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La questione ecologica
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La questione ecologica

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La questione ecologica è una raccolta di saggi in cui l'autore affronta le principali problematiche ambientali dell'odierna società da un punto di vista socio-economico, al fine d’individuare le migliori soluzioni da mettere in campo per porre rimedio ai disastri causati dall’umanità.
LanguageItaliano
Release dateSep 3, 2019
ISBN9788834179826
La questione ecologica

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    La questione ecologica - Mirco Mariucci

    La Questione

    Ecologica

    3 Settembre 2019

    Mirco Mariucci

    Quarta di copertina

    La questione ecologica è una raccolta di saggi in cui l'autore affronta le principali problematiche ambientali dell'odierna società da un punto di vista socio-economico, al fine d’individuare le migliori soluzioni da mettere in campo per porre rimedio ai disastri causati dall’umanità.

    Dati e previsioni

    Demografia

    Ogni società è composta da un insieme di individui che interagiscono all’interno di un ambiente.

    Ad oggi, la società degli esseri umani è formata da 7,6 miliardi di persone che popolano un pianeta del sistema solare chiamato Terra.

    L’umanità ha impiegato decine di migliaia di anni per raggiungere, nel 1800, una popolazione composta da 1 miliardo di individui.

    Da quel momento, però, ha avuto luogo un’esplosione demografica riassunta nella seguente progressione: nel 1927 sono stati raggiunti i 2 miliardi di esseri umani; nel 1974 la popolazione è raddoppiata toccando i 4 miliardi d’individui; stando alle previsioni, nel 2023 la popolazione mondiale raddoppierà ancora raggiungendo gli 8 miliardi di persone, per poi passare a 8,6 miliardi nel 2030, 9,8 miliardi nel 2050 ed infine 11 miliardi nel 2100.

    Nel periodo 2010-2013, l’aspettativa di vita media a livello globale per gli uomini è stata pari a 68,5 anni, mentre per le donne è stata di 73,5 anni, con un valor medio, calcolato considerando entrambi i sessi, di 71 anni; entro il 2050, l’aspettativa di vita media globale crescerà fino a raggiungere i 76,2 anni.

    Si tenga presente che questi dati sono soggetti ad una forte variabilità, a seconda di dove si ha la fortuna di nascere e vivere.

    Ad oggi, infatti, l’aspettativa di vita più elevata si registra nel Principato di Monaco (~89 anni), seguono in ordine: Giappone (~85 anni), Singapore (~85 anni), Macao (~85 anni) e la Repubblica di San Marino (~83 anni).

    Nel 2015, la media UE-28 per il medesimo indicatore si attestava sugli 80,6 anni, mentre l’Italia faceva registrare 82,7 anni di vita media attesa alla nascita.

    I valori più bassi, invece, vengono rilevati in Nigeria (~54 anni), Mozambico (~54 anni), Lesotho (~53 anni), Repubblica Centrafricana (~53 anni), Somalia (~53 anni), Zambia (~53 anni), Swaziland (~52 anni), Gabon (~52 anni), Afghanistan (~52 anni), Guinea Bissau (~51 anni) e Ciad (~51 anni).

    Non c’è alcun dubbio che l’umanità stia invecchiando: nel 2015, soltanto l’8,5% degli abitanti della Terra (circa 617 milioni di individui) aveva 65 anni o più, ma entro il 2050 questa classe di popolazione si attesterà al 17% del totale (circa 1,6 miliardi di persone).

    In particolare, gli over 60 passeranno dagli attuali 962 milioni, a 2,1 miliardi nel 2050, per arrivare a 3,1 miliardi nel 2100.

    A livello mondiale, il tasso di fecondità sta diminuendo pressoché ovunque, tanto che negli ultimi 50 anni si è assistito ad un dimezzamento del numero medio di figli per donna, che oggi è pari a 2,45.

    Si consideri che il tasso di sostituzione della specie umana, vale a dire quel valore che mantiene costante la popolazione, è pari a 2,1 figli per donna.

    I dati previsionali dicono che i Paesi ad alto tasso di fecondità (più di 5 figli in media per donna) scompariranno, quelli con un medio tasso di fecondità (da 2,1 a 5 figli in media per donna) subiranno una riduzione, mentre si verificherà un forte aumento delle nazioni che non raggiungono la soglia di sostituzione, tanto che entro il 2030 il 67% della popolazione vivrà in luoghi dove le donne avranno uno o due figli.

    Tra gli Stati con i tassi di natalità più elevati troviamo: Congo, Guinea, Liberia, Niger, Afghanistan, Mali, Angola, Burundi, Uganda e Sierra Leone, i quali fanno registrare più di 45 nati ogni 1.000 abitanti.

    Al lato opposto, tra i Paesi con i tassi di natalità più bassi, ci sono: Lituania, Croazia, Slovenia, Bulgaria, Bosnia, Giappone, Germania, Singapore, Hong Kong e Macao, con valori inferiori a 10 nati ogni 1.000 abitanti.

    Da un punto di vista quantitativo, ciò significa che mentre le donne nigeriane mettono al mondo 7,3 bambini, quelle tedesche ne danno alla luce soltanto 1,5. La media europea si attesta a 1,58 figli per donna, mentre in Italia ogni donna genera in media 1,34 bambini.

    In estrema sintesi, possiamo dire che nonostante l’umanità si stia riproducendo ad un minor tasso percentuale rispetto al passato, nei prossimi decenni la popolazione mondiale continuerà lo stesso ad aumentare, insieme all’età media della popolazione ed all’aspettativa di vita.

    Il maggior contributo in termini di natalità proverrà dai membri dei Paesi più poveri, quelli in via di sviluppo.

    Se da una parte è vero che non ci si può fidare ciecamente dei dati previsionali, in particolar modo quando si parla di popolazione mondiale, perché il numero degli esseri umani potrebbe variare sensibilmente a causa di fattori non prevedibili a priori, come ad esempio il verificarsi di un cataclisma o la scelta politica d’imporre delle stringenti pianificazioni per il controllo demografico, dall’altra è altresì vero che il quantitativo di soggetti che già oggi popola la Terra è divenuto così elevato da rappresentare un fattore determinante che non può più essere trascurato.

    Non a caso, negli anni ottanta del Novecento, il biologo Eugene F. Stoermer coniò il termine antropocene (dal greco anthropos che significa uomo) per indicare l’epoca geologica attuale, nella quale le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche del pianeta Terra sono direttamente riconducibili alle attività umane.

    Del resto è inevitabile che ciò avvenga, perché come ci ricorda Friedrich Hegel, nel suo Scienza della logica, un incremento quantitativo di un certo fenomeno non provoca soltanto un aumento della quantità, ma induce anche una variazione della qualità.

    Se un migliaio di abitanti in tutto il mondo adottasse uno stile di vita consumistico, non noteremmo pressoché alcuna variazione nell’ambiente, perché complessivamente il loro impatto sarebbe trascurabile; ma se quel medesimo stile di vita venisse praticato dall’intera popolazione globale, gli sconvolgimenti ambientali sarebbero così eclatanti da trasformare la Terra in un luogo non più adatto ad ospitare la vita.

    Ad oggi, la sola Cina conta 1,391 miliardi di persone, corrispondenti a circa il 21% della popolazione mondiale; a seguire troviamo: l’India con 1,286 miliardi di cittadini (~ 19%), l’Unione Europea con 494 milioni di persone (~ 7%), gli Stati Uniti con 325 milioni d’individui (~ 5%) e l’Indonesia con 255 milioni di persone (~ 4%). L’Italia conta 60,6 milioni di abitanti (~ 0,8%).

    Complessivamente l’Asia ospita 4,5 miliardi di persone; l’Africa 1,2 miliardi; l’America 1 miliardo e l’unione europea 740 milioni.

    Gli occidentali sono culturalmente indotti a pensare che essi giochino un ruolo centrale nelle dinamiche globali, ma di per sé questi dati mostrano, perlomeno da un punto di vista strettamente quantitativo, che il maggior peso demografico debba posizionarsi in Oriente.

    Una simile conclusione, però, stride con l’odierna egemonia socio-economico-culturale occidentale, con particolare riferimento al ruolo degli Stati Uniti d’America in ambito geopolitico.

    Quest’ultimi, pur sommando non più del 5% della popolazione mondiale, riescono a collezionare una serie di record (negativi) di tutto rispetto: sono il primo Paese al mondo per l’utilizzo di fertilizzanti chimici e per emissioni di CO2, il secondo per inquinamento delle acque e il terzo per volumi di pescato.

    E nonostante la biocapacità media mondiale sia pari a 1,78 ettari pro capite, gli americani vantano un’impronta ecologica pari a 9,6 ettari pro capite.

    Non è esagerato affermare che se Cina ed India adottassero il medesimo livello di consumo degli americani l’umanità causerebbe la sua stessa estinzione.

    Già da questi dati, il lettore più accorto avrà intuito che qualcosa non torna: è evidente che si possano sfruttare più risorse di quante ce ne spetterebbero in media soltanto a discapito degli altri.

    Ad una festa di compleanno con 10 invitati e una sola torta tagliata in 10 parti uguali, per soddisfare l’ingordigia d’uno dei partecipanti, è inevitabile che qualcun altro debba rinunciare a mangiare la sua fetta.

    Ciò accade anche per lo sfruttamento delle risorse della Terra, le quali, per ovvi motivi, sono limitate.

    Per spiegare come sia possibile che un piccolo numero d’individui possa permettersi il lusso di avere un’impronta ecologica così elevata, un dato su tutti sarà più che sufficiente: quello relativo alle spese militari.

    Neanche a dirlo, in testa alla classifica ritroviamo gli Stati Uniti, con ben 663 miliardi di dollari all’anno, seguiti da Cina, Regno Unito, Francia e Russia, rispettivamente con 98, 69, 67 e 61 miliardi di dollari.

    In termini comparativi, ciò significa che gli Stati Uniti spendono circa 7 volte in più rispetto alla Cina e 11 volte in più rispetto alla Russia.

    L’Unione Europea, nel suo complesso, è la seconda forza mondiale per spese militari, con la ragguardevole cifra di 331 miliardi di dollari utilizzati per finalità belliche, nonostante vi siano ben 75 milioni di poveri distribuiti nelle varie nazioni dell’Eurozona di cui bisognerebbe occuparsi.

    Nel mondo, si stima che la spesa militare totale si attesti (ufficialmente) sui 1.750 miliardi di dollari, un dato che non ho alcuna esitazione a definire osceno, nonostante esso sia ampiamente sottostimato: soltanto un ingenuo potrebbe pensare che il denaro destinato alle questioni militari venga completamente rendicontato, dichiarando pubblicamente il suo effettivo ammontare alla luce del Sole.

    Dacché gli esseri umani hanno camminato sulla Terra, le guerre sono servite a conquistare nuovi territori e ad arrogarsi, con l’uso diretto della forza, il diritto allo sfruttamento delle risorse altrui.

    Pertanto, se gli Stati destinano ancor oggi un quantitativo di denaro così elevato per fini bellici, possiamo dedurre che per essi la guerra rappresenti un fattore decisivo per mantenere in essere i propri livelli di consumo, ovvero, l’attuale ordine sociale.

    Violenza e civiltà sono due aspetti in totale antitesi. Il fatto che si utilizzino così tante risorse per eserciti ed armamenti, è la dimostrazione più lampante dell’eclatante arretratezza della specie umana.

    Se gli sforzi psico-fisici, il tempo e i fondi economici destinati alla guerra fossero stati impiegati in modo intelligente e altruistico per migliorare le condizioni di vita di tutti gli esseri viventi, a quest’ora si sarebbero pressoché risolti tutti i problemi che invece ancora oggi affliggono l’umanità.

    Ambiente

    Il basso livello evolutivo della specie umana non si evince soltanto dal modo cinico e brutale con cui costruisce armi sempre più efficaci per sterminare, dominare e sottomettere i propri simili, ma anche dal rapporto insano che ha instaurato nei confronti della natura.

    In questo ambito, i più importanti indicatori convergono in un’unica direzione: gli esseri umani stanno depredando, distruggendo e inquinando la loro casa, la Terra, per mezzo di un sovra-sfruttamento incurante dei limiti dovuti alla finitezza del pianeta che popolano.

    L’impatto complessivo, generato dai modi di produzione e consumo adottati dall’umanità, ha superato di misura le capacità rigenerative dell’ecosistema già da alcuni decenni.

    Questo è quanto sintetizzato nel computo dell’Earth Overshoot Day, caduto il 2 agosto nell’anno 2017, una data che sta ad indicare il giorno in cui la richiesta di risorse naturali dell’umanità per l’anno corrente supera la quantità che la Terra sarebbe in grado di generare nel corso del medesimo anno.

    Ciò significa che gli esseri umani stanno sovra-sfruttando la Terra ad un ritmo 1,7 volte superiore rispetto alla capacità di rigenerazione degli ecosistemi o, se preferite, che per soddisfare l’attuale richiesta di risorse in modo sostenibile servirebbero 1,7 pianeti.

    Il precedente dato è riferito alle complessive dinamiche globali ma, com’è facile intuire, i Paesi più sviluppati riescono a fare ben di peggio.

    Ad esempio, se tutti gli abitanti della Terra vivessero come i cittadini degli USA avrebbero bisogno di 5 pianeti per soddisfare le loro esigenze, se invece adottassero lo stile di vita dei tedeschi necessiterebbero di 3,2 mondi, se consumassero come gli italiani gli occorrerebbero 2,6 pianeti Terra, mentre lo stile di vita dei cinesi richiederebbe 2,1 mondi.

    Al tipico sovra-sfruttamento dei Paesi più avanzati fa eccezione l’India, con un impatto ambientale così modesto da richiedere soltanto 0,6 mondi.

    Ma l’ecologismo degli indiani non è il frutto di un virtuosismo volontario, dovuto a un’elevata efficienza o a una particolare attenzione nei confronti dell’ambiente, bensì a una diffusa e gravosa condizione di povertà.

    In India, infatti, si stima che il 75% della popolazione sopravviva con meno di 2 dollari al giorno; tra questi individui ben 456 milioni non raggiungono la quota minima di sopravvivenza, stabilita in 1,25 dollari al giorno. Complessivamente, è stato calcolato che l’India ospiti il 33% di tutti i poveri del pianeta.

    Analoghe considerazioni possono essere fatte per tutti gli Stati più poveri: il loro apparente ecologismo è la conseguenza forzosa della loro miseria materiale.

    Da questi dati emerge, in modo forte e chiaro, un’esigenza: quella di ridurre il sovra-sfruttamento dei Paesi del Primo Mondo, così da liberare energia e risorse da impiegare per consentire ai poveri di non esser più tali e cercare, al tempo stesso, di ricondurre lo sfruttamento ambientale globale entro una condizione di sostenibilità.

    Chi ha oltrepassato i limiti ecologici deve indietreggiare, se vuole fare in modo che tutti possano prosperare.

    Che ogni Paese debba adottare degli stili di vita che se fossero estesi al resto del mondo impiegherebbero la biocapacità di un numero minore o uguale a quella di un solo pianeta, è una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per assicurare la sopravvivenza dell’umanità nel lungo termine.

    Ma evidentemente questa banalità non dev’esser chiara a quei grandi economisti che continuano a prescrivere ricette basate sulla crescita proprio a quei Paesi che dovrebbero decrescere per primi, perché hanno già oltrepassato di misura i limiti ambientali.

    Nel corso degli anni, per sostenere la crescita economica, si sono alimentati i consumi, passando dalla doverosa soddisfazione di bisogni reali e fondamentali, al folle appagamento di falsi bisogni più utili alla sopravvivenza del sistema economico in sé, che non agli esseri umani.

    E così, pur di mantenere in vita un’economia malsana, l’umanità si è auto-imposta l’imperativo d’un consumo sempre più rapido e futile, illudendosi che il consumismo fosse una pratica indolore.

    Ma incrementare oltre misura il consumo significa anche accrescere l’inquinamento ambientale e l’inevitabile processo di trasformazione da materia disponibile a materia non disponibile, producendo così materia degradata non più impiegabile per le finalità antropiche.

    Per quanto gli ecologisti più sprovveduti asseriscano il contrario, ciò vale persino in un’economia totalmente dedita al riciclaggio, ma è ancora più vero in un sistema estrattivo di tipo lineare basato sul profitto, come quello che caratterizza l’epoca attuale, dove il destino degli oggetti consiste nel finire il più rapidamente possibile in una discarica (o in un inceneritore) per fare in modo che si possa ri-produrre e ri-comprare in continuazione le stesse cose, impiegando futilmente quantitativi addizionali di materia, energia, tempo (di vita) e lavoro.

    Come chiunque può comprendere, simili dinamiche introducono un’eclatante inefficienza, del tutto dannosa ed evitabile, messa in atto per questioni di profitto e non perché attraverso di essa si concorra al miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità.

    L’entità dei processi estrattivi legati ad una crescita economica drogata è descritta dalla seguente progressione:

    nel 1970, al fine di soddisfare la domanda di beni e servizi, l’umanità estraeva dall’ambiente 22 miliardi di tonnellate all’anno di materie prime; nei 4 decenni successivi, la crescita economica ha spinto sempre più in alto i consumi, fino a richiedere l’estrazione di 70 miliardi di tonnellate di materie prime nel 2010; il 2017 ha fatto segnare un altro incremento del 26,5% rispetto al 2010, raggiungendo così la cifra di 88,6 miliardi di tonnellate di materie prime sottratte all’ambiente per finalità antropiche.

    Ma non finisce qui: se non verranno prese contromisure, si stima che nel 2050 il sistema economico pretenderà la mostruosa cifra di 180 miliardi di tonnellate di materie prime all’anno per soddisfare la domanda di beni e servizi dell’umanità che verrà.

    Attualmente, i Paesi più ricchi consumano quantitativi di risorse 10 volte superiori rispetto agli Stati più poveri, attestando i loro fabbisogni di materie prime a circa il doppio rispetto alla media mondiale.

    Tradotto in numeri, ciò significa

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