti e le serrande abbassate fornivano l’ambiente ideale per conciliare il sonno agli studenti. Dopo tre ore filate di mitologia classica e con i primi caldi di stagione, anche i più devoti cultori della materia cedevano alle lusinghe di Morfeo, mentre quelli ancora svegli guardavano gli orologi in attesa dell’agognata fine della lezione. Solo qualche stoico appassionato riusciva a mantenere sufficiente concentrazione.

    L’unico ancora pieno di energie sembrava essere il professore di storia e mitologia classica Joshua William Lewis, insegnante statunitense di origini italiane che, gesticolando con un pennarello sopra lo schermo del videoproiettore, continuava imperterrito a esporre la lezione del giorno.

    «… a ogni modo, tra tutte le leggende del periodo cosiddetto classico, trova particolare considerazione il mito di Atlantide: la città perduta, o il continente perduto, fate voi. Riguardo a questo mito è necessario fare una prima e necessaria distinzione tra ciò che è descritto da Platone – unica fonte valutabile in termini storici – e tutto ciò che nel corso dei secoli è stato tratto dalle teorie del filosofo e trasformato in leggende, culti e miti di vario genere. Questo, per la maggior parte, è materiale utilizzabile a Hollywood o per scrivere libri di fantascienza. Se volete approfondire queste teorie, potete recarvi a Cinecittà. Ci troverete qualche spunto interessante.»

    Una leggera risatina percorse i banchi. 

    «Tornando a Platone, troviamo una descrizione di Atlantide abbastanza dettagliata nel Crizia che fa seguito all’accenno fatto nel Timeo. Avete una traduzione di entrambi i passaggi nelle dispense che vi ho consegnato all’inizio della lezione. Il filosofo scrive di aver raccolto quelle informazioni dai resoconti di Solone, il quale affermò di essere stato erudito in Egitto da alcuni sacerdoti circa una battaglia avvenuta tra gli atlantidei, che volevano invadere il territorio greco, e gli antenati degli ateniesi. La battaglia fu vinta da questi ultimi: preservarono il loro territorio dall’invasione e poterono così dare inizio allo sviluppo della civiltà ellenica quale la conosciamo oggi. 

    «Stando a queste informazioni, Atlantide è descritta come un’isola collocata al largo delle Colonne d’Ercole che, come saprete, corrispondono all’attuale Stretto di Gibilterra, anche se è necessario prendere in esame le varie identificazioni che nel corso della storia sono state attribuite all’isola, e che variano significativamente l’una dall’altra. Tutto questo, però, lo vedremo in seguito, quando scenderemo nei dettagli di tutte le teorie elaborate nel tempo.

    «La leggenda, a oggi ufficiale, narra del dio del mare, Poseidone, che si innamorò di una giovane fanciulla di nome Clito che viveva su una collina al centro di un’isola. Per impedire che costei potesse essere raggiunta da altri uomini e violata, Poseidone recinse la collina e vi creò tutto intorno un’alternanza di cerchi di terra e di mare, cinque in tutto, formando così una specie di bersaglio per arcieri. C’è da sottolineare che, dal punto di vista delle conoscenze di Platone, a quell’epoca – parliamo di dieci o undicimila anni prima di Cristo – l’uomo non aveva ancora appreso l’arte della navigazione e gli sarebbe dunque stato impossibile raggiungere il nucleo centrale dove viveva la fanciulla. 

    «Nonostante l’isolamento, Poseidone rese questo territorio protetto estremamente rigoglioso e fertile, generando addirittura due sorgenti d’acqua, una fredda e l’altra calda, per far sì che Clito e la prole che ebbe da lei avessero tutto il necessario per vivere. E così avvenne. I loro figli, dieci in tutto, prosperarono e governarono l’isola per molto tempo, rendendola fiorente e ricca, fino alla distruzione che avvenne, cito dai dialoghi: nel giro di un giorno e una notte terribili nei quali Atlantide fu sconvolta da un cataclisma che la fece sprofondare per sempre nel mare, proprio all’apice del suo sviluppo. 

    «Nei dialoghi Timeo e Crizia vi sono molte altre indicazioni dettagliate su Atlantide, sulla sua conformazione geografica e sul tessuto socio-culturale, e viene dipinta come una società perfetta. Fu proprio questa ricchezza di dettagli ad alimentare i miti che ne pretendono l’effettiva esistenza. Basti pensare che, a oggi, c’è ancora qualche folle che la cerca. 

    «La teoria da tutti condivisa, e aggiungerei più verosimile, è che Platone volesse indicare, attraverso la descrizione di Atlantide, non una città o un continente ben precisi e realmente esistenti, ma volesse piuttosto tracciare le linee guida di un governo ideale, di una civiltà perfetta cui i greci avrebbero dovuto ispirarsi e conformarsi per l’amministrazione delle proprie città-stato. 

    «È da considerare, inoltre, che il mito del continente perduto è sorto e si è sviluppato solo molti secoli dopo gli scritti del filosofo. Inoltre, esistono numerose altre leggende, a volte anche suffragate da documentazioni pertinenti, che associano la storia di Atlantide non solo alla cultura greca, ma anche ad altre, come, per esempio, le precolombiane maya e azteca.»

    Diede una rapida occhiata all’orologio. 

    Accidenti! È già finito il tempo.

    Riaccese le luci e si accorse, senza stupirsi più di tanto, che poco meno di metà classe stava sonnecchiando, mentre alcuni altri si lasciavano andare a spudorati sospiri di sollievo. Scosse leggermente la testa, quasi divertito. 

    «Riprenderemo la prossima volta, approfondendo il discorso sull’associazione di Atlantide ad altri miti classici, precolombiani e prediluviani. Parleremo della scomparsa del continente e delle varie identificazioni, o presunte tali, che sono state paventate da studiosi e mitomani. Intanto, date un’occhiata alle dispense. Ci vediamo martedì.»

    Lentamente tutti gli studenti sfilarono fuori dall’aula. Quelli colpevoli di aver sonnecchiato, ancora frastornati dalle luci accese, uscirono a testa bassa, evitando di incrociare lo sguardo del professore.

    Non appena furono usciti tutti, il professor Lewis raccolse i suoi incartamenti e li infilò confusamente nella borsa di pelle che suo padre, il noto avvocato Albert Lewis, gli aveva regalato quando ottenne la cattedra di storia alla Columbia University di New York.

    Gli mancava molto suo padre. L’omicidio che glielo aveva portato via per sempre era ancora senza un colpevole e senza un movente. Gli capitava spesso di ripensare alle frasi di circostanza che troppe volte erano state dette per dissimulare quella che lui considerava mera incompetenza degli inquirenti.

    Stiamo lavorando sul caso, professor Lewis, non appena ci saranno sviluppi… «La informeremo tempestivamente» completò tra i denti, chiudendo la borsa con un gesto di stizza. 

    Abbandonò l’aula e percorse il lungo corridoio che conduceva alla segreteria, nell’androne principale. 

    Lo si sarebbe potuto scambiare per un comune studente fuori corso, se non fosse stato per la sua inequivocabile borsa da professore: capelli castani sbarazzini, camicia aperta e t-shirt in vista, jeans e le inseparabili LA Trainer. In molti pensavano che ne possedesse più paia di quante l’Adidas ne avesse progettate. Gli occhi celesti e la corporatura dinamica, inoltre, non lo facevano passare inosservato tra le studentesse, e si vociferava che più di una collega gli avesse messo gli occhi addosso, sognando chissà quale avventura.

    A ogni modo, per la maggior parte degli studenti il professor Lewis era una specie di mito, sia per la gentilezza e disponibilità con cui gestiva i corsi, sia per le storie che si raccontavano sul suo conto: avventure al limite dell’inverosimile che lo dipingevano come un novello Indiana Jones.

    Lui detestava quel paragone: non negava di aver avuto avventure al limite della sopravvivenza, ma si nascondeva sempre dietro un dito: «È capitato…».

    Per molti colleghi, invece, il suo modo di essere anticonvenzionale era solo motivo di scandalo e di imbarazzanti discussioni durante i consigli di facoltà, soprattutto riguardo alle sue imprese extrascolastiche. Non ultima, quella inerente al presunto ritrovamento della tomba di Alessandro Magno: una vicenda che gli era costata non poco in termini di credibilità e visibilità internazionale, gettando di riflesso in un imbarazzante scompiglio anche l’università in cui prestava servizio.

    In quell’occasione il professor Lewis era stato accusato di aver profanato la tomba di un emiro arabo molto facoltoso, appartenente a una famiglia influente nella sfera politica internazionale. Per tentare di giustificarsi, aveva sostenuto che, nelle profondità del tumulo, vi fossero celate le spoglie del grande condottiero macedone. Ma non gli credette nessuno, e tutto ciò che ottenne da quella spedizione fu uno spinoso incidente diplomatico molto complicato da risolvere per i funzionari dell’ambasciata statunitense, e la derisione collettiva dei colleghi, invidiosi dei suoi precedenti successi.

    Nonostante tutto, era comunque considerato uno dei maggiori esperti di mitologia ellenica a livello mondiale.

    Giunse in segreteria, e fu accolto dal sorriso e dagli occhioni da gatta morta della segretaria.

    «Buongiorno professor Lewis, posso aiutarla?»

    «Ciao Teresa, c’è qualcosa per me?»

    La donna restò ancora qualche secondo imbambolata a rimirare il professore, finché non si decise a tornare sul pianeta Terra e adempiere le sue mansioni, cercando nei cassetti la posta destinata a Joshua William Lewis o qualche messaggio per Josh, come veniva chiamato dagli amici. Teresa estrasse un quantitativo considerevole di riviste di settore, manifesti pubblicitari e buste da lettera. 

    «Ecco a lei, professore.» 

    «Tutto qui?» ironizzò Josh, mentre infilava a fatica la posta nella borsa. Fece per andarsene ma venne nuovamente fermato dalla segretaria. 

    «Ah! Professore?»

    «Sì?»

    «Il rettore ha comunicato di volerla vedere. Ufficio dirigenziale.»

    «Quando?»

    «Subito!» rispose Teresa come a voler dire: «Da quando in qua si lascia aspettare il rettore?».

    «Subito, eh?» ripeté Josh, augurandosi in cuor suo non si trattasse di una cosa lunga, dal momento che aveva programmato parecchio lavoro da sbrigare quel pomeriggio.

    La segretaria annuì, reclinando leggermente la testa sul lato destro, come fanno i bravi bambini quando hanno svolto il loro compitino. Josh diede un’occhiata all’orologio. «D’accordo, vado. A domani, Teresa.»

    «A domani allora, professore» salutò la donna, accompagnando il saluto con un movimento frenetico delle dita e un sorriso a trentadue denti.

    Ore 13.28

    Il bel sole romano di maggio accompagnò Josh fino all’ufficio del rettore, non molto distante dal dipartimento in cui insegnava.

    Si fermò nell’androne da una delle segretarie, una ragazza bionda con gli occhi celesti, molto carina ma non altrettanto simpatica.

    «Salve, sono il professor Lewis, il rettore ha chiesto di me.»

    La ragazza squadrò l’abbigliamento di Josh dall’alto in basso come se le si fosse parato davanti uno straccione. Scosse la testa, disgustata, e premette un tastino sul telefono, stando ben attenta a non spezzarsi le gigantesche unghie, fresche di manicure e nail-art. 

    «Rettore Dominici, ho qui davanti a me il professor Lewis, dice di avere un appuntamento con lei» annunciò, con un’impostazione di voce da centralinista degli anni Cinquanta.

    Ascoltò le indicazioni che le giungevano dall’altro capo del telefono e, dopo aver riattaccato, fece l’enorme sforzo di rivolgersi all’ospite. «Si può accomodare, primo piano.»

    Josh stava per andare verso l’ascensore, ma fu tempestivamente fermato dalla voce della segretaria. «L’ascensore è rotto» disse con velato piacere.

    Senza scomporsi più di tanto, Josh si diresse verso le scale e le affrontò col consueto dinamismo, salendole due gradini alla volta. Dopo aver attraversato il corridoio, tirato a lucido, raggiunse la stanza del rettore. Bussò alla porta. Da dietro si udì una voce cristallina. «Avanti!»

    Fece prima capolino, poi entrò. «Joshua!» esordì il rettore, sfoggiando un ampio sorriso. «Entra pure, accomodati.»

    Il suo superiore era seduto su una poltrona in pelle, dietro alla scrivania di pregiato ebano intarsiato.

    Josh chiuse la porta ed entrò con la dovuta discrezione. Nonostante l’ottimo rapporto di amicizia che lo legava al rettore, doveva mantenere un certo distacco professionale in presenza della sua segretaria personale, anch’essa nella stanza. La donna fingeva di essere intenta a battere al computer solo per nascondere gli sguardi maliziosi con i quali era solita mangiarsi il giovane professore; quando il rettore Dominici la invitò a lasciarli soli, la segretaria se ne andò, malcelando una certa delusione.

    «Cosa gli farai mai alle donne!» ammiccò il rettore, tendendo la mano. Josh rispose con un sorriso, restituendo la stretta. Il collega e amico gli indicò una delle due eleganti poltroncine davanti alla scrivania. «Accomodati.»

    «Allora Tiberio, dimmi» disse Josh, sedendosi.

    «Dove t’eri cacciato? Ho provato a cercarti sul cellulare ma era staccato. Come sempre, del resto.»

    «Scusami, ero in aula.»

    «Vuoi qualcosa da bere?»

    «No, ti ringrazio, tra poco vado a pranzo. Anzi, vogliamo andare insieme?»

    La proposta suscitò un incomprensibile imbarazzo nel rettore, e la cosa stupì non poco Josh: avevano pranzato insieme innumerevoli volte, e in tutte le occasioni non aveva nemmeno finito di proporlo che già erano in strada a discutere su cosa ordinare.

    «Ecco, vedi… oggi non posso, ti ringrazio… ho già un appuntamento per pranzo.»

    La risposta era fin troppo vaga, seppure ben nascosta da un largo sorriso: Dominici stava spudoratamente mentendo. L’espressione di Josh si fece decisamente seria. 

    «Tiberio, che succede?» 

    Il viso del rettore si fece cupo. «Amico mio, purtroppo non ho buone notizie» rispose, incrociando le mani sulla scrivania. 

    Dominici aspettò un breve istante per osservare la reazione di Josh, poi riprese. «Le problematiche sorte con quella vicenda della tomba di Alessandro Magno continuano a creare noie all’immagine della nostra università e…»

    «Tiberio, ti prego!» sbottò seccato Josh, ma cercò subito di ridimensionarsi, mostrando una certa comprensione per l’imbarazzo che aveva creato all’università. «E va bene, d’accordo, ho creato qualche problema.» 

    Il rettore annuì ampiamente provando a cavalcare l’onda di quella ammissione, ma non fece in tempo a proferir parola. Josh riprese con maggiore intensità: «Ora basta, però, con questa storia! Tu lo sai che m’hanno incastrato! Io ci ho rimesso la faccia per parare il culo a chi sai tu, e ora ho le mani legate e probabilmente la carriera finita. Quelli stanno solo cercando di nascondere la verità sull’omicidio di papà per non so quale sporco gioco politico e tutte queste chiacchiere servono solo per dire: La famiglia Lewis è composta da personaggi discutibili, le cui dichiarazioni e azioni ledono l’immagine degli Stati Uniti d’America!» recitò, simulando le virgolette con le dita. «Ma è mai possibile che tu non te ne renda conto?» 

    Il rettore distolse lo sguardo da Josh. Sapeva perfettamente che quanto stava ascoltando corrispondeva a verità. 

    «Tiberio, io voglio solo fare il mio lavoro e scoprire la verità su papà. D’accordo, non sarò l’emblema degli standard universitari, ma nemmeno uno che gioca a fare il ribelle incallito per il puro gusto di farlo. Va bene: vorrà dire che dal prossimo anno verrò in giacca e cravatta come tutti gli altri. A patto che Filatteri si tolga quel maglione rosso da bolscevico, sia chiaro.»

    Tiberio Dominici si concesse per un momento un sorriso spontaneo. Il professor Stanislao Filatteri era da tutti soprannominato Bolscevico per via della sua poco velata simpatia per il partito comunista ereditata dai genitori.

    Dopo qualche istante però il rettore tornò a guardare Josh con un’espressione seria che lasciava tuttavia trasparire quanto l’uomo si trovasse in difficoltà in quella situazione. Ciononostante, glaciale come il marmo, Dominici pronunciò le parole che mai il suo interlocutore si sarebbe aspettato di sentire: «Mi dispiace Joshua, devo allontanarti dall’università».

    La notizia piombò come la scure del boia sul collo del condannato. 

    «Allontanarmi?!» ripeté Josh, sgranando gli occhi e spalancando la bocca stupefatto. «Che significa allontanarmi

    «Mi dispiace, davvero.» 

    Il rettore Dominici cercò di mantenere tutta la freddezza possibile. I suoi occhi avevano l’espressione di chi stava andando contro la propria volontà. Josh conosceva bene quello sguardo, e comprese che in gioco dovevano esserci poteri molto più grandi di loro.

    «Credo di aver capito…» disse, alzandosi mestamente.

    Anche il rettore si alzò dalla poltrona, fece il giro della scrivania e si avvicinò al professore. Lo afferrò per le spalle con fare paterno. «Non posso farci nulla, Joshua, credimi.»

    Lewis annuì. «Ti credo, Tiberio. Come credo che dietro tutto questo non ci sia la storia dell’emiro e della sua fottuta tomba.»

    Dominici lo fissò negli occhi, esprimendogli una volta in più tutta la sua stima: aveva sempre apprezzato la capacità di intuizione di Josh.

    Si scambiarono un silente cenno d’intesa, accompagnato da una reciproca pacca sulle spalle. Lewis si voltò e lasciò la stanza, col passo spedito di chi se ne va con dignità. Tiberio Dominici tornò alla sua scrivania e aprì uno dei cassetti laterali. Poggiato sopra altri documenti c’era un comunicato con lo stemma dell’ambasciata degli Stati Uniti. Lo sfiorò con le dita.

    Che vogliono ancora dalla vostra famiglia, Joshua? 

    Ore 14.26

    Dopo aver raccolto le sue cose all’università, Josh tornò a casa. La fame ormai era passata.

    Licenziato. 

    Si sentiva come se fosse stato licenziato qualcun altro al suo posto, non poteva crederci. Aveva l’atteggiamento indifferente tipico di chi deve ancora metabolizzare una brutta notizia.

    Disfò la borsa e poggiò la posta sul mobiletto del salone, accanto al telefono. Accese la segreteria e ascoltò i messaggi, esattamente come in un qualsiasi altro giorno.

    Bip… «Joshua, sono la mamma. Ma che fine hai fatto? Avevi detto che mi avresti chiamata nel weekend. Passa a trovarmi piccolo mio, così ti preparo le lasagne che ti piacciono tanto. Un bacio, tesoro della mamma.»

    Bip… «Professor Lewis, salve, sono Margherita Angelini, quando posso passare da lei? Ho mille domande sui dialoghi Timeo e Crizia che ci ha dato stamattina. Le ho mandato anche una mail. Può rispondermi appena possibile? Grazie!»

    Bip… «Josh, sei sparito! Ti aspettavamo per vedere la partita! Totti ha fatto una doppietta. Ormai il capitano segna pure senza di te. Domenica ci giochiamo il campionato. Non puoi mancare. Fatti sentire. Ciao!»

    Bip… «Ciao, sono io. Pensavo, se ti va stasera andiamo a cena fuori. È un po’ che non usciamo. Che ne dici? Chiamami. Bacio.»

    L’ultimo messaggio lo fece sobbalzare: Laura! 

    Ora sì che cominciava a realizzare quanto avvenuto. Adesso c’era da dirlo alla sua fidanzata: già sapeva che sarebbe stato peggio di quando aveva dovuto affrontare la commissione d’inchiesta dell’Aja per la tutela dei beni culturali in merito allo scavo non autorizzato nella tomba dell’emiro.

    Le mandò un sms. Appuntamento per cena. 

    2

    CENA A SORPRESA

    Lungotevere, Roma, ore 21.16

    Il ristorante della Sora Maria doveva la sua fama alle specialità tipiche della cucina romana, preparate direttamente dalle mani della sua proprietaria, Maria Assunta Righetti, un’allegra vedova ultrasessantenne soprannominata «la regina della carbonara».

    Il suo ristorante caratteristico sorgeva nel cuore di Roma, lungo le sponde del Tevere, e benché non fosse un locale di lusso, era spesso visitato da personaggi illustri, attratti dall’ambiente gioviale ma pur sempre discreto. Il via vai di camerieri tra i tavoli, sempre affollati, era sottolineato dalle grida in dialetto romanesco, che rendevano ancora più pittoresco il luogo. Laura e Josh andavano spesso a mangiare lì, e proprio quel ristorante fu galeotto la sera del loro primo appuntamento.

    Clang!

    Il rumore delle posate lanciate sul piatto da Laura riuscì a zittire il cicaleccio di voci e risate, attirando gli sguardi di tutta la sala.

    Josh si guardò lentamente intorno, sfoggiando un sorriso rassicurante per dissimulare l’imbarazzo, mentre cercava di fronteggiare gli occhi infuocati di Laura.

    «Laura ti prego, niente scenate» disse poi a mezza bocca, sforzandosi di mantenere il sorriso.

    «Niente scenate?!» esplose lei strabuzzando gli occhi. «Ma dico, ti rendi conto? Sei stato licenziato!»

    Josh continuava a guardarsi intorno nella vana speranza che la sua situazione lavorativa non diventasse di dominio pubblico, ma era troppo tardi. Abbozzò una giustificazione: «Senti, mi dispiace, davvero, ma non posso farci nulla. E da quanto mi è sembrato di intuire nemmeno Tiberio poteva farci niente».

    «Da quanto mi è sembrato di intuire» ripeté lei, facendogli il verso. «Col tuo intuito non hai ricavato altro che guai!»

    Josh accusò il colpo, ma si morse il labbro per contenersi. Era una cosa che andava al di là delle sue forze: se qualcuno provava, anche velatamente, a dargli dello stupido si infastidiva all’inverosimile. Ciononostante, in quell’occasione dovette costringersi a misurare la sua reazione per non dare nell’occhio, quantomeno non più di quanto avesse già fatto Laura con la sua voce stridula.

    Un cameriere si avvicinò con passo felpato, apparendo dal nulla. Forse più per sincerarsi che tutto fosse tornato alla normalità che per reale necessità. «Desiderate un dolce? Un caffè?»

    Josh fece un discreto cenno con la mano per allontanarlo, ma Laura non si lasciò scappare l’occasione per infierire. 

    «Servirebbe un po’ di senso di responsabilità! Ne avete qui? E poi non vede che stiamo discutendo?! Un po’ di privacy, per favore!»

    Il cameriere si allontanò sorridendo, imbarazzato quasi quanto Josh, la cui pazienza, però, cominciava a esaurirsi. «Laura, ti prego, adesso smettila, ne parliamo in macchina. Non è il caso di dare spettacolo.»

    Laura sembrò convincersi e inforcò controvoglia gli ultimi bocconi di patate al forno, ma resistette solo qualche minuto: «E poi dici che vorresti sposarmi… e con cosa? Lo sai di questi tempi com’è difficile trovare lavoro! Che intenzioni hai? Vuoi farci vivere come gli accattoni?».

    Josh stava quasi per lasciarsi trascinare su quel pericoloso campo di battaglia, ma si impose ancora calma: disponeva di un conto bancario di un certo rilievo grazie alle retribuzioni come professore universitario e per i proventi extra delle sue ricerche, a differenza di lei che prendeva un normale stipendio da segretaria. Ma Laura ormai era un torrente in piena. 

    «Di tutti i tuoi amici, tu sei l’unico che fa queste figure! Guarda Francesco, lui sì che sa come tenersi il lavoro. Ha addirittura ottenuto una promozione di recente, e tu?»

    Francesco. Ci mancava anche lui adesso…

    «Te ne vai in giro per l’università vestito come un ragazzino e facendo finta di esserlo. Pensi di riuscire a diventare un uomo adulto nel giro del prossimo secolo?»

    Adesso era davvero troppo. 

    Josh chiamò a sé il cameriere, che si avvicinò col timore di prendersi un’altra lavata di capo; quando si vide chiedere il conto parve addirittura sollevato. Pagò Josh, chiaramente, e i due uscirono seguiti dallo sguardo carico di curiosità degli altri clienti del ristorante.

    Ore 22.32

    Il silenzio che regnava nel suv CX-5 Mazda di Josh faceva risaltare i rumori esterni, mentre le luci dei lampioni scorrevano sul parabrezza, illuminando l’abitacolo a intermittenza.

    «Ti va di andare al cinema?» esordì lui, con l’intento di riportare la situazione a livelli accettabili: non era la prima volta che una discussione nasceva e moriva da sola nel giro di qualche minuto.

    Laura teneva lo sguardo fisso fuori dal finestrino. «No, non mi va.»

    Josh dovette adeguarsi giocoforza al silenzio. Dopo qualche momento, però, fu proprio Laura a riprendere la discussione, ma stavolta lo fece con un filo di voce. 

    «Devo dirti una cosa anch’io.»

    A Josh tornò istantaneamente alla memoria l’ultima drammatica volta in cui Laura gli aveva detto «devo dirti una cosa»: stesso filo di voce, stesso tono dimesso, stesso sguardo colpevolmente accigliato. «Io e Francesco ci vediamo da un po’ e…»

    Stesso tipo di notizia. Josh strinse entrambe le mani sul volante, cercando con ogni mezzo mentale di soffocare la rabbia che stava avvampando come un incendio. Lei lo aveva già tradito e lui l’aveva perdonata. Le aveva creduto quando lo aveva implorato di continuare la loro storia, che era stato solo un errore, una debolezza, che non si sarebbe mai ripetuto, che lui era l’unico uomo con cui lei voleva condividere la sua vita, e tante altre belle parole condite da fiumi e fiumi di lacrime. Questa volta, invece, non c’era nessuna lacrima ad addolcire la pillola.

    «Credo sia il caso di finirla qui» aggiunse lei impassibile.

    Josh continuava a fissare la strada mentre un turbinio di sensazioni lo avvolgeva, annebbiandogli quasi la vista. 

    «In fondo non può funzionare. Dico, ti rendi conto? Riesci sempre a rovinare tutto! Avevi un lavoro ottimo e che rendeva bene e te lo sei fatto sfuggire di mano per correre dietro alle tue fantasticherie. Io non posso sprecare la mia vita con uno come te, che non combina altro che guai! Sei un immaturo, un infantile, un superficiale! Per te sembra tutto un gioco! Per non parlare poi di quando ti sei inventato la storia della tomba di quello lì che non ricordo nemmeno come si chiama.»

    Adesso Alessandro Magno si chiama «quello lì», pensò Josh, mentre continuava a fissare l’asfalto che scorreva veloce sotto il cofano del suv. Stava cercando di sopportare la pressione alle tempie, che si stava facendo sempre più insistente, e di trovare, nel frattempo, una valida ragione per non aprire la portiera e scaricare Laura per strada. 

    Lei, intanto, continuava a martellare come un picchio: «Prima ti fai quasi ammazzare in Africa, poi diventi lo zimbello dell’università, poi ti tolgono il lavoro di ricerca e adesso ti licenziano! E io dovrei sposare un uomo che non è capace nemmeno di badare a se stesso? Non faccio la bambinaia! E poi guardati: non hai mai indossato una cravatta e sei, anzi eri, un insegnante univ…»

    Josh inchiodò. «Laura, adesso basta.» Il tono di voce basso, risoluto e perentorio, unito allo sguardo glaciale avrebbe impietrito anche Medusa con tutti i serpenti del suo capo. «Ti riporto a casa.»

    Il silenzio tornò a invadere l’abitacolo per tutto il resto del tragitto. Lei teneva di nuovo lo sguardo fisso fuori dal finestrino, lui riprese a fissare l’asfalto.

    Arrivarono di lì a poco sotto casa di Laura, che sembrò ancora insoddisfatta dei colpi inferti al suo ormai ex fidanzato: «Dovresti farti un esame di coscienza» disse, raccogliendo in fretta le sue cose. «Chiediti perché tutto nella tua vita non arriva mai a compimento.»

    Josh non si degnò nemmeno di guardarla. Lei scese dall’auto e si avviò lungo il vialetto di casa, non prima, però, di aver sonoramente sbattuto la portiera.

    Ore 23.48

    Lasciata a casa Laura, Josh prese a fare un giro in macchina: era un modo per rilassarsi. Una ragazza così è meglio perderla che trovarla. Aveva ragione lei: non poteva funzionare. 

    Dopo qualche chilometro, notò che nello specchietto retrovisore c’erano già da un pezzo gli stessi fari. Approfittò di un semaforo rosso per usare le luci dei freni e dare un’occhiata all’interno dell’abitacolo. Alle sue spalle c’era una Jeep Cherokee con all’interno due uomini in vestito scuro che si girarono contemporaneamente verso la strada a sinistra, da dove giungeva un grosso Hummer nero coi vetri oscurati. In un istante capì.

    Senza attendere la luce verde, accelerò di scatto e sgattaiolò nel primo svincolo sulla destra. Quasi simultaneamente la Jeep e l’Hummer si precipitarono dietro di lui.

    Era la conferma: lo stavano inseguendo.

    Lo scatto iniziale gli permise di guadagnare un po’ di terreno, ma gli inseguitori dimostrarono grande abilità, e recuperarono subito lo svantaggio.

    Alternando rapidamente lo sguardo tra la strada e lo specchietto retrovisore, Josh riuscì a imboccare il Grande Raccordo Anulare, l’autostrada a tre corsie che corre tutto intorno a Roma.

    Con un’abile e pericolosa mossa guadagnò subito la corsia di sorpasso per cercare di seminare gli inseguitori, ma sia la Jeep che l’Hummer gli tennero testa, non cedendo nemmeno un metro. Seppure con un traffico molto meno intenso rispetto alle ore diurne, c’erano ancora parecchie vetture in circolazione, e Josh dovette impegnarsi a fondo per schivarle, lampeggiando e suonando il clacson come un forsennato, e guadagnandosi così le imprecazioni e gli insulti degli altri conducenti.

    Proprio mentre cercava di sorpassare un’auto sulla destra, venne sopraffatto da uno scatto preciso e istantaneo della Jeep che si infilò chirurgicamente alla sua sinistra. Nello stesso istante, l’Hummer si affiancò a destra stringendo il CX-5 di Josh in una tenaglia.

    Oh merda! 

    Lentamente ma inesorabilmente il Cherokee e l’Hummer si avvicinarono, cominciando a sfiorare le fiancate del suv di Josh. Se si fosse agganciato a una delle due vetture sarebbero schizzati tutti via in un groviglio di lamiere.

    Quando il contatto sembrava ormai inevitabile, accadde l’incredibile: Joshua vide l’auto alla sua destra sbandare pericolosamente, perdere velocità e lottare per riuscire ad accostare senza ribaltarsi, le ruote posteriori entrambe a brandelli. Diede un’occhiata nello specchietto retrovisore e vide un’altra auto, all’apparenza un suv Toyota, superare l’Hummer, ormai fuori gioco, per andare a posizionarsi dietro all’altro veicolo inseguitore. Lewis vide comparire, dal sedile passeggero, quella che sembrava una pistola con silenziatore; l’istante dopo, anche le gomme del Cherokee esplosero, facendo perdere aderenza al mezzo che solo grazie all’abilità del guidatore non si ribaltò. Il Toyota fu svelto a evitarlo, mettendosi stavolta proprio sulla scia di Josh. 

    Ma cosa…? 

    Lewis non era sicuro di aver capito bene cosa stava succedendo e, nel dubbio, pigiò sull’acceleratore cercando di guidare a zig-zag per non concedere un facile bersaglio all’uomo con la pistola. Il Toyota però mantenne una certa distanza, pur restandogli dietro, e alla prima uscita lampeggiò con i fari –  come se volesse salutarlo! – e sparì. 

    Joshua si ritrovò così solo sulla strada, con le tempie che gli pulsavano a causa dell’adrenalina e delle domande che gli rimbalzavano in testa: chi c’era in quelle vetture che per poco non lo faceva secco? E chi era il misterioso salvatore della Toyota?

    Mentre riportava la velocità del CX-5 entro i limiti e guidava verso casa, controllando di continuo negli specchietti che non ci fossero altri inseguitori, per un attimo gli tornarono in mente le parole di Laura e gli venne quasi da ridere: Prima ti fai quasi ammazzare in Africa, poi diventi lo zimbello dell’università, poi ti tolgono il lavoro di ricerca e adesso… cercano di nuovo di ammazzarmi. E poi mi salvano, completò tra sé mentre le sue labbra si incurvavano in un sorriso nervoso. 

    Le ultime vicende avevano ridotto notevolmente la sua cerchia di amici, e i pochi che gli erano rimasti non erano certo tipi tali da girare armati di notte per fargli da guardie del corpo. Lewis trasse un lungo respiro e cercò di rilassarsi: in fin dei conti era ancora tutto intero. E sapeva già a chi chiedere aiuto per svelare il mistero. 

    Ore 01.38

    «Gran bella giornata» mormorò rientrato in casa, mentre accendeva lo stereo e le note di At last, nella splendida interpretazione di Etta James, invadevano morbidamente il salone. Si versò un po’ del solito Matusalem invecchiato quindici anni, e andò in bagno per medicarsi e fare una bella doccia. 

    Dopo essersi asciugato, tirò giù d’un fiato il rum, prese il suo notebook e fece una videochiamata in interconnessione con gli Stati Uniti. Dall’altro capo, con un sottofondo invadente di musica da rave, rispose una voce giovanile che sembrava essere nel pieno di un party.

    «Hey prof!»

    «Matt! Ma che diavolo succede lì?»

    Matthew Davis era uno dei più brillanti collaboratori di Josh, nonché uno dei suoi migliori amici, uno di quei ragazzi che poteva definirsi un vero e proprio genio informatico senza timore di falsa modestia. Tuttavia, come ogni genio informatico che si rispetti, la sua straordinaria abilità era impiegata più spesso in bravate che non a favore della collettività. Ancora adolescente, era riuscito a crackare numerosi siti, prediligendo quelli meno accessibili e più sorvegliati. Aveva tentato di penetrare anche in quello della Columbia University per cambiarsi il voto di un esame ma, sfortunatamente per lui, venne beccato. Fu proprio Josh che, dopo avergli fatto fare quelli che definì «due utili e costruttivi giorni di prigione», pagò la cauzione e lo prese nel suo staff.

    «Niente di che… una festicciola. Piuttosto, tu: che ci fai ancora in piedi a quest’ora? È giovedì!»

    Josh era decisamente serio. «Ho bisogno del tuo aiuto.»

    Matt capì che non era una telefonata della serie «facciamo due chiacchiere», e si allontanò immediatamente dal baccano, trasferendo la videochiamata nella sua stanza.

    «Okay. Eccomi» disse dopo aver acceso la webcam e reso visibile il pandemonio che regnava nella sua camera: sembrava vi fosse scoppiata una granata. «Hai una brutta faccia, prof. Problemi d’insonnia?»

    «Hanno solo cercato di ammazzarmi, ma devo avere qualche santo in paradiso perché un suv Toyota è apparso dal nulla e mi ha tirato fuori dai guai.» 

    «Ma non mi dire! Non avevi detto che dopo la storia dell’emiro e della tomba saresti stato lontano dai guai per un bel pezzo?! Per la serie: quando c’è la coerenza, c’è tutto» aggiunse con una risatina di scherno.

    «Matt, finiscila o ti fai il resto dei giorni di carcere che devi ancora scontare.» 

    «Va bene, va bene, calma.»

    Josh assunse un’espressione ancora più seria: non era il momento di fare teatrini.

    «D’accordo. Chi è che vuole farti fuori?»

    «Veramente speravo potessi aiutarmi tu a rispondere a questa domanda.»

    «Certo, sono stato assunto dalla Cia proprio ieri. Volevano farmi fare anche Spiderman, ma non avevo il costumino rosso e non se n’è fatto più niente…» Josh rimase in silenzio, incrociando le mani sotto il naso in attesa che Matt si rendesse conto di quanto fosse fuori luogo. «Okay, stavo scherzando. Vediamo che si può fare, dammi una traccia.»

    Josh diede una sommaria descrizione della Jeep, dell’Hummer e del Toyota, cercando di ricordare i numeri di targa dei primi due, mentre per il terzo la cosa era impossibile: non si era mai avvicinato abbastanza da permettergli di vederlo bene. Matt armeggiò con il computer e tirò fuori alcuni dati. «Sia la Jeep che l’Hummer sono state prese in leasing dall’ambasciata brasiliana di Roma, ma quasi tre anni fa. Saranno sicuramente rubate. Per quanto riguarda l’altra auto, invece, buio completo. Se non mi dai neanche una cifra della targa, tanto varrebbe fare il censimento di tutti i suv Toyota di Roma e dintorni, inclusi quelli ancora in concessionaria!»

    «Nient’altro?»

    «No, amico, niente. Con questi pochi dati è come voler trovare una lettera tra le giacenze del Postal Service di New York.»

    Josh stette a riflettere un po’, poi ebbe un flash. «Ma certo, la posta!» 

    Matt, intanto, sorseggiava un cocktail. «Posta?»

    «Sì, aspettami qui.»

    Josh prese il mucchio di posta dal tavolino in salone e la scorse facendosi strada tra riviste di storia e mitologia, comunicazioni dell’università e immancabile pubblicità. Finalmente trovò la lettera che cercava e che gli era già balzata all’occhio in segreteria.

    Eccola!

    La aprì, strappando freneticamente la busta.

    Ambasciata degli Stati Uniti in Roma,

    Gentile Mr Joshua William Lewis, con la presente Le inviamo formale richiesta di comparizione presso la nostra sede di via Vittorio Veneto in Roma, il giorno 15 maggio p.v. alle ore 11.00.

    La natura della convocazione è strettamente confidenziale e Le sarà comunicata in sede per ragioni di tutela della Sua privacy.

    La informiamo, inoltre, che la presente richiesta ha carattere d’urgenza e La invitiamo, pertanto, a non declinare l’invito se non per motivi strettamente necessari, per

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