Io come la fenice
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Io come la fenice - Marcela Hamuraru
I
Mi fermai a osservarlo mentre dormiva. Quasi volessi scovare un’imperfezione in quel profilo da principe.
Un principe. Quante volte me lo ero ripetuto nella testa. Un modo per sentirmi io una principessa, forse.
Eppure quel risveglio ancora sporco di sonno aveva trascinato con sé una domanda feroce: io dove sono? Esisto? Personaggio, appendice, costola dell’uomo.
Volevo essere una persona.
Guardai la sveglia, 5:25.
Guardai lui, ancora beatamente attorcigliato nella convinzione di una vita perfetta da costruire insieme alla donna perfetta. Attraente, elegante, sui tacchi ho sempre saputo camminare bene.
Un Rolex al polso vicino a due tennis di diamanti. Un Tiffany al dito. Il buon gusto nel vestire mi appartiene per eredità materna. Amare il bello significava amare la persona da cui più di tutti sarei voluta essere stata amata: il mio corpo doveva essere sinuoso, attraente, un naso dolce, non spigoloso, labbra morbide, gambe toniche, mani curate.
Certo questo gli pesava, la gelosia era stata spesso motivo di litigio ma si andava oltre.
Otto anni in cui avevo guadagnato una famiglia, una stabilità - o almeno questo era ciò che pensavo prima del risveglio - una posizione sociale.
Cosa c’era di mio?
Otto anni in cui un uomo mi aveva aperto lo sportello della macchina. Una macchina che non guidavo io.
Gli occhi perlustrarono ogni millimetro di soffitto alla ricerca di un’infinitesimale parte della mia identità.
Chi sono io?
Vicino l’angolo a sinistra una crepa nell’intonaco bianco spugnato. Fissarla mi diede respiro, come se da quella crepa potessi scappare senza causare sofferenza.
Non provavo rabbia per Julian, tutto sommato era un buon compagno. Bello come un principe, certo. I boccoli bruni, mossi, un uomo dell’antica Grecia, gli occhi verdi, le labbra carnose, morbide.
Non provavo nulla in quel momento.
Una lucidità spiazzante mi era colata addosso nel sonno.
Mi alzai sgusciando silenziosamente dalle lenzuola nel tentativo di non svegliarlo, ma questa era un’altra delle sue doti. Anche mentre dormiva aveva l’orecchio attento ai miei movimenti.
«Amore, buongiorno! Che ore sono?»
«Quasi le sei tesoro, continua a dormire», non arrestai l’intenzione e con una carezza gli impedii di continuare il dialogo.
Entrai in bagno e alzai la tapparella. Mi guardai allo specchio. Non so dire quanti minuti. Avevo deciso.
Volevo essere una persona.
II
L’ala del velivolo Airbus A320 era l’angolo perfetto della scrivania su cui poggiare il gomito stanco che avrebbe sorretto il braccio e la mano. Su cui poggiare una testa altrettanto stanca. Non era stato facile osservare il suo silenzio: quando gli manifestai il mio bisogno di rientrare in Italia per stare sola la prima reazione fu di rabbia mista a sconforto. Ma dalla vita, che da neonata mi ha catapultata a donna, ho imparato la sottile arte dell’assertività. Non c’era molto da replicare. O meglio, sarebbe servito a poco. Così Julian dopo aver sproloquiato parole che a dire il vero neanche ricordo, rimase in un placido silenzio di accettazione. Di amore. L’ultimo flash che ho è di un lucido verde, allungato e con le ciglia nere.
Poi il taxi, «Please, Charleroi airport, thank you!»
Conoscevo talmente bene quella strada che mi soffermai per tutto il viaggio sulla stoffa cammello del cappotto, un contrasto intrigante con le Louboutin. Una signora, una perfetta, elegante signora che stava viaggiando verso l’ignoto. Non più la sua principessa. In fondo stavo semplicemente tornando a casa mia, nella città in cui vivevo oramai da anni, ma dentro il sentore del cambiamento era forte, un improvviso odore acre di muffa, l’odore delle case vuote, piene di mobili e vuote di persone.
Iniziai a scrivere durante il volo Bruxelles - Roma. Scrivevo nella testa, sui vetri del finestrino, sul retro del sedile davanti. Scrivevo così tanto che iniziai a pensare di essere diventata pazza. Insomma perché lasciare tutto quello che volevo? La sua famiglia mi aveva adottata come la figlia che non ero stata mai.
Una donna improvvisamente diventata pazza e per giunta senza scampo da una domanda che diventava assillante come un uomo geloso. Le voci che sentivo si fondevano l’una nell’altra, frasi sovrapposte, chi sono, dove sono, chi sei Marcela? Cosa vuoi davvero Marcela? Chi parla? Dannazione!
Mi abbandonai al sonno.
Non avevo idea che iniziare a scrivere fosse così faticoso.
III
Le vetrate del portone d’ingresso mi restituirono finalmente un’immagine familiare. Suadente, nonostante tutto. Nonostante il viaggio, la decisione, la paura che sentivo montare dentro. Varcai l’entrata e il tasto 5 dell’ascensore mi tranquillizzò l’animo. Con Josè in braccio e Cleo al guinzaglio infilai la chiave nella toppa e mi tolsi le scarpe ancora prima del cappotto: non l’avevo mai fatto. Le radici, la terra. Dov’è la mia terra? No, respira. Pianta del piede sul pavimento. Non ricominciare a scrivere proprio ora che devi disfare le valigie.
Sistemati i cani, mi dedicai ai bagagli come una schizofrenica che tentava strenuamente di tenere a bada le voci.
Riposi le scarpe, misi nella cesta in bagno gli abiti che andavano rinfrescati, la biancheria intima ancora pulita nel cassettone fronte letto. Mi tenevo zitta con tutte le forze rimaste.
Il colmo. Non avevo mai sopportato quella frase, stai zitta Marcela! E adesso finiva che me la stavo dicendo da sola.
Stremata, mi infilai sotto il getto bollente della doccia. Il tempo si sciolse nel calore del mio corpo. Piansi. Lacrime, acqua bollente e un passato che non mi apparteneva colavano verso lo scolo e io li guardai scivolare liberandomi per sempre, pensavo, di una placenta che non mi serviva più. Potevo finalmente alimentarmi io stessa.
Mi trascinai fino al letto, asciugandomi i capelli quel poco che bastava per non prendermi un accidente e lasciai al materasso tutto il peso del mio corpo. Cinquantacinque chili di donna, una tonnellata di pensieri. L’ultima volta che guardai la sveglia erano le 02.56.
Si parla tanto di risveglio, risveglio emotivo, risveglio di coscienza, ma diavolo il risveglio è davvero uno squarcio: sì, mi ero svegliata, ed ero sola. Nessuno a dedicarmi un gesto di cura. Richiusi gli occhi. Che senso aveva tutto questo? Perché dovevo rendermi la vita difficile? Di nuovo le voci, una sovrapposta all’altra in una sinfonia d’assalto che mi avviluppava dalle caviglie alla fronte. Ah se avrei urlato, ma non erano buone maniere. Avrei urlato e spaccato qualcosa, ma non si addiceva a quell’eleganza che da sempre era per me non un orpello estetico, bensì un valore morale.
Dignità, la parola che mi aveva sempre salvato, mi salvò anche quel giorno. Decisi di alzami, prepararmi, scendere al bar a prendere un caffè perché nella credenza non ne avevo più, andare a comprare un taccuino. Ostia non è zona d’artigianato e io avevo ben chiaro in testa come doveva essere. Figuriamoci se era un problema fare un salto in capitale. Salutati i ragazzi che non mi preparavano la colazione da una ventina di giorni, accompagnata come sempre da Josè e Cleo, salii in macchina e dopo qualche minuto imboccai la Via del Mare per proseguire sulla SP8. Arrivata al quartiere Eur impostai il navigatore, Piazza della Rotonda.
Sveva me ne aveva parlato spesso, una cartoleria antica, una famiglia di artigiani che assemblava taccuini in pelle con le scritte serigrafate color oro. Un piccolo bugigattolo con dentro i più preziosi gioielli capitolini della scrittura. Pelle vera, cuoio, lacci a chiudere i segreti dell’uomo o i sogni infranti, le storie, il dolore e la meraviglia. Ne presi due, pelle in perfetto pendant col tono ruggine del capospalla che indossavo. Con il Pantheon alle spalle e un cielo azzurro che mi scavava i lineamenti del cuore, promisi a me stessa che avrei iniziato a scrivere. Con buona pace delle imperfezioni: parlavo l’italiano meglio di molti italiani! E sentivo che l’unica verità possibile era racchiusa lì, nello scrigno di una propaggine dell’anima che si riversa su un foglio.
L’unica verità possibile era ri-conoscermi.
11/03/2019 ore 09:00
Lo sguardo immobile. Cosa ti hanno fatto? Cosa hai fatto? Cosa ti sei fatta fare? Repulsione.
Mamma mi aveva vestita con cura, come di consueto: un abito rosa antico ricamato a mano, di quelli che mia nonna mandava a ogni festività dal Kazakistan - era una donna ricca la mia nonna materna, ricordo ancora la servitù gioviale che la attorniava a ogni passo in quella grande casa -, poco prima mi aveva fatto una maschera all’henné sui capelli. Era la regina delle maschere e degli impacchi, mia madre. A volte le inventava persino: metteva in acqua le cipolle per estrarne la buccia che, diceva, potenziava la crescita e la lucentezza dei capelli, girava per casa con lo yogurt in faccia e io ridevo a crepapelle perché pensavo giocasse. Insomma che ti metti a fare in viso una cosa che si mangia se non per giocare? Persino le maestre, a scuola, mi chiedevano come facessi ad avere i capelli così lucenti! E non è roba da maestre questa. Quando mio padre venne a prendermi il silenzio tra loro mi tuonò nelle orecchie come un presagio. Ero ancora una bambina, forse. Il passaggio delle consegne era appena stato effettuato: salii in macchina e trovai seduta davanti la sua nuova, prima, compagna. Odoravano di cose buttate a caso, lei e i suoi figli, con quei capelli corti tagliati alla rinfusa, senza un criterio. Educatamente salutai e chiesi dove stavamo andando.
«Andiamo a farci belle. Una donnina deve cambiare ogni tanto per sentirsi bella!»
Mi parve una buona idea. Non sapevo che di lì a poco qualcosa di mio, qualcosa che mi apparteneva sarebbe diventato sostanza morta, appannaggio della scopa di un salone puzzolente di legno umido.
Piccole tende impolverate impedivano alla luce di filtrare dalle finestre della stanza; mi fecero accomodare su una sedia bassa, più bassa delle altre, concedendomi un paio di cuscini affinché stessi comoda mentre una mano estranea perpetrava lo scempio.
Ancora oggi quando sento il rumore delle forbici che addentano i capelli un brivido mi sale lungo la schiena ed è un continuo raccomandarmi, «Taglia poco, giusto il necessario, mi raccomando!»
Comunque, la realtà dei fatti è che rimasi immobile, inerme, paralizzata mentre sul viso della matrigna di turno si stagliava un sorriso sempre più sdentato e maligno.
E intanto io osservavo la nuova Marcela, con un caschetto da maschio e la frangia da Frankenstein che, con una precisione geometrica, mi tagliava la fronte in due.
Dicono che quando si raggiunge il samādhi¹ il respiro si ferma, a me si fermò in un momento che di certo non posso definire beatitudine. Avevano appena amputato la mia personalità, il mio marchio di qualità. Non reagii. Chissà se per il terrore di incontrare l’espressione di mia madre dopo che mi avesse vista in quelle condizioni o per la violenza appena subìta.
Già, strano il concetto di violenza. Si pensa sempre ai lividi, al sangue, alle lacerazioni della carne. Nel contenitore semantico della violenza, vio-len-za, ce n’è una più infima, silenziosa. Come ciuffi di capelli che cadono, recisi, sul pavimento di linoleum.
«Ma che…»
«Mamà…»
Fino a quel momento non avevo capito la gravità del gesto, non lo capii davvero finché non incrociai il suo sguardo: tratteneva lacrime di rabbia e dolore che avevo visto solcarle il viso a lungo. Ed ero io a causargliele.
«Ma che ti sei fatta? Che ti hanno fatto?»
«Papà e Ludmila dicevano che andavamo a farci belle.»
«Marc…», non riusciva a pronunciare il mio nome, non riusciva, le facevo repulsione. Respingeva un’immagine, carne della sua carne, un nome, quello che lei aveva scelto. Come aveva scelto di prendersi cura dei miei capelli ogni singolo giorno, di insegnare a