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Robot 97
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Robot 97

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Fantascienza - rivista (229 pagine) - Versione digitale di Robot 97 con racconti di Oghenechovwe Donald Ekpeki - Catherynne M. Valente - Daniela Piegai - Lorenzo Davia - Emiliano Maramonte - Valentino Peyrano - Giampietro Stocco - Interviste con Maurizio Manzieri, Tessa B. Dick - The Peripheral - "Robot 97" a cura di Silvio Sosio


Il primo e l’ultimo racconto di questa antologia sono in un certo senso speculari. Nell’ultimo, Il peccato dell’America di  Catherynne M. Valente, finalista un po’ a tutti i premi del settore, gli Stati Uniti trovano un modo tutto loro di espiare peccati che si sentono sulla coscienza. Nel primo una parte di questi peccati, nello specifico il colonialismo e la crisi climatica, sono pagati col proprio stesso respiro dagli ultimi della Terra. Un racconto, quello di Oghenechovwe Donald Ekpeki, che ha vinto il Nebula ma che qualcuno ha definito “troppo distopico”. Ma troppo per chi, si chiede Ekpeki? Per chi vive già nella distopia, come gli abitanti della Nigeria, la scala distopica è tutta diversa.

Anche su Robot proseguiamo l’opera di riscoperta di Daniela Piegai con due racconti e un saggio-intervista della sua curatrice Laura Coci, mentre Davia, Stocco, Peyrano e Maramonte indagano aspetti diversi dei confini dell’umano.


Fondata da Vittorio Curtoni, Robot è una delle riviste di fantascienza italiane più prestigiose, vincitrice di un premio Europa e numerosi premi Italia. Dal 2011 è curata da Silvio Sosio.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateMar 28, 2023
ISBN9788825423952
Robot 97

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    Robot 97 - Silvio Sosio

    L’EDITORIALE

    Sensitivity reader

    Silvio Sosio

    La donna si fece avanti ed entrò. la sala d’aspetto era spoglia e trasmetteva una sensazione di freddo, nonostante i vivaci quadri appesi alle pareti, che riproducevano copertine di libri. Libri che, onestamente, non aveva mai sentito nominare, ma non c’era nulla di strano. Con un grosso sorriso stampato sul volto si avvicinò alla scrivania dove l’attendeva un impiegato. Nonostante fosse piccola e minuta, un po’ avanti con gli anni, procedeva con esuberanza.

    – Desidera? – chiese il segretario.

    – Sono stato convocato dall’editore. Mi chiamo Asimov, Isaac Asimov.

    Il segretario scrutò la donnina con una smorfia perplessa. – Lei è Asimov?

    – Mi è stato detto che non era possibile scegliere e mi hanno assegnato questo corpo.

    Il segretario alzò un sopracciglio. – Va bene, si sieda lì e aspetti il suo turno.

    Asimov si sedette. Dopo un po’ la porta di ingresso si aprì ed entrò un ragazzo dalle misure decisamente abbondanti. Aveva vestiti consunti ma si comportava come se avesse indossato un abito firmato. Parlò col segretario e venne invitato a sedersi. Si sistemò il più lontano possibile da Asimov, gettandogli solo uno sguardo di sufficienza.

    A un tratto la porta dell’ufficio si aprì e ne uscì un tipo dalla pelle scura, visibilmente allegro, che salutò il segretario e si avviò all’uscita. Il segretario guardò Asimov. – Si accomodi, forza, tocca a lei.

    Asimov entrò. Era una stanza ancora più fredda e grigia della precedente. Invece che da copertine, le pareti erano coperte da scaffali pieni di faldoni. Dietro una larga scrivania di legno massiccio c’era una donna di mezza età che stava scrivendo su un computer portatile.

    – Si accomodi, signor Asimov – disse senza alzare lo sguardo.

    – Dottor.

    – Come? – lo sguardo si alzò. Era freddo come il ghiaccio e Asimov non potè trattenere un brivido incontrandolo.

    – Dottor Asimov. Sono laureato in chimica.

    – Sì, come vuole. Un istante e finisco.

    Asimov rimase immobile. Si sentiva a disagio, il che gli era accaduto piuttosto di rado. Si chiese se il fatto di essere stato incarnato nel corpo di una donna indebolisse in qualche modo la sua personalità, ma scacciò l’idea. Era un pensiero maschilista, e lui aveva superato queste cose, si disse.

    Finalmente la donna smise di scrivere. – Dunque – disse, tornando a guardarlo. – Dottor Asimov, lei sa dove si trova, quando si trova e soprattutto perché?

    – Me lo hanno spiegato, a grandi linee – rispose Asimov. – Sono nel futuro, sono stato richiamato dalla morte per discutere una qualche questione editoriale.

    La donna fece una mezza smorfia. – Più o meno. Allora, io sono la direttrice del reparto legale della HPMD, la casa editrice che pubblica i suoi libri.

    – Io ero pubblicato da Doubleday.

    – HPMD sta per Hachette Harper Penguin Macmillan Doubleday, c’è stata qualche fusione. Posso continuare?

    Alzò le mani. – Prego, prego.

    – Allora, lei non è nel futuro ma nel presente, ovviamente, il 2076. Non è stato richiamato dalla morte. Un’intelligenza artificiale è stata addestrata usando tutti i suoi scritti per ricreare la sua personalità. Tuttavia, poiché le personalità umane sono più coerenti in un corpo umano, la IA è stata inserita nel corpo di un defunto. Possiamo usare solo persone morte da meno di 24 ore, per cui c’è poca scelta, mi dispiace.

    – Non importa, è un’esperienza interessante essere nel corpo di una donna.

    – Così può toccarsi il culo da solo?

    – Scusi?

    – Lei non era famoso per questa mania di palpare tutte le donne che incontrava? Ci aveva pure scritto un manuale.

    – Sì, è vero – Asimov abbassò lo sguardo. – Ma mi sono pentito, dopo un’esperienza diretta. Una volta successe che Alfred Bester mi abbracciò, lo fece con affetto ma io mi sentii inerme, e capii il male che avevo fatto col mio comportamento. Devo anche averne scritto da qualche parte.

    – È evidente, se non l’avesse scritto non se ne ricorderebbe. Comunque, andiamo avanti. Siamo qui perché dobbiamo rivedere assieme alcuni passi dei suoi libri.

    Asimov tirò indietro la testa perplesso. – Rivedere? Pensavo voleste rinnovare qualche contratto, o cose del genere.

    La direttrice lo guardò spazientita. – Dottor Asimov, lei è morto nel 1992, ormai è fuori diritti.

    – Oh. E come sono morto?

    – Di Aids. È morta un sacco di gente nella sua epoca di quella malattia, soprattutto gay.

    Asimov arrossì. – Gay? Lei certo non penserà che io…

    – Non me ne potrebbe fregare di meno, ma so fin troppo bene che lei non era un finocchio, stia tranquillo.

    – Ok, ok, no certo, non ci sarebbe stato nulla di cui vergognarsi comunque, mi scusi, ai miei tempi…

    – Sì, ok. Comunque, noi continuiamo a pubblicare i suoi libri, che per motivi che non comprendo continuano a essere letti, tuttavia ci sono alcune questioni che secondo noi dovrebbero essere, come dire, adeguate alla sensibilità moderna, mi capisce? In passato abbiamo fatto revisioni del genere e ci sono state critiche perché avevamo modificato libri senza il consenso del defunto autore. Così ora prima di farlo riesumiamo l’autore e gli chiediamo il permesso.

    – Mi sembra un modo di fare molto corretto. Il signore che c’era prima di me era uno scrittore anche lui?

    – Il negro? Sì, si chiama Roald Dahl. Scriveva roba per ragazzi. Praticamente ci ha concesso di fare tutto quello che ci pare coi suoi libri, purché gli avessimo fatto erigere una statua nel suo paese natio, un postaccio in Galles.

    Asimov sospirò a fondo, cercando di adeguarsi all’idea.

    – Rivedere i miei testi. D’accordo, immagino saranno cose come dettagli maschilisti o body shaming o cose del genere. Per me va bene, anzi mi fa piacere. Se su qualcosa non sono d’accordo comunque lo lascerete com’è, giusto?

    – O addestreremo un’altra IA cercando di renderla più compiacente e ci vedremo di nuovo.

    Asimov deglutì. – Scherza, vero?

    – No. Lei è la diciottesima versione di Asimov che incontro.

    Asimov strabuzzò gli occhi, ma la donna fece un sogghigno. – Sì, scherzavo, dottor Asimov. Lei è il primo, e non ce ne saranno altri, almeno per qualche anno. Semplicemente, se non troveremo l’accordo smetteremo di pubblicare i suoi libri. Istruiremo una IA a scriverne altri di simili, magari, ma lasceremo in pace la sua eredità. Contento?

    Asimov si sistemò sulla sedia. – Bene.

    – Comunque no – continuò la direttrice. – Niente maschilismo, razzismo o roba del genere, abbiamo superato queste cose, la nostra società non si fa più condizionare da queste idee, come le chiamavano? gender? woke? le confondo sempre. Stupidate di decenni fa. A noi interessano le cose davvero importanti. Per esempio, ecco, a pagina 49 di Foundation, lei chiama il re di Anacreon sua altezza. Essere alti è contro la morale pubblica, più si è bassi meno spazio comune si occupa. Possiamo cambiare in sua bassezza?

    La seduta andò avanti per un’oretta buona, e per Asimov fu una sofferenza. Ma aderì a tutti i cambiamenti, anche i più assurdi: a lui interessava solo che i suoi libri continuassero a essere letti, e se all’editore pareva corretto eliminare ogni riferimento alle orecchie e che i capelli di Arkadia Darrell fossero viola perché così voleva la pubblica decenza, che fosse.

    Quando uscì era stremato. Il ragazzetto ciccione (no, non devo neanche pensarlo, si corresse mentalmente. Anche se forse in quest’epoca se ne fregano) si alzò impettito e si stirò la giacchetta guardandolo con un filo di disgusto.

    Dall’ufficio arrivò la voce acida della direttrice: – Forza, faccia entrare questo Ian Fleming così per oggi finiamo.

    Asimov diede un ultimo sguardo alle copertine, chiedendosi chi potessero essere quei grandi scrittori del futuro, e imboccò l’uscita. R

    Illustrazione

    Illustrazione di Matteo Di Gregorio

    NARRATIVA

    O2 Arena

    Oghenechovwe Donald Ekpeki

    PREMIO NEBULA 2021

    Traduzione di Laura Abisso

    Illustrazione Oghenechovwe Donald Ekpeki affianca alla scrittura l’attività di editore e curatore. È il primo autore africano (inteso come non solo d’origine: è nato e vive in Nigeria) a vincere uno dei due premi più importanti della fantascienza, il Nebula, lo scorso anno con questa novelette. L’anno precedente gli era stato assegnato il British Fantasy Award come miglior curatore per l’antologia Dominion: An Anthology of Speculative Fiction from Africa and the African Diaspora. (FL)

    Il sudore scorreva a rivoli, intrappolato tra la mia pelle e il body di lycra. Scivolava lungo la spina dorsale e il petto, mentre guardavo il mio nemico con stanca indifferenza. La mia vista era annebbiata, ma la mia concentrazione era massima. La mia intenzione era quella di compiere un omicidio, anche se sanzionato e favorito dallo stesso sistema che ci stava lentamente uccidendo tutti.

    L’uomo davanti a me camminava, la stanchezza traspariva chiaramente dalla sua andatura. Il mio corpo era privo dell’energia necessaria per spostarlo e il mio respiro si faceva corto e affannoso mentre inspiravo l’aria dolceamara. Amara perché puzzava della mia possibile – anzi, probabile - morte, e dolce per il suo scopo: conquistare una vita per un altro, molto più meritevole di me. Respiravo quella dolcezza come se fosse una promessa, il nutrimento di un amore egoistico che, per me, era tutto.

    Sapevo che il mio avversario non era il mio nemico, anche se poteva essere lo strumento della mia morte, o io lo strumento della sua. Quello che dovevo veramente sconfiggere, il nostro nemico collettivo, era instancabile: la società che ci ha spezzato e ha progettato la nostra esistenza come un viaggio inesorabile verso la morte. Rapido o lento che fosse, il sistema ci costringeva a una profonda inattività solo per poter respirare un altro giorno, poi un altro ancora.

    Ero nell’arena per la seconda volta, di mia spontanea volontà, ma in una trappola della società in cui ero nato.

    Il mio avversario si trascinò in avanti, l’intero raziocinio spento dal ghigno disperato che portava stampato sui lineamenti irrigiditi. Un ringhio si diffuse sul mio volto e mi precipitai su di lui per prendere la vita, se potevo, per poterla custodire e donare a un altro.

    Una piccola parte di me gemette e si stupì per un istante del mostro che ero diventato.

    Qualche mese prima...

    Il brusio nella sala si spense mentre l’oratore saliva sul podio. Quattromila di noi si azzittirono quando si tolse la maschera O2 dando inizio al nostro tirocinio nell’Accademia di Legge. Il Capo del Dipartimento (HoD) di Diritto della Proprietà procedette a spiegarci perché eravamo lì.

    Scossi la testa mestamente. Nella Nigeria del 2030, la gente insisteva ancora nel delegare agli altri le proprie scelte, come se non sapessimo o non potessimo decidere da soli. Maledetto chi ha una propria volontà e individualità, e guai a chi aspira a qualcosa di più dei crediti di O2 necessari per continuare a respirare.

    Qual era la nostra realtà quotidiana? Dovevamo pagare per respirare. Da quando la crisi del riscaldamento globale aveva colpito il fitoplancton e impedito la produzione di aria respirabile, stava a noi conservarci in vita al costo richiesto.

    Procedendo a passo spedito, l’HoD ci spiegò che eravamo tra i pochi privilegiati a conseguire la laurea in legge. Dopo aver studiato per cinque anni per ottenere una laurea e aver superato un difficilissimo esame di ammissione all’Accademia di Legge, ci si chiedeva da dove venisse fuori questo privilegio. Lì dovevamo sopravvivere a un regime rigoroso, quasi militare, di studio e indottrinamento e solo allora ci sarebbe stato permesso di sostenere il supremo esame da avvocato.

    Non potevo fare a meno di pensare che se avessi voluto ostentare una resistenza sovrumana, mi sarei arruolato nell’esercito. Poi ricordai a me stesso che non ero qui per scelta. Era l’esame che mi avrebbe portato a occupare la mia posizione nel sistema corrotto, dove avrei potuto guadagnare il tipo di indennità di O2 che avrebbero annullato quelle di CO2. Sarebbe stata una fatica erculea, senza l’aiuto di questi uomini pomposi che lo facevano sembrare un grande privilegio.

    Il discorso del direttore generale spinse diversi studenti, a mio parere ingenui, a chiedere informazioni sui nostri diritti. Lui li informò, quasi sprezzante, che non avevano alcun diritto.

    Dentro di me scrollai le spalle. Avrei risolto come risolvevo ogni cosa. Riuscire era l’unica cosa che serviva. Non importava come.

    L’HoD presentò un secondo relatore, un professore del Dipartimento di Diritto Commerciale. Senza togliersi la maschera – di cui qui non aveva bisogno, con i generatori di O2 che regolavano l’aria – illustrò il programma di studi. Un programma che normalmente sarebbe durato tre anni veniva concentrato in otto intensi mesi, lasciando spazio all’ammissione periodica di nuovi studenti. Più studenti erano ammessi, più la scuola guadagnava unità di O2. Concluse ribadendo il nostro privilegio in quanto studenti di legge. Scossi la testa e, infilata la mia maschera O2, lasciai la sala.

    Fuori, vidi che anche Ovoke si era presa una pausa da quella retorica. Quando mi vide sorrise e si avvicinò per abbracciarmi. Era come appariva: delicata, come se si sarebbe sbriciolata se l’avessi stretta troppo. Cosa c’era nel suo aspetto fragile che tutti i ragazzi trovavano irresistibile? La tenni a distanza per osservarla, come per cercare di scoprire il suo fascino.

    Sorrise alla mia espressione confusa, sollevando un sopracciglio.

    Non perdevo mai l’occasione di stuzzicarla, e non potevo resistere adesso. – Direi che mi sei mancata, ma non voglio mentire.

    Lei rise. – Eppure mi stringi come se ti importasse.

    Non riuscii a trovare una risposta e lei mi anticipò. – È perché sto morendo?

    – Certo – concordai, sperando che la mia disinvoltura nascondesse il doppio bluff. – Perché altrimenti dovrebbe interessarmi?

    Lei sorrise di nuovo e io assaporai la sua presenza mentre ci appoggiavamo al parapetto in un silenzio di intimità.

    – Vuoi sentirlo? – chiese dolcemente dopo un attimo.

    – Sentire cosa?

    – Il mio tumore. La morte dentro di me. La sento, sai.

    Distolsi lo sguardo, oltre la ringhiera. Quando ci eravamo incontrati la prima volta durante l’iscrizione al programma, mi aveva detto di avere un cancro alle ovaie. Non l’aveva detto a nessun altro, nemmeno a qualcuno dei suoi amici più stretti dei tempi dell’università, quando io ero solo un compagno di corso cha aveva notato appena. Non l’aveva detto nemmeno ai suoi nuovi amici di qui. Solo a me, che non la adoravo come tutti gli altri. Io, che la prendevo in giro come un fratello e non le permettevo mai di prendere nulla troppo sul serio.

    Apprezzava anche il modo in cui mi comportavo con lei. Non come tutti gli altri, che con lei erano sempre in modalità-cucciolo, anche quando non era malata. Non vedevano quello che vedevo io: una donna forte, intelligente, estremamente preparata, con denti e artigli e una mente tutta sua. Quando l’ho vista combattere, l’ho definita temibile, tremenda, un animale furioso in un mondo troppo delicato per ingabbiarla. Quando altri l’hanno vista combattere, l’hanno definita coraggiosa.

    Era facile capire perché l’avesse detto solo a me.

    – L’ho detto solo a te – aveva detto – per lo stesso motivo per cui ho lasciato casa per questo programma severo e malsano. Non voglio essere trattata come se fossi una cosa malata, rotta. Voglio vivere prima di morire. E poi aveva aggiunto: – Se non preoccuparsi è la tua norma, allora è quello che voglio.

    Ma mi sono sempre preoccupato, anche quando sembrava inutile, anche quando non volevo.

    Mi resi conto di non averle risposto sul fatto di toccare il suo tumore. Non volevo rispondere. Stuzzicarla sulla morte la faceva sembrare meno reale, ma parlarne davvero era troppo difficile. Dovevo continuare a fingere che non mi importasse.

    – Ehi, mammina – la presi in giro, invece di assecondare il suo umore macabro proprio il giorno in cui accettare le nuove sfide che ci aspettavano all’Accademia delle Leggi. – È meglio rientrare prima che le pattuglie vengano a cercarci.

    Lei ridacchiò. – Ok, testone.

    Quando tornammo nella sala ci togliemmo le maschere di filtraggio dell’ossigeno. Ci servivano solo nell’aria dura, opprimente e a malapena respirabile dell’esterno.

    Il relatore, impegnato in un capitolo sulle regole del campus, aveva ritrovato il suo buon umore. Lo preferivo senza.

    – Non è permesso mangiare durante le lezioni. Nemmeno masticare una gomma. A meno che una non sia incinta e porti in grembo un bambino, allora può masticare come una capra. Ah ah ah.

    Continuò a sottolineare tutte le assenze di privilegi che c’erano nella nostra scuola privilegiata, inframmezzando battute spesso classiste. Feci una smorfia, ma alcuni studenti ridacchiarono. Si riconoscevano subito quelli che avrebbero avuto successo leccando il culo.

    Subito dopo ci fu il dottor Umez, esperto di diritto immobiliare. Uomo sulla quarantina, blaterò dei suoi principi religiosi conservatori e di regole che, sono sicuro, non erano approvate dall’istituzione, per quanto già severa. Il suo ultimo editto fu che non si potevano usare i telefoni quando faceva lezione e che quelli trovati sarebbero stati confiscati, in modo permanente.

    – Be’, non è eccessivo – dissi con sarcasmo. – Sta cercando di entrare nella vendita al dettaglio di telefoni?

    Ovoke si avvicinò e sussurrò con fare cospiratorio: – Li restituisce in cambio di favori.

    La guardai senza espressione, non capendo cosa intendeva, così lei continuò: – È famoso con le donne.

    Sollevai le sopracciglia nel comprendere, poi le aggrottai, di nuovo confuso. – Ma perché? Per un telefono?

    – Promette loro facilitazioni e maggiori possibilità di passare.

    Feci dell’ironia. – In effetti io ho cercato di corrompere le persone per andare avanti e aggirare il sistema. Il Sequestratore di Telefoni non può garantire a nessuno di passare. Le prove sono corrette da esaminatori esterni e da persone nella sede centrale di Abuja. È lì che si svolge tutto.

    – Be’, lo studente medio non lo sa. Tra ingannare i creduloni e promettere di rendergli la vita un inferno, Umez ha un bel programma di tutoraggio.

    – Come fai a sapere tutto questo? – chiesi.

    – Sono una donna. È il nostro mestiere, la nostra sopravvivenza, sapere di persone come queste.

    Rimasi per un po’in silenzio. Ovoke toccò il mio viso incollerito.

    – Se mai ti molesta – le dissi piano – lo ucciderò.

    – Uahu – disse lei. – Sei il sogno di ogni ragazza: un miglior amico psicopatico che ucciderebbe per lei. Comunque, inizia con il mio cancro.

    – Temo che non sia alla portata dei miei scagnozzi – dissi in tono di scusa.

    – Sei utile a qualcosa? – chiese con una spinta scherzosa. Entrambi ridemmo sottovoce.

    Ora sul podio c’era la signora Oduwole. La direttrice degli ostelli esordì affermando che i generatori sarebbero rimasti accesi fino a mezzanotte per poter leggere e per produrre aria respirabile. Dopo la mezzanotte, saremmo tornati alle bombole di O2, che avremmo dovuto tenere accanto al letto per tutta la notte.

    La retta era costosa, ma destinata solo a coprire la produzione di ossigeno dell’aula centrale quando c’era lezione. Le maschere di O2 filtravano temporaneamente l’aria viziata, per i brevi periodi in cui ci si spostava da un luogo all’altro. Le bombole di O2 servivano per i periodi più lunghi, quando non c’erano generatori di O2.

    Non ci era permesso stare negli ostelli durante il giorno quando c’era lezione, per nessun motivo. Non le importava se eri una ragazza con il ciclo, per quanto pesante. E a quanto pare questo fu l’unico esempio che si sentì obbligata a fare.

    Un altro relatore parlò del vestirsi in modo modesto e decoroso, e una sfortunata ragazza venne additata come esempio di cosa non fare.

    La relatrice, indicando le unghie lunghe e laccate della ragazza, disse: – Qui non è permesso. Sono una distrazione inutile, sia per le signore che per i signori. Le signore potrebbero sentirsi obbligate a competere e a concentrarsi sul loro aspetto, e gli uomini potrebbero voler... be’, sappiamo tutti cosa vogliono gli uomini dalle donne.

    Dagli studenti si levò una risatina sommessa, e non per la prima volta mi interrogai sulla malsana tendenza di quella scuola a usare termini sessisti per cercare di tenere tutti al loro posto.

    – Be’, sappiamo che alcune donne vogliono lo stesso dalle donne – continuò, e la risatina risuonò più forte. Si chinò in avanti e sussurrò, anche se sapeva che il microfono avrebbe trasmesso il sussurro. – Allora,

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