La verità di Rode, una madre in cerca di giustizia
By Tellez Puma
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La verità di Rode, una madre in cerca di giustizia - Tellez Puma
Tellez Puma
La verità di Rode,
una madre in cerca
di giustizia
© 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-3026-4
I edizione novembre 2022
Finito di stampare nel mese di novembre 2022
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
La verità di Rode, una madre in cerca di giustizia
Capitolo 1
Sono nata a Potosí, a Sud Chicas, in Bolivia, il nove dicembre del 1980. Mia madre aveva quarantadue anni e mio padre quarantatré; io ero la loro nona figlia. A quanto pare, avevo parecchia fretta di venire al mondo, perché nacqui prematuramente dopo soli sette mesi di gravidanza. Pesavo pochissimo e respiravo a stento. I primi due mesi di vita li ho passati in un’incubatrice, ma i medici dissero a mia madre che, anche una volta uscita, non sarei vissuta a lungo. Infatti, quando lasciai l’ospedale ero ancora molto piccola, debole e piangevo in continuazione, tormentata da un malessere a tutti incomprensibile.
Poco dopo la mia nascita, i miei genitori decisero di trasferirsi nella città di Cochabamba, nella provincia di Cercado, dove mio padre, che faceva il minatore, aveva avuto una buona opportunità di lavoro. Trovarono una nuova casa, abbastanza grande da accoglierci tutti, e impacchettarono tutte le loro cose. Mia madre partì per prima, portando con sé i nove figli e la nonna, mentre mio padre restò a Potosí per finire il lavoro, prima di raggiungerci. Ovviamente, non ho ricordi di quel viaggio e quello che so l’ho appreso perché me l’hanno raccontato, anni dopo, mia madre e le mie sorelle.
Andammo in treno.
Da quando avevo lasciato l’ospedale non avevo mai smesso di piangere. Piangevo, giorno e notte, incessantemente. Piangevo anche in treno, durante il viaggio, infastidendo gli altri passeggeri che si lamentarono con mia madre. Lei mi cullava e mi cullava, senza però riuscire a calmarmi.
Era esausta. Non ne poteva più di sentirmi piangere, non ne poteva più di cullarmi e di passare notti insonni. Le lamentele fecero il resto. Quando il treno si fermò, mi mise in una scatola di scarpe e mi lasciò in stazione. Aveva già otto figli a cui badare e credeva non valesse la pena continuare a occuparsi di quella neonata così afflitta, che comunque credeva sarebbe morta presto.
Fu Feby, una delle mie sorelle, ad accorgersi che non c’ero più. Il silenzio improvviso l’aveva insospettita. Chiese a mia madre dove fossi e lei rispose che non c’era nulla da fare per me: a furia di piangere sarei morta. Feby scese di corsa dal treno per cercarmi. Fu quel pianto a cui ormai era tanto abituata a guidarla. Tornata sul treno, mi consegnò nelle braccia della nonna, perché della mamma non si fidava più.
Fu solo allora che mia madre si rese conto di cosa aveva fatto; con le lacrime agli occhi implorò perdono. Tutti mantennero e il segreto e mio padre non lo seppe mai.
Ma, anche avendo salva la vita, non smisi di piangere. La nuova casa, notte e giorno, era animata dalle mie urla. Nessuno dottore riusciva a capire cosa avessi. Nessuna medicina funzionava, nessun rimedio. Mia madre mi cullava in continuazione, ma io non ne volevo sapere di calmarmi. Soffrivo e piangevo, soffrivo e piangevo.
A Cochabamba i miei genitori conobbero una signora cattolica, Tomasa, che abitava poco lontano da noi. Il mio pianto era arrivato fino a lei. Era il diavolo, diceva, a farmi piangere. La benedizione di Dio mi avrebbe protetta e tranquillizzata. Consigliò ai miei genitori di battezzarmi e si propose di farmi da madrina.
I miei genitori erano di confessione evangelica ma, presi dalla disperazione, si convinsero e una domenica mi portarono in chiesa per farmi battezzare.
All’epoca, non avevo ancora un nome. Il giorno del mio battesimo lo dissero al parroco, che aprì la Bibbia in due pagine a caso. Sulla prima apparve il nome Rode, e sull’altra Jael. A questi, aggiunsero i cognomi di entrambi i miei genitori, come si usa fare in Bolivia.
Così fui battezzata Rode Jael Tellez Puma.
Pomosa aveva ragione: da quel giorno, finalmente, smisi di piangere.
I ricordi dei miei primi anni sono confusi. Eravamo una famiglia numerosa e le stanze della nostra casa erano sempre piene e chiassose. Arrivò anche un’altra sorellina dopo di me.
La prima cosa che riesco a mettere a fuoco, scavando nella memoria, è il lunedì mattina del mio primo giorno di asilo. Mia madre mi fece indossare i vestiti più belli che avevo e mio padre mi pettinò con la spazzola per i vestiti. Io ero contenta ed erano tutti emozionati per me.
Ma quando arrivai, accompagnata da mio padre, mi resi conto che qualcosa che non andava. Dietro l’enorme cancello di ferro verde, c’erano moltissimi bambini, ma nessun genitore. Scoppiai a piangere, perché credevo che papà volesse abbandonarmi lì. Lui continuava a ripetermi che sarebbe tornato a riprendermi, ma non gli credevo. Dentro di me non facevo altro che chiedermi: tornerà?
Ero arrabbiata e triste. L’educatrice si avvicinò a noi. Mi disse di chiamarsi Gaby. Mi prese per mano e mi accompagnò al mio posto. Mi offrì dei giochi, dei colori e dei quaderni. E con pazienza e dolcezza riuscì a calmarmi. Mi divertii a giocare con lei e con gli altri bambini.
Qualche ora dopo, mio padre tornò a riprendermi come promesso. E continuò a farlo, ogni giorno, per un anno intero. Quando finiva la scuola, lui era sempre lì ad aspettarmi all’uscita. Mi prendeva per mano e mi riaccompagnava a casa.
L’anno successivo iniziai le elementari. La mia maestra si chiamava Domitilla ed era una donna molto paziente. Guidava la mia manina con la sua e insieme tracciavamo le lettere dell’alfabeto. Ero molto brava e mi piaceva imparare cose nuove. Scrivere era una cosa da grandi e finalmente riuscivo a farlo anche io!
Un giorno del mese di marzo mio padre non venne a riprendermi a scuola. Non me ne preoccupai. Ero più grande e a volte capitava che papà, impegnato a lavoro, non riuscisse ad arrivare in tempo. Così mi incamminai da sola. Avevo imparato la strada e non era molto distante da casa, non c’era pericolo di non rivedere mai più la mia famiglia. Quando arrivai a casa, mia madre mi travolse in un abbraccio e le sue lacrime mi bagnarono il collo.
«Tuo padre è morto», mi disse.
Non capii cosa volesse dire, ma mia madre piangeva e mi spaventai. Andai in strada e corsi a dire a tutti i vicini che mio padre era morto. Anche il giorno dopo, a scuola, la maestra mi chiese perché non avessi fatto i compiti e le risposi: «Mio padre è morto». Mi rendevo conto fosse una cosa brutta solo perché tutti piangevano, ma non riuscivo davvero a capire cosa significasse. Non avevo chiaro il concetto di morte. Per me, mio padre non c’era, come non c’era quando andava al lavoro o quando andava a fare compere. Non c’era da più tempo del solito, era vero, ma papà era sempre tornato. Quel giorno, la direttrice della scuola mi accompagnò a casa. Abbracciò mia madre e, discretamente, le mise dei soldi in mano. Tutte le maestre della scuola avevano partecipato alla colletta.
Casa mia si riempì di persone. Vennero i famigliari, i vicini, quelli delle pompe funebri. Mia madre cucinava e offriva da bere agli ospiti. Le loro facce erano pallide, gli occhi gonfi. Si aggiravano per casa confusi e tristi.
Al centro della sala c’era la tomba di mio padre.
Guardavo tutti piangere, pregare, sussurrare parole di conforto. Ero a disagio. Sentivo il bisogno di stare da sola, così mi chiusi in camera mia.
Solo all’alba, quando la casa ormai si era svuotata e i miei fratelli e le mie sorelle dormivano, mi avvicinai alla bara di mio padre. C’era una piccola finestra che si apriva per mostrare il corpo. Mi arrampicai su una sedia e tirai su la finestrella. Mio padre dormiva.
«Alzati», gli dissi. «Mi devi accompagnare a scuola, papà! Alzati!».
Gli toccai il viso con un dito. Era freddo. Capii che alla fine era successo quello che avevo tanto temuto l’anno prima: papà non sarebbe mai tornato a riprendermi.
Mi aveva abbandonata.
Capitolo 2
Dopo la morte di mio padre le cose divennero difficili.
Non avevamo soldi per nulla, non riuscivamo a fare la spesa né a pagare le bollette. Dopo un paio di mesi ci staccarono l’elettricità. La sera illuminavamo le stanze con delle candele, ma la casa era grande e molte stanze restavano al buio. Ogni settimana, io e i miei fratelli facevamo a turno per andare a raccogliere la frutta e la verdura che era rimasta nei mercati, a terra o per strada, così almeno avremmo avuto qualcosa