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Sogno,... o son questo
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Sogno,... o son questo

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Storie vere descritte in novelle dove l'imprevedibilità degli accadimenti coinvolge portando a conoscere il viso dello scrittore senza osservarlo. "Vago nello spazio e nel tempo come fossi un aliante con un volo libero e torno indietro andando avanti con il pensiero per cogliere quell'attimo dove sogno di far vivere quell'emozione leggendo e son questo dopo essere atterrato nella realtà delle impressioni".
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 1, 2023
ISBN9791221449334
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    Sogno,... o son questo - Fabrizio Giacobbi

    IL CHICCO DI GRANO

    Ogni gesto che compiamo nella nostra vita ha un significato. Esprime il senso che si dà a una scelta, sbagliata o giusta che sia, l’espressione della volontà frutto della condivisione di pensieri tesi a salvaguardare la libertà di scegliere. Volere è spesso potere, ma non sempre, quella scelta di compiere un gesto o un’azione è consentita solamente se la stessa non lede il diritto o lo stesso pensiero per il quale chi sta dall’altra parte è la stessa persona ma con diversi connotati.

    Avere sete e riempire di acqua un bicchiere rappresenta l’utilità, benché marginale, di soddisfare un bisogno ma continuando a bere l’acqua come se si avesse sempre sete, la stessa acqua ci apparirà diversa perché quel concetto di utilità marginale è venuto meno.

    Ciò non è così per i sentimenti che proviamo, celati o nascosti dall’ipocrisia e dal timore di vivere o meglio lasciarsi andare e cogliere quell’utilità che non sarà mai marginale come quell’acqua. Quindi, se proprio vuoi, assaporerai quei momenti in cui ti senti bene a torto o a ragione, vincitore e non sopraffatto dalla paura dei sentimenti, sempre acceso come la candela degli innamorati quando chi soffre meno non ama di più; ma proprio quella ragione, invocata o perseguita tutti i giorni, ci porta a commettere, forse, azioni che portano a errori per poi pentirci o avere rimpianti se tutto non è andato come volevamo, e mai e poi mai se in quelle azioni, volute o sopraffatte dalla ragione, siamo stati sempre noi stessi. Costi quel che costi.

    Non sono nessuno per poter dire e soprattutto giudicare, vago nello spazio e nel tempo come fossi un aliante, e torno indietro andando avanti con il pensiero, per cogliere in quell’attimo il senso, il sapore, perché, dopo il racconto, tornerò sull’argomento una volta atterrato nella realtà delle impressioni.

    Quel tempo, dopo aver concluso l’anno scolastico e aver iniziato le vacanze in una struttura con tanti ragazzi giovani quasi tutti coetanei, vivevamo il mare e le giornate avulse di impegni e anche di compiti che colmavano le ore della leggerezza volta a terminare all’imbrunire, per poi riprendere il giorno dopo. Tornati dal mare nella struttura dove eravamo alloggiati, dopo la cena si finiva per guardare un film alla televisione attraverso lo spostamento delle immagini nel maxischermo per dar modo a tutti di vedere lo stesso programma, mai scelto, ma cosa importava a noi, era un motivo per stare tutti insieme e ridere sino a cadere esausti nelle stanze.

    Anche stavolta senza saperlo avevo fatto amicizia con un ragazzo che, guarda caso, era un ripetente di quelle vacanze per il fatto che aveva la madre cuoca, quella che ci permetteva di mangiare sano e variegato, quindi le nostre merende stando con lui erano assicurate, comprese le merendine fuori palinsesto, quelle sempre da me ricercate, piene di noi e di tutto. In quei sandwich c’era il rinforzo con la solita frase detta dalla mamma verso il figliolo e l’amico di quel mese, perché, essendo in quelle strutture e rimanendoci per solo quel tempo, quell’amichetto conosciuto per caso lo perdi poco dopo e lui, dovendo rimanere lì per il lavoro della mamma, conoscerà altri ragazzi e pure ragazze, amici in quel contesto per poi vederli per caso o rincontrarli, chissà quando e dove, per il saluto di quei pochi secondi nel ricordo meno vivo per il lasso di tempo trascorso di quei momenti.

    Non ho spiegazioni, ma la mamma di quel ragazzo mi chiese un attimo di attenzione per sapere se conoscevo o avevo visto persone che avevano attacchi epilettici al fine di poter essere di aiuto al figlio che ne soffriva. Non avendo mai visto nessun episodio o evento di soccorso benché giovincello a soli tredici anni, chiesi alla mamma di quel ragazzo di spiegarmi i segnali premonitori, visto che spesso stavamo insieme dormendo nella stessa camerata con altri ragazzi dello stesso sesso.

    Dopo aver avuto i consigli del caso, proprio per essere di aiuto anche a me stesso, non pensavo mai di dovermi occupare di tale emergenza, vista la presenza in quel contesto di personale all’uopo dedicato quindi per fame, gioco, educazione spirito di amicizia con un pizzico di ruffianeria e di sale assecondavo i pensieri di quella mamma preoccupata dalle azioni quotidiane e dal figlio vivace quanto basta, più o meno quanto noi, conscia dei rischi, come se quelle considerazioni o consigli pratici dovessero all’improvviso divenire necessari per salvaguardare lo stato di salute dell’amichetto con la mamma premurosa che osservava la consegna di quelle fette di golosità assoluta che mi riempivano di gusto sino a essere satollo con la solita bibita che coronava quella pausa di giochi e spensieratezza.

    I compiti delle vacanze, considerati per me una scocciatura, erano alla fine, ma proprio alla fine, compilati nella sola paginetta quotidiana tanto per dire o dimostrare che li avevo fatti, frutto alla fine delle vacanze di quella sufficienza striminzita, come a scuola, un bel sei meno, inteso come Meno mi cimento nello studio d’estate e meglio è. Meno ancora, tanto per non esagerare e intenderci. Non si sa mai.

    I giochi di spiaggia con le ragazze della nostra età erano quelli di sempre, poi tutti dinanzi al jukebox con le cinquanta lire per una canzone, intonando nell’attesa quella in ascolto.

    Io ne mettevo due di quelle monete, per via che mi piaceva moltissimo la canzone Vincent di Don McLean, non so perché ma, non conoscendo quel cielo stellato del famoso pittore e comprendendo poco l’inglese, seguivo la musica e quella Pazza idea di Patty che accompagnava anch’essa l’estate con la musica a tutto volume nel jukebox; davano prova della presenza, benché acerba, delle sensazioni che si provano conoscendo le ragazze della nostra città con le prime cotte reciproche e i baci sfuggenti che si davano i ragazzi anche di nascosto dagli accompagnatori per far vedere che erano grandi.

    Io a quel tempo ero grandissimo, avevo baciato tante volte la foto di Susanna Quattrocchi, cantante rock conosciuta come Suzi Quatro, però, per effetto che la foto non ti basta, per la presenza di mio fratello gemello, il senso di spirito e la luce dei nostri occhi azzurri, non so perché nonostante l’accesa somiglianza ero solo io a essere l’idolo delle coetanee, tanto che qualcuna di loro si era fatta pure avanti e l’avevo presa pure per mano - oddio - girando nello stabilimento balneare con l’amichetto sciupafemmine per via del ciuffettino.

    A ogni gioco con la posta, scommessa o penitenza, come quello della bottiglia, stando con loro vincevo perché, essendo pochi i partecipanti a quello svago, ti capitava sovente di essere oggetto di carezze o svenevolezze simili. Allorquando indicava me quel collo di bottiglia poiché volevo baciare una castana e non più la foto della cantante, la dovetti prendere per braccetto e poi per mano per poi dirle che… Salame si nasce, prosciutto si diventa.

    Dicevo altro per mischiare le carte, persino quella volta in spiaggia, forse unica, perché la portai lontano dagli amici per chiederle che tempo facesse. Lei rise tanto, ricordo ancora che non si teneva, non se l’aspettava quell’esternazione dopo averla portata per mano nella parte più riservata dello stabilimento.

    Divertita e presa da quella frase, mi disse di alzare gli occhi al cielo, poi rise ancora sorpresa come non mai da quella battuta, come se volessi cercare l’atmosfera, preludio di chissà che cosa, solo però che io la dissi sul serio in trepida attesa e non tanto per dire una cosa, forse per cercare la migliore atmosfera, solo che quei tredici anni erano per me perché… lei, la brunetta della prenestina, mi chiese di aspettare insieme in quel posto che quel tempo cambiasse. Nel frattempo cosa facciamo…

    Che volevi di più dopo quella risposta, allora non c’era il famoso amaro.

    Con quell’aiutino persino un cretino avrebbe inteso, ma poiché ero imbalsamato più di una mummia feci il resto e pure di più. Ero arrivato vicino al suo viso, lei aveva chiuso gli occhi, ridendo ancora, ripetendo E se il tempo non cambia, che facciamo…, aprendo gli occhi per poi richiuderli ancora.

    Vi lascio nel dubbio, anche se avete già compreso com’è andata.

    Le ragazze le ho fatte sempre ridere, certo che non si aspettavano tale atteggiamento dovuto al coraggio di non farle soffrire, di provare veri sentimenti oltre che rispettarle, ma se poi dormi in piedi ed è lei che vuole che tu faccia il primo passo, e poi anche altro e non viceversa… poi nonostante tutto si lascia andare e acconsente che tu la porti in un posto, qualunque fosse per lei andava bene… e poi rimani così… fermo come un salame. Campa cavallo che l’erba cresce, se non la mangiano prima gli altri.

    Chissà come va o andrà il mondo, notando i primi fidanzatini che discutevano per tutto o per stupidaggini, io invece non mi arrabbiavo o bisticciavo con nessuno, quindi pensavo o ritenevo che anche questo aveva la sua importanza, anche se tergiversavo e mi perdevo nei sogni vagando più da sveglio che addormentato nel bosco mentre loro mi guardavano.

    Sogno … o son questo.

    Che bravo.

    Però, diciamolo, mi comporto così solo quando sono preso, attratto, come fossi stregato, non solo per la bellezza. Non è sempre così, non pensate o credete che io sia… la solita Biancaneve e i sette nani.

    Occhio.

    Prosciuttaro invece lo diventavo il pomeriggio, per via del panino e della mamma premurosa, ma quanto a segnali di pericolo, nessuno se non quello della fame e della sete.

    Il sole faceva il resto, non servivano le creme per la protezione della timidezza, né quelle per le scottature o eritemi solari. Ci pensavano le figuracce per la mancanza di un qualcosa che mancava in pentola, chissà se poi pure per altro.

    Tra poco lo saprete.

    La sera, dopo la cena e la tv, tornavamo stanchi ma felici nella camerata, non solo per aver studiato quanto bastava, e, per chiudere in bellezza la giornata prima di addormentarci, scherzavamo avendo una ragazza più grande di noi come maestra, la signorina che noi chiamavamo per nome, la tutrice nonché responsabile, una persona che aveva almeno dieci anni più di noi e conosceva a mio giudizio già il mondo e aveva fatto di sicuro alcune esperienze di vita.

    Per effetto della solita fortuna, stando nella camerata con una decina di scavezzacolli e lei, mi avevano assegnato su sua scelta il posto accanto al suo letto che era diverso dal nostro per via che la sera, giunti in stanza e dopo che ci eravamo sdraiati, lei per non farsi vedere si spogliava nel letto a baldacchino ove poggiava i suoi indumenti coperta dai veli. Essendo ragazzino e non conoscendo la malizia, notavo che si toglieva quelle vesti anche se non vedevo nulla ma continuavo a osservarla quando mi capitava per la curiosità del solito impiccione che aveva timore di dare un bacio ma che osservava tutto intorno e non gli sfuggiva nulla, nemmeno il gesto nel togliere quei pochi vestiti per via dell’estate da poco iniziata dopo la fine della scuola.

    Però dopo qualche giorno accadde un fatto.

    Notai che una sera si era messa a letto senza quelle gesta che si osservavano come nei cartoni animati fatti a casa con il gioco delle ombre, quindi, incuriosito, tenevo gli occhi aperti per chissà quale motivo senza dirle nulla. Lei mi parlava spesso, mi sorrideva per via che si era accorta che ero spavaldo e timido, qualcuno gli aveva riferito qualcosa probabilmente quella figuraccia della richiesta del tempo alla brunetta della prenestina, gli ero simpatico, non mi rimproverava né redarguiva. Quando stava a letto parlava con me, non so per quale motivo, chiedeva se avessi sonno e se volevo parlare con lei pensando alle possibili fidanzatine. Io per non parlare di questo tagliavo corto, lei sorrideva ancora, le piaceva parlare con me, mi avvicinavo a lei senza alcun timore, forse per riverenza, pensavo che anche lei lo facesse per lo stesso motivo, forse aveva un amore non proprio corrisposto, quindi, parlando con me il sognatore solitario, viveva quei sentimenti con la voglia come detto di lasciarsi andare, o forse no. Forse era per questo che le piaceva la canzone di Vincent che mettevo nel jukebox, la vedevo attenta non solo per vigilare i nostri passatempi dove traspare l’estro, anche dal nulla, in quelli primeggiavo per cercarne nuovi e diversi.

    Allora si giocava anche con i noccioli delle pesche, frutta fresca dissetante che permetteva di tenerci a bada per un po’ e anche all’ombra dopo aver pranzato, che significava anche divagare con quei noccioli dopo aver preso il nettare e le vitamine del frutto.

    Io, per conteggiare i punti, utilizzavo il chicco di grano per via degli esperimenti scolastici portati in spiaggia ma non nella sabbia. Ogni punto era un chicco.

    Tornando alle notti e a i giorni che passavano velocemente, stando di lì a poco a salutarci continuando quelle giornate nonostante fossimo stanchi, notavo ancora una volta che lei si coricava dopo di noi per vigilarci ma poi si metteva a letto senza spogliarsi.

    Pensando a cosa facesse, rimanevo sveglio ma solo per curiosità giovanile, finché una sera, dopo lo stesso avvenimento, la vidi uscire dalla stanza e notai che scendeva le scale al piano di sotto. Stando scalzo, seguivo il suo percorso senza farmi vedere o sentire, ma non comprendevo dove andasse e soprattutto cosa facesse. Infatti, la sera dopo quel fatto accadde di nuovo quell’uscita nel cuore delle luci spente ma, dopo un lasso di tempo che non ricordo per non guardare l’orologio che toglievo prima di coricarmi, scesi subito dopo la sua uscita dalla camerata indossando stavolta per pudore il pantaloncino corto, e mentre scendevo notavo che lei percorreva il corridoio pieno di stanze alla sola sinistra e si dirigeva verso il fondo con passo felpato. Per essere certo come nel gioco trovandomi in tasca i chicchi di grano per la partita con gli amici con le pesche, misi a terra arrivato vicino a quella stanza un chicco, non distogliendo lo sguardo verso il suo percorso, notando il punto di stazionamento e subito dopo di ingresso; arrivando in silenzio come il suo cammino lasciando dove era entrata quel chicco ma avendone solo due ancora di chicchi contai le successive stanze notando che dopo di quella c’era un'altra stanza e la finestra centrale.

    Lasciai a terra quegli ultimi due chicchi di grano stetti di lì a poco dinanzi a quella porta e poco dopo sentii la musica classica con le note della Primavera di Vivaldi. Pensando a tutto e a niente, tornai sopra senza dare importanza a quei chicchi lasciati a terra. Rientrato in stanza, notai il compagno amichetto figlio della cuoca lamentarsi come se stesse sognando o delirando muovendosi in modo strano. Dopo essermi avvicinato cercai di svegliarlo, pensavo a un brutto sogno o qualcosa del genere. Stava per iniziare a sentirsi male.

    Vedendo le sue braccia muoversi, incrociandosi tra loro per stringere le dita, ebbi uno spavento non sapendo cosa fare ma poi, quando dalla sua bocca iniziò a uscire la saliva e un po’ di bava, ancora più spaventato di prima ormai certo di quanto stava accadendo scesi di corsa andando in direzione della stanza dove c’era la madre, la cuoca. Bussai forte richiamando l’attenzione. Lei ci mise un po’ ad alzarsi ma le mie grida fecero il resto perché, nell’attesa, andai in direzione di quella stanza dove c’era la nostra tutrice e, nonostante si sentisse la musica, nessuno aprì la porta o disse nulla, come se la stanza fosse vuota e all’interno la musica servisse solamente per quelle mura. Non

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