I diari del libraio errante
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I diari del libraio errante - Emiliano Cribari
4 dicembre
Sono un libraio errante.
Ho una bancarella di tre metri per tre, tre tavoli rivestiti da altrettante coperte di iuta, qualche vecchia cassetta della frutta e un piccolo tronco di quercia per rialzare un po’ di libri, poc’altro.
Ma ciò che amo non è tanto vendere libri quanto cercarli, nelle case della gente o negli scatoloni fracassati lungo i tragitti dei traslochi.
Trovare un libro, riconoscere un libro, è come innamorarsi. Pelle sopra carta, carta che ha il profumo del tempo e del silenzio. Un vento di pagine accarezza le dita, incanta gli occhi. È come possedere un impalpabile senso di stupore, come dire mi manchi alla polvere, ai ricordi. All’attesa di conoscere un’altra dimensione.
E poi amo queste giornate lunghissime ed estenuanti, sospese, spese finalmente immobile durante le quali osservo la gente passare.
Mi sono svegliato alle sei. Dappertutto era buio. Ho preparato una tazza di tè e mi sono incollato alla finestra della cucina. Prima delle sette ero in macchina. Avranno sofferto, ho pensato gettando uno sguardo ai miei libri, avvolti da una vecchia coperta di lana. Anche i libri sentono il caldo e il freddo, la gentilezza che li sfiora, la rude strafottenza. I libri, come i corpi, portano i segni delle mani e degli occhi. Sentono tutto: l’amore, l’ignoranza, l’umidità, il calore. Sono specchi. Accolgono e mutano.
Lungo la strada verso Rufina il cielo si fa. Nasce dal nulla che sta sopra. Svela nuvole fiere di pioggia.
La giornata è iniziata benissimo.
Mentre stavo sistemando il banco, ho venduto a una signora molto agreste La Traviata, una bella trascrizione dell’opera di Verdi.
Chissà dove andrà a stare, quel libro. Forse sopra un mobile antico, di noce, in un salotto di metà Novecento, il pavimento a scacchi bianchi e neri, un lampadario di cristallo, una sedia di pelle ereditata o acquistata a un mercato dell’usato.
Dovrei chiedere il nome di tutte le persone che incontro. E farmi dire perché hanno voluto quel libro. Dove lo leggeranno e quando.
Poi il cielo si è morso. Ha cominciato a piovere piano. Ho visto i libri raccogliersi e una fuliggine di gocce annidarsi sulle copertine esposte oltre la tenda.
In giro c’erano pochissime persone. Mi ha incuriosito una donna - dev’essere stata una buona camminatrice - una creatura venuta dall’inverno, quasi certamente solitaria. Aveva mani di bambina, leggere, ricoperte da un paio di guanti colorati in stile himalayano dai quali spuntavano soltanto le dita. Per leggere avvicinava tutto il corpo verso i libri quasi fino a inchinarsi, come se non ci vedesse troppo bene; poi li voltava e allocava ogni parola con cura nello sguardo. Gli occhi clementi sorridevano astratti. Ha dato ascolto a due piccoli libri di poesia e a un quadernetto senza righe né quadretti, tutto bianco. Ha alzato la testa e mi ha sorriso. La giornata dei ricordi è finita insieme a lei.
5 dicembre
Durante l’inverno, i libri viaggiano di notte. Stasera alcuni non torneranno da dove sono venuti ma rimarranno fra le mani di qualcuno, nella biblioteca di qualcuno, finiranno al buio di una carta regalo in attesa di sbocciare.
Le voci, di notte, hanno un suono più chiaro. E i miei libri questa notte sembrano chiedermi in coro verso dove stiamo andando. Questa notte che odora di miele e di tè, che induce moderatamente a scrivere, a compiere soltanto movimenti lenti.
La strada muove i mestieranti dell’alba.
Fra poco più di cinque mesi, a quest’ora, il pellegrino aprirà gli occhi, poserà le braccia incrociate dietro la nuca e fisserà un punto indefinito, in attesa di riprendere il cammino.
Questa è l’ora dei paesi. Delle piccole gioie clandestine: una crepa nel muro, una sedia isolata. Arriva netto in quest’ora ogni suono di casa. L’alba dei monti è il tempo in cui si prega, in cui la mente tende a cose sovrumane.
Una ragazza taglia il viale sonnambula, corre leggera per le strade di Firenze.
Ogni minuto che passa, la città sembra sgranchirsi di luci, di suoni, di lamiere, inizia a reclamare, sospende ogni promessa di pace. Le foglie dei platani si scalmanano, eccitate dal vento e dalle luci imperterrite del Natale.
Un semaforo. Alzo gli occhi sui palazzi nobiliari di viale Spartaco Lavagnini. Lampadari accendono il cielo ancora scuro degli ultimi piani. Luci azzurre e arancioni. In cucina donne affaccendate, anziane e anziani, tazze di tè che attendono i quotidiani. Immagino libri, riviste, sonore invasioni di telegiornali.
Ora distano meno, montagna e città. Anche qui si respira una remota umanità, una normalità di causa estinta. L’alba sfama i giudizi e riporta bambini.
Scanso l’autostrada ed esploro a passo d’uomo una periferia sfasciata, ubriaca, un’idea dislessica di vita, di paesaggio consumato. Cos’ha creato l’essere umano: resto sconcertato. Solo la fotografia può salvare questo paesaggio spudorato.
La mattina parto presto. Troppo presto. Mai una volta che io riesca a non essere in anticipo di almeno mezz’ora.
L’autostrada non mi piace. E in ogni caso la mia Panda in autostrada non può andare.
Parto presto per viaggiare a trenta all’ora e non farmi insultare. Gioco a saltare con le ruote nelle pozze e sento i libri sciaguattare.
Dalla piana delle fabbriche un aereo è in procinto di decollare. I riflessi sul vetro, un’amnesia di realtà.
Quest’ora del giorno mi riporta ai viaggi in Calabria, alle notti di Parma e Reggio Emilia.
Da qui sento il mare: dal pontile di una nave assonnata e gremita di sale.
Prime macchine che abbagliano e mi sorpassano.
Il cielo ha il colore della carta regalo che nonna Filomena comprava il giorno prima di Natale.
Un chilometro ad Agliana: sono arrivato.
Circondati dai libri non si è mai da soli. Anche quando tutti guardano altrove. Anche quando, come adesso, mi sento invisibile. I libri consolano. Ogni tanto ne colgo qualcuno - quasi sempre un libro di poesie - e ne leggo