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La distopia capitalistica. Ecologia, lavoro ed economia. Dati, analisi e previsioni.
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Ebook634 pages7 hours

La distopia capitalistica. Ecologia, lavoro ed economia. Dati, analisi e previsioni.

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Avvalendosi di un’ampia e approfondita collezione di dati, analisi e previsioni, l’autore descrive la follia dell’odierna distopia capitalistica, offrendo degli importanti spunti di riflessione per migliorare la società.
LanguageItaliano
Release dateOct 13, 2019
ISBN9788835303886
La distopia capitalistica. Ecologia, lavoro ed economia. Dati, analisi e previsioni.

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    La distopia capitalistica. Ecologia, lavoro ed economia. Dati, analisi e previsioni. - Mirco Mariucci

    La Distopia

    Capitalistica

    Ecologia, lavoro ed economia.

    Dati, analisi e previsioni.

    26 Settembre 2019

    Mirco Mariucci

    Quarta di copertina

    Avvalendosi di un’ampia e approfondita collezione di dati, analisi e previsioni, l’autore descrive la follia dell’odierna distopia capitalistica, offrendo degli importanti spunti di riflessione per migliorare la società.

    Ecologia

    La Questione Ecologica

    Demografia

    Ogni società è composta da un insieme di individui che interagiscono all’interno di un ambiente.

    Ad oggi, la società degli esseri umani è formata da 7,6 miliardi di persone che popolano un pianeta del sistema solare chiamato Terra.

    L’umanità ha impiegato decine di migliaia di anni per raggiungere, nel 1800, una popolazione composta da 1 miliardo di individui.

    Da quel momento, però, ha avuto luogo un’esplosione demografica riassunta nella seguente progressione: nel 1927 sono stati raggiunti i 2 miliardi di esseri umani; nel 1974 la popolazione è raddoppiata toccando i 4 miliardi d’individui; stando alle previsioni, nel 2023 la popolazione mondiale raddoppierà ancora raggiungendo gli 8 miliardi di persone, per poi passare a 8,6 miliardi nel 2030, 9,8 miliardi nel 2050 ed infine 11 miliardi nel 2100.

    Nel periodo 2010-2013, l’aspettativa di vita media a livello globale per gli uomini è stata pari a 68,5 anni, mentre per le donne è stata di 73,5 anni, con un valor medio, calcolato considerando entrambi i sessi, di 71 anni; entro il 2050, l’aspettativa di vita media globale crescerà fino a raggiungere i 76,2 anni.

    Si tenga presente che questi dati sono soggetti ad una forte variabilità, a seconda di dove si ha la fortuna di nascere e vivere.

    Ad oggi, infatti, l’aspettativa di vita più elevata si registra nel Principato di Monaco (~89 anni), seguono in ordine: Giappone (~85 anni), Singapore (~85 anni), Macao (~85 anni) e la Repubblica di San Marino (~83 anni).

    Nel 2015, la media UE-28 per il medesimo indicatore si attestava sugli 80,6 anni, mentre l’Italia faceva registrare 82,7 anni di vita media attesa alla nascita.

    I valori più bassi, invece, vengono rilevati in Nigeria (~54 anni), Mozambico (~54 anni), Lesotho (~53 anni), Repubblica Centrafricana (~53 anni), Somalia (~53 anni), Zambia (~53 anni), Swaziland (~52 anni), Gabon (~52 anni), Afghanistan (~52 anni), Guinea Bissau (~51 anni) e Ciad (~51 anni).

    Non c’è alcun dubbio che l’umanità stia invecchiando: nel 2015, soltanto l’8,5% degli abitanti della Terra (circa 617 milioni di individui) aveva 65 anni o più, ma entro il 2050 questa classe di popolazione si attesterà al 17% del totale (circa 1,6 miliardi di persone).

    In particolare, gli over 60 passeranno dagli attuali 962 milioni, a 2,1 miliardi nel 2050, per arrivare a 3,1 miliardi nel 2100.

    A livello mondiale, il tasso di fecondità sta diminuendo pressoché ovunque, tanto che negli ultimi 50 anni si è assistito ad un dimezzamento del numero medio di figli per donna, che oggi è pari a 2,45.

    Si consideri che il tasso di sostituzione della specie umana, vale a dire quel valore che mantiene costante la popolazione, è pari a 2,1 figli per donna.

    I dati previsionali dicono che i Paesi ad alto tasso di fecondità (più di 5 figli in media per donna) scompariranno, quelli con un medio tasso di fecondità (da 2,1 a 5 figli in media per donna) subiranno una riduzione, mentre si verificherà un forte aumento delle nazioni che non raggiungono la soglia di sostituzione, tanto che entro il 2030 il 67% della popolazione vivrà in luoghi dove le donne avranno uno o due figli.

    Tra gli Stati con i tassi di natalità più elevati troviamo: Congo, Guinea, Liberia, Niger, Afghanistan, Mali, Angola, Burundi, Uganda e Sierra Leone, i quali fanno registrare più di 45 nati ogni 1.000 abitanti.

    Al lato opposto, tra i Paesi con i tassi di natalità più bassi, ci sono: Lituania, Croazia, Slovenia, Bulgaria, Bosnia, Giappone, Germania, Singapore, Hong Kong e Macao, con valori inferiori a 10 nati ogni 1.000 abitanti.

    Da un punto di vista quantitativo, ciò significa che mentre le donne nigeriane mettono al mondo 7,3 bambini, quelle tedesche ne danno alla luce soltanto 1,5. La media europea si attesta a 1,58 figli per donna, mentre in Italia ogni donna genera in media 1,34 bambini.

    In estrema sintesi, possiamo dire che nonostante l’umanità si stia riproducendo ad un minor tasso percentuale rispetto al passato, nei prossimi decenni la popolazione mondiale continuerà lo stesso ad aumentare, insieme all’età media della popolazione ed all’aspettativa di vita.

    Il maggior contributo in termini di natalità proverrà dai membri dei Paesi più poveri, quelli in via di sviluppo.

    Se da una parte è vero che non ci si può fidare ciecamente dei dati previsionali, in particolar modo quando si parla di popolazione mondiale, perché il numero degli esseri umani potrebbe variare sensibilmente a causa di fattori non prevedibili a priori, come ad esempio il verificarsi di un cataclisma o la scelta politica d’imporre delle stringenti pianificazioni per il controllo demografico, dall’altra è altresì vero che il quantitativo di soggetti che già oggi popola la Terra è divenuto così elevato da rappresentare un fattore determinante che non può più essere trascurato.

    Non a caso, negli anni ottanta del Novecento, il biologo Eugene F. Stoermer coniò il termine antropocene (dal greco anthropos che significa uomo) per indicare l’epoca geologica attuale, nella quale le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche del pianeta Terra sono direttamente riconducibili alle attività umane.

    Del resto è inevitabile che ciò avvenga, perché come ci ricorda Friedrich Hegel, nel suo Scienza della logica, un incremento quantitativo di un certo fenomeno non provoca soltanto un aumento della quantità, ma induce anche una variazione della qualità.

    Se un migliaio di abitanti in tutto il mondo adottasse uno stile di vita consumistico, non noteremmo pressoché alcuna variazione nell’ambiente, perché complessivamente il loro impatto sarebbe trascurabile; ma se quel medesimo stile di vita venisse praticato dall’intera popolazione globale, gli sconvolgimenti ambientali sarebbero così eclatanti da trasformare la Terra in un luogo non più adatto ad ospitare la vita.

    Ad oggi, la sola Cina conta 1,391 miliardi di persone, corrispondenti a circa il 21% della popolazione mondiale; a seguire troviamo: l’India con 1,286 miliardi di cittadini (~ 19%), l’Unione Europea con 494 milioni di persone (~ 7%), gli Stati Uniti con 325 milioni d’individui (~ 5%) e l’Indonesia con 255 milioni di persone (~ 4%). L’Italia conta 60,6 milioni di abitanti (~ 0,8%).

    Complessivamente l’Asia ospita 4,5 miliardi di persone; l’Africa 1,2 miliardi; l’America 1 miliardo e l’unione europea 740 milioni.

    Gli occidentali sono culturalmente indotti a pensare che essi giochino un ruolo centrale nelle dinamiche globali, ma di per sé questi dati mostrano, perlomeno da un punto di vista strettamente quantitativo, che il maggior peso demografico debba posizionarsi in Oriente.

    Una simile conclusione, però, stride con l’odierna egemonia socio-economico-culturale occidentale, con particolare riferimento al ruolo degli Stati Uniti d’America in ambito geopolitico.

    Quest’ultimi, pur sommando non più del 5% della popolazione mondiale, riescono a collezionare una serie di record (negativi) di tutto rispetto: sono il primo Paese al mondo per l’utilizzo di fertilizzanti chimici e per emissioni di CO2, il secondo per inquinamento delle acque e il terzo per volumi di pescato.

    E nonostante la biocapacità media mondiale sia pari a 1,78 ettari pro capite, gli americani vantano un’impronta ecologica pari a 9,6 ettari pro capite.

    Non è esagerato affermare che se Cina ed India adottassero il medesimo livello di consumo degli americani l’umanità causerebbe la sua stessa estinzione.

    Già da questi dati, il lettore più accorto avrà intuito che qualcosa non torna: è evidente che si possano sfruttare più risorse di quante ce ne spetterebbero in media soltanto a discapito degli altri.

    Ad una festa di compleanno con 10 invitati e una sola torta tagliata in 10 parti uguali, per soddisfare l’ingordigia d’uno dei partecipanti, è inevitabile che qualcun altro debba rinunciare a mangiare la sua fetta.

    Ciò accade anche per lo sfruttamento delle risorse della Terra, le quali, per ovvi motivi, sono limitate.

    Per spiegare come sia possibile che un piccolo numero d’individui possa permettersi il lusso di avere un’impronta ecologica così elevata, un dato su tutti sarà più che sufficiente: quello relativo alle spese militari.

    Neanche a dirlo, in testa alla classifica ritroviamo gli Stati Uniti, con ben 663 miliardi di dollari all’anno, seguiti da Cina, Regno Unito, Francia e Russia, rispettivamente con 98, 69, 67 e 61 miliardi di dollari.

    In termini comparativi, ciò significa che gli Stati Uniti spendono circa 7 volte in più rispetto alla Cina e 11 volte in più rispetto alla Russia.

    L’Unione Europea, nel suo complesso, è la seconda forza mondiale per spese militari, con la ragguardevole cifra di 331 miliardi di dollari utilizzati per finalità belliche, nonostante vi siano ben 75 milioni di poveri distribuiti nelle varie nazioni dell’Eurozona di cui bisognerebbe occuparsi.

    Nel mondo, si stima che la spesa militare totale si attesti (ufficialmente) sui 1.750 miliardi di dollari, un dato che non ho alcuna esitazione a definire osceno, nonostante esso sia ampiamente sottostimato: soltanto un ingenuo potrebbe pensare che il denaro destinato alle questioni militari venga completamente rendicontato, dichiarando pubblicamente il suo effettivo ammontare alla luce del Sole.

    Dacché gli esseri umani hanno camminato sulla Terra, le guerre sono servite a conquistare nuovi territori e ad arrogarsi, con l’uso diretto della forza, il diritto allo sfruttamento delle risorse altrui.

    Pertanto, se gli Stati destinano ancor oggi un quantitativo di denaro così elevato per fini bellici, possiamo dedurre che per essi la guerra rappresenti un fattore decisivo per mantenere in essere i propri livelli di consumo, ovvero, l’attuale ordine sociale.

    Violenza e civiltà sono due aspetti in totale antitesi. Il fatto che si utilizzino così tante risorse per eserciti ed armamenti, è la dimostrazione più lampante dell’eclatante arretratezza della specie umana.

    Se gli sforzi psico-fisici, il tempo e i fondi economici destinati alla guerra fossero stati impiegati in modo intelligente e altruistico per migliorare le condizioni di vita di tutti gli esseri viventi, a quest’ora si sarebbero pressoché risolti tutti i problemi che invece ancora oggi affliggono l’umanità.

    Ambiente

    Il basso livello evolutivo della specie umana non si evince soltanto dal modo cinico e brutale con cui costruisce armi sempre più efficaci per sterminare, dominare e sottomettere i propri simili, ma anche dal rapporto insano che ha instaurato nei confronti della natura.

    In questo ambito, i più importanti indicatori convergono in un’unica direzione: gli esseri umani stanno depredando, distruggendo e inquinando la loro casa, la Terra, per mezzo di un sovra-sfruttamento incurante dei limiti dovuti alla finitezza del pianeta che popolano.

    L’impatto complessivo, generato dai modi di produzione e consumo adottati dall’umanità, ha superato di misura le capacità rigenerative dell’ecosistema già da alcuni decenni.

    Questo è quanto sintetizzato nel computo dell’Earth Overshoot Day, caduto il 2 agosto nell’anno 2017, una data che sta ad indicare il giorno in cui la richiesta di risorse naturali dell’umanità per l’anno corrente supera la quantità che la Terra sarebbe in grado di generare nel corso del medesimo anno.

    Ciò significa che gli esseri umani stanno sovra-sfruttando la Terra ad un ritmo 1,7 volte superiore rispetto alla capacità di rigenerazione degli ecosistemi o, se preferite, che per soddisfare l’attuale richiesta di risorse in modo sostenibile servirebbero 1,7 pianeti.

    Il precedente dato è riferito alle complessive dinamiche globali ma, com’è facile intuire, i Paesi più sviluppati riescono a fare ben di peggio.

    Ad esempio, se tutti gli abitanti della Terra vivessero come i cittadini degli USA avrebbero bisogno di 5 pianeti per soddisfare le loro esigenze, se invece adottassero lo stile di vita dei tedeschi necessiterebbero di 3,2 mondi, se consumassero come gli italiani gli occorrerebbero 2,6 pianeti Terra, mentre lo stile di vita dei cinesi richiederebbe 2,1 mondi.

    Al tipico sovra-sfruttamento dei Paesi più avanzati fa eccezione l’India, con un impatto ambientale così modesto da richiedere soltanto 0,6 mondi.

    Ma l’ecologismo degli indiani non è il frutto di un virtuosismo volontario, dovuto a un’elevata efficienza o a una particolare attenzione nei confronti dell’ambiente, bensì a una diffusa e gravosa condizione di povertà.

    In India, infatti, si stima che il 75% della popolazione sopravviva con meno di 2 dollari al giorno; tra questi individui ben 456 milioni non raggiungono la quota minima di sopravvivenza, stabilita in 1,25 dollari al giorno. Complessivamente, è stato calcolato che l’India ospiti il 33% di tutti i poveri del pianeta.

    Analoghe considerazioni possono essere fatte per tutti gli Stati più poveri: il loro apparente ecologismo è la conseguenza forzosa della loro miseria materiale.

    Da questi dati emerge, in modo forte e chiaro, un’esigenza: quella di ridurre il sovra-sfruttamento dei Paesi del Primo Mondo, così da liberare energia e risorse da impiegare per consentire ai poveri di non esser più tali e cercare, al tempo stesso, di ricondurre lo sfruttamento ambientale globale entro una condizione di sostenibilità.

    Chi ha oltrepassato i limiti ecologici deve indietreggiare, se vuole fare in modo che tutti possano prosperare.

    Che ogni Paese debba adottare degli stili di vita che se fossero estesi al resto del mondo impiegherebbero la biocapacità di un numero minore o uguale a quella di un solo pianeta, è una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per assicurare la sopravvivenza dell’umanità nel lungo termine.

    Ma evidentemente questa banalità non dev’esser chiara a quei grandi economisti che continuano a prescrivere ricette basate sulla crescita proprio a quei Paesi che dovrebbero decrescere per primi, perché hanno già oltrepassato di misura i limiti ambientali.

    Nel corso degli anni, per sostenere la crescita economica, si sono alimentati i consumi, passando dalla doverosa soddisfazione di bisogni reali e fondamentali, al folle appagamento di falsi bisogni più utili alla sopravvivenza del sistema economico in sé, che non agli esseri umani.

    E così, pur di mantenere in vita un’economia malsana, l’umanità si è auto-imposta l’imperativo d’un consumo sempre più rapido e futile, illudendosi che il consumismo fosse una pratica indolore.

    Ma incrementare oltre misura il consumo significa anche accrescere l’inquinamento ambientale e l’inevitabile processo di trasformazione da materia disponibile a materia non disponibile, producendo così materia degradata non più impiegabile per le finalità antropiche.

    Per quanto gli ecologisti più sprovveduti asseriscano il contrario, ciò vale persino in un’economia totalmente dedita al riciclaggio, ma è ancora più vero in un sistema estrattivo di tipo lineare basato sul profitto, come quello che caratterizza l’epoca attuale, dove il destino degli oggetti consiste nel finire il più rapidamente possibile in una discarica (o in un inceneritore) per fare in modo che si possa ri-produrre e ri-comprare in continuazione le stesse cose, impiegando futilmente quantitativi addizionali di materia, energia, tempo (di vita) e lavoro.

    Come chiunque può comprendere, simili dinamiche introducono un’eclatante inefficienza, del tutto dannosa ed evitabile, messa in atto per questioni di profitto e non perché attraverso di essa si concorra al miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità.

    L’entità dei processi estrattivi legati ad una crescita economica drogata è descritta dalla seguente progressione:

    nel 1970, al fine di soddisfare la domanda di beni e servizi, l’umanità estraeva dall’ambiente 22 miliardi di tonnellate all’anno di materie prime; nei 4 decenni successivi, la crescita economica ha spinto sempre più in alto i consumi, fino a richiedere l’estrazione di 70 miliardi di tonnellate di materie prime nel 2010; il 2017 ha fatto segnare un altro incremento del 26,5% rispetto al 2010, raggiungendo così la cifra di 88,6 miliardi di tonnellate di materie prime sottratte all’ambiente per finalità antropiche.

    Ma non finisce qui: se non verranno prese contromisure, si stima che nel 2050 il sistema economico pretenderà la mostruosa cifra di 180 miliardi di tonnellate di materie prime all’anno per soddisfare la domanda di beni e servizi dell’umanità che verrà.

    Attualmente, i Paesi più ricchi consumano quantitativi di risorse 10 volte superiori rispetto agli Stati più poveri, attestando i loro fabbisogni di materie prime a circa il doppio rispetto alla media mondiale.

    Tradotto in numeri, ciò significa che mentre gli abitanti del Nord America e dell'Europa hanno un impatto pro capite di 25 e 20 tonnellate all'anno di materie prime, gli africani devono accontentarsi di 3 tonnellate a testa, pur abitando in uno dei continenti più ricchi di risorse naturali.

    Ma nei processi produttivi, se da un lato c’è estrazione, dall’altro c’è re-immissione di materia, più o meno degradata, più o meno inquinante.

    Ciò avviene sia a causa dei processi di trasformazione, che inevitabilmente consumano ed emettono sia energia che materia, che per l'utilizzo dei beni, i quali sono soggetti a guasti, usura e obsolescenza, e possono produrre emissioni durante il loro funzionamento.

    Pertanto, se il consumo diviene di massa, come lo è senz’altro ormai da alcuni decenni, hanno luogo delle problematiche macroscopiche, che non possono essere ignorate, dovute alla produzione di scarti formati da sostanze di varia natura, la cui presenza può essere in qualche modo dannosa, sia per l’ambiente che per gli esseri viventi.

    È stato stimato che l’umanità produca complessivamente 4 miliardi di tonnellate di spazzatura all’anno, un quantitativo che potrebbe salire fino a raggiungere i 6 miliardi di tonnellate entro i prossimi 10-15 anni.

    Poco meno della metà del totale della spazzatura (1,6-2 miliardi di tonnellate) è composta da rifiuti di tipo urbano prodotti dalle famiglie, mentre la parte restante è formata dai cosiddetti rifiuti speciali provenienti da attività industriali e produttive.

    Di tutta questa mole di rifiuti, soltanto il 19% viene riciclato o compostato, l’11% viene utilizzato per produrre energia ed il restante 70% finisce in discarica.

    Per quanto riguarda l’avviamento al riciclo, secondo Eurostat, la media europea si attesta al 37%. Germania, Inghilterra e Francia raggiungono rispettivamente il 43%, il 44% e il 54%. In testa all’Eurozona troviamo l’Italia con una percentuale del 76,9%.

    Ora qualcuno starà pensando che con delle percentuali così elevate l’Italia sia prossima ad aver risolto il problema dei rifiuti... Ma è davvero così che stanno le cose?

    Non esattamente, perché le percentuali dipendono dalle linee guida adottate per effettuare il calcolo; inoltre non tutto ciò che è avviato al riciclo viene effettivamente riciclato.

    Accade così che nel 2016 la raccolta differenziata sia cresciuta del 12,8% rispetto al 2015, ma di tale crescita circa il 40% sia riconducibile alle differenti modalità di calcolo introdotte di recente.

    E non mancano esempi di città dove il 50% della plastica conferita per essere riciclata finisce lo stesso negli inceneritori per produrre energia.

    Incrociando i dati di Utilitalia e Ispra, si scopre che nel 2016 la quota di riciclaggio italiano si attestava attorno al 49% dei rifiuti, un calcolo ottenuto sommando le seguenti voci: recupero di materia (~26%), trattamento biologico dell’organico (~19%), trattamenti intermedi di selezione e biostabilizzazione (~ 3%) e compostaggio domestico (~1%).

    Il 25-30% di ciò che non viene riciclato finisce in discarica mentre un 18-21% viene incenerito, o meglio valorizzato, come si suol dire oggigiorno per cercare di mitigare con la propaganda le innegabili problematiche legate all’incenerimento dei rifiuti.

    Ma nei termovalorizzatori ci sono i filtri: già i filtri. Ed inoltre, bruciare i rifiuti consente di evitare di ammucchiare spazzatura in discarica... e invece no!

    Cominciamo col dire che, nel 2016, il 70% degli impianti funzionanti sul territorio italiano ha avuto problemi di emissioni fuori norma, inchieste della magistratura e mancate autorizzazioni degli enti di controllo.

    Del resto, anche il più moderno impianto di termovalorizzazione produce comunque emissioni di particolato, diossine, furani, idrocarburi policiclici aromatici e metalli, sebbene lo faccia entro i limiti fissati da un qualche ente, figuriamoci cosa possano emettere gli impianti più vecchi; inoltre, si deve considerare che l’incenerimento riduce fino al 70% la massa dei rifiuti in ingresso.

    Ciò significa che per ogni tonnellata di spazzatura restano comunque da gestire non meno di 300 kg di ceneri pesanti e leggere: le prime, derivano dal residuo non combustibile dei rifiuti (si pensi ad esempio ai metalli, al vetro o a materiali inerti) e sono classificate come rifiuto speciale non pericoloso; le seconde, sono legate ai trattamenti di depurazione dei reflui gassosi, vengono prodotte in quantità di 30-60kg per tonnellata di materiale in ingresso e sono altamente tossici.

    In certi casi le ceneri pesanti possono essere riciclate, a patto che non siano troppo contaminate, altrimenti finiscono in discarica. I loro processi di riciclo, però, prevedono lavaggi in acqua, vagliature, l’utilizzo di sostanze chimiche e trattamenti termici ad elevata temperatura; le ceneri leggere, invece, generalmente vengono smaltite in discarica.

    Numericamente parlando, in Italia, su oltre 6,3 milioni di tonnellate di rifiuti inceneriti, circa 1,4 milioni di tonnellate rimangono come residui e rifiuti.

    Tra di essi vi sono 980 mila tonnellate di ceneri pesanti, 200 mila tonnellate di residui provenienti dai processi di abbattimento dei fumi e 180 mila tonnellate di scorie pericolose di varia natura, senza considerare i rifiuti liquidi e fangosi altamente inquinanti che derivano dai processi di abbattimento delle polveri di emissione degli impianti.

    Tra le curiosità ecologiche legate alla pratica del bruciar rifiuti, è interessante scoprire che, pur essendo una delle principali cause di emissione di sostanze inquinanti, la combustione incontrollata di pattume condotta a cielo aperto non venga presa in considerazione, sottostimando così l’inquinamento atmosferico.

    Eppure, nel mondo, circa il 40% dei rifiuti vengono smaltiti ogni anno attraverso dei roghi incontrollati, immettendo nell’aria sostanze dannose sia per la salute umana che per i cambiamenti climatici.

    Le conseguenze disastrose dovute ad una concezione economica autoreferenziale e metafisica, che ignora questioni fondamentali come l’impatto ambientale e la salute umana, sono divenute così eclatanti da essere facilmente individuabili.

    Il caso della plastica ha dell’incredibile: l’umanità ha inquinato i mari con più di 150 milioni di tonnellate di materie plastiche.

    Non soddisfatti, gli esseri umani continuano a contaminare gli oceani con circa 8 milioni di tonnellate di plastica all’anno. Se non saranno prese contromisure, nel 2050 in acqua ci sarà più plastica che pesci, anche perché quest’ultimi si avviano all’estinzione.

    Nel frattempo le isole di plastica, già formatesi nelle zone di convergenza delle correnti degli oceani, si accrescono sempre più, sia per estensione che per densità; la più grande di esse, l’Isola di plastica del Pacifico, ricopre una superficie tre volte più grande di quella della Francia.

    Ovviamente, i primi a farne le spese sono gli animali: l’aspetto, e forse l’odore, della plastica li attira e così finiscono per scambiarla per cibo.

    Ciò dà origine a delle vere e proprie stragi, come quella degli albatros documentata da Chris Jordan sull’isola di Midway. In quel luogo, i volatili e i loro piccoli muoiono ogni giorno dopo una lunga agonia provocata dall’ingestione di spazzatura.

    Non sono soltanto le macro-plastiche disperse negli oceani ad arrecare danno agli animali, ma anche le micro-plastiche, le quali possono essere facilmente ingerite da una più ampia gamma di specie.

    Ma alla natura non manca di certo il senso dell’umorismo e così ciò che gli esseri umani credono di gettar via impunemente gli si ripresenta in tavola, sia nei piatti che nei bicchieri.

    Oltre al pesce ed ai molluschi, risultano contaminati da particelle di plastica anche il miele, la birra e il sale da cucina.

    Dei 159 campioni d’acqua potabile prelevati dai rubinetti di città grandi e piccole sparse per i vari continenti del mondo, l’83% conteneva fibre di plastica.

    La contaminazione più elevata, in termini percentuali, è stata riscontrata negli Stati Uniti (94%) mentre quella più bassa in Europa (72%).

    Non se la cava meglio l’acqua venduta in bottiglie di plastica, che presenta particelle contaminanti nel 93% delle occorrenze, anche se in questo caso c’era da aspettarselo.

    Al momento, i rischi per la salute dovuti all’introduzione della plastica nel regime alimentare umano vengono minimizzati, l’importante è che tutto resti così com’è e si continui a far profitto.

    Di certo, chi ha la possibilità di acquistare acqua in bottiglia se la passa decisamente meglio rispetto a quei 2 miliardi di persone che invece sono costrette a utilizzare, per bere e lavarsi, una fonte d’acqua contaminata, esponendosi così al serio rischio di contrarre malattie mortali come colera, dissenteria, tifo e poliomielite.

    Nel mondo, infatti, più di 4 miliardi di persone vivono in condizioni di scarsità d’acqua per almeno un mese all’anno, mentre 500 milioni di persone abitano in luoghi dove il consumo annuo di acqua è doppio rispetto alla quantità che la pioggia riesce a reintegrare.

    Se non si adotteranno delle drastiche contromisure, nel 2030 il 47% della popolazione mondiale subirà problematiche dovute alla scarsità di acqua, mentre nel 2050 circa il 60% della popolazione globale vivrà in condizioni di stress idrico.

    Se l’acqua degli oceani è inquinata, l’aria sembrerebbe esserlo ancora di più, tanto che, in alcuni giorni, le cappe di smog che ricoprono le città possono essere fotografate dallo spazio.

    E non stiamo parlando soltanto dell’ormai celebre inquinamento delle città dell’India e della Cina ma anche di quelle italiane.

    Nel 2017, in Italia, 39 capoluoghi di provincia hanno superato la soglia di sicurezza dei 35 giorni annui oltre il limite massimo di smog consentito per le polveri sottili (media giornaliera superiore a 50 microgrammi per ogni metro cubo), tra questi in 10 hanno oltrepassato il limite dei 90 giorni annui oltre la soglia massima d’inquinamento stabilita dalle direttive europee.

    Per quanto riguarda l’ozono, sono state 44 le città italiane che hanno registrato il superamento del limite di 25 giorni oltre la soglia consentita nell’anno solare.

    Sommando i due dati, la maglia nera spetta a Cremona con ben 178 giorni di inquinamento rilevato (105 per le polveri sottili e 73 per l’ozono); a seguire: Pavia 167 giorni, Lodi, Mantova e Monza a pari (de)merito con 164 giorni d’inquinamento totale, Milano 161 giorni ed Alessandria con 160 giorni.

    Si badi bene: non che negli altri giorni l’aria non fosse inquinata, lo era lo stesso ma entro i limiti stabiliti (ad arbitrio) da un certo ente. Come a dire che a norma di legge è lecito respirare sostanze nocive, mentre invece esse non dovrebbero essere presenti.

    Resta il fatto che, a detta dell'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), il 92% della popolazione mondiale respira aria inquinata oltre il limite di sicurezza per le polveri sottili.

    Un limite, quello relativo al PM10, che per l’OMS corrisponde ad una media su base annua di 20 microgrammi per metro cubo, senza mai raggiungere in un sol giorno i 50 microgrammi per metro cubo, mentre per le direttive europee si attesta su di una media assai più accomodante pari a 40 microgrammi per metro cubo, consentendo che i giorni in cui possono essere sforati i 50 microgrammi per metro cubo non siano più di 35 all’anno.

    La stessa cosa accade per il PM2.5, con una soglia massima stabilita dalla UE pari ad una media annua di 25 microgrammi per ogni metro cubo, che invece, stando al parere dell’OMS, dovrebbe attestarsi sui 10 microgrammi.

    Si tenga presente che il PM10 ed il PM2.5 sono stati classificati dallo IARC (International Agency for Research on Cancer) come cancerogeni certi per l’uomo.

    Le conseguenze esiziali dovute a questo piccolo, lento ma continuo processo di avvelenamento generalizzato, sono innegabili, tanto da essere ufficialmente stimate: 7 milioni di morti all’anno.

    L’inquinamento dell’aria è la causa del 24% delle morti per attacco cardiaco, del 25% degli ictus letali, del 43% delle morti per malattie polmonari ostruttive e del 29% dei tumori al polmone.

    E come se non bastasse, lo smog fa invecchiare il cervello, danneggia la pelle e causa l’infertilità maschile.

    Tra i grandi Paesi europei, l’Italia è quello che fa registrare il più alto numero di morti per inquinamento atmosferico.

    Il bel paese ha una media di 1.500 morti premature all’anno per inquinamento per milione di abitanti, ed è seguito da Germania con 1.100 morti, Francia e Regno Unito, che si attestano a circa 800 morti, e Spagna con 600 morti.

    La media europea è pari a 1.000 morti premature all’anno per inquinamento per milione di abitanti.

    I gas che vengono immessi nell’aria non rappresentano soltanto un problema per la salute umana ma influiscono anche sul clima. È questo il caso dei cosiddetti gas serra o, più in generale, dei gas climalteranti.

    Tra di essi elenchiamo: il vapore acqueo (H2O), l’anidride carbonica (CO2), il protossido di azoto (N2O), il metano (CH4) ed alcuni gas fluorurati, come ad esempio: i clorofluorocarburi (CFC), gli idrofluorocarburi (HFC), i perfluorocarburi (PFC) e l’esafluoruro di zolfo (SF6).

    Questi gas condividono la caratteristica di far penetrare la radiazione solare nell’atmosfera e di ostacolare l’uscita della radiazione infrarossa riemessa dalla superficie terrestre.

    Ne consegue un certo innalzamento della temperatura media dell’atmosfera ed una minor intensità delle escursioni termiche tra giorno e notte.

    Tutto ciò è noto con il nome di effetto serra ed è proprio dal suo verificarsi che ha origine un equilibrio dinamico fondamentale per lo sviluppo e la sopravvivenza delle forme di vita presenti sulla Terra.

    Al contrario, è l’incremento dell’effetto serra a rappresentare un serio problema, non per la Terra, la quale è sopravvissuta tranquillamente ad ogni genere di cataclisma, ma per i suoi abitanti.

    Già, perché se si ha un aumento di gas ad effetto serra in atmosfera, si ha anche un incremento della temperatura media globale, e bisognerebbe tenere a mente che, circa 252 milioni di anni fa, un innalzamento della temperatura media di una decina di gradi causò l’estinzione del 95% delle specie animali.

    Il principale gas ad effetto serra, il cui anomalo quantitativo sembrerebbe essere direttamente riconducibile alle attività antropiche, è l’anidride carbonica (CO2), responsabile di per sé per il 5-20% dell’effetto serra complessivo.

    Un suo incremento nell’atmosfera determina un innalzamento delle temperature che, a sua volta, causa una maggior presenza di vapore acqueo, dando luogo così ad alcuni meccanismi di retroazione positivi che tendono ad aumentare ulteriormente la temperatura media.

    Il vapore acqueo, infatti, è il componente climalterante dell’atmosfera più potente, responsabile di per sé per almeno i due terzi dell’effetto serra naturale. Pertanto, un incremento di CO2 di origine antropica causa, seppur indirettamente, anche un innalzamento di temperatura dovuto ad una maggior presenza di vapore acqueo.

    Va inoltre ricordato che gli oceani sono dei grandi contenitori di CO2, in quanto quest’ultima è solubile in acqua. E siccome all’aumentare del calore diminuisce la solubilità della CO2, gli incrementi di temperatura causano rilascio di anidride carbonica nell’aria.

    Quando ciò si verifica, l’ecosistema mette in atto delle contromisure che tendono a fare in modo che nel, suo complesso, il sistema raggiunga un nuovo equilibrio termodinamico, il quale (purtroppo) prevede una temperatura media più elevata.

    Ovviamente le dinamiche sono reversibili e chiaramente sono assai più complesse rispetto a questi semplici esempi appena esposti.

    Ma a giudicare dai dati e dalle previsioni ad oggi reperibili, sembrerebbe proprio che la temperatura media globale sia destinata a salire, non senza che si verifichino delle (spiacevoli) complicazioni.

    A livello mondiale, il 97% della comunità scientifica sostiene che il riscaldamento globale abbia una causa antropica e che la CO2 reciti un ruolo centrale in questo processo. Non mancano però delle voci dissonanti.

    In realtà, i negazionisti dei cambiamenti climatici, così definiti in modo improprio sui mass media, non negano affatto che vi sia un incremento delle temperature in corso, sostengono però che la causa principale di questo fenomeno non sia imputabile alle attività umane, ma ad altri fattori, come ad esempio ad una maggiore intensità dell’irraggiamento solare.

    Negare l’origine antropica del riscaldamento globale non è affatto comparabile con l’affermare che la Terra è piatta: nel secondo caso esiste un esperimento cruciale per stabilire chi ha ragione (basta prendere un aereo ed effettuare qualche giro intorno al mondo), nel primo caso, invece, per raggiungere una certezza assoluta servirebbe una piena conoscenza delle dinamiche climatiche, di cui l’umanità ancora non dispone.

    Inoltre, vale la pena di ricordare che, in generale, il fatto che la maggioranza dei membri della comunità scientifica sia concorde con una qualsiasi tesi non è garanzia di verità: vi fu un tempo in cui la comunità scientifica credeva che la Terra fosse piatta, e che esistesse l’etere luminifero, fin quando queste credenze non furono confutate.

    Per questo, a rigor di termini, bisognerebbe parlare di Teoria del riscaldamento globale di origine antropica, perché non si tratta di una verità dimostrata, così come invece accade per i teoremi della matematica che sono accompagnati da dimostrazioni oggettive e rigorose.

    E bisognerebbe sempre mantenere la mente aperta, ascoltando tutte le teorie e le contro-argomentazioni, assumendo un atteggiamento di sano scetticismo nei confronti di ogni convincimento personale, perché è soltanto in questo modo che l’umanità può sperare di cogliere qualche elemento di verità.

    Del resto, l’esperienza di ieri, e di oggi, mostra che dalla fossilizzazione dogmatica del pensiero scaturiscono i peggiori disastri.

    Da un punto di vista sociologico, gli oppositori della Teoria antropica sostengono che la narrazione catastrofista legata ai cambiamenti climatici sia funzionale dal punto di vista economico, sia per ottenere fondi di ricerca con maggiore facilità, che per generare profitti sfruttando la cosiddetta green economy.

    In modo simmetrico, la medesima argomentazione viene rivolta contro i negazionisti, accusati di essere finanziati dalle multinazionali del petrolio, che, così facendo, possono continuare indisturbate a trarre profitto dallo sfruttamento delle fonti fossili.

    Ma i negazionisti replicano che imporre ai Paesi in via di sviluppo un divieto di utilizzare le fonti fossili, invitandole ad utilizzare direttamente le energie rinnovabili, di fatto, significhi impedire a quei Paesi di svilupparsi e che l’ecologismo sia stato strumentalizzato politicamente per esercitare una forma di controllo sociale, assicurandosi così l’esclusiva sullo sfruttamento delle risorse...

    Si potrebbe andare avanti ancora a lungo, ma un simile approfondimento non è affatto necessario per le finalità di questo scritto: vi spiego subito perché.

    Nel corso della trattazione assumerò come ipotesi di lavoro che i cambiamenti climatici siano da attribuirsi alle attività antropiche, se non altro per un principio di precauzione.

    Se è vero che le temperature stanno aumentando già di per sé, non si comprende l’esigenza di dare man forte al processo, immettendo nell’atmosfera quantitativi addizionali di gas climalteranti in presenza di strategie alternative che consentirebbero di evitare gran parte di quelle emissioni, senza diminuire la qualità della vita degli esseri umani.

    Inoltre, come avrete modo di comprendere leggendo i miei scritti, le soluzioni da me concepite hanno validità generale e possono essere parimenti attuate sia nel caso in cui l’origine del riscaldamento globale sia antropica, sia nel caso in cui non lo sia.

    Per questo motivo, ho ritenuto opportuno evitare di condurvi nei meandri della doverosa e interessante indagine atta a stabilire se i cambiamenti climatici in corso siano, per così dire, naturali o artificiali, ma invito chi volesse approfondire la questione, sia da un punto di vista scientifico che sociologico, a consultare le note che ho inserito in bibliografia.

    Per il momento, possiamo procedere oltre concordando su di un punto: la temperatura media globale sta aumentando.

    Secondo le stime, nel 2015, l’aumento globale di temperatura rispetto all’epoca preindustriale era di circa 0,93 gradi centigradi.

    Se non ci saranno inversioni di tendenza, si prevede un incremento di 4-8 gradi centigradi medi, a seconda degli scenari e dei modelli adottati, con delle conseguenze che sono state definite catastrofiche già al verificarsi di un incremento di soli 3-5 gradi.

    Se poi si dovessero superare i 5 gradi d’innalzamento, si metterebbe in dubbio la sopravvivenza di gran parte dell’umanità.

    Per scongiurare questi scenari, nel 2015, con gli accordi di Parigi, i delegati di circa 200 Paesi di tutto il mondo si sono impegnati a mantenere l’aumento della temperatura media entro i 2 gradi centigradi dai livelli preindustriali, riservandosi di compiere tutti gli sforzi necessari affinché l’aumento non superi gli 1,5 gradi.

    L’accordo prevede una sostanziale diminuzione delle emissioni di gas serra a partire dal 2020, fino a raggiungere, al massimo entro il 2100, il momento in cui la produzione di nuovi gas climalteranti sarà sufficientemente bassa da essere assorbita naturalmente.

    Nel frattempo, dopo tre anni di stallo, le emissioni di anidride carbonica risultano in aumento ed il presidente degli Stati Uniti Donald Trump annuncia il ritiro dagli accordi di Parigi.

    Nel mese di aprile 2018, la concentrazione mensile media di anidride carbonica

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