Giulio Rossi, 'Roscio', La restaurazione del ponte di Orte
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Davanti a questo declino gli intellettuali ortani non vollero restare con le mani in mano. Quando, settant’anni dopo, trapelò la notizia che papa Sisto V intendeva ricostruire un ponte sul Tevere, il poeta Giulio Rossi, detto Roscio, scrisse personalmente al pontefice un opuscolo intitolato La restaurazione del ponte di Orte, perorando la causa della sua terra patria. In questo volume si offre il testo latino, curato in base all’unico esemplare manoscritto noto, e la prima traduzione moderna dell’opera. Il testo è corredato da un’ampia introduzione storica.
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Giulio Rossi, 'Roscio', La restaurazione del ponte di Orte - Luca Burzelli
Un ponte sul fiume, un ponta sulla storia
Luca Burzelli
Introduzione
Il lettore abituato a passeggiare a Orte per via Principe Umberto e via della Rocca proverà un qualche senso di smarrimento davanti alle pagine che qui pubblichiamo. Tutto ciò che compone la nostra immagine quotidiana della valle del Tevere, nella stretta fessura fra il paese e le prime colline umbre, improvvisamente sembra scomparire davanti ai nostri occhi, e la vallata – conosciuta in passato come Il salto del passero – si ripopola di personaggi e scene vecchie di cinque secoli. Ad accoglierci non è più il rigagnolo del fiume coperto di dune sabbiose e tronchi sradicati; non è neppure il lungo corso dell’Autostrada del Sole o, affianco, la striscia d’acciaio della ferrovia Direttissima: in queste pagine, infatti, il rigagnolo d’acqua lascia il posto a un fiume navigabile, attraversato da imbarcazioni cariche di merci verso Roma, in approdo o in partenza dai porti disseminati sulle due sponde; [1] il ponte dell’Acqua Acetosa scompare e al suo posto troviamo barche per l’attraversamento, moli e pali d’approdo, reti da pesca e rovine antiche; le lingue d’asfalto e pietra dell’autostrada e delle ferrovie si riducono a piccole strade lastricate, antiche quanto l’Impero romano e dirette in tutta l’Italia. Chi guardasse oggi le rive selvagge del fiume e le rovine del suo ponte, rimarrà forse sorpreso nel leggere che quelle stesse rive ospitavano feste pubbliche e giochi: nel XVI secolo, ogni anno, il primo giorno di maggio «se coprivano di fiori et fronde le barche, vi erano detti fiori et musiche et le donne, et si ballava poi sotto ad alcuna amena et opaca ombra et ivi se facevano buoni pasti e si aspergevano d’acqua et così si stava alegramente». [2] Dove oggi giacciono sterpi e tronchi divelti [3] , cinque secoli fa la Comunità di Orte si radunava in festa, in un quadro di idilliaca serenità e gioia che solo «la sterilità delli anni et anco la malattia delli huomini» (cioè la peste) arrestarono. Questa trasfigurazione del nostro sguardo non è che l’effetto della Storia: anche ciò che ci sembra più familiare e quotidiano, in realtà è solo l’ultima sembianza di un mutamento incessante che attraversa i secoli.
Tuttavia, benché «ogni cosa muti», come sentenziava Eraclito in un aforisma ricordato da Platone [4] , resta un fatto indiscusso che la città di Orte, fin dai suoi albori, ha sempre legato la propria identità e il proprio benessere al suo fiume. Tra le più antiche testimonianze sull’insediamento urbano, Virgilio nell’ Eneide menziona Orte ricordandone le classes, un’intera flotta di navi schierate contro Roma. [5] Tutt’oggi il blasone del municipio ortano riporta l’immagine di un ponte che attraversa le acque, in omaggio a quel ponte romano che fino all’inizio del Cinquecento aveva determinato la fortuna della città nella geografia dei trasporti italici – e lo stesso blasone ricorre in forma manoscritta nei taccuini di Giulio Rossi, nonché nelle edizioni a stampa secentesche del Fontanini. Questo legame al fiume e al ponte, cioè alle due vie di transito su cui passavano uomini e merci, testimonia chiaramente quale fu lo sviluppo del territorio attraverso i secoli: la fortuna di Orte si lega da sempre al crocevia di strade e vie di comunicazione che si raccolgono nel suo abitato (prima le strade romane e il ponte sul Tevere; oggi la ferrovia e l’autostrada).
Ma per quale ragione, nel corso dei dieci secoli di Medioevo, Orte divenne uno snodo di transito così importante? E soprattutto: chi si serviva del ponte sul Tevere, e per quali scopi? A un primo sguardo, su queste domande le fonti storiche sembrano tacere, tanto che il Gioacchini, il maggiore degli storici ortani del Novecento, sfogliando gli annali pontifici fu indotto a pensare che il ponte sia stato complessivamente poco sfruttato dai viaggiatori provenienti e diretti al nord. [6] Tuttavia, una conclusione come questa richiede uno spoglio bibliografico di maggiore estensione, che consideri non solo il transito di papi, ma anche quello di nobili e re, di eserciti e di mercanti: del resto, è lo stesso Rossi a ricordare quante merci e persone transitavano verso l’Urbe da quel ponte. [7]
Se allarghiamo l’indagine a queste fasce della popolazione, scopriamo uno scenario molto più vivace. Nei prossimi due capitoli considereremo perché tra l’Età antica, il Medioevo e l’Età moderna Orte divenne uno snodo strategico; e soprattutto indagheremo quale ruolo ebbe il ponte sul Tevere nello sviluppo economico e politico della Comunità cittadina.
1
Secondo Lando Leoncini, La Fabbrica Ortana, vol. II, p. 384 r, e vol. I, p. 214 r, nel territorio della Comunità di Orte erano presenti ben quattro porti: il porto dei signori di Portiglione (a Nord, vicino al lago Vadimone), il porto della Girella sotto la città, il porto di santa Lucia o Lucida (alla confluenza della Nera nel Tevere, «sotto il castello di Guatamello») e il porto di Baucche. In questo saggio facciamo riferimento al ms. della Fabbrica trascritto da G. Pasquinangeli nel XIX sec. e conservato presso l’Archivio diocesano di Orte; l’originale autografo secentesco invece è conservato nell’Archivio Storico di Orte, ma al presente non accessibile.
2
Leoncini, La Fabbrica Ortana, vol. II, p. 398 v. Sui ludi tyberini dal 1602 si veda Delfo Gioacchini, Orte, le contrade e i borghi: Attraverso la Fabrica Ortana
, Orte, Menna 2001, p. 162.
3
A questo proposito, è utile ricordare che l’abitato di Orte era circondato da quattro borghi, i quali si estendevano dalle pendici fino al Tevere. A nord si apriva Borgo san Giacomo, nei pressi del ponte. Il borgo era collegato alla città tramite la Porta franca, posta sotto il basamento di Palazzo Alberti e oggi murata. Sotto all’odierna Porta di San Cesareo, invece, era sito Borgo San Giorgio (detto anche Borghetto o Morgo), collegato a San Giacomo dalla Prima Porta: quest’area, racchiusa a sud da mura merlate, era chiamata Carbonara ( Le carte dell’Abbazia di Sassovivo, vol. VI (1223-1227), a cura di A. De Luca, Firenze, Olschki 1976, p. 72). Sul versante sud-ovest, ai piedi della città stava Borgo Santo Stefano (nei pressi delle scuole elementari), mentre più a valle stava Borgo San Leonardo (presso gli attuali impianti sportivi). Ciascun borgo era provvisto di una chiesa omonima (Gioacchini, Orte, le contrade e i borghi, p. 8, pp. 235-237).
4
Platone, Cratilo, 402a.
5
Virgilio, Eneide, VII, 716.
6
Delfo Gioacchini, Sisto V nelle memorie di Lando Leoncini e negli epigrammi di Giulio Roscio, in Giulio Roscio, Epigrammi a Sisto V, a cura di D. Gioacchini, Orte, Menna 1989, pp. 7-33: 22.
7
Infra, p. 93.
Transiti ortani
Una delle più antiche testimonianze della posizione strategica di Orte è legata alle manovre militari del generale Belisario, incaricato dall’imperatore Giustiniano di riconquistare l’Italia occupata dai Goti. Nel 537 d.C. il generale metteva Roma sotto assedio e, su mandato dell’imperatrice Teodora, proclamava papa Vigilio. Nel frattempo, Belisario veniva a Orte, dove fondava il convento e la chiesa di San Giovenale, in ragione dell’importanza della città per le comunicazioni tra Roma e Ravenna (capitale dell’ Esarcato , cioè la circoscrizione italiana dell’Impero bizantino). [1] In quegli anni, il collegamento privilegiato dai Bizantini fra la Romagna e Roma toccava Orte e Perugia, per raggiungere Rimini attraverso Gubbio, Cantiano e Urbino. [2] La collocazione mediana di Orte, a cavallo fra Umbria e Lazio, apriva una serie di conflitti politici nel corso del VI secolo: la città, infatti, era formalmente possedimento imperiale bizantino, ma si trovava a un passo dal Ducato di Spoleto, controllato dai Longobardi. Come se non bastasse, da Orte si apriva la via Amerina, una strada diretta a Perugia e Ravenna interamente controllata dai bizantini (il cosiddetto Corridoio bizantino ) [3] , mentre la Flaminia attraversava in pieno il territorio spoletano. Come molte città di confine, anche Orte subiva le angherie e i traffici militari fra una fazione politica e l’altra. Nel 592 d.C., per esempio, mentre papa Gregorio I tentava una pace coi Longobardi, l’esarca di Ravenna Romano intervenne contro il papa, riconquistando tutto il Corridoio fino a Orte. L’occupazione longobarda di queste città e la fretta dei bizantini di riconquistarle dimostrano quanto fosse strategico il dominio sui collegamenti dell’asse umbro – che sarebbe rimasto teatro di scontri fra Roma e Spoleto per altri centocinquant’anni.
Rovistando nelle fonti antiche, non è raro incontrare il nome di Orte elencato assieme a quello di Bomarzo e Amelia. Il ponte ortano, infatti, apriva un bivio ai viaggiatori che scendevano dall’Umbria: sulla destra, attraversando la piana del lago Vadimone, potevano dirigersi a Viterbo, passando per Bomarzo; sulla sinistra, invece, una volta attraversato l’abitato di Orte, potevano raggiungere Gallese e Roma. [4] Consapevole del valore strategico di questa regione, nel 737 d.C. il duca di Spoleto Trasamondo II aveva occupato militarmente Orte, Bomarzo e Amelia, interrompendo de facto i collegamenti del Corridoio bizantino. [5] Papa Gregorio III ottenne un accordo di pace, con cui offriva denaro e in cambio si vedeva restituire Gallese. Tuttavia, l’accordo fra Trasamondo e Gregorio scontentò un acerrimo nemico del papa, il re longobardo Liutprando, che nel giugno del 739 marciava sull’Umbria, insediava un nuovo duca a Spoleto e riconquistava le tre città: nel frattempo, Trasamondo fuggiva a Roma mentre Gregorio III invocava inutilmente il soccorso di Carlo Martello. [6]
La crisi si risolse due anni più tardi quando il nuovo papa, Zaccaria, desideroso di riportare la pace nella campagna romana, organizzò trattative direttamente con il re longobardo e ottenne la restituzione delle città tiberine. [7] In questa occasione Orte ottenne in ricompensa l’attestazione papale Munus Fidelitatis Santae Romanae Ecclesiae
(Impegno di Fedeltà alla Santa Romana Chiesa), che dal 1439 troneggia sull’insegna cittadina per decreto di papa Eugenio IV. L’amicizia tra Zaccaria e Liutprando è testimoniata dal Liber pontificalis, che celebra l’incontro dei due sovrani a Narni. [8] La testimonianza del Liber pontificalis è tanto più interessante perché, oltre all’incontro di Narni, l’autore descrive anche il percorso dei diplomatici longobardi incaricati della restituzione delle città: un percorso che passò da Amelia al ponte di Orte, poi virò verso Viterbo e Blera, delimitando così l’arco settentrionale del Ducato romano. [9] Nel corso del trattato che qui pubblichiamo, Giulio Rossi non mancherà di ricordare l’episodio dell’incontro fra il papa e il re longobardo, perché questo evento comprovava l’importanza di Orte come snodo strategico e luogo di transito privilegiato fra Roma e il Nord Italia; Giulio, però, non nota – perché il clima geopolitico è ormai del tutto mutato – che questo vantaggio geografico sul confine fra Spoleto e Roma aveva causato alla città almeno quattro secoli di invasioni.
La conquista dei ducati longobardi per mano di Carlo Magno nel 774 d.C. portò qualche decennio di pacificazione in un territorio che per due secoli aveva ospitato conflitti incessanti. Le cronache contemporanee al dominio dei Franchi (l’Anonimo sassone, Eginardo o lo stesso Liber pontificalis) non fanno mai menzione delle città dislocate sulla via Amerina, nonostante l’imperatore fosse sceso a Roma più volte. Sappiamo invece che alla metà del secolo successivo, Orte subiva i contraccolpi della grave crisi politica e militare che travolgeva il Regnum Italiae: nell’830 i saraceni conquistavano la Sicilia e puntavano sulla penisola, non trovando ostacolo alcuno da parte dell’Impero; nell’846, addirittura ponevano sotto assedio Roma, e solo l’intervento del