La dolce illusione
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Book preview
La dolce illusione - Francesco Celotto
I giornata
Morte dell’artista.
Non so chi siete, non posso vedervi, ma avverto la vostra presenza che sfiora la mia mente come una lontana dolcissima melodia. Ma non posso seguirvi, c’è un’immagine dolorosa che paralizza la mia volontà: il riflesso di me, esanime nel mio letto. Sento il mio corpo allontanarsi inesorabilmente, sto lottando con una forza sconosciuta che mi strappa dal silenzio della notte e dall’odore dei pennelli e della trementina che avvolge la mia stanza.
La misericordia e il conforto che mi offrite non bastano a consolarmi, vi prego invece di aiutarmi a tornare, a rientrare nel tepore delle mie lenzuola e della mia esistenza che non posso lasciare così, con la mia opera incompiuta.
Forse dal vostro celeste apice non si scorge la dedizione e l’amore che si può nutrire, in sei anni, per una tela, e non si comprende il dolore che si avverte nell’abbandonarla al destino incerto delle opere incompiute.
Ma non voglio denigrare o ridurre la vostra onnipotenza che percepisco come una luce grandiosa che mi pervade e tenta di separarmi dolcemente dalla vita. Ma se capite del fare l’arte, del credere fino in fondo alla propria opera, del curarla con l’amore e l’ossessione della finitezza, lasciatemi tornare! Ridatemi quella felicità che si realizza con la ricerca e la scoperta di linee nuove e colori mai visti che adesso sono qui, sulla punta del mio pennello. Restituitemi, vi prego, all’eccitazione che si consuma in quell’attimo fuggente, quando l’opera, nell’illusione che sia compiuta, mi appare perfetta.
La vostra compassione è dono sublime, ma nessun paradiso può lenire il dolore di aver lasciato la mia opera claudicante. Datemi un anno, un mese, tre settimane ancora per renderla al mondo. Devo soltanto rafforzare quel rosso, in alto a destra, e quel verde smeraldo va attenuato, così toglie luce all’azzurro e ottunde il colore e le linee delle vicine forme.
In questi sei anni avrei potuto vendere centinaia di tele e accumulare, con la mia bravura, un patrimonio, invece ho sempre lavorato per la bellezza e l’amore, senza pensare al danaro, e per questo forse mi offrite la gioia come premio. Anziché vivere dipingendo robaccia ho cercato una pittura che portasse sogno e meraviglia piuttosto che denaro. Davanti alla ricchezza sono rimasto fedele alla mia passione al punto da impiegare tutto il mio tempo per un’opera che pensavo avrebbe sbalordito ogni critico e umiliato coloro che in nome dell’arte inondano il mondo di schifezze.
Un’opera in grado di sottrarsi al mercato, di superare la propria condizione di merce e presentarsi soltanto come esperienza, individuale e profonda, refrattaria a ogni forma di riproduzione, perché se ne percepirebbe soltanto il suo riflesso.
Lasciatemi tornare, vi prego, permettetemi in qualche modo di concludere la mia esperienza e tramandarla alle nuove generazioni…
I sussulti del treno che rallenta bruscamente, il movimento dei passeggeri che preparano i bagagli e le strida dei freni in prossimità della stazione mi strappano violentemente dai vortici del sogno.
Addormentato accanto al finestrino apro stentato gli occhi, l’umidità e uno spiffero freddo hanno prodotto una cispa tenace che mi ha sigillato le palpebre.
Una pioggerellina sottile sul finestrino rende la realtà diafana come La Cattedrale di Rouen di C. Monet.
Una radiolina gracchia il segnale orario delle otto e le notizie di oggi, quattro ottobre 2001. Tutto regolare, l’avanzata della destra sta cancellando le ultime conquiste sociali, libertarie, salariali e pensionistiche che i movimenti degli ultimi decenni hanno prodotto, il tempo è instabile e un’aria fredda dall’Austria sta investendo l’Italia.
Facce sconosciute nello scompartimento osservano curiose i miei movimenti mentre mi preparo a scendere raccogliendo le mie cose: nient’altro che uno zainetto di fortuna con qualche indumento comprato all’ultimo momento al mercatino della stazione e una busta di plastica con il giornale di ieri.
I documenti e i soldi sono in una piccola bisaccia sotto la camicia. Chissà se basteranno, non ho la minima idea di quanto tempo mi fermerò in questo luogo. Voglio restarci fino a quando troverò un nuovo orizzonte, una nuova prospettiva che mi liberi dal lancinante, insostenibile vuoto in cui sono finito.
La stazione è soltanto un piccolo fabbricato primo Novecento con una lunga pensilina in ferro battuto sorretta da verdi colonne liberty.
L’appuntamento con Vincenzo è alle undici, ci sono quasi tre ore, purtroppo il treno successivo sarebbe arrivato soltanto dopo mezzogiorno; che errore non consultare l’orario dei treni prima di fissare l’incontro!
L’oretta di sonno nel treno non è bastata a lenire la mia stanchezza, bisogna cercare riparo, una sala d’aspetto, meglio il bar della stazione dove trascorrere comodamente un paio d’ore dietro a un cappuccino.
Il bar della stazione è un ampio locale con una fila di tavolini lungo una grande vetrata che affaccia sui binari, ha due entrate dotate di moschiere a frange metalliche, una per l’accesso ai treni, l’altra per l’uscita su una stretta stradina asfaltata tra cespugli e alberi da cui provengono i passeggeri e qualche anziano contadino per farsi un bianchino. Dal mio tavolo le loro figure appaiono trasfigurate come in un’opera di H. Bosch.
Il cappuccino è bollente, meglio cominciare dal cornetto… Con questa stanchezza non riesco a sentire i sapori e la lingua spinge a fatica il cibo per la sua strada. Tento un sorso alla tazza bollente e abbasso la testa sulle braccia nella speranza di ricomporre i residui sfilacciati di un sonno che da molte ore non riesce a sprofondarmi di quel tanto necessario da farmi sentire un po’ riposato.
Due mosche avvertite dall’odore volteggiano intorno a me, si avvicinano ghiotte al cappuccino, «Via! Via!» le scaccio con il tovagliolo sperando di averle dissuase da altri attacchi e potermi assopire senza pensieri.
Io e Vincenzo abitavamo nello stesso quartiere, un rione di costruzione fascista poco fuori la città, ci abitavano ferrovieri, impiegati e piccoli burocrati che conducevano una tranquilla, sonnecchiante vita rionale. C’era il cinema parrocchiale con i film di Totò, Stanlio e Ollio e Via col vento, una piccola biblioteca e la metropolitana. A quei tempi la domenica i giovani portavano a messa le fidanzate, ascoltavano Gianni Morandi, e poi c’era il Napoli, il diploma e la leva per diventare uomini.
Il rione aveva una piazza con i giardinetti e le panchine di granito come luogo d’incontro, la mattina era frequentata dagli anziani e dalle casalinghe uscite per la spesa, la sera da noi giovani.
Io e Vincenzo c’incontrammo negli anni sessanta, quando cominciavano ad uscire i primi pezzi dei Beatles e la televisione era un mausoleo di un metro per un metro.
Nella piazza la sera si parlava delle ragazze che non potevano rimanere oltre le 20, del calcio, del servizio militare e di quelli più grandi che già lo stavano facendo.
Io e Vincenzo invece la sera andavamo in città ad assistere a concerti, a pièce teatrali e alle mostre di pittura di quegli artisti delle cosiddette avanguardie in cerca di una nuova condizione dell’arte fuori dal supermercato della cultura. E quei discorsi di piazza ci apparivano sempre più gretti e stucchevoli, sorretti da pregiudizi e tabù che sembravano solidificati per sempre dal cemento fascista. C’eravamo conosciuti alla fermata del bus che portava al centro e arrivava sempre con decine e decine di minuti di ritardo. Lui era orfano di padre, la madre per mantenere i suoi tre figli faceva la commessa in un negozio di profumeria al centro. Vincenzo era il più grande e aiutava la famiglia svolgendo lavori temporanei di manovalanza al mercato della frutta o al macello comunale. Aveva soltanto la scuola dell’obbligo e un complesso d’inferiorità culturale che compensava divorando testi di Sartre, Marx, e Fromm.
Di statura media aveva sempre sopraccigli aggrottati e fronte corrugata e i suoi discorsi erano sempre secchi e lapidari.
La nostra maggiore attività era la ricerca dei nostri pezzi musicali sulle famose cassette stereo 7
che facevamo circolare tra nostri coetanei. Così trovammo altri giovani come noi che avvertivano il grigiore della vita rionale e cercavano altri orizzonti. Per primo si aggiunse Mario, quando l’incontrammo era all’ultimo anno all’istituto tecnico, era appassionato alla fotografia artistica e girava con una borsa nera della Nikon e La camera chiara di Roland Barthes, di click in click consumava tre rullini al giorno e per comprarseli riparava autoradio.
Poi vennero Carmine e Antonio detto Tony, il primo era all’istituto per geometri e l’altro all’ultimo anno del liceo, entrambi avevano imboccato la strada del naturismo. Sperimentavano l’agricoltura biodinamica, studiavano le fasi lunari e la dinamizzazione astrale degli elementi.
Carmine era alto e robusto, un viso tondo e occhi castani sotto una capigliatura nera e ricciuta, aveva grosse braccia e mani forti e potenti, il padre vendeva il pesce al mercato e i suoi jeans erano sempre consumati e scoloriti e portava camice sgargianti di pessimo gusto comprate al mercatino dell’usato. Tony invece era basso e tarchiato, aveva capelli biondi, occhi azzurri e il viso squadrato come un nordico, i suoi jeans erano sempre lavati e stirati con la piega davanti. I suoi genitori lavoravano entrambi e avevano a servizio una donna che badava a tutto, veniva da un paesino della provincia e si rifiutava di stirare qualsiasi pantalone senza fare la piega davanti.
Con le nostre interminabili discussioni si cercava un’identità politica e culturale che potesse rimarcare il nostro rifiuto a quei principi bigotti e fascisti che in quel rione regolavano ancora la vita di una buona parte di noi.
L’unica definizione che ci sembrò più affascinante e dirompente fu quella anarchica e da allora a chiunque chiedesse del nostro indirizzo politico rispondevamo anarchico e libertario.
Tony e Carmine raccoglievano equiseto, valeriana e ortiche per le loro sperimentazioni, tra piante, insetti e parassiti sapevano riconoscerne almeno un centinaio di specie. Un giorno ci portarono una pianta di cannabis e ci dissero che quella era marijuana e cresceva spontaneamente anche qui. In quegli anni nelle periferie soltanto qualcuno fumava e soltanto hashish, nessuno immaginava che quella fosse proprio marijuana e si poteva trovare facilmente nelle terre incolte appena fuori il rione, e sballasse esattamente come l’hashish, anzi di più. Nemmeno i poliziotti.
Bastò farci un giro nelle campagne limitrofe con Carmine e Tony per trovare una pianta di cannabis. Tornati a casa la essiccammo di nascosto nel forno di casa e la sera ci vedemmo nello scantinato di Carmine per fumarcela.
In quell’autunno dopo la maturità, senza scuola e senza compiti, con l’erba praticamente sotto casa, nessuno di noi avvertì quella tristezza e quella malinconia che ci aveva preso gli anni precedenti con i primi giorni di ottobre, quando il buio divora a una a una tutte le ore