I Simpson: Trent'anni di un mito
By Moritz Fink
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Book preview
I Simpson - Moritz Fink
SATURA
frontespizioMoritz Fink
I Simpson – Trent’anni di un mito
ISBN 978-88-6393-935-4
© 2019 Leone Editore, Milano
Titolo originale: The Simpsons – A Cultural History
© 2019 by Moritz Fink
Traduzione: Roberta Zuppet
www.leoneeditore.it
Per mamma e papà, che non hanno visto un solo
episodio dei Simpson in vita loro; per Alex, che da un’eternità
guarda con me le avventure della famiglia gialla
(il più delle volte spontaneamente, ogni
tanto contro la sua volontà); e per la piccola Annie,
che considererà I Simpson un bizzarro programma
televisivo di quando i suoi genitori erano giovani.
SOMMARIO
INTRODUZIONE
Un pianeta giallo
PARTE PRIMA
Dalla controcultura alla cultura del divano
1. «Allora ci incontriamo di nuovo, Mad Magazine!»
2. La nascita dei Simpson
3. La strada dei Simpson verso il successo
PARTE SECONDA
Springfield sulla mappa
4. A casa al 742 di Evergreen Terrace
5. Una città di nome Springfield
6. Un’istituzione della cultura pop
PARTE TERZA
La simpsonizzazione
7. La rinascita dell’animazione
8. Il merchandising dei Simpson
9. I Simpson nella cultura del remix
CONCLUSIONE – Il futuro dei Simpson
APPENDICE – Trent’anni e trenta episodi cruciali.
Un compendio dogmatico
NOTE
BIBLIOGRAFIA
RINGRAZIAMENTI
INTRODUZIONE
Un pianeta giallo
Avete mai avuto un momento Simpson? Io sì, poco ma sicuro, e, dato che state leggendo questo libro con molta probabilità anche voi.
Molti appassionati della serie hanno vissuto questa esperienza: situazioni di vita reale che ci ricordano le scene dei Simpson. Per esempio, quando uno spilungone alto due metri spunta fuori da un Maggiolino Volkswagen. O quando una bambina fa fare la figura degli scemi a un gruppo di adulti sbugiardando le loro frottole. O ancora, quando apri di fila due vaschette di gelato alla vaniglia, cioccolato e fragola e ci rimani male perché il cioccolato è finito in entrambe, mentre la vaniglia e la fragola sono intatte.
Se queste situazioni suscitano dei ricordi, probabilmente siete o siete stati fan dei Simpson (oppure i vostri familiari hanno un ottimo gusto in fatto di gelato). In tal caso, scommetto che conoscete già l’argomento di questo volume come le vostre tasche. Ma continuate a leggere. Vi prometto che scoprirete molte altre cose sul nostro vecchio amore. Vediamo… Sapevate che Homer ha un antenato svedese? Davvero? D’oh!
Se invece tutto ciò vi suona poco chiaro, vi suggerisco ugualmente di continuare a leggere. Grazie a questo libro, capirete a fondo la magia e il fascino dei Simpson. Credetemi, so di cosa parlo. La famiglia gialla mi ossessiona da quasi tutta la vita.
UN FENOMENO MEDIATICO GLOBALE
I Simpson sono un’istituzione della cultura pop, un po’ come i Rolling Stones per la storia della musica rock. In tutto il mondo vi imbatterete in persone che, come me, vanno pazze per questa sitcom. Considerate il seguente incontro che ho avuto, legato anche a uno dei miei momenti Simpson preferiti.
Era l’autunno del 2007 (attacco introduzione musicale flashback/sogno). Ero uno specializzando in studi americani all’università di Monaco e avevo appena cominciato a scrivere la tesi. L’argomento? I Simpson, il mio programma televisivo prediletto quando ero adolescente. Mi ero trasferito nella periferia di Monaco qualche mese prima e ora mi ritrovavo a fare il pendolare. Durante uno dei tanti viaggi in treno verso il campus – ci voleva un’ora ed era il periodo dell’Oktoberfest – mi capitò di dividere lo scompartimento con tre giovani passeggeri anglofoni, due donne e un uomo. Saltò fuori che erano due canadesi e un australiano.
La conversazione era piacevole, ma ci limitammo a parlare del più e del meno finché l’uomo mi domandò della politica bavarese, toccando un tema complesso in una fase piuttosto turbolenta. Il presidente della Baviera, Edmund Stoiber, si era appena dimesso dopo quattordici anni in carica e i miei compagni di viaggio avevano sentito parlare delle elezioni statali in programma per l’anno successivo.
È sempre difficile spiegare la politica nazionale agli stranieri, ma un aspetto che mi sembrava emblematico era l’impopolare progetto del presidente per la costruzione di una costosissima monorotaia superveloce tra la stazione principale di Monaco e l’aeroporto della città, a quaranta chilometri circa di distanza. L’idea mi aveva sempre ricordato l’episodio della quarta stagione dei Simpson in cui il truffatore Lyle Lanley convince con l’inganno gli abitanti di Springfield a installare una monorotaia.¹
Il problema era che in Germania, come in molti altri Paesi europei, I Simpson arrivavano in versione doppiata e io avevo guardato quell’episodio particolare solo in tedesco, perciò non conoscevo il nome inglese del futuristico tipo di ferrovia in questione. Riassunsi la trama dell’episodio, descrivendo ciò che accomunava i Simpson e la stramba realtà della politica bavarese. Fu un tentativo piuttosto goffo, ma i tre sconosciuti colsero immediatamente il parallelo. «La monorotaia!» esclamarono in coro. Esatto! Quattro persone provenienti da diverse parti del mondo risero di quanto la politica del mondo reale possa, senza volerlo, essere satirica. All’improvviso non condividemmo solo uno scompartimento su un treno, ma anche una mentalità plasmata dallo stesso linguaggio della cultura pop. In senso figurato, stavamo parlando simpsonese.
Questo aneddoto dimostra fino a che punto I Simpson siano un fenomeno universale. Lo scripted show più longevo nella storia della televisione americana è ormai diventato il simbolo di una cultura mediatica globale, mandato in onda ogni minuto di ogni giorno in uno di quasi tutti i Paesi del mondo.² I Simpson pervadono la cultura pop. La serie e i suoi personaggi sono in vendita ovunque, dai negozi di souvenir a Las Vegas ai bazar di Camden Town e Calcutta. In tutto il pianeta incontriamo Homer & company in ogni forma possibile e immaginabile: stampati su capi di abbigliamento, scolpiti nella sabbia, tatuati sulla pelle umana.
Come altri programmi TV di successo, I Simpson sono, come sottolinea Jonathan Gray, non solo una serie televisiva, ma anche «un marchio, un mondo e un insieme di personaggi che invadono indumenti, giocattoli, videogame, film, spot pubblicitari, libri, fumetti, DVD, CD».³ E non è finita qui.
A eccezione forse di Topolino e Paperino di Walt Disney o del franchise di Star Wars di George Lucas, nessun fenomeno mediatico ha segnato la cultura americana quanto I Simpson. All’inizio del nuovo millennio, il 91% dei bambini e l’84% degli adulti americani erano in grado di riconoscere un membro della famiglia gialla⁴ e, oltre a numerosi riconoscimenti, la serie ha ricevuto la sua stella sulla Hollywood Walk of Fame nel 2000. Nel 2002, la caratteristica esclamazione di Homer Simpson, D’oh!, fu inserita nell’Oxford English Dictionary e, in occasione del ventesimo anniversario del programma nel 2009, lo U.S. Postal Service emise una serie di francobolli dedicata alla sitcom.
Esempio del trionfo della cultura pop americana nel mondo, I Simpson hanno trasformato il globo in un pianeta giallo: un culto internazionale nato intorno a un programma così tipicamente americano e, allo stesso tempo, così critico verso la cultura americana.
Il successo mondiale dei Simpson dipende in gran parte dall’umorismo universale della serie. In altre parole, il mondo è pieno di Homer e carente di Lisa, e tutti conosciamo funzionari incompetenti o corrotti come Clancy Winchester e il sindaco Quimby (tanto in Bolivia quanto in Baviera).
ASCESA E CADUTA DEI SIMPSON
Il culto dei Simpson non riguarda soltanto i fan irriducibili del programma. Significativamente, coinvolge anche persone che seguivano la serie con frequenza più o meno regolare quando andava per la maggiore negli anni Novanta (come me); persone che hanno visto solo alcuni episodi o frammenti (come mia sorella o il mio ex insegnante d’inglese); o persone che non hanno mai guardato un episodio, ma conoscono la sitcom perché ne hanno sentito parlare da altri o perché hanno visto i personaggi fare bella mostra di sé su qualche T-shirt (mia madre e mio padre appartengono a questa categoria).
A proposito del fattore culto dei Simpson, è fondamentale mettere l’accento sulla loro evoluzione insolitamente lunga e sul loro gradimento di massa. Quando la serie vide la luce all’inizio degli anni Novanta, entusiasmò tanto i futuri fan quanto i critici (alcuni dei quali non avrebbero tardato a diventare fan a loro volta). Al contrario di commentatori di orientamento conservatore come il presidente americano George Bush e la first lady Barbara Bush, che definirono il programma «la cosa più stupida» che avessero mai guardato, la sitcom fu accolta con favore da altri, che apprezzarono l’eccellente livello della sua scrittura comica. Sulla scia di Saturday Night Live e Late Night with David Letterman, entrambi trasmessi dalla NBC, I Simpson della Fox diventarono una sorta di punto di riferimento per la commedia televisiva intelligente. La rivista Time li incoronò miglior programma TV del XX secolo, con l’approvazione di illustri critici televisivi come Alan Sepinwall e Matt Zoller Seitz, che addirittura li reputano il più grande scripted show americano di tutti i tempi.⁵
Comparire nella serie è ancora considerato un enorme onore. Un esempio è Stephen Hawking che, parlando via Skype con i nerd della sitcom Cbs The Big Bang Theory, scherza sul fatto di non aver mai ricevuto il Nobel in vita sua: «Non importa. Sono stato nei Simpson».⁶
Ciononostante, benché il programma abbia goduto di una popolarità ininterrotta, i fan e i critici ritengono che la sua epoca d’oro sia ormai tramontata. Negli anni, la serie ha perso di incisività e rilevanza, e molti sostengono che la sua satira è diventata sempre meno caustica e le trame ridondanti e ripetitive.
Potrebbe dipendere dal livello a cui gli autori misero inizialmente l’asticella della creatività. Come osservano Allie Goertz e Julia Prescott in 100 Things The Simpsons Fans Should Know and Do Before They Die, gli autori crearono un prodotto diverso dagli altri «tentando di spingersi più in là del necessario, crogiolandosi nel presupposto di essere migliori di quanto avrebbero dovuto».⁷ Però, come succede a Lisa Simpson, quando sei abituato a prendere sempre dieci e lode, il primo otto è una grossa delusione.
In effetti, la comicità dei primi Simpson sembrava insieme così brillante e complessa che – già nel 1993, dopo l’episodio della quarta stagione Siamo arrivati a questo: un clip show dei Simpson – i fan cominciarono a domandarsi quale sarebbe stata «la peggiore puntata in assoluto».⁸ Occorse un po’ di tempo prima che anche i critici televisivi sentissero spegnersi l’entusiasmo, affermando che il programma aveva perso parte della sua freschezza.⁹ Tuttavia furono principalmente gli spettatori a creare una cronologia critica della serie, una timeline suddivisa in Era della formazione (1987-1991), Età dell’oro (1992-1997) e Anni stagnanti (dal 1997).¹⁰ (Qui è doveroso ricordare come un simpsonofilo mi abbia invitato a non dimenticare diversi magnifici episodi trasmessi tra il 1997 e la metà degli anni Duemila, che costituirebbero l’Età dell’argento della sitcom).
I Simpson hanno innescato varie controversie nel corso della loro evoluzione. All’inizio il loro umorismo sfrontato e sarcastico fu una provocazione per i conservatori; poi, a mano a mano che la serie invecchiava e gli autori inventavano trame più surreali (per esempio, Homer che va nello spazio o in tournée con gli Smashing Pumpkins, o il direttore Skinner che diventa un impostore), i fan impazzirono. Inoltre, mentre la popolarità dei Simpson garantiva qualcosa di simile a una licenza di comportamento, diversi gruppi si sentirono offesi dagli stereotipi camuffati da satira (per esempio, gli australiani, i brasiliani e alcuni indoamericani). Basti dire che la celebrità del programma trasforma qualunque controversia lo riguardi in uno scoop irresistibile per i mezzi d’informazione che amano citare I Simpson nei loro titoli.
COSA CI ASPETTA?
Quando Donald Trump fu eletto presidente degli Stati Uniti, i media cominciarono a vedere i Simpson come una magica sfera di cristallo capace di pronosticare il futuro. In realtà, la serie aveva previsto questa follia (come fecero Garry Trudeau e Ritorno al futuro II) perché gli autori volevano descrivere uno scenario esagerato che ricordasse il secondo film della saga con Michael J. Fox.¹¹ Be’, come la maggior parte di noi, furono costretti a rendersi conto che le idee più assurde non sono necessariamente irrealizzabili (o, come scrive più volte Bart sulla lavagna nell’episodio successivo all’elezione del presidente, AVERE RAGIONE FA SCHIFO). Il pronostico sulla vittoria di Trump resterà probabilmente la più folle profezia dei Simpson a essersi avverata, ma ce ne sono altre non meno scioccanti.
Si consideri l’episodio della quinta stagione che mostra l’esibizione circense dei domatori tedeschi «Gunter ed Ernst», aggrediti dalla tigre bianca Anastasia.¹² Quella che era una parodia di Siegfried e Roy, un duo di illusionisti di Las Vegas, diventò una tragica realtà dieci anni dopo, quando Roy Horn fu ferito gravemente da una delle tigri bianche dello spettacolo. Oppure si prenda la scena orwelliana dei Simpson – Il film in cui si vede una sala gigantesca con gli agenti della National Security Agency che, seduti davanti a schermi, intercettano le telefonate dei cittadini americani.¹³ Specificamente, risale a sei anni prima che Edward Snowden rivelasse dettagli inquietanti sulle pratiche di sorveglianza di massa dell’Nsa.
Ripercorrendo la storia dei Simpson, possiamo isolare diverse sinistre istantanee che sembrano confermare il superpotere profetico della sitcom. Alcuni teorici del complotto sostengono addirittura che il programma ha anticipato gli attentati dell’11 settembre perché un episodio del 1997, La città di New York contro Homer, contiene una scena in cui la copertina della rivista New York raffigura il profilo delle Torri gemelle del World Trade Center accanto alla scritta «9$».¹⁴
Questo libro, però, non parla di teorie del complotto, ma di fatti. I capitoli che seguono presentano le ispirazioni, i creatori e gli sponsor di quello che sarebbe diventato uno dei fenomeni mediatici più affascinanti della fine del XX secolo e dell’inizio del XXI. Nella seconda parte del volume analizzerò la famiglia gialla, nonché il folto gruppo di personaggi secondari e i temi centrali che hanno reso I Simpson un documento chiave della storia culturale occidentale. Infine esaminerò l’eredità artistica della serie e il suo più ampio impatto culturale.
Non sappiamo come i posteri giudicheranno I Simpson. Li considereranno l’ennesimo reperto culturale rimasto come scarto del nostro tempo, come quando il robot Bender di Futurama, il programma gemello della serie, scopre un mucchio di pupazzi a forma di Bart Simpson accanto a un souvenir di Star Trek?¹⁵ Oppure il culto della sitcom perdurerà e i momenti Simpson continueranno ad accadere, con la scritta di Bart sulla lavagna – AVERE RAGIONE FA SCHIFO – che echeggia tutt’intorno? Chissà… Ma con I Simpson non si sa mai. Ci sono ancora molte cose che sicuramente ci sconcerteranno.
Parte prima
Dalla controcultura alla cultura del divano
1
«ALLORA CI INCONTRIAMO DI NUOVO, MAD MAGAZINE!»
Gli antenati dei Simpson nei fumetti
Homer Simpson è un personaggio dei cartoni animati che ha assunto molte forme. In una di queste, porta Bart e Lisa all’immondezzaio del quartiere, dove trovano una scatola vuota con una scritta in caratteri asiatici e una faccia identica alla sua.¹ Scoprono che la scatola conteneva un detersivo per i piatti giapponese e che la faccia appartiene a Mr Brillio, la mascotte della società produttrice. Homer rintraccia la ditta, colpevole di aver usato il suo volto senza chiedere il permesso, ma un video promozionale rivela che Mr Brillio è una joint venture tra un’azienda ittica che ha come simbolo un pesce stilizzato e una società elettrica che come logo ha scelto una lampadina. La copia esatta di Homer, Mr Brillio, si rivela essere il risultato della sovrapposizione dei due emblemi e la somiglianza è una semplice coincidenza.
Naturalmente, Mr Brillio non esiste nella realtà; la mascotte fu inventata dagli autori dei Simpson per creare una storia spiritosa, che dimostra anche come i personaggi famosi dei cartoni animati diventino oggetto di mutazione transculturale, concessione di licenze commerciali e violazione del copyright.
Se l’idea di Homer come testimonial è divertente, forse è ancora più irresistibile il pensiero che questo personaggio – per non parlare di Bart e degli altri membri della famiglia Simpson – possa ispirarsi ad altre fonti della cultura pop del passato, alcune risalenti addirittura a diversi decenni prima.
Nel 1920, molto prima della nascita di Homer, il fumettista svedese Oscar Jacobsson aveva creato Adamson, un personaggio con tre capelli e con il sigaro in bocca che pare una versione in bianco e nero di papà Simpson. Concepito inizialmente come fumetto per la testata svedese Söndags-Nisse, il personaggio fu esportato anche in altri Paesi, compresi gli Stati Uniti, dove comparve in giornali come l’Evening Star, che aveva sede a Washington.
Non fraintendetemi. Non sto dicendo che, inventando Homer Simpson, Matt Groening abbia in qualche modo «preso a prestito» Adamson (se mai sapeva della sua esistenza). Piuttosto, il sosia svedese di Homer mette in evidenza la relazione tra I Simpson e il veicolo del fumetto come elemento centrale dell’evoluzione del programma. Guardando la serie attraverso la lente dei fumetti, si scopre una discendenza di ragazzini animati che indossano T-shirt con messaggi virali, nonché una storia di imitazione, parodia e protezione di ciò che alcuni potrebbero considerare un semplice insieme di linee e cerchi disegnati.
MATT GROENING: UNA VITA A FUMETTI
Per quasi tutto il XX secolo, l’intrattenimento televisivo e i fumetti ebbero una pessima fama culturale. La situazione è cambiata radicalmente, ma fu negli anni Novanta inoltrati che i produttori di fumetti e serie TV affrontarono la sfida della rivendicazione di legittimità. All’inizio l’editore di Batman, la DC Comics, usò il nome del creatore Bob Kane per indicare l’originalità artistica. Benché Batman fosse il prodotto di un intero team di creativi, l’etichetta «Bob Kane» funse da elemento di marketing, diffondendo l’idea, peraltro alquanto romantica, che la serie fosse la creazione di un unico ideatore anziché il risultato di una sorta di processo industriale.²
In modo analogo, I Simpson furono promossi come un programma «creato da Matt Groening», come annunciano sfacciatamente in ciascuna sequenza iniziale. La scritta non serve soltanto ad attribuire il giusto merito al creatore dei personaggi principali, ma è anche una scelta deliberata per dare una firma alla serie (in realtà, i titoli di coda e il logo sono scritti in un font ispirato alla calligrafia di Groening). Anche se diverse persone diedero un contributo fondamentale alla nascita dei Simpson, l’immagine di Groening come «fumettista pirata underground [che] si era impossessato delle frequenze televisive»³ conferì alla serie uno stile al passo coi tempi per gli spettatori in grado di riconoscerne l’agognato tocco subculturale.
I segni lasciati da Groening sui Simpson sono innegabili. Si inizia dai nomi dei protagonisti – Homer, Marge, Lisa e Maggie –, ripresi da quelli dei suoi familiari. L’ispirazione per i nomi di altri personaggi (per esempio, Quimby, Lovejoy, Flanders) gli venne inoltre dai toponimi di Portland, nell’Oregon, la sua città natale. Un altro elemento di questo tipo è l’indirizzo fittizio della famiglia, 742 Evergreen Terrace, la via in cui Groening visse da bambino.⁴ Con questi riferimenti personali, I Simpson fanno eco alla tendenza autobiografica che prese piede nell’ambiente dei fumetti indipendenti negli anni Settanta e Ottanta, con protagonisti come Harvey Pekar e Robert Crumb.
Il trampolino di lancio grazie al quale Groening diventò il noto creatore di quello che forse è il programma televisivo animato più famoso di tutti i tempi fu la striscia a fumetti Life in Hell. Con i suoi conigli antropomorfi Binky e Bongo e la coppia di cloni gay Akbar e Jeff, Life in Hell conteneva elementi che sarebbero diventati le inconfondibili firme visive di Groening nei personaggi dei Simpson: un rudimentale stile grafico dai contorni marcati, quattro dita su ogni mano, enormi occhi sporgenti e sovramorso esagerato. Life in Hell esprimeva inoltre lo spirito antiautoritario che avrebbe alimentato anche l’aspirazione politica dei Simpson. Per Groening, uno dei messaggi centrali della serie è che «non sempre le autorità morali hanno a cuore i vostri interessi. Insegnanti, presidi, ecclesiastici, politici… per i Simpson sono tutti buffoni».⁵
A differenziare I Simpson dalle precedenti forme di programmazione televisiva fu il fatto che i produttori e gli autori si dichiaravano fan della cultura pop, il che potrebbe collegarsi alla visione che Groening aveva del programma. Come molti fumettisti contemporanei, non fece mai mistero della sua ammirazione per gli artisti della tradizione del fumetto indipendente, come Robert Crumb, Justin Green, Art Spiegelman, Gary Panter, Charles Burns o Lynda Barry. Come punti di riferimento elenca inoltre alcune strisce del passato: Krazy Kat (1913-1944) di George Heriman, Li’l Abner (1934-1977) di Al Capp, Pogo (1948-1975) di Walt Kelly e Peanuts (1950-2000) di Charles Schulz. In particolare, i personaggi che ruotano intorno al Charlie Brown di Schulz funsero da modelli per i suoi primi schizzi. Come Groening dichiarò in un’intervista, l’influenza di Schulz si rifletteva nelle magliette a righe stile Charlie Brown di Akbar e Jeff.⁶ «Sono cresciuto con i fumetti» disse durante un’intervista nel 1994. «Li sfogliavo prima ancora di imparare a leggere.»⁷ Grazie a queste competenze, riuscì a disegnare i membri della famiglia Simpson con tratti somatici riconoscibili – come i capelli appuntiti di Bart –, in linea con una discendenza di personaggi icona dei cartoni animati, come Jimbo,⁸ il teppista di Gary Panter, o Batman e Topolino, «identificabili dalla sagoma».⁹
C’ERA UNA VOLTA THE YELLOW KID
I resoconti della genesi dei Simpson trascurano spesso di fare riferimento ai fumetti come importante fonte d’ispirazione. Tuttavia, una volta individuato, il legame della serie con la tradizione fumettistica diventa lampante, riallacciandosi a uno dei pionieri del genere: The Yellow Kid di Richard F. Outcault. Questo abbinamento non vuole tanto mettere in rilievo l’evidente parallelo del colore giallo come elemento iconografico e identitario per entrambi questi fenomeni della cultura pop, quanto sottolineare le somiglianze tra Bart, la star originale dei Simpson, e il personaggio di Yellow Kid. Entrambe le serie prendono le mosse dalla figura di un ragazzino sfrontato che poi viene ampiamente riprodotta e commercializzata benché – per quanto possa sembrare ironico – sia presentata dall’angolazione satirica della critica sociale.
Pubblicate con diversi titoli in giornali e riviste americane tra il 1895 e il 1898, le strisce di Yellow Kid inaugurarono un elemento che sarebbe diventato parte integrante del genere fumettistico: un personaggio ricorrente e riconoscibile che funge da collegamento visivo tra le singole puntate della stessa serie. È interessante notare come il personaggio di Yellow Kid apparisse distaccato dall’azione – rappresentata su un pannello –, atteggiamento spesso confermato dal fatto che il protagonista guardava direttamente il lettore. Un altro modo con cui Outcault esplorò le possibilità della striscia a fumetti fu aggiungere un commento alle immagini scrivendo le parole sugli oggetti, in particolare la camicia da notte di Yellow Kid.
Benché l’integrazione di parola e testo su pannelli non fosse una novità, le strisce di Outcault erano innovative perché usavano pannelli accuratamente disegnati e zeppi di dettagli per commentare le condizioni sociali dell’epoca. Attraverso una schiera di personaggi perlopiù in età infantile, il fumetto esprimeva opinioni politiche e sociali che si facevano beffe delle autorità, della cultura politica americana, delle distinzioni di classe, di una certa visione del tempo libero e dell’impatto di un’emergente società consumistica. Nonostante il mordente satirico (o forse proprio a causa sua), The Yellow Kid diventò molto popolare. L’America accolse di buon grado il ragazzino con la camicia da notte gialla, che ben presto sarebbe diventato il remunerativo simbolo della sua testata, il New York World di Joseph Pulitzer.
Quel che seguì si può considerare il primo battage pubblicitario costruito intorno a un personaggio della cultura pop nell’età moderna, la prima «febbre gialla», riflessa nel successo dei Simpson cent’anni dopo. Questa operazione fu accompagnata da un’ondata di articoli di consumo ispirati a Yellow Kid: ogni genere di prodotti autorizzati e non, dalle figurine di cioccolato ai ventagli per signore.¹⁰ Consapevole del valore del personaggio, Outcault riuscì a ottenere il copyright per la sua creazione, comprese le caratteristiche visive. La Biblioteca del Congresso, tuttavia, si rifiutò di concedergli l’esclusiva. Appigliandosi a «un’irregolarità della domanda», decretò che Outcault deteneva i diritti d’autore soltanto sul nome del personaggio, non sul suo aspetto.¹¹