Manager - Fare la differenza nelle organizzazioni
By Luca Berni
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Manager - Fare la differenza nelle organizzazioni - Luca Berni
PARTE PRIMA: LA FIGURA DEL MANAGER
CAPITOLO 1 – IL PERCORSO MANAGERIALE
Nella mia vita ho volato centinaia, forse migliaia di volte. Lo ammetto, amo volare. Ed è forse per questo che, alla ricerca di una metafora che potesse esprimere al meglio la mia idea di manager, quella che trovo più adatta è la figura del comandante di un volo di linea.
Un comandante non decide la destinazione finale del volo, e non decide neanche perché quel volo dovrà coprire quella rotta, quello è compito dei leader, di coloro che sono a capo della compagnia e che elaborano le strategie economiche e operative. Il comandante riceve la destinazione finale e da quel momento avrà la responsabilità di condurre sé stesso, l’equipaggio, i passeggeri, l’apparecchio e i bagagli a destinazione, in sicurezza e – possibilmente – in orario.
Il comandante di un volo di linea racchiude in sé tutte le caratteristiche di un manager. Ha competenze tecniche, perché deve sapere come si conduce il mezzo e conosce leggi e regolamenti dell’aviazione civile. Ha competenze gestionali, perché è a capo di un equipaggio ed è il responsabile supremo delle attività e dei comportamenti di chi lo compone. Ha competenze relazionali, perché deve saper gestire i rapporti con tutte le persone che supportano il volo da terra e coloro che si trovano a bordo, passeggeri compresi. Ma soprattutto il comandante deve avere le doti morali
per assumersi un tale livello di responsabilità. Nei prossimi capitoli affronteremo tutto ciò che riguarda le competenze relazionali, le competenze gestionali e le qualità morali che un manager deve sviluppare per ricoprire nel modo migliore la sua posizione e diventare un vero comandante.
Una cosa che però differenzia un comandante di un aereo di linea e un manager è il percorso che porta ad assumere il ruolo. Non sono un esperto, ma immagino che si diventi comandante attraversando una serie di tappe, fatte di formazione e di accumulo di ore di volo, mentre nel caso di un manager le cose sono un po’ diverse.
Come si diventa manager
Prima di cominciare la conversazione riguardo le capacità manageriali, è importante capire come normalmente si arrivi alla posizione di manager. Le modalità non sono poi così tante, per lo più quattro, che andremo a descrivere brevemente.
Crescita interna. Questa dovrebbe essere la modalità più logica e più diffusa. Siamo nel caso in cui un dipendente mostri all’organizzazione un certo grado di competenza nello svolgimento di una determinata mansione. Ad esempio, il caso del venditore particolarmente abile, che raggiunge livelli di vendita elevati e che per tale motivo viene chiamato a dirigere un gruppo più o meno ampio di altri venditori. Lo stesso può capitare con un bravo operatore meccanico che viene promosso capo turno. Continuerà a svolgere le sue mansioni tecniche, ma gli verrà chiesto anche di gestire altri che fanno lo stesso mestiere. Ciò può includere gestirne gli orari, controllarne l’attività e misurarne i risultati.
Spesso il fattore di carriera è la competenza tecnica in ciò che si fa, dalla quale si estrapola erroneamente la capacità di gestire altre persone che facciano lo stesso mestiere. Questa estrapolazione è molto rischiosa e venne ben descritta negli anni ’60 dallo psicologo canadese Laurence J. Peter che enunciò il principio di massima incompetenza
. Per spiegare il concetto potremmo semplificare nel modo seguente. Supponiamo che in una scuola ci sia un insegnante particolarmente brillante, nel momento in cui si dovesse liberare il posto da preside di quella scuola sarebbe certamente il candidato principale per assumerne il ruolo. Supponiamo che il ruolo gli venga effettivamente affidato: questo comporta un’ottima conoscenza delle dinamiche dell’insegnamento, e non sarà un problema, ma comporterà anche tutta un’altra serie di competenze, come l’amministrazione, la gestione del personale, il rapporto con le rappresentanze di genitori, insegnanti, studenti e personale non docente, che non fanno parte del curriculum dell’ex-insegnante.
In pratica la scuola si potrebbe trovare nella situazione di aver nominato un preside potenzialmente impreparato e ha sottratto all’insegnamento un docente particolarmente capace. Inoltre, il nuovo preside si trova da un giorno all’altro ad avere una responsabilità gerarchica nei confronti di persone che fino al giorno prima erano suoi colleghi, suoi pari grado, con cui ha condiviso parte della propria vita lavorativa e anche privata, cosa che potrebbe metterlo in difficoltà. Tutto ciò diminuisce la qualità generale del sistema, almeno nel breve periodo.
Tuttavia, il nostro ex-insegnante si dimostra anche un preside capace e in breve tempo assume pienamente il ruolo e diventa un preside di riferimento per il distretto scolastico ed entra a far parte della breve lista di potenziali provveditori agli studi. Il preside e il provveditore sono due mansioni differenti e se il nostro preside dovesse essere promosso a tale carica, la storia a quel punto si ripeterebbe: la scuola rinuncerebbe a un bravo preside e il provveditorato assumerebbe una persona incapace
come provveditore agli studi.
Questo ciclo può ripetersi un certo numero di volte finché la persona non verrà promossa a una posizione nella quale non riuscirà a esprimersi al meglio e la sua carriera si fermerà lì, perché avrà raggiunto il suo massimo grado di incompetenza
e non sarà più tenuto in considerazione per ulteriori promozioni. Il risultato finale di questo processo sarà quello di aver rinunciato a qualcuno capace in una certa posizione, a favore di un incapace in una posizione più elevata.
Questo processo è assai diffuso nelle organizzazioni, perché comunque contiene in sé degli elementi apparentemente logici. Chi affiderebbe la gestione dell’ufficio amministrativo di una società a qualcuno che non sa fare bene i conti? Eppure, l’esperienza insegna che avere la competenza tecnica non è un fattore di successo per un manager come lo sono invece le altre competenze che descriveremo in questo libro.
Per fortuna non va a finire sempre così, anzi la maggior parte dei bravi manager ha seguito proprio questo iter per fare carriera secondo il buon vecchio principio del fare la gavetta
.
Avvicendamento. Altrettanto diffuso rispetto al precedente è il meccanismo dell’avvicendamento. Si tratta di quel momento in cui un responsabile lascia la sua posizione a seguito di una promozione, di un trasferimento, di dimissioni o di pensionamento e suggerisce all’organizzazione il nome del suo successore.
Questo criterio ha ben poco di razionale. Il manager che lascia tende a suggerire qualcuno che abbia mostrato uno schema di comportamento analogo al proprio, strategie decisionali simili e, soprattutto, una serie di leve motivazionali uguali alle proprie. Una specie di clone di sé stesso. È improbabile, infatti, che il manager uscente suggerisca quello tra i suoi dipendenti che più lo ha fatto disperare, anche se a metterlo in difficoltà sono state l’ambizione, le capacità fuori dal comune e lo spirito di autonomia.
Con questo meccanismo, l’organizzazione resta fedele a sé stessa, mantiene una continuità di stato e allo stesso tempo rende più difficile il cambiamento, l’evoluzione, il ricambio generazionale. Ci si aspetta che il nuovo manager agisca nel solco di quello precedente, per evitare all’organizzazione di evolvere verso un nuovo modello, per il quale dovrà investire tempo ed energia. Inoltre, nel caso in cui un manager uscente rimanga all’interno dell’organizzazione, continuerà a considerare la funzione che lascia come un suo ambito e sul quale tenderà a esercitare comunque la sua influenza. Se poi l’avvicendamento avviene a seguito di una promozione che lo mantiene nella stessa linea gerarchica, il manager subentrante rischia di avere un raggio d’azione limitato e corre il concreto rischio che le persone che si trova a gestire non riconoscano fino in fondo la sua autorità e continuino a rivolgersi al vecchio responsabile.
Nuova assunzione. Rispetto ai due precedenti processi, questo presenta alcune differenze. Stiamo parlando del caso in cui venga assunta una persona tecnicamente molto capace, ma senza una sostanziale esperienza manageriale, e venga posta a capo di un gruppo di lavoro. Prima ancora di mettere in mostra le sue effettive capacità manageriali, dovrà (o dovrebbe) occuparsi di costruire le relazioni personali con i propri collaboratori, i quali non mostreranno un atteggiamento simile ai due casi precedenti, quello dei colleghi che da un giorno all’altro si trovano uno di loro come capo, ma le resistenze saranno più legate all’arrivo dell’elemento estraneo. Il manager si dovrà aspettare un atteggiamento guardingo, diffidente e sospettoso, con le conseguenti resistenze. Se il manager non avrà ancora sviluppato le abilità relazionali giuste, rischia di mettere a serio rischio la propria permanenza in quella posizione.
Un caso analogo a questo lo incontrai lavorando con uno studio di architetti molto importante. In quel periodo lo studio aveva acquisito una commessa per la realizzazione di un centro commerciale e aveva creato un gruppo dedicato allo sviluppo del progetto. A seguito di un tragico evento – il leader del progetto venne a mancare all’improvviso – la proprietà decise di affidare il gruppo a un architetto assunto dall’esterno.
Quest’ultima (si trattava di una donna) si era precedentemente distinta per aver ottenuto un importante riconoscimento per un concept proprio di centro commerciale e sembrò subito la candidata ideale. Quello che i titolari dello studio non avevano messo in conto era che l’architetto in questione aveva mostrato evidenti capacità creative, gestite però in totale autonomia, ma non aveva mai gestito un team di progetto. L’impatto iniziale fu molto negativo. La nuova manager cercò subito di imporre le proprie idee, facendo leva sul fatto che fosse stata assunta proprio grazie a quelle. Dal canto suo, il gruppo che aveva già cominciato a sviluppare il progetto si sentiva svilito nel lavoro svolto fino a quel momento e percepiva il cambio di rotta come un tradimento verso la loro precedente leader.
La situazione si fece molto tesa, il progetto non decollava e la nuova manager era in grande difficoltà. La rottura con il team era totale e nel momento in assoluto più difficile la situazione era la seguente: la manager passava le giornate chiusa nel suo studio facendosi carico di tutta la progettazione, lasciando al team solo dei semplici dettagli di sviluppo, col risultato che lei era sovraccarica, il team sottoutilizzato e il lavoro in grave ritardo. Fu a quel punto che i titolari intervennero, affiancando alla manager un professionista che potesse lavorare per facilitare la creazione di un vero team di cui la manager fosse riconosciuta come leader. Fortunatamente l’affiancamento ebbe successo e il team poté completare il progetto con successo nei tempi previsti.
Successione dinastica. Questo accade principalmente nelle imprese di tipo padronale. Se in tutti questi anni c’è una cosa che ho imparato è che la capacità imprenditoriale o manageriale non ha carattere ereditario. Essere figli di un bravo imprenditore non significa avere il talento dell’imprenditore. Essere figli di un bravo manager non significa affatto avere un talento per la gestione delle persone.
Fatta questa doverosa premessa, si tratta di una situazione tanto diffusa quanto complicata. Capita spesso che un imprenditore voglia collocare in posizioni manageriali uno dei propri discendenti e questo processo porta con sé una serie di difficoltà. Le variabili sono davvero tante e dipendono per lo più dalle scelte che fa l’imprenditore nei confronti dei successori. La situazione ideale dovrebbe essere quella in cui si concorda con il successore un programma di crescita fuori dall’azienda, per poi inserirlo in posizioni manageriali una volta dimostrate le proprie capacità. Purtroppo – nella mia esperienza almeno – si tratta di una condizione tanto ideale quanto rara. Molto più frequente è il caso in cui l’imprenditore collochi il successore, una volta finiti gli studi, subito in una posizione apicale. Difficile prevedere ciò che accadrà dopo. La situazione più frequente è quella del successore che esegue pedissequamente le indicazioni dell’imprenditore, replicandone lo schema comportamentale (talvolta peggiorandolo un po’), faticando enormemente a farsi accettare come manager credibile, indipendentemente dalle sue capacità. Caso opposto, e molto più raro, è quello di una discendenza con un atteggiamento innovativo rispetto alla tradizione aziendale. In questo caso, più che nel precedente, le tensioni saranno forti e ci vorrà grande capacità di gestione del momento di cambio generazionale.
Il ricambio generazionale all’interno di un’azienda è, a mio modesto avviso, la situazione più difficile per la crescita e l’affermazione di un manager, poiché implica il coinvolgimento di dinamiche che vanno molto al di là dell’ambito organizzativo. Sono coinvolte dinamiche familiari, generazionali, personali e culturali e tutto ciò ha un impatto sullo sviluppo del manager e anche sulla famiglia stessa.
Ci sono frequenti casi in cui i successori vengono inseriti presto in azienda e lavorano e crescono sotto la supervisione dell’imprenditore. In questi casi le dinamiche funzionano, almeno fino a quando è presente la figura carismatica dell’imprenditore che crea equilibrio. È questo il caso di un’azienda industriale dove il fondatore aveva collocato i suoi cinque figli (tre uomini e due donne) a capo di altrettanti settori: acquisti, vendite, produzione, amministrazione e qualità. Le cose hanno funzionato per diversi anni e l’azienda sembrava una vera eccellenza sul tema del passaggio generazionale. Il fondatore era molto anziano, ma è stato presente in azienda fino all’ultimo giorno della sua vita, anche se con funzioni operative molto ridotte.
Il giorno della sua scomparsa è emerso come l’equilibrio dell’organizzazione, fino ad allora apparso molto solido, fosse in realtà basato sulla presenza carismatica del fondatore, attraverso il quale transitavano tutti i disaccordi tra i fratelli. Venendo a mancare lui, e non avendo avuto modo di sviluppare la capacità di gestire i conflitti, i cinque fratelli manager hanno cominciato a litigare fino a portare l’azienda sull’orlo del fallimento.
Se però gli imprenditori, chi lascia e chi subentra, hanno la capacità di superare indenni il momento di passaggio generazionale, allora possono assicurare un futuro prospero, perché avere il proprietario come manager assicura un amore, una dedizione e una continuità all’azienda che difficilmente un qualunque altro manager potrà garantire.
L’inizio di carriera di un manager
Lo sviluppo delle capacità manageriali è in relazione con le attitudini personali e con come le stesse orientino il percorso di carriera. Per poter affrontare questo argomento è però necessaria una premessa, forse poco gradita, ma necessaria: la maggior parte dei manager lo diventa per caso.
Capisco che possa sembrare un’affermazione un po’ forte, tuttavia sono rari i casi in cui un manager programma la sua carriera e, solitamente, si tratta di persone che raggiungono ruoli di grande rilevanza all’interno delle organizzazioni. Tutti gli altri hanno spesso seguito un flusso che è iniziato con la conclusione del percorso di formazione scolastica e universitaria, dal quale si sono lasciati trasportare fino al ruolo di responsabilità.
Alla fine degli studi accade un fatto che sarà comunque determinante nel prosieguo della carriera del futuro manager: la prima assunzione. Sia chiaro, salvo rarissimi casi, il primo lavoro non si sceglie. Soprattutto oggi, con le difficoltà che i giovani incontrano nel collocarsi all’interno del mondo del lavoro, il primo impiego corrisponde alla prima proposta di assunzione che il giovane riceve. Se la proposta non è di quelle proprio strane
, di solito il giovane firma. Il pensiero è sempre che intanto comincio a lavorare, poi se non dovesse piacermi cambio
ed è normale. Tuttavia, le cose non stanno esattamente così. La prima assunzione fa entrare la persona in un flusso di carriera
, dal quale molti non escono più e si fanno trasportare da un programma di crescita gestito da altri o dal semplice caso.
Mi sono fatto raccontare la storia professionale di moltissimi manager e la maggioranza di loro, alla domanda Come hai fatto carriera?
, mi ha risposto: Ho accettato le opportunità che mi sono capitate
. Ovvero, non si sono mai fermati a riflettere su ciò che stavano facendo o a chiedersi se la loro carriera rispettasse le loro inclinazioni e aspirazioni. Non hanno mai programmato una carriera sulla base dei propri talenti o desideri. Questo non significa affatto che si sentissero in qualche modo frustrati o insoddisfatti: tutto il contrario. Praticamente tutti erano contenti del loro lavoro, della loro posizione e di ciò che avevano imparato, ma questo derivava dalla competenza accumulata in quella posizione negli anni e dalla creazione della conseguente zona di comfort
. Anche il più brutto dei lavori, se lo fai per anni e non hai mai provato altro, finisce per piacerti.
Ho rilevato questo atteggiamento passivo nei confronti della carriera soprattutto nelle grandi organizzazioni. Le banche, ad esempio, hanno un’anzianità di servizio mediamente più alta di altre organizzazioni private, perché offrono un senso di sicurezza e opportunità di crescita in virtù delle loro dimensioni. Ricordo che alcuni anni fa venni ingaggiato da una grande società di consulenza per svolgere un ciclo di assessment in una delle più grandi banche europee. Lo scopo era quello di classificare i giovani manager per stilare una lista di quelli più talentuosi su cui puntare. Nello specifico io ne analizzai 102 e la prima cosa che mi colpì fu il fatto che nessuno di loro avesse avuto significative esperienze precedenti in altre realtà. Inoltre, alla domanda su un eventuale cambiamento di lavoro, praticamente tutti si dichiararono aperti a valutare nuove opportunità, ma solo in altre banche.
Questo accade anche in realtà industriali di rilievo e di riferimento per uno specifico territorio. Il grande gruppo o la grande industria collocata in un territorio avaro di opportunità vengono visti come l’approdo sicuro e quasi inevitabile di chi voglia fare carriera e abbia (e sono tanti) una scarsa propensione alla mobilità geografica.
Il primo lavoro influenza il futuro della carriera in modo determinante. Si pensi, ad esempio, a un giovane laureato in Economia. A seguito di un colloquio viene assunto da un’impresa industriale e inserito nell’ufficio acquisti come buyer junior. Se, trascorsi alcuni anni, volesse cambiare lavoro, il mercato lo prenderebbe in considerazione, vista la sua esperienza, per posizioni legate comunque agli acquisti, magari con livelli maggiori di responsabilità, ma sempre nell’area dove ha maturato esperienza. Molto meno probabile sarebbe la presa in considerazione della sua candidatura per una posizione di – ad esempio – broker finanziario. Il mercato del lavoro è molto, forse troppo sensibile alle esperienze maturate, perché queste sono misurabili. Solo pochi e molto capaci selezionatori si concentrano sui talenti della persona, sulle sue attitudini personali e sul suo bagaglio di competenze relazionali e manageriali, perché sono molto più difficili da rilevare e misurare e perché il rischio di presentare al cliente un candidato inadatto, senza una specifica esperienza, è troppo elevato.
È difficile riorientare la propria carriera, ma non certo impossibile. Ci vuole impegno, coraggio, determinazione e un buon grado di consapevolezza delle proprie inclinazioni e dei propri desideri, fino a mettere in discussione quanto maturato fino a quel momento in termini di formazione ed esperienza. Ma i vantaggi che si possono trarre da un percorso di carriera programmato sulle proprie attitudini sono enormi, dal punto di vista sia dei risultati potenzialmente raggiungibili che della soddisfazione personale. Se quindi un giovane che ha completato il suo percorso di studi mi chiedesse come diventare un manager di successo, l’unico consiglio che mi verrebbe da dargli è: programma la tua carriera per programmare il tuo successo!
Percorsi di carriera di un manager
Secondo Kenneth R. Brousseau, esistono quattro tipi di percorsi di carriera principali e sono identificati con le quattro definizioni: ESPERTO, LINEARE, SPIRALE e TRANSITORIO.
Ognuno di noi ha una preferenza intrinseca per una o due di queste. Il massimo rendimento di una carriera avviene proprio nel momento in cui il tipo di carriera che si sta seguendo è coerente con la propria preferenza. Esistono test e assessment che possono aiutare a verificare questo allineamento, che però deve – o dovrebbe – sempre partire dalle proprie aspirazioni in termini di realizzazione personale.
Esperto. Il percorso di carriera definito esperto
è dedicato a coloro che fanno della competenza tecnica il loro scopo di vita. L’esperto, in questa accezione, è una persona che mira alla massima conoscenza di un singolo argomento, aspirando a diventare un’autorità in materia. L’esperto ottiene la propria soddisfazione personale attraverso il riconoscimento da parte delle persone della sua competenza. L’esperto è gratificato quando, ad esempio, lo chiamano da un paese dall’altra parte del mondo perché solo lui è in grado di risolvere uno specifico problema. Ricordo nella mia carriera di aver avuto a che fare con molti di loro e tutti si caratterizzavano per conoscere tutto, davvero tutto, di un argomento molto ristretto. Queste persone sono preziose all’interno di un’organizzazione perché depositarie di una sapienza rara, una volta perduta la quale, per dimissioni o pensionamento, senza che sia stato creato un piano di successione, tutto il sistema andrebbe seriamente in difficoltà. Un caso nello specifico mi viene in mente, quello di un tecnico di una società specializzata nella ricambistica industriale, che chiameremo Carlo. Carlo veniva inviato su specifici macchinari per controllare lo stato di usura di particolari rulli gommati, cruciali per il funzionamento dei macchinari stessi. Ricordo come, armato di martelletto da lui stesso costruito, se ne andava in giro per la fabbrica a picchiettare questi rulli e, sulla base del suono che emettevano, riusciva a capire lo stato di usura del rivestimento in gomma e anche in che stato si trovasse il rullo metallico sottostante. Carlo veniva convocato anche da aziende estere per questa sua particolare abilità, della quale era molto orgoglioso e geloso e che non voleva insegnare a nessuno per non rischiare di perdere la propria posizione di forza all’interno della multinazionale. Questo suo atteggiamento alla lunga divenne un problema che l’azienda non riuscì a risolvere nonostante i numerosi tentativi. Questo è uno di quei casi in cui un’organizzazione si fa tenere in scacco da un suo dipendente.
Chi ambisce a una carriera da esperto non cerca il potere, non quello su altre persone. Le sue leve motivazionali principali sono il riconoscimento della centralità della sua posizione e l’autonomia nel suo perimetro d’azione.
Come manager, chi ha una preferenza di carriera da esperto può essere indicato come un direttore della qualità, un direttore di produzione, un responsabile della ricerca e sviluppo o un consulente tecnico.
Lineare. Il profilo di carriera lineare
è adatto a coloro che interpretano la carriera come un mezzo attraverso il quale ottenere il riconoscimento sociale. Si tratta di persone motivate dallo scalare posizioni gerarchiche e dall’ottenimento del potere. Non è necessario uno specifico ambito, settore o impiego, ciò che li muove è la possibilità di crescere il più rapidamente possibile. In generale si tratta di persone energiche, sicure di sé e alla ricerca costante di nuove sfide, se queste sono finalizzate a una rapida arrampicata sociale, al miglioramento delle condizioni economiche – benefit inclusi – e più in generale al miglioramento del proprio status. Status che deve essere ben visibile all’esterno, con benefit, titoli organizzativi altisonanti, appartenenza a gruppi esclusivi e vicinanza ai centri di potere. Queste persone non mostrano grande senso di appartenenza all’organizzazione e sono pronte a lasciarla alla prima possibilità di rapida carriera che si presentasse altrove.
Chi ambisce a un percorso di crescita lineare è motivato dal ricoprire sempre più incarichi di prestigio, dove potersi mettere in mostra e ispirare ammirazione in chi sta intorno. La crescita lineare può essere in alcuni casi molto rapida e favorita da frequenti cambi di posizione lavorativa, ma il rischio è una fragilità intrinseca del manager, che non ha il tempo di consolidare le proprie competenze e maturare una significativa esperienza. Ma a chi desidera un percorso di tipo lineare questo interessa poco, perché se si dovesse palesare tale difficoltà la reazione lo porterebbe a valutare un cambio di lavoro. Questo profilo è da Direttore Vendite, Direttore Marketing, Area Manager, Key Account Manager, Business Developer e tutte quelle posizioni contraddistinte da elevati livelli di sfida, velocità di esecuzione e relazioni personali.
Spirale. Una carriera che si sviluppa attraverso un percorso a spirale
è caratterizzata da una crescita lenta, continua e che prevede il coinvolgimento della persona in funzioni anche molto diverse. Proprio come un movimento a spirale, il manager continua a muoversi intorno a un punto fisso, che può essere la stessa azienda, lo stesso prodotto o lo stesso settore, acquisendo competenze di vario genere. Questo permette al futuro manager di acquisire una visione a 360° del settore attorno al quale si muove; probabilmente non sarà mai un esperto di un ambito specifico, ma avrà una conoscenza multidisciplinare e una rete di relazioni personali solida. Uno dei casi forse più strani in cui mi sono imbattuto è stato nel settore alimentare. Questo manager fece una carriera davvero strana perché, sebbene sulla carta avesse tutte le caratteristiche per avere successo, non riusciva a raggiungere i risultati che gli venivano via via richiesti e questo gli provocava frequenti trasferimenti. Il manager non era del tutto consapevole di questa situazione e, accecato da un ego piuttosto sviluppato, era convinto di venire spostato ove ci fosse una situazione da sistemare. Una specie di campione
chiamato a risollevare le sorti del reparto di turno. La storia, lo so, sembra paradossale e lo diventa ancora di più quando, approfittando di un vuoto di potere
momentaneo dell’azienda, il manager venne nominato amministratore delegato ad interim. Incredibilmente, in quella posizione il manager diede il meglio di sé. Ancora una volta si sentiva il salvatore della patria e negli anni aveva accumulato una conoscenza tale di tutta l’organizzazione da essere in grado di gestirla con grande naturalezza. Ovviamente l’incarico ad interim divenne definitivo e nei cinque anni successivi, con lui al comando, l’azienda crebbe in modo significativo da tutti i punti di vista: fatturato, margini e dimensioni. Dopo cinque anni decise che sarebbe andato in pensione e si ritirò. Quello che ancora rimane un mistero è il criterio che portò a quella nomina ad interim.
Come nel caso di questo manager, una carriera caratterizzata da una crescita a spirale è forse quella più adatta alla posizione di amministratore delegato o direttore generale. Qualcuno che deve sapere un po’ di tutto, conoscere un po’ tutti ed essere