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Aspenia n. 100: Noi Italiani
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Aspenia n. 100: Noi Italiani

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Aspenia, la rivista trimestrale di Aspen Institute Italia diretta da Marta Dassù, raggiunge il traguardo del numero 100. È stata fondata nel 1995 e, dal 2002, è pubblicata da Il Sole 24 Ore. “Una rivista di discussione transatlantica – la definisce il Presidente Giulio Tremonti – che rappresenta un luogo di incontro tra mondo delle imprese e altri mondi”. Secondo il suo fondatore Giuliano Amato “Aspenia è una rivista “responsabile” che è riuscita a stare dalla parte della storia e della sua velocità. Nessuno dei grandi temi degli ultimi anni è assente dalle sue pagine”. Come spiega Marta Dassù “Aspenia ha anticipato spesso i grandi mutamenti della politica e dell’economia internazionale e interpretato la trasformazione del sistema occidentale negli ultimi decenni”.

Il numero 100 della rivista - in uscita a fine marzo- è interamente dedicato all’Italia o meglio a “Noi Italiani”, quasi una sorta di “rovesciamento” della sintesi attribuita (forse erroneamente) a Massimo D’Azeglio, per cui al momento dell’Unità si era fatta l’Italia, ma andavano a quel punto fatti gli italiani. Si è piuttosto di fronte a un circolo vizioso, per cui i limiti della società civile sono legati a doppio filo con quelli del sistema paese? E, allora, come si ricompone il “puzzle Italia” ? Hanno contribuito al numero 100 di Aspenia, tra gli altri, Giuliano Amato, Giulio Tremonti, Massimo Livi Bacci, Lucio Caracciolo, Michele Valensise, Mario Del Pero, Giulio Sapelli, Antonio Calabrò, Stefano Cingolani, Maria Latella, Marina Valensise, Gianni Riotta, Federico Rampini e Carlo Jean.

L’Italia si porta dietro dalla sua stessa nascita come Stato, con il Regno di Sardegna, i Savoia e l’opera di unificazione guidata da Cavour l’annosa questione del rapporto tra rango, ruolo e presenza stabile nei maggiori consessi internazionali. Cavour riuscì a creare, tra i “paesi di prim’ordine” un’accondiscendenza adeguata alle esigenze di un “paese di second’ordine” – la futura Italia. La domanda da porre oggi – spiega nell’editoriale di apertura Giuliano Amato – è “se siamo ancora un paese di second’ordine”. Certamente abbiamo avuto degli sprazzi da paese di prim’ordine, come dimostra la storia dell’integrazione europea: quattro paesi con eguale diritto di voto in Consiglio – Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia. L’unione monetaria nasce, così come Schengen, da un’intesa franco-tedesca a cui l’Italia si è aggregata con un sostegno attivo. Inoltre, dall’Atto unico di Milano nel 1986 ha preso il via il completamento del mercato unico. E nel 1992 l’Italia ha dato il suo assenso al fondo europeo di coesione, passando così da beneficiario netto a contributore netto. Oggi, con l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, l’Italia assume un ruolo ancora più strategico. Nell’ottica di quella che Janet Yellen, ha definito “globalization among friends”, si può pensare a rilanciare il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che si arenò nel 2016 e perseguirlo in modo selettivo, per quei prodotti e servizi in cui si mira ad una vera autonomia strategica dalle supply chain globali. L’Italia può diventare l’ago della bilancia in ambito di Consiglio europeo, e questo permetterebbe di compiere progressi verso una politica industriale europea.

Dare una valutazione oggettiva dell’Italia come sistema-paese può disorientare l’osservatore: esistono evidenti punti di debolezza, antiche questioni culturali irrisolte, carenze istituzionali. Eppure, ci sono anche nicchie di eccellenza e una tenuta complessiva che emerge soprattutto nei momenti di crisi. C’è quindi da risolvere un “puzzle Italia”. Partendo da una consapevolezza: l’Italia è oggi – come sostiene Giulio Tremonti – “l’unico paese in Europa fortemente duale, ovvero caratterizzato, al suo interno, da una enorme differenza tra Nord e Sud. Negli anni Novanta, anche per colmare tale divario, si è innescato il meccanismo perverso del debito pubblico trasformando così la democrazia italiana
LanguageItaliano
PublisherIlSole24Ore
Release dateMar 27, 2023
ISBN9791254832653
Aspenia n. 100: Noi Italiani

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    Book preview

    Aspenia n. 100 - AA.VV.

    editoriale

    Una conversazione con Giuliano Amato: L’eredità di Cavour

    ASPENIA. L’Italia in quanto sistema paese ha problemi, carenze e difetti ben noti; sono questioni strutturali di cui gli italiani per primi – comuni cittadini, accademici e studiosi, perfino la stessa classe politica – si lamentano regolarmente. Eppure, i problemi restano e sembrano impossibili da sradicare. È possibile che ciò si spieghi almeno in parte con la circostanza che la società civile nel complesso sia migliore rispetto all’apparato istituzionale? Insomma, che gli italiani siano migliori dell’Italia, gli italiani siano più dinamici del loro paese, e che dunque vi sia un grande potenziale inespresso che aspetta solo di emergere? Sarebbe il rovesciamento della sintesi attribuita (forse erroneamente) a Massimo D’Azeglio, per cui al momento dell’unità si era fatta l’Italia ma andavano a quel punto fatti gli italiani. O siamo piuttosto di fronte a un circolo vizioso, per cui i limiti della società civile sono legati a doppio filo con quelli del sistema paese?

    AMATO. Si può riflettere, in questa prospettiva, su una tesi che ha proposto Giuseppe De Rita, tra i maggiori interpreti della società italiana: ha sostenuto che gli italiani hanno una propensione alla mediocrità. Credo in effetti che agli italiani capiti di lasciarsi andare a una routine mediocre in ambiti diversi della loro vita. Si va dal guardare programmi televisivi di poca utilità e qualità, avendo a disposizione altre opzioni che ci arricchirebbero di più – e che troveremmo alla fine anche più appassionanti – fino al dramma della piccola impresa italiana, che da decenni non riesce a essere innovativa perché ha poche risorse e non può permettersi l’innovatore sovversivo rispetto alle abitudini consolidate. Arriviamo poi alla pubblica amministrazione, nella quale prevale tuttora una generale preferenza per le figure professionali dei giuristi a scapito delle competenze economiche – è ad esempio il caso della Corte dei Conti, a dispetto dei suoi compiti che consiglierebbero appunto di rafforzare decisamente la presenza di expertise economica. Questa idea che la cultura giuridica sia meglio qualificata a decidere cosa è giusto e cosa no è una delle nostre pigrizie nazionali. Direi quindi che in Italia esiste quantomeno un’abitudine alla mediocrità nella quale tendiamo spesso a cadere.

    Però, al fianco di questa propensione radicata, esistono alcune tendenze in netto contrasto, che mi colpiscono. Primo caso: le imprese italiane esportatrici sono ormai al livello delle loro mitiche concorrenti tedesche, e in alcuni settori specifici a un livello anche più alto. Sono imprese fortemente innestate sui mercati internazionali, radicalmente innovative, capaci di reagire in fretta e a volte perfino in anticipo alle sfide del momento. Si pensi alla transizione verso le fonti energetiche rinnovabili, un settore nel quale molte di queste aziende hanno già cambiato il loro mix di fonti prima ancora che le politiche pubbliche orientassero i modelli di business in quella direzione. E infatti le imprese esportatrici negli ultimi anni hanno continuato a ottenere ottimi risultati, fino a far crescere il nostro PIL al di sopra delle aspettative in una fase difficile come quella attuale.

    Un secondo caso è quello del sistema educativo italiano, di cui giustamente si rimarcano le varie inadeguatezze, ma che comunque produce competenze e talenti che trovano il modo di farsi notare e apprezzare quando scelgono di lavorare all’estero. Sono fuoriusciti del nostro sistema, che poi raggiungono eccellenti risultati nelle più diverse discipline e professioni. Basta ad esempio andare a Londra – nonostante Brexit e le relative difficoltà per gli stranieri – per rendersi conto della presenza importante di italiani in settori dinamici come quello della finanza.

    Abbiamo poi un’altra forma di eccellenza che è comunque il frutto di una parte del sistema paese, ed è quella sportiva: si pensi al nuoto – un caso macroscopico – ma anche allo sci (almeno femminile), alla pallavolo, al tennis e ad alcuni settori dell’atletica. Quei campioni non sembrano poter venire dalla pigra Italia della mediocrità; eppure è così, perché sono giovani che hanno dei formidabili formatori e una grande volontà di affermarsi.

    Abbiamo quindi degli italiani che sono in grado di esprimere al massimo le qualità utili per un paese.

    L’altra faccia della medaglia è però lo Stato, la macchina organizzativa e l’apparato delle istituzioni: qui la situazione sembra molto diversa. È davvero così?

    Complessivamente sì, a cominciare dalla pubblica amministrazione, che peraltro è di grandissima importanza per l’efficienza del paese. Sostengo senza mezzi termini – come ho scritto in un libro dal titolo Bentornato Stato, ma – che lo Stato serve perché l’economia funzioni, e trovo che sia un’osservazione perfino banale. E se lo Stato funziona male ne risentono non soltanto l’economia ma anche i servizi sociali. L’economia italiana è fatta, anche per questa ragione, di chiaroscuri: direi alcuni chiarissimi, ma anche molte sfumature di grigio.

    E questa realtà si riflette, inesorabilmente, sul peso internazionale, ossia sul fatto che l’Italia resta tuttora il paese al quale la telefonata del presidente americano di turno arriva tre ore dopo rispetto a Londra, Berlino e Parigi. Abbiamo avuto la breve eccezione di Mario Draghi come presidente del Consiglio, perché Draghi faceva parte più dell’establishment internazionale che non di quello italiano; avvalendosi di questo vantaggio di partenza inusuale, faceva parte del primo giro delle telefonate. Ma la situazione complessiva del paese lascia aperto questo problema di peso internazionale.

    È l’annosa questione del rapporto tra rango, ruolo, e presenza stabile nei maggiori consessi internazionali, che in fondo l’Italia si porta dietro dalla sua stessa nascita come Stato, con il Regno di Sardegna, i Savoia e l’opera di unificazione guidata da Cavour.

    Esattamente, Cavour. Sono rimasto incantato nel rileggere i discorsi parlamentari di Cavour, sia prima sia dopo l’unificazione. Fu capace, tra ostacoli e strettoie che stritolerebbero chiunque, di allargare gli spazi di quelle che lui chiamava le politiche liberali in un sistema politico che era piuttosto chiuso e reazionario. E riuscì, nel concerto internazionale di allora, ad avere quanto bastava per creare le condizioni dell’unità d’Italia: per farlo, sapeva benissimo che si doveva creare, sempre nelle sue parole, tra i paesi di prim’ordine un’accondiscendenza adeguata alle esigenze di un paese di second’ordine – la futura Italia, appunto. I discorsi parlamentari da presidente del Consiglio d’Italia coprono un periodo brevissimo, in realtà, tra il marzo e il giugno del 1861, ma quel ragionamento è ben presente già prima, quando Cavour parla in occasione della guerra di Crimea (1853-56); o quando accetta le annessioni alla Francia di Nizza e della Savoia, come prezzo per ottenere ciò che si ottiene con l’armistizio di Villafranca (che nel luglio 1859 pone fine alla seconda guerra d’indipendenza). Cavour identifica e spiega le linee che un paese di second’ordine deve seguire nel contesto internazionale.

    La domanda da porre oggi è: siamo ancora un paese di second’ordine? In quella sua descrizione non c’era offesa, visto che si trattava di una nazione e di uno Stato che stavano appena nascendo. È anche vero però che la Germania, unificata nello stesso periodo, era nata già di prim’ordine, per così dire.

    Come noto, un passaggio essenziale per l’unificazione come la Questione romana ebbe una diretta dimensione internazionale, in particolare nel rapporto con la Francia: Cavour pose due condizioni per risolverla, ossia che la Francia appunto non si opponesse, e che fosse garantita la libertà della chiesa. La prima di quelle condizioni si realizzò grazie a circostanze esterne, cioè la crisi istituzionale francese che portò alla Terza Repubblica pochi giorni prima della breccia di Porta Pia (era il 4 settembre 1870). Questo aprì la strada al nuovo Stato italiano e alla soluzione della questione pontificia, e comunque in quel momento fu contratto un debito con la Francia – che in realtà si oppose ma non in modo diretto, essendo ovviamente concentrata sulle sue vicende interne.

    Partendo allora da questa vicenda storica, che rimane un’eredità fondante del nostro passato nazionale, va capito se restiamo tuttora una potenza di second’ordine. Se manchiamo di peso e di rango. E per quali ragioni di fondo, se è davvero così?

    Siamo certamente percepiti così dagli altri, per ragioni interne e internazionali. C’è una ricorrente domanda che viene posta su quale sia la collocazione dell’Italia, e che risale soprattutto all’esperienza della prima e ancora più della seconda guerra mondiale, con il rovesciamento delle nostre alleanze a conflitto in corso. È in parte mito e in parte realtà, uno stereotipo negativo che purtroppo ha una sua parte di verità. L’immagine è quella di una scarsa affidabilità dell’Italia rispetto alle grandi scelte internazionali, anche negli anni della guerra fredda: un paese che professava la sua fedeltà atlantica ma che aveva pur sempre il Partito comunista più grande dell’Europa occidentale. Era inevitabile che ciò ponesse un punto interrogativo per i nostri partner occidentali, come si vide ad esempio quando il PCI entrò nella maggioranza di governo a fine anni Settanta e si pose il quesito se avrebbe potuto condividere le informazioni segrete in ambito NATO. Ricorre quindi, durante l’intero arco della guerra fredda, un sospetto diffuso sulla tendenza italiana a stare da entrambe le parti: una sorta di mediocre bravura, come direbbe De Rita, che ci segue fino al giorno d’oggi quando sulla vicenda ucraina l’Italia sembra dare una lettura bivalente, quantomeno nel senso che ci sono voci, in Parlamento e al di fuori di esso, a favore di una linea decisamente diversa da quella seguita sia dal governo Draghi che dal governo Meloni. E quando vi sono comunque importanti voci dissenzienti, è legittimo chiedersi cosa accadrebbe se cambiasse la maggioranza.

    Ciò che impressiona è pensare che perfino della Germania, che pure ha la sua vocazione orientale, il Nord Stream 2 e i suoi strettissimi legami con Gazprom, le sue molte esitazioni e ambiguità, si pensa meno che vi sia un rischio di inaffidabilità. In un certo senso, il peso della Germania è tale che può stare da una parte sola.

    Ma stiamo parlando di uno stereotipo, smentito ad esempio dal ruolo svolto dall’Italia nella difficile gestione delle crisi nella ex-Jugoslavia e soprattutto del Kosovo dal 1999. E, in ottica di coesione transatlantica, storicamente è molto più affidabile l’Italia della Francia, né i governi italiani hanno mai espressamente criticato la supremazia del dollaro come fecero Charles De Gaulle e poi Giscard d’Estaing (che lo definì privilegio esorbitante). Sempre in chiave transatlantica, nella fase di avvio del consorzio Airbus l’Italia decise di continuare a lavorare con Boeing – giusto o sbagliato che fosse, ma non certo un segnale di scarsa fedeltà atlantica. Si può dire perfino che in Europa due paesi hanno tradizionalmente avuto una relazione speciale con Washington: la Gran Bretagna ma anche l’Italia, appunto.

    Eppure, con la percezione internazionale dell’Italia dobbiamo fare i conti, che ci piaccia o no.

    Certo, ma a volte abbiamo anche usato la nostra partecipazione all’UE o alla NATO per ottenere dei risultati domestici. È la famosa teoria del vincolo esterno come strumento positivo, come mezzo per andare nella direzione giusta e mantenere una certa disciplina. Può essere una gabbia ma forse anche un’opportunità: il problema è che crea una percezione distorta della responsabilità nazionale. Sarà mai possibile decidere che compiamo delle scelte perché è nel nostro interesse e non perché ci venga imposto da altri?

    Qui siamo al secondo motivo fondamentale di una certa subordinazione, un motivo interno. Come presidente del Consiglio, ho provato a sostenere che dobbiamo fare certe cose perché è nel nostro interesse ed è giusto farle – non perché ce le chiede qualcuno. Lo ha fatto Mario Monti, e anche Tommaso Padoa Schioppa, arrivando perfino a spiegare che le tasse vanno pagate perché è bello pagarle – in questo, con poco successo per la verità. È però un dato di fatto la nostra condizione economica finanziaria di paese prigioniero del suo debito pubblico, e quindi sempre costretto a contrastare le politiche di paesi che sono in condizioni migliori da quel punto di vista.

    Al tempo stesso, il vincolo esterno deve essere accettato: è talmente vero che anche Giorgia Meloni, nel suo ruolo di presidente del Consiglio, è stata finora molto allineata sulle politiche ortodosse imposte dal contesto europeo, pur essendo leader di un partito che in Europa critica e respinge quell’impostazione, facendo tuttora parte di un gruppo europeo di partiti sovranisti. Sa benissimo che il treno italiano deraglierebbe se facesse diversamente, per l’azione dei mercati prima ancora che degli altri governi o della Commissione.

    In realtà abbiamo poi degli sprazzi da paese di prim’ordine. Dobbiamo ricordare la storia dell’integrazione europea: ci sono stati a lungo quattro paesi grandi, cioè i quattro con eguale diritto di voto in Consiglio – Germania, Francia, Gran Bretagna, ma anche Italia. Eppure l’Italia non era realmente considerata alla stregua degli altri tre, come hanno dimostrato in moltissime occasioni le consultazioni informali (a tre, appunto) che solitamente hanno coinvolto i governi di Roma solo in una fase successiva. Il concerto europeo è stato insomma quasi sempre un formato tre e mezzo, con l’Italia in una collocazione scomoda.

    In effetti, il primo momento di vero protagonismo italiano fu proprio nella fase fondativa dell’integrazione europea, e qui dobbiamo riconoscere fino in fondo il ruolo dell’altro grande leader politico, dopo Cavour: Alcide De Gasperi. Non diversamente da Cavour, De Gasperi, da presidente del Consiglio dell’Italia appena uscita dalla seconda guerra mondiale, si trovava a rivolgersi alle altre maggiori potenze affidandosi alla vostra personale cortesia. Da quelle condizioni difficilissime, con un minimo spazio di manovra diplomatica, l’Italia uscì come uno dei paesi fondatori del progetto europeo. Ed è così che diventò poi uno dei quattro grandi con diritto di voto paritario.

    Ci saranno altri momenti di partecipazione attiva da parte nostra: l’unione monetaria nasce da un’intesa franco-tedesca, senza dubbio, come anche Schengen a cui l’Italia si è aggregata con un sostegno attivo. Però c’è anche l’ingresso nel G7 a metà anni Settanta, che per molti fu davvero sorprendente proprio alla luce della reputazione non buonissima di cui godeva allora il paese in molti ambienti internazionali.

    Abbiamo poi avuto l’Atto unico, a Milano nel 1986, dal quale ha preso il via il completamente del mercato unico – davvero un passaggio decisivo.

    Come ha raccontato Gianni De Michelis, il voto italiano ebbe un ruolo determinante nell’incontro informale organizzato a Parigi da François Mitterand nel dicembre 1989, poco dopo la caduta del Muro di Berlino: Helmut Kohl premeva per la riunificazione a fronte di varie preoccupazioni degli altri partner. Quando si dovette decidere se l’Europa complessivamente sarebbe stata favorevole, la scelta (positiva per Kohl) che sbloccò il negoziato arrivò dal nostro primo ministro, Giulio Andreotti. Proprio Andreotti, peraltro, che pure diceva di amare la Germania così tanto da preferirne due.

    Altro caso importante fu la decisione del 1992 sul fondo europeo di coesione, a favore soprattutto della Spagna, quando ero presidente del Consiglio: l’approvazione richiedeva in sostanza l’assenso dell’Italia, che passava in quel modo dalla condizione di beneficiario netto a quella di contributore netto – cosa che avvenne, senza voci particolarmente contrarie anche nel nostro panorama politico interno.

    Ma come potremmo leggere la situazione attuale? Esistono spazi per iniziative concrete da parte italiana, che siano nell’interesse nazionale e rispondano anche all’esigenza di rendere più competitiva l’Europa?

    Credo fermamente di sì. L’Italia continua a essere valutata, sul piano internazionale, come una mezza misura, ma avrebbe tutte le possibilità di passare in modo stabile alla misura piena o alla misura superiore. Con l’uscita della Gran Bretagna dall’UE – che io considero un dato temporaneo, essendo pronto a scommettere che in un modo o nell’altro Londra troverà un passaggio per rientrare nell’arco di un decennio – abbiamo un ruolo molto importante da giocare. Pensiamo al contesto in cui ci troviamo, di economie parzialmente deglobalizzate alla ricerca di forme di autonomia strategica: è fondamentale non aprire la strada a una fase di crescenti sovvenzioni nazionali, di aiuti esclusivi alle proprie imprese. Sarebbe un vero suicidio per l’economia europea e un suicidio ancora peggiore per l’Italia in particolare.

    La tesi che sembra prevalere in questo momento, in reazione al massiccio Inflation Reduction Act americano, non mi persuade affatto: visto che è difficile costituire un fondo sovrano o comunque uno strumento comune per sostenere una politica industriale, allentiamo le limitazioni ai sussidi di Stato. Poi si vedrà. È un ragionamento che non regge, anzitutto perché i numeri sono perfettamente noti e sappiamo fin d’ora che un paese come la Germania sarà in grado di mobilitare risorse molto superiori a quelle dell’Italia, e di quasi tutti gli altri. Ecco, in un caso del genere sono il primo a chiedere un po’ di tutela dell’interesse nazionale, che secondo me coincide assolutamente con un fondo europeo per tenere a freno gli aiuti nazionali. Senza questo sforzo comune non faremo affatto la famosa autonomia strategica, finendo al contrario per disperdere risorse preziose a sostegno dei tradizionali campioni nazionali.

    Anzi, in questo quadro l’Italia dovrebbe essere la prima ad agganciare gli Stati Uniti nella logica che il segretario al Tesoro, Janet Yellen, ha definito globalization among friends. Significa riprendere e rilanciare il concetto del TTIP – il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che si arenò nel 2016 dopo circa tre anni di negoziati sotto la presidenza Obama negli Stati Uniti e fu poi affondato dall’arrivo di Donald Trump – e perseguirlo ora in modo selettivo, per quei prodotti e servizi in cui vogliamo una vera autonomia strategica dalle supply chain globali. Non dimentichiamo che le obiezioni che emersero allora erano piuttosto specifiche, di tipo ambientale ad esempio; ma in parte erano anche pretestuose, soprattutto da parte europea.

    Potremmo aggiungere che oggi la situazione è radicalmente cambiata rispetto ad appena pochi anni fa: la Russia si è avvitata in una fase di isolamento economico che non durerà poco, e la Cina pone tutti i problemi che sappiamo in termini di nostra dipendenza strategica da alcuni beni e prodotti sensibili, soprattutto in campo tecnologico. Da parte loro, gli Stati Uniti devono capire che – mentre azzeriamo i rapporti energetici con la Russia e teniamo sotto controllo gli scambi tecnologici con la Cina – abbiamo bisogno come europei di un nuovo TTIP riformato, o comunque di un vero accordo di libero scambio nell’area transatlantica. Forse anche con un ruolo rafforzato del G7. C’è anche un’opportunità per l’Italia in tutto questo?

    Certamente, soprattutto perché la Germania ha avuto una scossa economica superiore alla nostra, sono crollati insieme vari pilastri del suo modello di sviluppo; e la Francia ha avuto un riflesso sostanzialmente gaullista nella risposta all’Inflation Reduction Act. Entrambe, per ragioni diverse, si sono mosse in chiave nazionale; la risposta dovrebbe essere invece propositiva in chiave europea ed effettivamente transatlantica. Pur tenendo conto delle esigenze interne di Joe Biden, alla luce del clima che prevale nel Congresso americano, ci sono ottime ragioni per puntare a una strategia transatlantica condivisa. Pensiamo al fattore costi: se ciascun paese va alla ricerca di forniture delle famose terre rare, è chiaro che ci sarà una spinta verso l’alto dei prezzi sui mercati globali. L’Italia ha una vera occasione per proporre una risposta convincente all’Inflation Reduction Act americano. È vero che la prassi consolidata in Europa a fronte di crisi eccezionali – compresa la pandemia – rende sufficiente una comunicazione della Commissione per allentare i vincoli dell’art. 107 dei trattati sugli aiuti di Stato; ma l’Italia può fare da ago della bilancia in ambito di Consiglio europeo, e questo permetterebbe di compiere progressi verso una politica industriale europea. Va fatto capire ai nostri partner che non si potrà realizzare un rilancio transatlantico se avremo un pulviscolo di aiuti statali nazionali in Europa, perché il livello necessario per un’operazione ambiziosa è tra UE e USA. Una proposta concreta può consentire all’Italia di passare dalla ricerca di rango al ruolo che può esercitare: dobbiamo agire da grande paese per esserlo e per vedercelo riconoscere.

    ITALY WATCH

    Quanto conosciamo davvero il nostro paese? Prendiamo in esame alcuni dati che ci aiutano a fotografare l’Italia di oggi, tenendo conto che le società sono come organismi vivi: mutano costantemente, e i numeri che le descrivono cambiano costantemente. Ne emerge un quadro di luci e ombre, con qualche aspetto forse sorprendente.

    Partiamo da una domanda basilare: quanti sono gli italiani? Esaminiamo cioè prima di tutto l’Italia da un punto di vista demografico. A gennaio 2022, secondo l’Istat, la popolazione residente in Italia era di poco superiore ai 59 milioni: 59.030.133 per la precisione. Un dato in calo negli ultimi anni: fin dalla fine degli anni Settanta, in Italia si è registrata una diminuzione drastica del tasso di fecondità. A oggi si aggira intorno all’1,2-1,3 figli per donna, molto al di sotto del tasso di sostituzione (di circa 2,1 figli per donna) necessario per mantenere costante nel tempo la numerosità di una popolazione.

    Come si vede, al di sotto della classe d’età tra i 50 e i 55 anni la numerosità tende progressivamente a diminuire, proprio perché dagli anni Settanta si è iniziato a fare meno figli. Questo fa sì che l’età media in Italia non solo sia piuttosto alta (con 46,5 anni circa, il terzo dato più alto al mondo dopo quelli di Germania e Giappone), ma anche che la quota di anziani (over 65) sia doppia rispetto a quella dei bambini (0-14 anni): 23,8% contro 12,7%. Un altro motivo per cui l’età media è così alta, in Italia, è che l’aspettativa di vita è molto alta: oltre 82 anni.

    Figura 1 • La piramide demografica dell’Italia

    Numeri di residenti in Italia per fascia d’età

    Figura 1 • La piramide demografica dell’Italia

    Fonte: ISTAT (2022).

    Possiamo ora introdurre una prima linea di frattura che riguarda l’economia del nostro paese. Se nelle regioni settentrionali (e nel Lazio) il reddito pro capite è superiore ai 30.000 euro (con picchi di oltre 40.000 euro nel Trentino-Alto Adige), nel Mezzogiorno è quasi sempre inferiore ai 20.000 euro. Un caso eclatante di come, dietro una media nazionale, si possano nascondere dati molto diversi tra loro (per tacere delle differenze interne alle singole regioni). Un’altra variabile rilevante per scattare una fotografia del nostro paese ha a che fare con il tasso di occupazione, che

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