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Sotto le stelle di Genova: Un nuovo caso per Marco Canepa
Sotto le stelle di Genova: Un nuovo caso per Marco Canepa
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Sotto le stelle di Genova: Un nuovo caso per Marco Canepa

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About this ebook

Una donna viene trovata uccisa dentro una barca tirata in secco sulla spiaggia dell’imbarcadero di Recco. Viene identificata come Maria Giansanti, moglie di Giulio, il comandante del battello che collega Recco a Camogli e San Fruttuoso. Si occupa del caso Marco Canepa, commissario capo della locale stazione di polizia, il quale chiede subito assistenza informale al suo amico Gianni Galletti, ex dirigente della squadra Omicidi di via Diaz e adesso, da pensionato, scrittore di gialli di successo. Entrambi erano grandi amici della donna uccisa e di suo marito e nessuno dei due riesce ad immaginare un valido motivo per quell’omicidio. Maria, infatti, non aveva nemici, sembrava essere una persona felice che amava moltissimo il suo compagno, il lavoro di segretaria presso un commercialista locale e anche l’attività di catechista che svolgeva da anni presso la parrocchia del parroco don Leandro, la cui chiesa, negli ultimi tempi, è sottoposta a continui furti. Oltre a calici e candelabri d’argento, è appena sparito anche un prezioso quadro del Cinquecento. Per questi furti sono stati arrestati un certo Franco Crespi, detto il Faina, noto spacciatore di cocaina della zona e il giovane ladruncolo minorenne Rino Romagnoli, nipote di tal Riddu, l’uomo che, anni prima, sotto l’effetto dell’alcol, ha investito e ucciso con la propria auto il papà di Canepa, Ermanno, e il suo vecchio amico Remo mentre attraversavano a piedi, sulle strisce pedonali, la strada davanti all’Istanbul Cafè. Poiché i coniugi Giansanti non avevano figli e sembrava anche che non ne potessero avere, il fatto che Maria fosse incinta, come si viene a sapere, fa sospettare l’esistenza di un amante segreto ed è proprio in quella direzione che si muovono le prime indagini. Ma Galletti non è convinto. A suo avviso c’è dell’altro e, per scoprirlo, chiede l’intervento di Fulvio Bosi, il suo fido assistente dei tempi della squadra Omicidi e oggi, pensionato anche lui. Così, alle regolari indagini di Canepa e dei suoi uomini si affiancano quelle “ufficiose” di Bosi e dello scrittore che, nel frattempo, continua anche a scrivere il nuovo giallo promesso al suo editore. Ma è l’efferato omicidio del parroco don Leandro, sacerdote amato da tutti i concittadini, a dare una nuova imprevista sterzata alle indagini, portando infine i due amici poliziotti verso una soluzione del caso che nessuno di loro avrebbe mai potuto né voluto assolutamente immaginare...

Marco Di Tillo è laureato in Psicologia, ha scritto per più di vent’anni testi per programmi televisivi e radiofonici per la Rai. Per il cinema ha diretto la commedia Un anno in campagna e il giallo per bambini Operazione Pappagallo, scritto insieme a Piero Chiambretti. Per la Narrativa per ragazzi ha scritto Il ladro di Picasso, Due ragazzi nella Firenze dei Medici, Il giovane cavaliere, Tre ragazzi ed il sultano e le favole illustrate Mamma Natale e Mamma Natale e i Pirati. In Italia, ha scritto i gialli con protagonista l’ispettore romano laico-consacrato Marcello Sangermano. Sono già usciti Destini di sangue, Dodici giugno, Il palazzo del freddo. Ha scritto i romanzi L’orco di Mussolini, sul caso Girolimoni degli anni ’20, La neve al mare, che narra le disordinate vicende estive di tre ragazzetti di sedici anni, Una santa per amica, sulla sua amicizia giovanile con madre Teresa di Calcutta. Per Fratelli Frilli Editori pubblica da alcuni anni i gialli con protagonista il poliziotto genovese Marco Canepa. Sono già usciti Tutte le strade portano a Genova, Come lupi nella neve e Omicidio all’Acquario di Genova.
LanguageItaliano
Release dateMar 1, 2023
ISBN9788869436789
Sotto le stelle di Genova: Un nuovo caso per Marco Canepa

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    Sotto le stelle di Genova - Marco Di Tillo

    1

    Due settimane prima

    Lunedì, 12 febbraio

    La villa era a picco sul mare, con un largo soggiorno, una luminosa cucina al pianterreno e quattro camere da letto al primo piano, ognuna con un delizioso balconcino e tanti vasi ricolmi di splendidi gerani rossi. C’erano anche un piccolo giardino sul retro e un ampio terrazzo, dal quale si godevano spesso dorati tramonti che allietavano il cuore.

    Era stata costruita negli anni ’20 del Novecento dal conte Alessio Tinelli che era stato un importante banchiere genovese, sposato con la baronessa Sofia Scotti, donna minuta, di carnagione bianchissima, cagionevole di salute, a cui il medico aveva consigliato lunghi periodi di permanenza al mare, dove l’aria salubre e lo iodio le avrebbero sicuramente giovato. Non era andata proprio così, in realtà, poiché la povera baronessa, dopo solo un paio d’anni, era passata a miglior vita lasciando da solo il marito, il quale le sopravvisse per altri venti anni e circa altre venti fidanzate di nazionalità varia. Alle polacche, rumene e ucraine, si erano alternate brillantemente alcune brasiliane, peruviane e anche capoverdiane, tutte molto più povere e infinitamente più giovani di lui. Scomparso infine anche il conte, la casa era passata attraverso altri proprietari, fino all’ultimo, tal Corrado Serventi, marchese di Cepraia. Defunto infine anche il Serventi, gli eredi avevano immediatamente deciso di mettere l’immobile in vendita.

    Gianni Galletti l’aveva comprata al volo, attraverso un’agenzia immobiliare, convinto di aver fatto un vero affare. Ma sua moglie Elsa l’intera faccenda non l’aveva vista allo stesso modo, in realtà. Per lei era stata proprio una follia.

    «Io penso che tu sia letteralmente impazzito, Gianni Galletti» gli aveva sussurrato in un orecchio il giorno del rogito, davanti all’incolpevole notaio

    «Lo sai che non mi piace per niente quando inizi a chiamarmi con il nome e il cognome, Pupattola.»

    «E a me non piace quando mi chiami Pupattola. Ma ti rendi conto di quanto hai speso?»

    «Ho speso poco» aveva tagliato corto lui, sventolandole davanti agli occhi il rendiconto annuale dei diritti d’autore, appena pervenuto dagli uffici della sua casa editrice.

    L’anno precedente, il suo terzo libro giallo, Intrighi di sangue, aveva venduto più di settecentomila copie e, della fortunata serie con protagonista il commissario di polizia Nino Palieri, erano stati ceduti i diritti, per realizzare una produzione televisiva destinata ad ottenere un grande successo. Come attori protagonisti erano già stati messi sotto contratto, tra gli altri, Pier Francesco Favino, Edoardo Leo e Margherita Buy mentre, come regista, era stato contattato Giuseppe Tornatore.

    «Meglio di così non si poteva fare» gli aveva detto il suo editore, al culmine della felicità.

    Da quando era andato in pensione con il grado di direttore presso la sezione omicidi della squadra Mobile della questura centrale di Genova, nella sua vita erano accadute due cose fondamentali. Prima di tutto era ingrassato moltissimo nel giro di pochissimi mesi, passando da 75 a 92 chili, colpa o, forse, merito, della buonissima cucina di sua moglie Elsa, soprannominata da lui Pupattola. Soprattutto il suo lato B, che mai era stato scarno in realtà, si era ingrossato a dismisura, tanto che aveva dovuto comprarsi di corsa tutta una serie di mutande boxer taglia XXXL.

    La seconda cosa accaduta era, invece, molto più piacevole.

    Gianni, per la prima volta nella vita, aveva visto gonfiarsi esageratamente il proprio conto bancario, grazie al successo delle vendite dei suoi libri. Insomma, nel rush conclusivo della propria esistenza terrena, l’ex poliziotto, da sempre dipendente statale con scarso stipendio fisso e ancor più scadente pensione, si era trasformato clamorosamente in un brillante libero professionista.

    Uno scrittore.

    Solo a pronunciarla questa parola gli metteva i brividi.

    Uno scrittore, lui? E chi l’avrebbe mai detto? Non di certo il suo insegnante d’italiano alle medie, tal Guelfo Cappelli di Pistoia, che considerava i suoi temi in classe una specie di sacchetto della mondezza da andare a buttare allo scarico il più in fretta possibile.

    «’A fa di bene a ciucchi si rimedia pedate, caro Galletti!»

    «Che vuol dire, professore?»

    «Vuol dire che ti prendi un altro tre, anche stamane, ‘o bischero di palude.»

    Non era tanto per il voto, visto che di tre in italiano ne aveva ormai accumulati una quantità industriale. Era invece il problema del bischero di palude a disturbarlo notevolmente, anche perché non capiva proprio a che cosa si riferisse con esattezza l’insegnante. Finché un giorno, spinto forse dalla continua espressione attonita dell’allievo, il Cappelli formulò l’agognata precisazione in merito.

    «Il bischero di palude, caro il mio Galletti, è un arbusto caratterizzato da un pronunciato rigonfiamento all’estremità dello stelo che vive in prossimità di acque stagnanti. Al primo soffiar del vento, il bischero si ritrova ad ondeggiare di qua e di là, strattonato a scatti intermittenti dalle correnti del caso. Hai capito adesso, bischerone?»

    No. Gianni non aveva capito proprio niente, se non che per lui sarebbe stato meglio finire presto le medie e fuggire il più lontano possibile dal maestro di Pistoia, giunto in trasferta a Milano per rompere le scatole solo e soltanto a lui.

    Adesso, ogni volta che vedeva un proprio libro stampato, con la copertina che odorava di fresco, non poteva fare a meno di pensare al professor Guelfo Cappelli, non riuscendo assolutamente ad evitare un istintivo e un po’ perfido pensiero.

    Che ne dici, ‘o grullo, di ’sti librettini che scrive il tuo bischero di palude?

    Da un po’ di tempo coltivava anche un curioso sogno e cioè quello di diventare più famoso del suo lontano parente Rossano Galletti che, a cavallo degli anni ’50 e ’60, era stato un apprezzato cantante d’opera.

    «Lui però era molto più bello di te, almeno a giudicare dalle foto» gli ripeteva sempre sua moglie.

    «Già, però tu hai sposato me.»

    «Soltanto perché lui non l’ho mai conosciuto.»

    Scegliere di trasferirsi a Recco era stato un tutt’uno. Venduto il vecchio appartamento di via Maddaloni, a due passi dalla sede della questura centrale di via Diaz, dove Gianni aveva lavorato per anni, i coniugi Galletti, erano decollati infine verso la loro nuova vita.

    E quella nuova casa era davvero bellissima.

    Tutte le mattine l’ex direttore della squadra omicidi si alzava presto e, prima di mettersi a scrivere davanti al computer, andava a prendersi il caffè sulla terrazza, guardando il mare e i grandi gabbiani che sfrecciavano nel cielo, con i loro acuti stridii.

    «Hai detto qualcosa?» gli gridò la Pupattola, sporgendosi dal davanzale della cucina con un bicchiere di latte in mano.

    «Era il gabbiano»

    «Chi?»

    «Ho detto che ti amo» bluffava lui.

    «Molto bene, allora» commentava lei, con un bel sorriso.

    Il battello per San Fruttuoso, quello che faceva prima scalo a Camogli, aveva appena lasciato il pontile e puntava dritto verso l’obiettivo. In una quarantina di minuti, più o meno, il comandante Giansanti, bravo marinaio dai baffi scuri, avrebbe raggiunto la sua meta giornaliera. Poi sarebbe di nuovo ripartito, per compiere il percorso inverso. E tutto questo ogni giorno, andata e ritorno, per sei giorni alla settimana, tranne la domenica che non era mai di turno. Questo d’inverno. Mentre d’estate il percorso lo effettuava molte volte di più, con il battello stipato di carovane di impietosi turisti armati di macchine fotografiche usa e getta, cappellini di paglia e creme abbronzanti al profumo di cocco.

    A Gianni quel piccolo battello che accarezzava le onde del mare faceva venire in mente le barchette di carta che, da ragazzino, poggiava sul rigagnolo che circondava il giardino del laghetto di villa Belgiojoso a Milano, quando sua nonna Nunzia lo accompagnava lì, nei pomeriggi di primavera del sabato. La corrente spingeva le leggerissime barche a grande velocità e ogni volta che partivano, gli piaceva immaginare mete esotiche e sconosciute, come se, invece che di semplici pezzi di giornale si fosse trattato di veri e propri bastimenti destinati a solcare i misteriosi mari d’Oriente.

    Elsa continuava a sbirciare ogni tanto dalla finestra. Non voleva dargli ragione, non lo avrebbe fatto mai per carattere, ma in cuor suo si stava convincendo sempre di più che il marito, in fondo, avesse fatto la scelta giusta a comprare quella bella casa, perché, giorno dopo giorno, anche lei si era innamorata di quel posto. Da quando era andata in pensione, dopo quarantadue anni di insegnamento di Storia e Filosofia presso i licei di mezza Liguria, si era dedicata alle buone letture, alla cucina, alla cura delle piante e dei fiori e, naturalmente, al suo amato marito. La loro unica figlia, Margherita, avvocato penalista con studio a Genova, gli aveva regalato tre nipoti, i due maschi Giorgio e Matteo, otto e dieci anni, e la femmina Sandra di dodici anni. Durante l’estate i ragazzi soggiornavano spesso e volentieri da quelle parti, creando all’istante una sorta di inevitabile caos preadolescenziale, nel quale i due proprietari stentavano a ritrovarsi, anche se il grande amore per i nipotini faceva loro superare ogni imprevista difficoltà logistica.

    Gianni aveva voluto dare alla villa il nome Casa di Palieri, come doveroso ringraziamento al personaggio di fantasia che ne aveva permesso l’acquisto.

    «Grazie, Nino» sussurrava spesso, dopo aver preso il caffè.

    Nino Palieri non era così dissimile da Gianni stesso che aveva voluto far vivere al proprio commissario immaginario molte delle difficili situazioni in cui lui stesso oppure i suoi colleghi si erano venuti a trovare durante la lunga vita professionale. Alcuni casi di omicidio che lo avevano fatto disperare in passato li aveva riportati praticamente tali e quali sulle pagine dei suoi libri, cambiando i nomi dei protagonisti, naturalmente, ma lasciando inalterati alcuni moventi e molte delle dinamiche delle varie e complicate indagini.

    «Perché ha trasferito il caso Petruzzi a Savona, dottore?» gli aveva domandato tempo prima il fido Fulvio Bosi, l’assistente che lo aveva affiancato per moltissimi anni in ufficio e che ora era andato in pensione anche lui «Non era stato a Spezia che avevamo trovato il corpo di quella povera donna fatta a pezzi?»

    «Un minimo di fantasia, caro Bosi» gli aveva risposto lui, scuotendo la testa «Mica posso prendere i vecchi incartamenti e farci la fotocopia spiccicata per i miei libri, no?»

    «Sì, però, anche il mio cognome finto…»

    «Cosa c’è che non va nel tuo cognome?»

    «Rossi.»

    «E allora?»

    «Un milione di italiani si chiamano così.»

    «E di Bosi quanti ce ne sono invece?»

    «Meno.»

    «Meglio stare in compagnia, dammi retta.»

    «Se lo dice lei, dottore» aveva risposto quello, niente affatto convinto.

    Alle otto in punto iniziava a scrivere.

    Poiché, negli ultimi anni, la vista gli era un po’ peggiorata, vuoi per una cataratta in arrivo all’occhio sinistro, vuoi per un mezzo pucker maculare che lui non aveva ancora ben capito cosa fosse davvero ma che il suo oculista gli aveva diagnosticato come una delle cose più terribili che potessero capitare ad un occhio prima della cecità assoluta, si era comprato un computer dal monitor gigantesco, così non doveva sforzarsi troppo.

    La nuova storia con protagonista il suo Palieri era ambientata sull’isola d’Elba dove il commissario era andato a passare una mini vacanza in compagnia dei due figli piccoli.

    «Perché lo hai fatto separare dalla moglie?» gli aveva chiesto Elsa.

    «Al giorno d’oggi si separano tutti» aveva risposto lui.

    «Noi non ci siamo separati, però.»

    «C’è sempre un’eccezione che conferma la regola.»

    «Neanche Pina e il marito, se è per questo.»

    «Chi è Pina?»

    «La proprietaria del negozio di alimentari, quella che vende la focaccia con la crescenza che piace a me.»

    «Al posto del marito, mi separerei.»

    «E perché?»

    «Perché la Pina è davvero bruttissima.»

    «Ma sei stupido?» bofonchiò lei, girandogli le spalle e sparendo velocemente nel corridoio.

    Quel giorno Gianni scrisse per quattro ore di seguito. Poi si mise a tavola con Elsa e, subito dopo, se ne andò a fare il riposino. Nel pomeriggio rispose a qualche mail, fece una telefonata a sua figlia Margherita per chiedere notizie dell’ultimo processo in cui era impegnata come avvocato della parte lesa e poi, verso le 17:30, si dedicò alla consueta passeggiata quotidiana.

    Uscito dal cancello di casa, imboccò subito la leggera discesa che porta al lungomare Bettolo. Camminò a passi lenti, passando davanti ai Bagni Marina che, in quella stagione, gli apparivano sempre un po’ malinconici. Guardò lo stabilimento balneare, pensando per un istante a quanto, invece, quel luogo diventasse divertente e caotico durante la stagione estiva, quando la musica diffusa dagli altoparlanti si spalmava a volume altissimo lungo l’intero arenile, mentre orde di bambini si inseguivano gridando, le mamme impartivano i loro inutili ordini ad alta voce, i mariti cicciottelli si ingozzavano di gelati o di pizza al prosciutto, i ragazzetti adolescenti dai capelli arruffati e l’orecchino sul naso trascinavano verso il mare la propria tavola da surf e le giovanissime teenager, strizzate dentro i loro coloratissimi bikini alla moda, facevano l’occhiolino ai ragazzi più grandi, sperando di essere scarrozzate al più presto a bordo di qualche bella automobile decappottabile.

    Quella era l’estate. E non era affatto male, pensò lui, anche se, in fondo, sapeva apprezzare tutte le altre stagioni, ognuna a suo modo. Ad esempio, dell’inverno gli piacevano il silenzio e quel senso di raccoglimento che le cose trasmettevano, come se volessero preservarsi dall’esplosione di colori e di suoni che la primavera avrebbe inevitabilmente portato prima o poi.

    Arrivato al porto, si fermò un po’ a guardare le barche.

    Sulla plancia di un malandato barcone, il vecchio marinaio soprannominato Cacini, stava gettando il pesce del giorno dentro a un paio di cassette.

    «Allora?» gli domandò lui, da lontano.

    «Poca roba, dottore. Lo sa che questo periodo non funge.»

    «Non funge?»

    «Seppie.»

    «Soltanto?»

    «Le piacciono le seppie?»

    «Più che a me, devono piacere a mia moglie. Però quelle sporcano d’inchiostro e mi sa che lei me le tira dietro.»

    «Si ribelli, dottore. Le mogli non devono vincere sempre. Qualche volta strappi anche qualche pareggio.»

    «Mia moglie non lo sa che vuol dire la parola pareggio.»

    «Neanche la mia.»

    «Ah, ecco» concluse Galletti e stava per rimettersi in moto quando, invece ci ripensò.

    «Ma perché ti chiamano Cacini?»

    «È stato mio nonno, dottore. Gustavo Cacini era un comico abbastanza famoso, all’epoca. A fine carriera venne in vacanza da queste parti e conobbe mio nonno Alcide con cui faceva coppia fissa nei tornei di tressette dei bar.»

    «Continuo a non capire.»

    «Da piccolo ero un po’ presuntuosetto, come Cacini, che faceva un personaggio superbo, che si vantava sempre delle proprie azioni, tanto che tutti dicevano Ma chi sei, Cacini?. E poi anche io mi chiamo Gustavo, come lui. E quindi, il nonno…»

    «…t’ha soprannominato Cacini e questo nome te lo sei tenuto tutta la vita!»

    «Proprio così, dottor Galletti.»

    Continuò a camminare, passando davanti alla famosa gelateria dove d’estate si faceva sempre la fila per rimediare un cono alla frutta. Poi superò la trattoria che ci voleva un assegno bancario per pagare la cena di pesce anche se la stessa cena, nonostante la spesa, l’avresti ricordata a lungo, per quanto era buona. Il battello da San Fruttuoso era già arrivato al pontile. Neanche si fossero dati appuntamento, il comandante coi baffi sbucò dalla plancia con la sua solita sacca di tela sdrucita sulle spalle. Si girò per un attimo a salutare un marinaio, poi saltò sulla scaletta e si diresse a passo spedito verso di lui.

    «Fino al faro?» domandò.

    «E poi a casa tua?» rispose Gianni.

    «Come sempre.»

    «L’hai comprato il vino buono?»

    «Yes, sir.»

    Camminarono a passi lenti, senza troppa fretta, sbirciando le onde che si frangevano sugli scogli. Dall’interno della birreria Il Fondo spuntò all’improvviso il proprietario Giuseppe Lolli, l’amico del commissario Canepa. Era tutto sudato e sembrava avere un diavolo per capello.

    «Se n’è andato un’altra volta ’sto fetente, belin. Possa passà ‘no guajo» sibilò nel suo strano dialetto un po’ molisano, un po’ ligure.

    «Il cuoco?» chiese Giansanti.

    «È la terza volta quest’anno.»

    «Perché non lo mandi affanculo una volta per sempre?»

    «Perché è sposato con la cugina di mia moglie.»

    «E tu manda affanculo pure la cugina» disse Gianni.

    «E magari pure tua moglie» aggiunse il Giansanti.

    Lo lasciarono con una strana espressione sul viso, come se stesse riflettendo davvero sui drastici suggerimenti appena ricevuti.

    Svoltarono a destra e transitarono davanti al laboratorio di analisi, quello dove mezza Recco andava a farsi togliere il sangue.

    «C’è sempre Draculino lì dentro?» si informò Gianni.

    «E come no! Il dottor Pagnozzi, il miglior estrattore di sangue di tutta la costa. Come prende la vena lui, non la prende nessuno. Devi fare gli esami del sangue?»

    «Non ci penso nemmeno.»

    «Ma il tuo diabete?»

    «Per me può restare dove sta.»

    In fondo alla strada girarono a sinistra e lo videro.

    Non era uno dei fari più belli del mondo, in realtà, ma a loro piaceva molto. Intanto perché era la meta della loro passeggiata e poi perché era anche il luogo in cui si erano incontrati per la prima volta. In quell’occasione Giansanti, che abitava lì vicino, se la stava prendendo con un cane di nome Filippo, un corso marrone di dieci anni e una leggera zoppia alla zampa destra, la cui merda, appena sfornata, era finita sotto le sue scarpe. In realtà il comandante dei battelli, più che con il cane, era letteralmente inferocito con il giovane proprietario del quadrupede, il quale si era subito difeso sostenendo che gli escrementi in questione non appartenessero al proprio cane.

    «Filippo la fa molto più grossa.»

    «Lei l’ha detta grossa!» era immediatamente intervenuto Galletti nella questione «La faccia finita e raccolga subito quello schifo.»

    Il giovane non era messo male fisicamente ma la voluminosa stazza dello scrittore e anche l’espressione molto dura nello sguardo, lo avevano zittito. Subito dopo si chinò e raccolse ciò che doveva essere tolto.

    Fu l’inizio di una bella amicizia, sostenuta dai racconti di mare di Giulio e anche da alcune sparute nozioni scientifiche che non riusciva proprio a trattenere. Non passava giorno nel quale non facesse partecipe l’amico di qualche curioso aneddoto, a cui non sempre, anzi quasi mai, l’altro era interessato, anche se, per gentilezza, restava comunque ad ascoltarlo fingendo un qualche velato interesse.

    Proprio come

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