Margini
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Book preview
Margini - diego barsotti
- voci -
Scatole Parlanti
© Utterson s.r.l., Viterbo, 2022
Scatole Parlanti
Collana: Voci
I edizione digitale: aprile 2023
ISBN: 978-88-3281-608-2
Progetto di copertina: Luca Verduchi
Immagine di copertina: Giancarlo Barsotti
Progetto grafico interni: Stefano Frateiacci
www.scatoleparlanti.it
Dedicato a tutti quelli che non hanno tempo di leggere
e a quelli che leggono anche se non ne hanno il tempo.
CAPITOLO 1.
PERDERSI
Il bianco non ammetteva repliche: lo avvolgeva come una pellicola trasparente e appiccicosa. Poco male, pensò, conosceva quella pista come le sue tasche. L’aveva fatta centinaia di volte, anche con la nebbia, anche senza vedere nulla come quel giorno. Qui sotto ci deve essere il bivio: sulla sinistra il drittone che riporta verso la seggiovia; sulla destra, dopo un leggero falsopiano, la parte più bella della Roccione, con il muro in contropendenza che si snoda tra le rocce e i primi alberi. Nessun problema.
Ma il rollio stanco della seggiovia non si sentiva più. Una prima avvisaglia di paura s’insinuò tra le sue spalle con un brivido che strisciava gelido. In quel momento spostò il baricentro del peso a valle per iniziare una nuova curva, ma rotolò ingloriosamente nella neve fresca, sbuffando i fiocchi che gli entravano in bocca e maledicendo quelli scivolati nel bavero della giacca. Nessun problema, pensò rialzandosi, sono soltanto finito qualche metro fuori pista.
Arrancando con gli sci che affondavano fino a metà scarponi, risalì qualche metro a scaletta in obliquo, per tornare sulla pista. L’umido cominciava a diffondersi lungo la schiena sudata. Tutto intorno bianco: nessun rumore, nessun riferimento. Non un alito di vento. Soltanto neve e nebbia. Nebbia pesante. Che gli impediva persino di ragionare, per esempio per capire dove fosse la pendenza. Nessun problema, ripeté a se stesso ancora una volta. La valle è una sola. Raggiunta la pista, basta fare due curve e sarò sul drittone. Oppure, giù sul muro filante dove spesso mettono i paletti delle gare. Già, dove cazzo sono i paletti che delimitano la pista? Ce n’è uno ogni trenta metri, impossibile non vederli. Com’è che invece non ci sono?
Si sforzò di guardare più intensamente oltre il bianco vitreo della nebbia. Nulla. E più si impegnava e più sentiva la nebbia che penetrava nel suo corpo, correva attraverso l’apparato respiratorio, assaliva gli arti superiori, s’impossessava degli organi vitali e finiva la sua corsa raggiungendo la punta dei piedi. Un alito ghiacciato che sapeva di morte e di anice stellato.
Il buio è un’altra cosa. Il buio non è totalizzante. C’è sempre uno spiraglio lontano, un barlume che si intravede, un riflesso. Al buio poi, piano piano, poco alla volta, gli occhi si abituano: possono intuire le forme, i confini, riescono a sentire
le cose. Il buio, in fondo, conserva in sé la speranza della luce: basta un fiammifero, un accendino, una scintilla per corromperlo. Nella nebbia invece, nella neve in mezzo alla nebbia, non ci sono attenuanti. E neppure alibi. Ci sei solo tu ad annaspare nell’indefinito. È bianco e basta. Bianco assoluto che ingloba tutto e azzera qualsiasi differenza. Come un forno crematorio. Gelido. Il bianco della nebbia nella neve è un numero primo.
Le gambe si facevano sempre più pesanti. Gli sci a ogni passo sollevavano milioni di cristalli di ghiaccio. Perse ancora l’equilibrio, si ritrovò di nuovo a ruzzolare nella neve e questa volta rimase fermo, rannicchiato nella piccola culla prodotta dalla sua caduta silenziosa e inerme. La neve era l’unica cosa che esisteva. E che poteva vedere, sentire, baciare. La tastò con i guanti che cominciavano a essere fradici, poi strappò via dalla faccia la maschera. Chiuse gli occhi nella speranza di riaprirli nel sole. Sapeva perfettamente che gli sarebbe bastato un secondo, un flash di luce per capire dove si trovasse, riprendere la discesa e raggiungere gli amici che lo aspettavano nel rifugio davanti a un ponce bollente.
Quando era risalito da solo, per fare l’ultima discesa, la nebbia non sembrava così fitta. E anche quando era sceso dalla seggiola, in vetta, la visibilità era ancora faticosa ma sufficiente. Come centinaia di altre volte.
Si rimise in piedi, e questa volta riuscì a trovare una debole pendenza, così lasciò scivolare gli sci in una traccia confusa che sperava già percorsa da molti. Sentiva che non era più nella neve fresca – aveva l’impressione che fosse stata calpestata più che sciata – ma si trovava in mezzo a cumuli che si stavano ammollando per l’umidità. Tagliò in linea retta per una trentina di metri, in direzione – sperava – della seggiovia, ma sapeva benissimo che si trattava solo di una supposizione. Inutile girarci intorno. Aveva completamente perso il senso dell’orientamento!
Questa volta a farlo cadere fu un sasso che intercettò lo sci a valle. Nonostante l’andatura lenta l’impatto fece staccare l’attrezzo e lui finì nuovamente nella neve. Sedutosi, accarezzò la pietra: era tondeggiante, grande come un mezzo pallone da calcio e vicino ce ne erano altre. Il guanto sinistro su cui si era appoggiato per attutire la caduta diventò in pochi secondi gelido. Era finito dentro un torrentello, di quelli che d’inverno quasi non si notano e ci si accorge che esistono soltanto quando a primavera si fanno le ultime sciate. Pensò con sollievo che finalmente aveva un punto di riferimento, ma subito dopo si rese conto di non aver mai visto alcun rivolo d’acqua in quella zona.
La paura lo sorprese di nuovo alle spalle, mentre era ancora intento a guardarsi i guanti zuppi di freddo. Era impossibile rimettere lo sci in quelle condizioni. Sforzandosi di rimanere calmo si tolse anche l’altro, li unì insieme e li piantò nella neve, cercando un punto in cui la neve fosse abbastanza profonda da tenerli saldamente insieme, così che appena la nebbia si fosse dissolta, potessero essere facilmente visibili e recuperabili. L’indomani da lì sarebbero transitate centinaia di persone che si sarebbero chieste che cosa ci facessero degli sci piantati in mezzo alla pista, o poco distante, ma non importava. E poi se fosse stato fortunato avrebbe potuto recuperarli la sera stessa, prima della chiusura degli impianti. Perché la nebbia, se vuole, arriva e se ne va in pochi secondi: senza chiedere il permesso, silenziosa e letale come l’anestesia che ti accompagna nell’aldilà, tenendoti per mano, per riprenderti al momento opportuno, quasi sempre.
Tenne con sé le racchette, slacciò gli scarponi e cominciò a scendere seguendo il ruscello. Calcolò che a occhio e croce avrebbe dovuto fare a piedi almeno trecento metri di dislivello. Ma non c’è alcun problema, si disse per la quarta volta, questa volta senza crederci, stretto da una paura fottuta e vischiosa. Si sentiva come un palloncino a forma di unicorno rosa sfuggito dalle mani appiccicose di zucchero filato di un bambino: in balia di venti invisibili che la nebbia nascondeva ai suoi sensi. Appeso all’esile filo immaginario salì dondolandosi docile nel niente fino a ritrovarsi nella troposfera bizzosa e spericolata. Vorticò a lungo come un ballerino provetto in quella danza sciamanica e quando si risvegliò, riaprendo gli occhi debolmente, la prima cosa che vide fu ancora il bianco. Li richiuse per tornare a volteggiare tra le nuvole silenziose, ma la luce che filtrava dalle palpebre lo disturbava. Forse il sole stava finalmente invadendo il regno delle nebbie.
Riaprì a fatica le palpebre e questa volta riconobbe un bianco asettico e artificiale: si trovava in un luogo chiuso, questa era l’unica cosa certa, anche se inspiegabile.
La prima cosa che riuscì a vedere fu il soffitto a volte, come nelle grandi cantine medievali; i mattoni erano stati violentati da qualche mano inesperta con la vernice bianca e il margine tra le pareti si intuiva debolmente, i grandi neon spandevano dappertutto lo stesso tono di bianco: una luce uniforme e ospedaliera. Era sdraiato, supino. E si trovava effettivamente su una barella o qualcosa del genere, un lettino forse, piuttosto largo ma troppo corto, così che i piedi e mezza gamba restavano sospesi in aria. Nient’affatto comodo. Si girò di lato e una fitta lancinante lo travolse alla nuca:
«Non si preoccupi signor Sinone. Ha soltanto battuto la testa ed è svenuto».
La voce roca, titubante, aveva origine da un punto imprecisato dietro di lui.
Si voltò con prudenza, issandosi sui gomiti.
«Venga, la aiuto ad alzarsi».
L’offerta di aiuto proveniva da un uomo sulla sessantina, vestito un po’ all’antica sotto un largo camice bianco. Il viso massiccio, dal naso importante, era sproporzionato rispetto al corpo e il mento sporgeva in maniera evidente: la fronte ampia si confondeva coi radi capelli pettinati all’indietro, ispidi. La carnagione era olivastra.
«La prego, la stavamo aspettando» disse mentre lo aiutava a scendere da quel lettino che sembrava in tutto e per tutto la barella in miniatura di un ospedale giocattolo.
«Dove sono i miei sci?» chiese toccando terra, mentre altre due persone si avvicinavano a lui. Indossavano entrambi lo stesso camice bianco sotto il quale si intravedevano altri vestiti démodé. Erano tremendamente simili al primo uomo che lo aveva aiutato a scendere dal lettino.
«Le ho chiesto dove sono i miei sci. E i miei scarponi, la giacca, il casco… e i miei guanti!» ripeté con un tono disperatamente perentorio, mentre provava a svincolarsi dall’abbraccio poco gradevole dei due nuovi arrivati, un po’ più giovani e meno loquaci del primo. Ma anche incredibilmente forti. Nonostante fossero ben più bassi di lui lo sollevarono quasi da terra, costringendolo a dibattersi con le gambe come il povero Pinocchio catturato dai carabinieri.
Lo lasciarono in un ampio vestibolo invitandolo con gesti ossequiosi ad aspettare ancora un secondo prima di andarsene con la sua roba: la giacca, il casco, gli scarponi erano infatti appoggiati su un vecchio termosifone in ghisa, basso e lungo, che con il suo azzurro scalcinato correva lungo quasi tutta la parete. Completavano l’arredamento quattro panche che accompagnavano due tavolini, un attaccapanni sbilenco, alcuni quadri raffiguranti cavalli da gara disegnati a matite colorate e ormai scoloriti dal tempo. I suoi vestiti e accessori da sci appesi in quella scenografia sbiadita anni Sessanta, apparivano vivacemente fuori luogo.
«Ah! Al diavolo!» imprecò in uno scatto d’ira, arraffando i suoi abiti e dirigendosi verso la seconda porta, davanti a lui.
«Aspetti, signor Sinone!».
La voce che lo fece fermare era quella di una ragazza mora, dai lunghi capelli ondulati. Avrà avuto intorno ai trent’anni e sotto l’immancabile camice bianco, indossava un corpetto malizioso che lasciava scoperti buona parte dei seni. Gli occhiali sembravano un modello di Ray-ban anni Settanta: lenti chiare, grosse e a forma di dosso rovesciato, incorniciate da un metallo fine e dorato; sotto si intuivano pesanti pennellate di rimmel.
Dietro di lei, altri personaggi degni di un carrozzone carnascialesco avanzavano con circospezione: chi col carrellino portavivande, chi con lo stetofonendoscopio messo al contrario, chi col camice imbrattato. Tutti sembravano imbarazzati o impauriti, ma lui non avrebbe saputo dire quale delle due cose prevalesse sull’altra.
«Ma insomma si può sapere cos’è questa pagliacciata?» gridò l’uomo dopo qualche istante, lasciando la mano che aveva già sul pomello della porta, mentre un guanto gli scivolava a terra.
«Signor Sinone ha ragione, lasci che le spieghi, si sieda qui un attimo» disse la ragazza allargando una delle panche, poi batté le mani delicatamente e fece dileguare con un cenno tutta la compagnia che le era venuta appresso.
«Signorina guardi, devo proprio andare» rispose l’uomo rassegnato, avvicinandosi e sedendosi accanto alla giovane «i miei amici mi stanno aspettando. Vi ringrazio per avermi salvato e curato, mi dica quanto vi devo, questo deve essere sicuramente un ambulatorio privato e lei la direttrice, evidentemente. E poi firmo per le dimissioni. Non mi venga a dire che sto male e che devo passare la notte qui in osservazione perché non resto. Ora sto benissimo, grazie ancora» disse cercando il portafogli nel giaccone.
«Sì, in effetti questa potrebbe essere definita una specie di clinica, o forse più un laboratorio scientifico» disse la giovane donna, diventata molto seria «ma ciò non la riguarda».
L’uomo la guardò attonito. Ci mancava solo questa!, pensò. Poi si ricordò che quella sera c’era la festa per il compleanno di sua figlia che lo aspettava con gli altri al rifugio, saliti in massa in montagna per godere della prima vera nevicata di quell’anno disgraziato per le stazioni appenniniche.
«Avete dimenticato cosa è giusto fare» continuò la ragazza, come in tranche «delegando la morale a raffigurazioni idealistiche prodotte dalla vostra mente: da una parte saccheggiate il pianeta e dall’altra chiedete ai vostri ologrammi che avete disegnato onnipotenti, di preservarlo. L’antropocentrismo degli uomini è patetico e la data indicata nella casellina consumare preferibilmente entro il
è già stata superata da un pezzo. Forse siete già oltre il punto di non ritorno».
«Signorina la prego, le assicuro che conosco molto bene i limiti dello sviluppo, il rapporto Brundtland, gli studi del club di Roma…» rispose stizzito, convincendosi di essere finito in mezzo a una massa di ambientalisti invasati capeggiati da quella specie di hippy che lo guardava fisso negli occhi, senza mai distogliere il suo sguardo un po’ sognante un po’ disperato.
«Bene, non la tedierò ulteriormente. Veniamo a noi: la scorsa settimana ha smascherato l’ennesima bufala sulle scie chimiche. Un lavoro ben fatto, pulito, ironico, come sa fare lei. Bisogna ammettere che è piuttosto bravo nel suo mestiere di cacciatore di bufale, ma anche questa non è una cosa che ci interessa ora».
La ragazza si interruppe, lo sguardo continuava a insinuarsi nella mente dell’uomo, che cominciò a sentirsi a disagio. Pensò che banalmente avessero controllato i suoi documenti mentre era privo di sensi. E che per avvertire qualcuno avessero cercato in rete i suoi riferimenti. Nulla di male certo, però…
«Quello che ci interessa è soltanto la fotografia che ha pubblicato a corredo del suo lavoro» continuò la ragazza, che ora sembrava diventata donna.
Ancora una pausa, più breve, ma più sofferta.
«In quella foto si vede una scimmia. Somiglia a un macaco di Giava e probabilmente è stata scattata nella foresta sacra di Ubud».
«Non so che dirle dottoressa» a quel punto pensò che fosse meglio apparire accondiscendente, per liberarsi prima possibile da quella situazione assurda «solitamente mi rivolgo a un sito specializzato dove sono disponibili migliaia di foto scaricabili gratuitamente. In quel caso avevo bisogno di una banalissima scimmia come ce ne sono milioni per smontare la fake del…».
«Sì sì, lo sappiamo di cosa parlava l’articolo, ma a noi interessa la foto».
Sinone